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Secretum Saga
Secretum Saga
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Ebook842 pages20 hours

Secretum Saga

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L’eredità dell’abate nero 
Il patto dell’abate nero 
L’enigma dell’abate nero

Firenze, 21 febbraio 1459. Con l’uccisione del banchiere Giannotto Bruni nella cripta dell’abbazia di Santa Trinita, inizia l’incubo per Tigrinus, un giovane ladro di origini ignote, dai capelli neri striati di bianco: accusato dell’omicidio, verrà salvato solo dall’intervento di un uomo potente, ma continuerà a essere braccato dai nipoti della vittima, Angelo e Bianca. Per sfuggire alla morte dovrà stringere un patto con il potente Cosimo de’ Medici e affrontare un incredibile viaggio per mare, alla ricerca di un uomo sfuggente e imprevedibile. Un uomo che pare anche conoscere tutto sul suo misterioso passato. Le peregrinazioni per mare diventeranno di lì in avanti la regola, per Tigrinus: dovrà partire alla volta di Alghero, spacciandosi per il marito di Bianca, e mettersi sulle tracce di un tesoro che ha a che fare con la morte del padre della nobildonna. Ma quando crede che le sue disavventure siano finite, ecco che a Ravenna si ritroverà di nuovo bersaglio di attacchi incrociati, sia di Cosimo de’ Medici che di Bianca. E mentre lotta per scampare alla morte scoprirà una verità sconvolgente che riguarda un uomo inquietante, l’Abate Nero…

Un autore da 1 milione e mezzo di copie
Vincitore del Premio Bancarella

Un’avventura senza fine sulle tracce di un libro antico e pericoloso

«Il ritmo è scorrevole, l’intreccio governato sapientemente. Marcello Simoni sfida intrepidamente le serie TV sul loro stesso terreno (quello delle saghe epico-avventurose) e conquista meritoriamente un pubblico vasto e fedele.» 
Filippo La Porta, la Repubblica

«Come sempre Simoni coinvolge e cattura l’attenzione. Solo lui, tra i giallisti storici italiani, sa stupirci con innata maestria e assoluto rispetto del contesto epocale.»
La Stampa

«Marcello Simoni, il George R.R. Martin italiano.»
Vanity Fair

«Se amate i romanzi d’avventura ambientati nel passato, Marcello Simoni è una garanzia.»
Tv sorrisi e canzoni

Marcello Simoni
È nato a Comacchio nel 1975. Ex archeologo e bibliotecario, laureato in Lettere, ha pubblicato diversi saggi storici; con Il mercante di libri maledetti, romanzo d’esordio, è stato per oltre un anno in testa alle classifiche e ha vinto il 60° Premio Bancarella. I diritti di traduzione sono stati acquistati in diciotto Paesi. Con la Newton Compton ha pubblicato La biblioteca perduta dell’alchimista, Il labirinto ai confini del mondo, secondo e terzo capitolo della trilogia del famoso mercante; L’isola dei monaci senza nome, con il quale ha vinto il Premio Lizza d’Oro 2013; La cattedrale dei morti; la trilogia Codice Millenarius Saga (L’abbazia dei cento peccati, L’abbazia dei cento delitti e L’abbazia dei cento inganni) e la Secretum Saga (L’eredità dell’abate nero, Il patto dell’abate nero e L'enigma dell'abate nero). Nel 2018 Marcello Simoni ha vinto il Premio Ilcorsaronero.
LanguageItaliano
Release dateFeb 6, 2020
ISBN9788822743350
Secretum Saga

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    Secretum Saga - Marcello Simoni

    EN2555

    Dello stesso autore:

    La trilogia del mercante di libri (Il mercante di libri maledetti, La biblioteca perduta dell’alchimista, Il labirinto ai confini del mondo)

    Codice Millenarius Saga (L’abbazia dei cento peccati, L’abbazia dei cento delitti, L’abbazia dei cento inganni)

    La cattedrale dei morti

    L’isola dei monaci senza nome

    Copertina © Sebastiano Barcaroli

    L’eredità dell’abate nero

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    Il patto dell’abate nero

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    L’enigma dell’abate nero

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    Immagini di pagina 7, 239, 241, 445 © Marcello Simoni

    Prima edizione ebook: marzo 2020

    © 2020 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-4335-0

    www.newtoncompton.com

    Marcello Simoni

    Secretum Saga

    L’eredità dell’abate nero

    Il patto dell’abate nero

    L’enigma dell’abate nero

    Newton Compton editori

    L’eredità dell’abate nero

    Per la sua fierezza e per le sue ruberie uomo assai famoso, […] chiunque per le circustanti parti passava rubar faceva a’ suoi masnadieri.

    Giovanni Boccaccio, Decameron, giornata

    x

    , novella

    ii

    Che il navilio sia bene concio e bene stagnato, e che sia bene corredato, e bene guarnito di buoni alberi, e di buone antenne, e di buone sartie, e di buone agumine, e di buone vele, e di buone ancore […]. E che sia fornito d’armadure, cioè di corazze, e di balestra, e di ferramento, e di lance, e di dardi, e di mannare, e di pietre […], che se fusse in tempo di guerra, ha bisogno di più armadure per difensione della nave e della mercatanzia.

    Francesco Balducci Pegoletti, Pratica della mercatura

    Questo è un romanzo d’avventura e la sua trama si basa su personaggi di pura invenzione. Corrisponde però a verità storica che nel 1459, durante un viaggio in Macedonia, il monaco Lionardo da Pistoia sia entrato in possesso di alcuni manoscritti sacri, e che in seguito li abbia consegnati ai due uomini più controversi vissuti nel tardo Medioevo: il cardinal Bessarione e Cosimo de’ Medici.

    Ancora oggi quelle pagine vengono considerate la pietra miliare dell’alchimia e dell’esoterismo. Il loro titolo, Corpus hermeticum, deriva da una remota tradizione che le attribuisce a Ermete Trismegisto, ovvero il dio Mercurio conosciuto dai sacerdoti egizi con il nome di Thot e dai cristiani gnostici come Michele arcangelo.

    Ma se la leggenda è sopravvissuta, non si può dire altrettanto delle avventure di chi lottò per impossessarsi di quella arcana sapienza. O di chi, semplicemente, fu coinvolto nella sua ricerca.

    Prologo

    Mar Ligure

    15 aprile 1439, notte

    Ci sono spiriti di mare e spiriti di terra. Cosimo de’ Medici se lo ripeteva di continuo, tenendosi saldo alla prua del caicco mentre il porto di Livorno, ormai lontano, si perdeva in un’oscurità liquida dominata dalla torre del Fanale. Benché anni addietro, tra i suoi molteplici uffici, avesse curato i traffici navali di Firenze, non si riteneva avvezzo a solcare distese d’acqua che potevano scatenarsi in tempesta al minimo capriccio. Il suo talento era il denaro, la sua passione le biblioteche. Quelle, sì, erano vastità su cui sapeva navigare, senza timore di perdersi o di cedere alle lusinghe delle sirene.

    Eppure eccolo oscillare tra i flutti, con il freddo a morderlo sotto il mantello e il desiderio di posare i piedi sull’erba di Careggi. Della galea giunta da Bisanzio non vi era ancora traccia, ma Cosimo la sapeva lì, tra le onde, e scrutava con insistenza nel tentativo di scorgerne il barlume. Nessun cristiano tollerava di restare al buio per troppo tempo. Pur se si trattava degli scismatici d’Oriente.

    Prima di distinguere la nave percepì il gemere della carena, poi vide una fila di lanterne palpitare nella notte. Lo scafo era di proporzioni enormi, un fuso d’ebano forse da cinquanta remi. Difficile essere più precisi con la luna oscurata e l’ansia per l’incontro con un uomo ambiguo, imprevedibile quanto il mare. Un uomo salpato dal Corno d’Oro insieme ai teologi greci diretti al concilio di Ferrara, spostato a Firenze dopo mesi di complicanze. Al contrario del patriarca e del basileus, sbarcati da giorni, lui, il folle, aveva preferito restare al largo. E aspettare.

    Il caicco superò la gomena dell’àncora e si accostò al lato posteriore della galea. Appena poté sporgersi, Cosimo si aggrappò a una scala a pioli appesa alla spalla del cassero e prese a issarsi, in un oscillare di legni e cordami bagnati. Era ormai giunto in cima quando vide una mano spuntare dall’alto. L’afferrò per aiutarsi a superare l’ultimo tratto, trovandosi di fronte a un servo avvolto in un caftano.

    «Il mio signore vi attende».

    Il Medici annuì, muovendo d’istinto verso il gavone di prua.

    «Dalla parte opposta», lo avvertì il servo, indicando la carrozza di poppa. Senz’altro aggiungere, lo guidò fino alla sala del consiglio, riservata al capitano e a pochi eletti della ciurma. Il bagliore di un candelabro lambiva una quantità di carte nautiche appese alle pareti, un mosaico di coste tratteggiate con l’inchiostro di seppia.

    In un angolo in penombra c’era una persona avvolta in una cappa da viaggio. No, si ravvide Cosimo. Non una persona ma due. Un uomo e un bambino, il primo con le mani dell’altro premute sul capo. Il tempo che il servo prendesse congedo e si avvicinò.

    «Dubitavo che ti saresti lasciato persuadere dal mio messaggio», esordì l’uomo, scoprendo il volto celato dal cappuccio.

    Cosimo provò un fugace disagio. Gli occhi, il naso e persino il sorriso che si trovava a contemplare erano identici ai propri. Due gocce d’acqua, se non fosse stato per le venature color argento che striavano i capelli corvini del viaggiatore. Segni dovuti non certo all’età né alle tribolazioni, lui lo sapeva bene. Stringendosi nelle spalle, prese il candelabro e lo usò per accendere una lampada a olio appesa al soffitto. «Il nostro ultimo incontro», disse, «risale a sedici anni fa».

    «Diciassette», lo corresse l’altro. «Se ben rammento, a quel tempo ricoprivi la carica di console del mare. Oggi sei gonfaloniere».

    «Non sono uso a farmene vanto», minimizzò Cosimo, rinfrancato dal diffondersi della luce. «La mia fedeltà va anzitutto agli interessi della famiglia».

    «Interessi che ormai coincidono in toto con quelli di Firenze».

    «E allora?», s’irrigidì. «Cessa quest’insulso indugiare e spicciati, dimmi quali smanie t’inducono a voler parlare con me a tutti i costi».

    A rispondergli fu una risata piena di amarezza. «Credevi che mi fossi scordato da dove provengo? Che le terre d’Oriente mi avessero assuefatto al loro incanto?»

    «Per carità, Damiano, io non insinuavo…».

    «Lasciami dire», lo interruppe il viaggiatore, irritato dal sentir pronunciare il proprio nome. «Non sono qui per reclamare alcunché, né per osteggiarti. La casata, il banco, la città… Tieniti tutto, fratello. La mia esistenza si svolge altrove, in terre dove la favella fiorentina suona infida e forestiera». Accarezzò il fanciullo, incoraggiandolo ad avanzare d’un passo. «Se stanotte ho preteso d’incontrarti, è stato per lui».

    Cosimo osservò il bambino per la prima volta. Non doveva avere più di tre anni, ma le sue iridi brillavano già di un’intelligenza non comune. Furono però i capelli a colpirlo. Neri, tagliati corti, erano striati d’argento alla guisa della pelliccia di una fiera. Come quelli di colui che l’accompagnava.

    «Sua madre, la mia unica figlia», spiegò Damiano, colto da una fugace commozione, «è spirata l’anno scorso».

    «Mi rincresce», disse il Medici, rendendosi improvvisamente conto di non sapere nulla sul proprio gemello. Nulla che non fosse uscito dalle storie bisbigliate dai suoi genitori al tempo della fanciullezza, o dalla voce di qualche messaggero giunto dall’Oriente. Ora invece eccolo, l’Esaù diseredato, a parlare di una figlia salita al cielo e di un nipote ancora infante. «Mi rincresce davvero», ripeté. «Tuttavia concedimi d’intendere bene cosa stia accadendo. Per quale motivo tu, dopo una lunghissima assenza, ti rivolgi proprio a me?».

    Quasi per occultare i pensieri, Damiano si voltò verso le carte nautiche. «Perché Bisanzio non è più un luogo sicuro», sospirò. «I turchi sono alle porte e presto il mondo non sarà più lo stesso. Né il mio, né il tuo».

    Cosimo colse nella sua voce un sentimento affine all’angoscia che, dopo anni di tumulti, aveva appreso a fiutare d’istinto. I turchi, i diavoli d’Oriente davanti ai quali Bisanzio sorgeva come una barriera d’intrighi e di ossessioni che pungolavano l’immaginario delle genti d’Occidente. Si chiese se quelle parole fossero state pronunciate con cognizione di causa o con l’intento di mascherare insidie ancor maggiori. Poi tornò al bambino. Si piegò sulle ginocchia e fissò i suoi occhi attenti, disegnati come mandorle. «Sa qualcosa delle sue origini?»

    «No», rispose Damiano. «E io t’imploro che resti sempre così, all’oscuro. Fa’ di lui un artista, uno studioso o pure un chierico, se vuoi, ma tienilo lontano dai Medici».

    «Sei fin troppo sibillino», l’ammonì il gonfaloniere di Firenze, rialzandosi in piedi. «Rivelami almeno il nome del padre».

    Il viaggiatore continuava a mostrargli le spalle. «Mia figlia non me ne ha mai fatto cenno».

    «Suvvia! Ti scomoderesti per un bastardo?».

    Damiano si voltò di scatto, trasfigurato dall’astio. «Anche se fosse, tradiresti il tuo stesso sangue? Come fecero i nostri genitori con me?».

    Cosimo si mantenne impassibile. «Non è questo che accadde».

    «Cosa vuoi saperne di cosa accadde! Non fosti tu a dover sopravvivere lontano dalla famiglia, né ad affrontare le vastità dei mari e dei deserti».

    «Un’ingiustizia di cui non ho colpa».

    Il fratello pareva lungi dal voler lasciare perdere. D’un tratto, però, si accorse di aver spaventato il bambino e allora, non senza sforzo, s’impose di moderare i toni. «Hai ragione», ammise. «Ma se ora mi negassi l’aiuto che t’imploro, diverresti a tua volta colpevole».

    «Non mi chiedi molto», si ritrasse Cosimo, attraversato da un improvviso fremito di cupidigia. «Conosci bene, però, le regole dei Medici. Ogni favore ha un prezzo».

    Damiano rimase immobile a fissarlo, mentre l’ira che gli bruciava sotto la pelle si temperava in fretta, dando forma a un sorriso. «So a cosa alludi, fratello. Ne parlammo durante il nostro ultimo incontro e non ti facesti certo riguardo di celare il tuo interesse. Ebbene, esaudisci la mia richiesta e giuro che l’avrai».

    «Se davvero mi hai inteso», ribatté il Medici, «perché non mi accontenti subito?»

    «Non adesso», sentenziò l’uomo di Bisanzio, quasi desse avvio a un delicato cerimoniale. «Solo quando mio nipote sarà diventato adulto. Allora sì, potrai ottenere la Tavola di Smeraldo. Ma a reclamarla dovrà essere lui». E con ritrovata freddezza, spinse il bambino tra le braccia di Cosimo. «Perciò prenditene cura», l’ammonì, «come se questo fanciullo fosse il tuo più prezioso segreto».

    Parte prima

    Delitto nella cripta

    1

    Firenze, abbazia di Santa Trìnita

    21 febbraio 1459

    Il monaco guardiano sollevò la lanterna e contemplò l’arazzo, un ordito in lana di Fiandra che dava forma a una scena marina. Indugiò sui ricami, alla ricerca delle creature mostruose seminascoste tra le onde e lo scafo di una galea in procinto d’inabissarsi, poi si lisciò la barba, forse chiedendosi cosa ci facesse un simile paramento nella cripta di un’abbazia. Continuò a osservarlo, in preda a un trasporto quasi infantile, finché la voce di un confratello non lo richiamò al dovere. Gettò allora un ultimo sguardo e sparì nell’ombra.

    Non appena fu tornato il silenzio, l’arazzo oscillò. Due dita spuntarono da dietro il bordo, afferrarono un lembo di tessuto e lo scostarono con cautela, permettendo al ladro di uscire dal nascondiglio.

    Intrufolarsi nei recessi di Santa Trìnita era stato facile, per lui. Esclusi i soliti rischi del mestiere, si era trattato anzitutto d’infischiarsene della dannazione eterna promessa a chi depredava i beni dell’Ecclesia. E di accettare che l’inferno fosse destinato a tutti, inclusi i monaci assuefatti allo sfarzo. Ho ragione buon Signore?, meditò ghignando. In fin dei conti, al mondo si commettevano scelleratezze ben peggiori dell’alleggerire messeri ed eccellenze delle loro scarselle. A voler poi fare i pignoli, prelevare lo stercus diaboli da un edificio sacro equivaleva quasi a una missione salvifica. Anzi, provvidenziale.

    Continuando a rimuginare sulle sue teologie mordaci, il ladro sfilò una fiaccola da un anello di metallo e prese a esaminare l’ambiente dal punto in cui era stato interrotto. Vestiva interamente di nero, la faccia scurita con la pece da calafato e i piedi fasciati di sparto per non produrre rumore. Sarebbe stato un peccato, si disse, negare una sortita a un luogo sorvegliato da soli religiosi. Un peccato mortale, visto che il luogo in questione celava una camera in cui i monaci di Vallombrosa custodivano i loro tesori.

    Trovata quella camera, l’unico problema sarebbe stato trasportarne il contenuto all’esterno. Ragion per cui il ladro si era assicurato la complicità di un furfante di strada, un nano di nome Caco appostato davanti a una finestra che separava la cripta dal piano della strada. Le inferriate, in quel punto, erano abbastanza larghe da potervi far passare fiorini, pietre preziose e forse anche qualche candeliere.

    Meglio spicciarsi, però, dacché l’officio dei vespri non sarebbe durato in eterno e i sotterranei dell’abbazia erano più estesi di quanto avesse immaginato. Riprese pertanto ad aggirarsi tra le colonne di marmo fino a scorgere il contorno di un portone borchiato. Sfilò uno stiletto e un sottile calamo di cui si serviva per scassinare i chiavacci, poi si avvicinò, ansioso di scoprire cosa proteggesse quel battente.

    Un risuonare di voci lo mise in allerta.

    Ripose in fretta la torcia e si rannicchiò dietro una Madonna di legno, poco prima che due persone facessero il loro ingresso. Non erano monaci, stavolta.

    «Lo sapete, lo sapete bene!», stava sbraitando il più basso. «Ci sono navi sciagurate, destinate al naufragio».

    «E persone ancor più sciagurate», lo rimbeccò l’altro, «nate apposta per sfiancare la pazienza altrui». Avanzava a mento alzato, il profilo aquilino sormontato da un cappuccio a foggia. Il fisico alto, asciutto come una verga, era fasciato da un lucco di panno abbottonato fino al collo.

    Sbirciando da dietro la statua, il ladro riconobbe messer Giannotto Bruni, banchiere e mercante fiorentino. L’altro invece gli era sconosciuto. A giudicare dall’accento e dal turbante avvolto intorno al capo si trattava di un forestiero.

    «Non capite?», insisteva quest’ultimo con foga. «Sono rovinato!».

    «Affari vostri».

    «Affari della vostra compagnia, piuttosto, dal momento che mi ha garantito un risarcimento in caso di disgrazia».

    La risata di Giannotto Bruni echeggiò sotto le volte della cripta. «Non state alludendo a una mia compagnia, bensì a una filiale associata. Rifatevi su di essa e lasciatemi in pace».

    L’uomo col turbante l’afferrò per un braccio. «Siete uscito di senno?», protestò. «Vorreste che m’imbarcassi per Famagosta? In questa stagione dell’anno?»

    «Ve l’ho già detto, affari vostri», esclamò il banchiere, liberandosi con uno strattone. «Se avessi saputo che intendevate assillarmi con simili fanfaluche, mai e poi mai avrei accettato d’appartarmi con voi».

    «Duemila fiorini d’oro!», lo sferzò il forestiero. «Risarcitemi almeno di questa somma, che è nemmeno un terzo del valore di quanto ho perduto».

    Messer Bruni rimase in silenzio, gli occhi che saettavano nell’ombra. Il suo sguardo era così acuto che il ladro credette per un attimo d’essere stato scorto. Poi lo vide passare oltre e tornò a rimuginare sulla questione dei duemila fiorini. Anzi, oltre seimila a giudicare da quanto sosteneva l’uomo col turbante. C’eran trafficanti di lana e di spezie che si dichiaravano rovinati per aver perduto molto meno.

    «Pur fossi in vena di sborsare una simile cifra, e non lo sono», dichiarò Giannotto Bruni, puntando verso l’uscita della cripta, «non mi accontenterei certo di una semplice storiella. Ricevo ogni giorno rapporti da porti e dogane, e a esser franchi non mi è giunta voce di alcun naufragio».

    «La Saturnia è affondata!», sbraitò l’altro, sbarrandogli il passo. «Colata a picco, vi dico».

    Il banchiere lo spintonò senza riuscire a scostarlo. «Andate al diavolo, messere. Lasciatemi passare».

    Il seccatore, più basso e tarchiato, non si mosse. «Al diavolo ci andrete voi, vecchio usuraio».

    «Come osate?», s’infiammò Bruni. Provò per la seconda volta a farsi strada, ma non riuscendo nell’intento estrasse un pugnale e minacciò un affondo. «Vi ordino di togliervi dai piedi, o in nome di Dio…».

    Anziché intimidirsi, l’altro gli afferrò il polso. In un crescendo di sdegno, messer Giannotto gli si gettò addosso, facendolo rovinare a terra sotto il suo peso.

    Il ladro valutò se restare dietro la Madonna o intervenire per dividere i due folli. Ancora poco e sarebbero accorsi i sorveglianti. Allora sì, le cose avrebbero preso una brutta piega. Meglio sgattaiolare fuori dalla cripta finché era in tempo, nella speranza di non essere…

    Il grido gli gelò l’anima.

    Vide l’uomo col turbante rialzarsi di scatto, pulirsi le mani addosso e fuggire a gambe levate. Giannotto Bruni restava a terra, a contorcersi come se avesse il diavolo in corpo.

    A quel punto l’osservatore si decise a uscire allo scoperto e si precipitò sul banchiere, che in un lampo di stupore trovò requie dall’agonia. Poi l’infelice riprese a gemere, premendo le mani sull’elsa del pugnale che gli era stato conficcato nel ventre. «Signore salvami…», implorava. «Beata Vergine salvami…».

    Ma la lama affondava nella carne ben oltre una spanna, nemmeno il miglior cerusico di Firenze avrebbe saputo porvi rimedio. Messer Bruni pareva esserne consapevole. Digrignava i denti in un misto di rabbia e orrore, da cui trapelava pure la vergogna. Ucciso in una rissa, sembrava voler dire. In una rissa, come un cagnaccio del volgo.

    C’era però dell’altro nel suo sguardo, e fu quel qualcosa a far indugiare il ladro un attimo di troppo.

    Il tempo sufficiente perché i guardiani del monastero piombassero su di lui.

    2

    Oltrarno, palazzo Bruni

    Notte tra il 21 e il 22 febbraio

    Angelo Bruni stava ritto davanti al catafalco, intento a osservare la salma del padre. Anche nella morte, messer Giannotto serbava l’aria arcigna che l’aveva contraddistinto in vita, incutendo rispetto persino agli avversari più accaniti. Il naso adunco e le sopracciglia inarcate richiamavano il profilo di un’aquila, mentre il pallore del volto enfatizzava il taglio di una bocca quasi priva di labbra. Angelo aveva sempre avuto paura di lui e ora, di fronte a quel corpo privo di vita, non riusciva a provare dispiacere. Al lato opposto del catafalco, sotto le volte che adombravano la cappella privata del palazzo, la cugina Bianca versava lacrime di dolore.

    Dovrei essere io, pensò Angelo, a logorarmi in un simile strazio. Io a versare lacrime amare. Invece era ben altro a fomentare la sua angoscia. Ora che ereditava la potestà sulla famiglia e sulla compagnia dei Bruni, si sentiva schiacciato da un fardello di cui fino al giorno prima non aveva lontanamente immaginato il peso. Forse per il fatto di non possedere, come Giannotto, il talento per l’arte della mercatura. Il suo scarso interesse verso un’attività fondata su lettere di cambio e divise commerciali l’aveva convinto fin da ragazzo di non essere lui il degno successore del padre. Partito più meritevole sarebbe stato lo zio Teodoro, se non fosse perito durante un recente viaggio in Francia. E adesso che restava solo, senza nessuno a elargirgli consigli, Angelo s’interrogava su quali misure adottare per gestire un patrimonio che, negli ultimi anni, aveva rischiato più volte la bancarotta.

    Baciò la fronte algida del genitore e si voltò verso la terza persona presente nella cripta. Si trattava di un monaco di Vallombrosa, il venerabile Montano da Bagnone. Era stato lui a recare notizia della disgrazia, bussando al portone del palazzo in testa a un gruppo di confratelli intenti a reggere il cadavere avvolto in un drappo.

    «Non vi ho ancora ringraziato, padre, per aver agito con discrezione».

    «Ho provveduto il più in fretta possibile», sospirò il religioso, «prima che le voci si diffondessero».

    Angelo annuì. Nonostante l’ora tarda, aveva saputo che l’abbazia di Santa Trìnita era stata assediata da una torma di curiosi attratti dalla notizia del delitto. Per la famiglia Bruni sarebbe stata un’onta se il cadavere di messer Giannotto, ancora lordo di sangue, fosse stato esposto allo sguardo del popolo.

    «Del resto, la sua anima mi è sempre stata cara», aggiunse padre Montano, increspando la pelle di un viso che pareva scolpito nel legno. «Mi sono sentito in dovere di riportarlo subito qui, affinché trovasse pace».

    «Lo credete davvero, padre?», intervenne Bianca, uscendo dall’ombra con voce rotta. Il bel volto, rigato di lacrime, si era appena infuocato per lo sdegno. «Credete davvero che mio zio abbia trovato pace?».

    Il monaco si fece il segno della croce. «È nell’abbraccio di Dio, in questo momento».

    «Il suo assassino è ancora vivo, però».

    «Domate il risentimento, monna Bianca», l’ammonì con dolcezza padre Montano. «Prendete a esempio messer Angelo, così contenuto nel suo dolore».

    Lei scosse il capo, facendo uscire una ciocca castana dal velo. «Anche mio cugino esige vendetta», proferì combattiva. «Non è forse vero?».

    Angelo sobbalzò. A esser franchi, il suo unico desiderio sarebbe stato rintanarsi in biblioteca per dedicarsi alla lettura. Amava le gesta dei cavalieri e le cronache dei viaggiatori, nei quali spesso s’immedesimava per dimenticarsi della propria goffaggine. Non certo come Bianca che, pur essendo femmina, aveva ereditato la tempra di Giannotto Bruni. Chiuse le mani e intrecciò le dita grassocce. «Io…», balbettò.

    «Vergogna!», l’accusò la cugina. «Tuo padre è morto e te ne stai muto come un pesce».

    «Il responsabile è già stato arrestato», intervenne padre Montano, per sedare gli animi. «È nelle prigioni delle Stinche, in questo momento».

    «Il responsabile?», ripeté Bianca piena di bile. «E chi sarebbe costui?»

    «Un ladro, mi è stato riferito».

    Angelo sbarrò gli occhi, incredulo. «Un… ladro?».

    Il monaco annuì. «Il suo nome è Tigrinus. Pare fosse sceso nella cripta di Santa Trìnita per rubare i tesori dell’abbazia».

    «E mio padre cosa c’entrerebbe?»

    «Si trovava anch’egli nella cripta, messere. Probabilmente i due si sono incontrati per caso e… be’, il resto lo potete immaginare».

    «Io non m’immagino un bel niente», tornò alla carica Bianca. «Voglio guardarlo in faccia, questo dannato Tigrinus! Guardarlo in faccia mentre gli auguro la morte più barbara».

    «Figliola, calmatevi», provò a farla ragionare padre Montano. «Le Stinche non sono luogo adatto a una signora».

    Ma la donna era più indomabile di una fiera. «Vorrà dire che non andrò sola», sibilò. «Verrà Angelo con me».

    3

    Prigioni delle Stinche

    Tigrinus appoggiò i gomiti sul tavolo di legno, fregando le mani immobilizzate dai legacci. Le percosse ricevute dai guardiani dell’abbazia, e poi dai fanti di quartiere, gli impedivano di tener la schiena ritta sullo sgabello. Il tragitto da piazza della Signoria alle prigioni era stato un’autentica via crucis. Quel che il ladro non tollerava, però, era l’assenza d’aria. Erano trascorsi un paio d’anni dalla sua ultima visita alle carceri, ma riconosceva fin troppo bene l’odore di pietra umida che gli offendeva le narici. Si voltò d’impulso verso una finestrella, sperando in un refolo di vento notturno. Colse soltanto la tenebra che pervadeva il cortile interno delle Stinche.

    «Ti piacerebbe volar via da lì come un uccellino, eh?», lo schernì l’omone che gli sedeva dinanzi.

    Era messer Niccolò Vitelli, capo delle guardie cittadine. Se ne stava con i calzari di cuoio appoggiati sul tavolo e una caraffa di vino posata sul ventre. Lo conoscevano tutti, a Firenze, e non certo per l’indole misericordiosa. Era solito far la spola tra le taverne del lungarno e il mercato vecchio, sempre insieme a un molosso dal manto grigio. Anche in quel momento, il cane gli sonnecchiava al fianco con l’enorme testa posata sulle zampe. Non erano pochi gli infelici che avevano sentito scricchiolare le loro ossa sotto i denti di quel mostro, ma Tigrinus, fino ad allora, poteva vantarsi d’averla fatta franca. In barba a quella stupida bestia e soprattutto a Vitelli, che non poteva certo definirsi una volpe.

    Era ben altro, tuttavia, a dargli da pensare. Dopo i primi momenti trascorsi a maledire la propria ingenuità, il ladro si accorse di essere stato trattato in maniera alquanto inconsueta. Anziché finire in una cella comune si trovava in una stanza adiacente al porticato interno. Inoltre non aveva scorto alcun soprastante addetto alla sorveglianza. Solo Vitelli, con la sua aria bovina.

    «Chi aspettiamo?», chiese d’un tratto.

    Il capo delle guardie ingollò un sorso di vino, incurante dei rivoli rossi che gli colavano sul mento. «Di cosa t’illudi?», grugnì.

    «Sempre che vostra grazia non mi reputi uno spasso», ribatté, «dev’esserci un buon motivo per cui s’impunta a tenermi compagnia nel cuore della notte».

    Vitelli si sporse in avanti, posò la caraffa e lo fissò truce. «Ti credi furbo, non è vero?».

    Il ladro si strinse nelle spalle. «Se lo fossi davvero, in questo momento non sarei qui».

    «Ci starai poco, non crucciarti. Per gli assassini c’è la forca».

    «Io non ho ucciso nessuno».

    «Messer Bruni avrebbe da ridire».

    «È stato un altro. L’ho visto».

    «Miserabile bugiardo!». In un improvviso slancio di violenza, il birro lo ghermì per i capelli e gli fece sbattere il naso sul tavolo. «Ora confesserai, e lo farai con me! Prima che lui arrivi».

    Tigrinus sollevò il capo, accecato dal dolore. «Lui… chi?»

    «Non mi hai sentito?», inveì Vitelli, scattando in piedi con i pugni serrati. «Ammetti d’averlo ucciso!».

    «Io non lo conoscevo nemmeno, quel…». Il colpo allo zigomo lo strappò dallo sgabello, facendolo cadere bocconi. Rimase sdraiato, cercando di rilassare i muscoli per assorbire il trauma. A un paio di spanne da lui, il molosso lo osservava sornione.

    «In piedi, figlio di puttana!», sibilò il birro, mentre girava intorno al tavolo per avvicinarsi.

    «Voi non… non conoscete mia madre».

    «Nemmeno tu, a quanto si dice».

    Quelle parole gli provocarono più dolore delle mani che l’afferravano per le vesti e lo sbattevano contro una parete. Il cane iniziò a ringhiare.

    «Lo vuoi, Malacoda?», ghignò Vitelli, trasfigurato da un sadico godimento. «Vuoi assaggiare le sue carni?».

    Tigrinus ebbe appena il tempo di fissare le fauci schiumanti di bava.

    Poi la porta si aprì, facendo entrare due fanti.

    Soffocando una bestemmia, il capo delle guardie lasciò andare il prigioniero e placò il molosso con un ordine secco.

    Appena in tempo perché Cosimo de’ Medici facesse ingresso nella stanza.

    Caco se ne stava acquattato all’angolo tra la via Ghibellina e il fossato che cingeva la fortezza quadrilatera delle Stinche. Dopo aver assistito all’arresto di Tigrinus, si era accodato al drappello di birri e cittadini che avevano condotto il ladro alle prigioni, rinunciando in fretta a ogni speranza di farlo evadere. E adesso che era calata la notte, la sola vista delle carceri, con le loro mura di pietraforte arrossate dalle fiaccole e prive di finestre affacciate sull’esterno, era sufficiente a terrorizzarlo. Del resto, se uno come lui fosse finito in un luogo del genere sarebbe sopravvissuto a stento.

    Tigrinus però gli stava a cuore. Era l’unico a non averlo mai deriso per la sua deformità, e in un paio di occasioni gli aveva pure salvato la vita. Fosse stato almeno possibile procurargli del pane e qualche denaro per arruffianarsi i guardiani, l’avrebbe fatto volentieri. Non di persona, naturalmente. Conosceva della gente adatta, qualche pia donna disposta a svolgere servigi del genere.

    Soppesata bene la questione, fece dunque per cambiare aria quando scorse due sagome munite di lanterna avvicinarsi all’ingresso delle prigioni. Un uomo e una donna.

    L’ora era quantomeno insolita per trattarsi di una visita, valutò il nano. A colpirlo, tuttavia, fu soprattutto la grinta con cui la donna precedeva l’accompagnatore. Quest’ultimo, un tipo impacciato e di aspetto grassoccio, tentava a ogni passo di trattenerla, ma lei lo respingeva con rabbia, marciando a testa alta verso gli armigeri di guardia al portale.

    «Voglio incontrarlo adesso!», protestò Bianca, facendo oscillare la lanterna come se intendesse romperla in testa a uno dei due guardiani.

    «Madonna, non si può», ribadì il soldato più vicino, picchiando l’asta della lancia a terra. «Dovrete attendere fino a domattina».

    «Anche se vi pagassi?», insistette lei.

    Il commilitone sbuffò. «Ci credete dei mercenari?».

    Lei fissò entrambi come se li volesse incenerire con un’occhiata, poi si rivolse al cugino. «Angelo, di’ qualcosa!».

    «Bianca, abbi pazienza…», squittì lui, con un sorrisetto deformato dal nervosismo. «Torneremo domani, te lo prometto».

    «Ma si tratta di tuo padre!».

    «Mio padre era un uomo di misura, avrebbe atteso».

    «Quanto poco lo conoscevi», lo rimbeccò la donna. «Era impavido, lui, e non si sarebbe certo tirato indietro di fronte a due bruti».

    «Eh no, madonna!», intervenne uno degli armigeri. «Così ci offendete».

    Messer Bruni lo rabbonì con un cenno di scuse. «Mia cugina è stravolta», spiegò. «Se solo la si potesse accontentare…».

    «Mi rincresce», rispose il soldato. «Il prigioniero di cui chiedete è sotto stretta sorveglianza. L’ordine è di non farlo parlare con anima viva fino all’alba».

    «E da chi proviene quest’ordine?», sbottò Bianca, incontenibile.

    Fu allora che Angelo notò l’appressarsi minaccioso di un terzo armigero. Temendo il peggio, riuscì finalmente ad afferrare la cugina per un braccio e a trascinarla via. «Domani», le sussurrò all’orecchio, cercando di ammansirla. «Domani».

    4

    Cosimo de’ Medici ordinò ai fanti di accompagnare messer Vitelli e il suo cane fuori dalla stanza, dopodiché si slacciò il mantello, lo sistemò su un bracciolo dello scranno e sedette col suo corpo lungo e spigoloso davanti al prigioniero. Tigrinus si rialzò a fatica, aggrappandosi prima allo sgabello e poi al bordo del tavolo. Avrebbe dovuto aspettarselo, si disse. L’insolita prassi dell’arresto, la presenza del capo delle guardie, l’attesa nel cuore della notte… Non erano in molti, a Firenze, i notabili in grado di forzare le leggi della Repubblica. E ancor meno quelli disposti a conversare faccia a faccia con un presunto assassino. Del resto, ci sarebbe stato da discutere su chi, fra lui e il Medici, fosse il più pericoloso. Tigrinus era tra i pochi fortunati ad aver sfidato in più occasioni la sua pazienza senza mai pagarne il fio.

    «Omaggi a vossignoria», lo salutò, fregandosi il labbro sporco di sangue. «A cosa devo questa graziosa visita?»

    «Cessa di canzonarmi, ribaldo», l’ammonì Cosimo, «e dimmi cosa ci facevi in quella cripta».

    «Affari miei».

    «Entro breve lo saranno del boia».

    «Credete sul serio che sia stato io?».

    Con un sorrisetto complice, il Medici si sporse in avanti. «A fare cosa?»

    «A pugnalare messer Bruni».

    «Se non tu, chi?»

    «Questa è bella!», ribatté il ladro con un gesto teatrale. «Mi credete talmente idiota da accoppare un cristiano e lasciarmi acciuffare?»

    «Idiota lo sei almeno per metà», lo punzecchiò Cosimo, «dal momento che sei finito in gattabuia».

    «È stato per una sorta di… di malia», si giustificò Tigrinus, rimuginando sulla storia dei duemila fiorini d’oro e della nave scomparsa. Era difficile spiegare. Per un attimo rivide la smorfia agonizzante della vittima e provò lo stesso rapimento che l’aveva distratto dall’accorrere dei guardiani. «Come se prima di tirar le cuoia, quell’uomo avesse voluto…».

    Gli occhi del Medici si strinsero. «Voluto cosa?»

    «Nulla», scosse il capo. «Lasciate perdere».

    «Altro che lasciar perdere», rimbrottò Cosimo. «Non ti è concesso di fare il misterioso, lo capisci?».

    Il ladro ne era perfettamente consapevole, ma avrebbe riferito le ultime parole di messer Giannotto soltanto in cambio di un sicuro vantaggio. Sulla qual cosa nutriva seri dubbi, dal momento che non si fidava del signore di Firenze. Ignorava perché quell’uomo l’avesse protetto fin dall’infanzia, affidandolo ora a un tutore ora all’altro, senza mai rivelargli la verità sulle sue origini. Ignorava altresì cosa l’avesse spinto a tollerarlo negli ultimi anni, dopo la sua definitiva ribellione a ogni forma di regola e morale. Se scavava nella memoria, prima della presenza del Medici c’erano soltanto lo sciabordio del mare e un brusio di parlate esotiche, insieme alla sensazione di appartenere a un mondo lontano. Un mondo remoto, inafferrabile, che fomentava la sua irrequietezza e la sua incapacità di adattarsi a una vita ordinaria. «Se non credete nella mia innocenza», riprese il discorso, «perché siete qui?».

    Cosimo contemplò la caraffa lasciata sul tavolo da Vitelli. La fece ruotare con un dito, poi la spostò verso un bordo con un moto di stizza. «Ostenti fin troppa boria per un condannato alla forca», mormorò frustrato. «Credi forse che stanotte avessi voglia di recarmi alle Stinche? Invece eccomi a contemplare il mio fallimento più grande», e picchiò le nocche sul ripiano. «Mi sono adoperato in ogni modo per te, fin da quando eri bambino, eppure… Nemmeno fra’ Giovanni da Fiesole è riuscito a raddrizzarti».

    «Lasciate stare fra’ Giovanni», ribatté Tigrinus. «Lui mi voleva bene».

    «Io invece sarei tuo nemico?»

    «Voi non lo so cosa siete. Non vi ho mai chiesto nulla».

    «Risparmiami le tue invettive, per carità», lo zittì il Medici, abbandonandosi allo schienale. «Raccontami piuttosto cos’è accaduto a Santa Trìnita, e fa’ in modo che la tua scusa sia credibile».

    «È stato un forestiero, un tizio col turbante».

    «Dunque nella cripta sareste stati in tre?»

    «Sì. Io spiavo ben nascosto, mentre gli altri due erano intenti a conversare. Finché non si sono azzuffati e c’è scappato il morto».

    Cosimo si fece riflessivo. «Strano», disse. «I guardiani dell’abbazia non hanno fatto menzione a una terza persona».

    Tigrinus si strinse nelle spalle. «Se la saranno lasciata scappare e provano vergogna nell’ammetterlo».

    «È pur sempre la tua parola contro la loro».

    «Fosse anche vero, perché dovrei essere io a pagare?»

    «Non atteggiarti a martire», lo mise in guardia. «Il solo fatto che tu ti sia calato in quella cripta vale quanto un’ammissione di colpa».

    «Non bastevole a mandarmi al patibolo».

    «Messer Vitelli non è del tuo stesso avviso. Dovrò metter mano alla scarsella per convincerlo a lasciarti andare».

    Ecco, meditò il prigioniero. Ecco il vincolo di riconoscenza che gli veniva stretto intorno al collo. La trappola della magnanimità attraverso cui il Medici aveva reso schiava ogni persona di Firenze. «Se invece», propose, «si persuadesse il capo delle guardie a indagare sul vero colpevole?»

    «La fai facile, tu», ghignò Cosimo. «Conosci Vitelli. Dove lo andrebbe a pescare un vero colpevole?»

    «Potrei essergli d’aiuto», insistette Tigrinus. «Non l’avrò visto bene in faccia, quell’infame, ma rammento la sua voce».

    «Accusare una persona in base al tono della favella?», lo derise il Medici, scuotendo il capo. Si alzò dallo scranno e raccolse il mantello. «Non impicciarti e lascia fare a me», ribadì. «Però stavolta dovrai ricambiare il favore».

    «E di quale favore si tratterebbe?», chiese il ladro, guardingo.

    «Lo saprai domani notte, all’insegna del Passero», gli rivelò Cosimo, dirigendosi verso l’uscita. «Fino ad allora, le guardie ti terranno in custodia», e picchiò contro il battente, «affinché tu possa riflettere sulla tua vita scellerata».

    5

    Firenze, all’esterno della cinta muraria

    22 febbraio

    Il monaco superò le mura cittadine attraverso la porta alla Croce e continuò per gli spazi agresti che si aprivano verso la collina. Per la pieve di San Salvi occorreva un’ora di cammino, ma a lui non dispiaceva affatto recarsi in quella piccola chiesa, subordinata all’ordine di Vallombrosa, per prelevare le limosine lasciate dai contadini e dai viandanti durante la prima settimana di Quaresima. Il sole del mattino era tiepido, quasi primaverile, e l’aria così tersa da fargli scordare i cubicoli ombrosi di Santa Trìnita. Inoltre aveva molto su cui riflettere, e se l’adagio ambulando solvitur affermava il vero anche solo per metà, passeggiare per l’aperta campagna gli avrebbe giovato non poco.

    Proseguì a capo chino, con la borsa da elemosiniere celata sotto la cocolla, osservando i filari di vite e le case dei rustici per distrarsi da un segreto tormento. Non era facile, tuttavia, far buon viso a cattivo gioco. Il rimorso che lo perseguitava dalla notte precedente gli si era radicato dentro, fra lo stomaco e il petto, e non vi era né prece né ragionamento in grado di lenirlo. Cos’hai fatto?, continuava a ripetersi. Di quale colpa ti sei macchiato?

    D’un tratto, però, ebbe a vedersela con ben altro tipo di affanno. Aveva appena imboccato uno stradello diretto a est, quando scorse un figuro ammantato di grigio staccarsi da un muretto di pietra e andargli incontro.

    «Chi siete?», si schermì il religioso, temendo d’essersi imbattuto in un predone. Poi riconobbe il turbante grigio che fasciava il capo dell’individuo e si quietò. «Ah», sospirò, «siete voi».

    «Vi aspettavate forse qualcun altro?», azzardò l’uomo con fare inquisitorio.

    Il monaco emise un sospiro. «Dopo quanto è successo, mi aspetto di tutto».

    «Non sarò certo io a contraddirvi, padre», gli rispose. «Ed è appunto questa la ragione che mi porta al vostro cospetto».

    Il religioso scosse il capo. «Reputo d’aver già fatto abbastanza per voi».

    «Fino a ieri non eravate così schizzinoso».

    «Ieri sono stato vostro complice, è vero. Ma se avessi immaginato le conseguenze…».

    «Ormai siete coinvolto», tagliò corto l’uomo, battendogli l’indice sul petto. «Non potete tirarvi indietro come se nulla fosse».

    Il monaco lo squadrò con rabbia. Una rabbia priva di coraggio, rivolta più che altro a se stesso e alle proprie sventure. «Ebbene», grugnì, «si può sapere di cosa si tratta stavolta?».

    L’individuo sollevò le mani. «Di nascondermi finché le acque non si saranno calmate».

    «Perché mai? Non vi ha notato nessuno, mi pare».

    «Il ladro sì. Lui mi ha visto».

    «Intendete il tizio che hanno acciuffato? Oh, be’, è già carne morta».

    «E se prima di andarsene al diavolo si confidasse con qualcuno?»

    «Pur se accadesse», ridacchiò nervosamente il monaco, «chi si curerebbe degli sproloqui di un condannato? Date retta a me, messere. Inutile crucciarsi. Nessuno vi ha visto uscire dalla cripta».

    «In effetti un altro testimone ci sarebbe», aggiunse l’uomo, facendosi sempre più cupo.

    «Non temerete sul serio che io vi possa tradire!», sobbalzò il religioso.

    «No davvero, mio buon padre», ghignò l’altro, iniziando a camminargli intorno. «Anche perché, se foste così stolto, finireste nei guai quanto me. Anzi di più», precisò. «Però non si sa mai e finché non risolveremo la questione della nave sarà meglio, come dire… che ci si guardi l’un l’altro le spalle. Mi avete inteso?».

    V’intendo un accidente, fu sul punto di esclamare il monaco. Sentiva le membra così rigide da non poter muovere un passo, eppure rodeva dalla voglia di balzare addosso a quell’infame e spaccargli la testa contro una pietra. Ah, quale sublime liberazione! Avrebbe dannato la propria anima, sì, ma per un attimo si sarebbe almeno sentito libero.

    Deglutì per contrastare un sapore amaro che gli riempiva la gola, meditando su un’eventuale scappatoia da quella spiacevole situazione. Nel bel mezzo della campagna, tuttavia, non gli sovvenne alcuna soluzione.

    Perché anche lui era colpevole. Proprio come l’uomo che gli stava di fronte.

    6

    Prigioni delle Stinche

    Bianca era intimorita, ma per nulla al mondo l’avrebbe dichiarato a voce alta. Nel corso della notte si era rigirata tra le coltri, incapace di prendere sonno per l’impazienza di accedere alle carceri e trovarsi faccia a faccia con l’assassino del suo adorato zio. Adesso però, che camminava a passo svelto per un ambulacro nero come una grotta, desiderava tornare al più presto all’aria aperta.

    Smetti di tremare, s’impose. Giannotto Bruni le aveva insegnato a dissimulare le emozioni in qualsiasi frangente per non dare un vantaggio agli avversari. Perché di avversari ce n’erano sempre, soleva ripeterle. Sempre, anche nei momenti in cui ci si credeva al sicuro. La donna ricordava con dolcezza ogni sua parola, in special modo quelle pronunciate durante i viaggi d’affari a Pisa e Livorno. Lo zio aveva preso l’abitudine di portarla con sé fin da bambina, per passeggiare con lei lungo le banchine portuali, mano nella mano, mentre controllava i manifesti di carico, le navi alla fonda e gli spacci dei marinai intenti a vendere stranezze raccattate chissà dove. Era stato in una di quelle occasioni che Bianca si era innamorata di un cimelio stranissimo, una maschera femminile ricavata da un uovo di struzzo. Il venditore, un vogatore berbero rintanato sotto una tenda, aveva giurato che l’oggetto proveniva dalla bottega di uno stregone di Algeri. Messer Bruni si era concesso una risatina incredula, ma pur di accontentare la nipote aveva sborsato una cifra assurda.

    Bianca la conservava ancora, quella maschera. La custodiva nella sua camera privata, dentro un cassetto in cui usava riporre i gioielli. E adesso l’avrebbe usata volentieri per nascondersi, pur di sentirsi protetta.

    Rivolse un’occhiata al cugino che le camminava a fianco, ma il profilo paffuto di Angelo non le fu di alcun conforto. Dei due era sempre stata lei la più coraggiosa. Da quando suo padre Teodoro l’aveva affidata al cognato, dedicandosi anima e corpo ai viaggi mercantili per sfuggire al dolore d’esser rimasto vedovo, Bianca si era abituata ad affrontare da sola ogni difficoltà e a imporre su chiunque il proprio volere.

    «Quanto manca?», chiese al guardiano che le camminava davanti.

    Il soldato si voltò di scatto, squadrandola quasi lascivo, poi proseguì muto lungo il corridoio. La fiaccola che teneva in pugno, l’unica fonte di luce, strappava dall’oscurità una fila di porte sprangate da cui uscivano sospiri e lamenti. Era però il senso di disperazione a turbare Bianca. Una disperazione palpabile al pari di un’esalazione caliginosa, come se gli stati d’animo dei reclusi appestassero l’aria e contagiassero i visitatori.

    Quando comprese d’essere giunta a destinazione, fu quasi un sollievo. Vide il guardiano fissare la torcia al bordo di un battente e armeggiare con una chiave, infine colse il suo grottesco invito.

    L’assassino di Giannotto Bruni attendeva oltre l’ingresso.

    Notata l’esitazione di Angelo, Bianca inspirò a fondo ed entrò per prima.

    7

    Dentro la cella c’era un uomo vestito di nero, il volto chiazzato di scuro come se fosse appena uscito da un camino. Stravaccato in un angolo, se ne stava con la nuca appoggiata alla parete e il profilo contratto in una smorfia sardonica. Al bagliore della fiaccola, Bianca notò le ciocche color argento, assai singolari, che gli striavano i capelli.

    «Embè?», fece Tigrinus, osservandola di sbieco. «Fanno entrare anche le suore, adesso?»

    «Non sono una suora», sbottò lei, che per far visita alle Stinche aveva scelto di indossare un abito senza scollatura e un mazzocchio abbastanza largo da nascondere la sua lunga chioma.

    «Chiedo venia, madonna», motteggiò il ladro, degnandola di uno sguardo più attento. Quasi di gradimento. «Ora che me lo fate notare…».

    «Tacete!», lo sferzò Bianca in un crescendo di sdegno. «Non son qui per il vostro sollazzo, ma per guardarvi in faccia e augurarvi la morte più truce! Voi…», e si batté il petto per rintuzzare un’ondata di commozione. «Voi avete ucciso mio zio, una persona buona, onoratissima, che non meritava certo di perire nel buio di una cripta, lontano dalla propria famiglia! Per quale beffa del diavolo non siete già a torcervi le budella all’inferno?»

    «Guardia, per carità!», esclamò Tigrinus, levando gli occhi al cielo. «Chi è quest’invasata?»

    «Bianca de’ Brancacci, nipote di messer Giannotto Bruni», tornò alla carica la donna. D’un tratto si scopriva trafelata, come se abbandonarsi alle emozioni le avesse prosciugato le forze. In cerca di sostegno, afferrò il cugino per un braccio e lo trascinò dentro la cella. «L’uomo che mi accompagna è Angelo Bruni, figlio di colui che avete assassinato», seguitò. «È giunto anch’egli, al pari mio, per ottenere giustizia e spiegazioni».

    Immobile nel proprio cantuccio, il ladro scrutò entrambi con un’occhiata indifferente. «Rispetto il vostro dolore e la vostra rabbia», mormorò. «Permettetemi però di dirvi che non sono io l’assassino di messer Giannotto».

    «Vi prendete gioco di noi?», l’accusò Bianca.

    «Affatto. Il mio unico errore è stato di scendere nella cripta un attimo prima che si consumasse il delitto, e…».

    «E mio zio si sarebbe pugnalato da solo?»

    «L’autore del misfatto è fuggito, lasciando me a prender la sua colpa».

    La donna scosse il capo, già pronta a formulare nuovi insulti, quando il cugino le si pose davanti.

    «Il senno deve difettarvi, e non poco», disse Angelo al prigioniero, «se credete di cavarvela con simili fandonie». Si era espresso con tono enfatico, nello sforzo di apparire autoritario.

    Tigrinus si strinse nelle spalle. «Come vi pare, messere».

    «Come… osate?»

    «Dio mi è testimone, sono stato franco», si difese il ladro, dopodiché rivolse a Bianca uno sguardo così intenso da farla indietreggiare. «Voi invece, mia signora?», proseguì. «Siete più bramosa di dar sfogo alla vostra ira o di acciuffare il vero colpevole?».

    La donna scostò il cugino con uno strattone e avanzò d’un passo. Notò allora, per la prima volta, che il viso del recluso recava segni di percosse. Fu attraversata da un fremito di piacere. «Il colpevole», sentenziò, «è già davanti a me».

    Tigrinus continuava a fissarla intensamente, tradendo il desiderio di aggiungere qualcosa. Poi sospirò deluso. «Guardia, stai dormendo?», chiamò di nuovo. «Ti decidi a portar via questi due?»

    «Non andremo da nessuna parte», insistette Bianca, «finché non vi avremo sentito ammettere che siete un assassino».

    «In sostanza mi chiedete di mentire», ribatté il ladro, «anziché porre domande sul come e sul perché messer Giannotto abbia trovato la morte nei sotterranei di Santa Trìnita».

    Angelo fece per intervenire ma la cugina lo trattenne. Nonostante avesse lo stomaco pieno di rabbia, non riusciva a capire per quale motivo il prigioniero si desse tanta pena di apparire innocente. Non era forse già condannato a morte? Intrecciò le braccia al petto, guardinga. «Ebbene?»

    «Ebbene», riprese Tigrinus con fare misterioso, «è stato ammazzato per una questione di duemila fiorini d’oro. Anzi, seimila».

    Messer Angelo torse la bocca per l’incredulità. «Mio padre non si sarebbe mai arrischiato a girare per Firenze con una tale somma. Non senza scorta, per lo meno».

    «Non si tratta di denari di vostro padre», precisò il ladro, «ma dell’altro. Del tizio che l’ha pugnalato, intendo. Per farla breve, quello sconosciuto accusava vostro padre d’averlo imbrogliato».

    Bianca emise un risolino nervoso. «Ora infangate pure la memoria di mio zio, dandogli del fraudolento?».

    Tigrinus si schermì con un gesto di sufficienza. «È la pura verità».

    «Chiacchiere», si oppose Angelo. «Una sporca calunnia».

    «Verificate voi stesso», lo sfidò il ladro, «dacché, a giudicare da quanto ho udito, il debito a cui alludo fu contratto a Famagosta».

    «Famagosta?», sobbalzò messer Bruni.

    «Ah», celiò il recluso, «dunque vi suona familiare…».

    «Smettetela!», lo sferzò Bianca. «Con quell’aria tronfia apparite ancor più odioso».

    «Sarò pure odioso», replicò Tigrinus, «ma di sicuro non un omicida».

    «Suvvia, vuotate il sacco», continuò Angelo, in preda all’esasperazione. «Cos’altro sosterreste di sapere?»

    «Cugino!», l’ammonì la donna. «Vuoi davvero dare ascolto a questo brigante?».

    Messer Bruni fece un gesto vago. «Be’, ha tirato in ballo una nostra casa affiliata», si giustificò. «Quella di…».

    «Taci», gli ordinò lei. «Non ti accorgi che sta recitando? O vuoi fornire altri appigli alla sua lingua biforcuta?».

    Il ladro prese a ghignare. «Messer Angelo», lo canzonò, «vi lasciate zittire così da una femmina?».

    Al limite della sopportazione, Bianca scattò in avanti e lo schiaffeggiò con tutta la violenza di cui era capace. «Non riderete più, infame!», gridò. «Non riderete più quando vi trascineranno al patibolo!».

    Per tutta risposta, Tigrinus continuò a sghignazzare e a fissarla con i suoi occhi di gatto. Lei fece per colpirlo ancora, ma si sentì afferrare per i fianchi e trascinare fuori dalla stanza. Si dibatté con furia tra le braccia del cugino finché, nuovamente libera, non si trovò faccia a faccia con il guardiano.

    «Quando verrà giustiziato?», chiese piena di veleno. «Ditemi quando, dannazione!».

    Il soldato si limitò, con fare omertoso, a richiudere il battente della cella.

    8

    Oltrarno, palazzo Bruni

    Due ore dopo, Angelo sedeva nello studio appartenuto fino al giorno prima a suo padre. Tornato stanco e arrabbiato dalla visita alle Stinche, si sforzava di fugare un disagio provocato non tanto dall’incontro con Tigrinus quanto dall’atteggiamento di Bianca, che si ostinava a imperversare per casa con aria molesta.

    Eccolo, l’erede dei Bruni, arroccato dietro uno scrittoio dai bordi smussati, fra scaffali e oggetti che evocavano lo spettro di un uomo arcigno, maldisposto a elargire il benché minimo sorriso. Erano pochi i ricordi legati a quella stanza, tutti spiacevoli e segnati da cocenti umiliazioni.

    Non che il lutto l’avesse liberato dall’amarezza. Ora che spettava a lui badare agli interessi di famiglia, si angustiava al pensiero di gestire banchi, compagnie e filiali estese tra Maiorca e Bisanzio attraverso una rete di agenti di cui sapeva poco o nulla. Gli bastava osservare le scartoffie fitte di calcoli, relazioni e inventari affastellate ai margini dello scrittoio per avvertire una fitta allo stomaco.

    Eppure non avrebbe potuto peggiorare di molto la situazione finanziaria dei Bruni. Ci aveva già pensato Giannotto, il pater familias sempre pronto ad avvilirlo per i suoi scarsi talenti, ma altrettanto cieco da investire nel commercio navale oltre i limiti consentiti dalle proprie sostanze.

    Ben misera consolazione, tuttavia, accusare un genitore morto.

    Con un improvviso slancio d’orgoglio, Angelo si avvicinò alle file di tomi sistemate lungo le pareti. Se intendeva smentire il padre e ripristinare la floridezza perduta, doveva diventare un uomo nuovo. Più audace, avveduto e soprattutto disposto ad apprendere quanto fino ad allora aveva reputato una materia insulsa.

    Estrasse una pila di libri mastri dalla costa di pelle brunita e aprì il primo, trovandosi di fronte a una sfilza di appunti su movimenti di merci e di denaro tra Firenze e gli empori del Mediterraneo. Messer Giannotto aveva annotato con scrittura minuta e spigolosa, al lume di candela, ogni dettaglio riguardante l’attività di famiglia. Fino al giorno prima della sua dipartita.

    Angelo posò i volumi sullo scrittoio, la fronte corrugata, e perseverò nella lettura. In principio si sentì sperso dinanzi a una trafila di numeri e sigle. Poi, vincendo l’istintivo rigetto, ricostruì le rotte di navi salpate da Pisa con plichi di lettere di cambio e tornate a destinazione con le stive cariche di zucchero, cotone e allume. In altre pagine, invece, erano segnalati spostamenti di panni di lana e di altri prodotti dell’artigianato fiorentino trasportati per mare, monti e deserti fino alle città d’Oltralpe e d’Oriente.

    Cercando di immaginare le imprese che su quell’elenco venivano descritte soltanto con numeri e unità di peso, si ritrovò senza neppure accorgersene a fantasticare su vele di galee intente a navigare di conserva, poi su carovane di viaggiatori sferzati dal vento sabbioso. Infine, quasi ridestandosi da un sogno, tornò al plico di libri mastri con il ricordo di quel che andava cercando.

    Non tutto il profitto derivava dal commercio. Gli elenchi stilati dal padre alludevano anche a beni più o meno pregiati che, pur non appartenendo alla compagnia Bruni, venivano assicurati da quest’ultima o dalle sue filiali per tutelare i proprietari da eventuali incidenti di trasporto. In quel modo, Giannotto era riuscito a mantenere un banco in una delle vie più frequentate del quartiere di Santa Croce, mentre schiere di uomini di fiducia gestivano in terre lontanissime i suoi affari. Venezia, Maiorca e Marsiglia rappresentavano i punti nevralgici di una vasta rete di scambi.

    Una rete in cui rientrava anche Famagosta.

    Da quando Tigrinus aveva nominato quella città, Angelo non aveva smesso di chiedersi cosa c’entrasse uno dei maggiori insediamenti portuali di Cipro con la morte del padre, e il pensiero lo tormentava. Base di marinai genovesi da oltre un secolo, Famagosta offriva grasse opportunità di guadagno anche ai fiorentini. Tra cui i Bruni, che da circa un ventennio vi avevano impiantato una filiale non lontano dai bastioni affacciati sul mare.

    Prese quindi a sfogliare i libri mastri nella speranza di trovare traccia dei misteriosi duemila fiorini d’oro – o erano seimila? – menzionati dal ladro. Un debito, secondo quell’arrogante. Messer Bruni, invece, reputava che la cifra si riferisse ad altro. Pur essendo inesperto nella pratica della mercatura, intuiva che si trattasse di una richiesta di risarcimento su una merce assicurata e mai giunta a destinazione. Una merce alquanto preziosa, a giudicare dalla somma di cui si parlava.

    La ricerca non si prospettava affatto semplice. Gli appunti di Giannotto sugli incassi all’estero erano assai vaghi, quasi criptici, al punto da indurre il figlio a sospettare che gran parte di quelle entrate venisse occultata dietro un elaborato gioco di partita doppia.

    Mentre la luce del sole disegnava un lento arco sopra Firenze, Angelo esaurì la lettura dei libri mastri e prese a spulciare tra gli scaffali dello studio, fino a reperire, ormai stremato, un cartulario che raccoglieva il carteggio ricevuto dall’agente dei Bruni in stanza a Famagosta, tal Balduccio Landini.

    Quel nome non gli era nuovo. Doveva trattarsi di un amico del padre, o più facilmente di un suo compagno d’affari. Impaziente di soddisfare la propria curiosità, Angelo passò al vaglio le lettere inviate da quell’uomo negli ultimi mesi, finché non ne individuò una assai singolare.

    Era ancora intrisa dell’odore di salsedine.

    Sotto lo stemma commerciale dei Bruni, seguivano in un bell’inchiostro ocra alcune notizie riguardanti un bene indefinito diretto a Firenze e imbarcato a Famagosta al chiudersi dell’anno precedente. Messer Balduccio si era curato di assicurarlo di persona, senza la mediazione di alcun notaio, su richiesta di un interessato che nella lettera restava anonimo.

    Oltre a ciò, Angelo trovò a dir poco sospetto il fatto che non venisse specificata in alcun modo la natura del bene assicurato. Le uniche informazioni al riguardo recitavano: 7 decine di saggi, 45.000 bisanti bianchi coperti per 200 fiorini d’oro.

    Rimuginò a lungo su quell’indicazione, maledicendo la propria ignoranza in fatto di unità di misura e di cambi di valuta. Forse era vero, meditò con rabbia. Era vero quanto asseriva il padre sulla sua incapacità di comprendere i numeri! D’altro canto, Angelo intuiva che la chiave dell’enigma era proprio lì, davanti ai suoi occhi. Doveva solo trovare il modo di decifrare quel rompicapo e avrebbe scoperto il motivo della sua morte.

    Ma non era certo quello a pungolare la sua brama di sapere.

    Era piuttosto un’intuizione.

    La sensazione di essersi imbattuto in una storia ancor più avvincente di quelle su cui era solito fantasticare.

    La storia di una nave salpata da Famagosta e scomparsa nel nulla. Con la stiva zeppa di ricchezze.

    Diede un’ultima scorsa alla lettera di messer Balduccio e si incamminò verso il corridoio che collegava lo studio all’area conviviale del palazzo.

    «Bianca!», chiamò a gran voce. «Vieni, ti prego. Ho bisogno del tuo consiglio».

    9

    Appena uscito di prigione, Tigrinus si fermò sotto l’angolo d’ombra che oscurava la facciata delle Stinche e guardò intorno a sé. Al di là del fossato, in un dedalo di vicoli angusti, lo aspettava l’appuntamento con Cosimo de’ Medici. Lui però non aveva alcuna fretta. Il pensiero di recarsi alla taverna del Passero per prendere ordini dal suo benefattore lo metteva a disagio. Il colloquio si sarebbe svolto senz’altro alla presenza di un armigero, magari uno sgherro di messer Vitelli, ma questo non era nulla se paragonato all’incognita di quanto ci fosse in serbo per lui. Avanzò d’un passo con le mani aggrappate alla cintura, incerto su quale direzione prendere finché non scorse un volto familiare presso la chiesa dei santi Simone e Giuda. Abbozzò un cenno di saluto e si avvicinò.

    Caco sedeva dentro una nicchia scavata nel muro, con le gambette penzoloni e un sorriso lascivo rivolto a due popolane intente a passare. Appena vide il compagno si scosse e scese con un balzo sul piano del selciato.

    «Come hai fatto a uscire?», chiese stupito.

    Tigrinus si strinse nelle spalle. «Ho avuto fortuna».

    «Fortuna un corno», ribatté il nano con una punta di sospetto. «A esser franchi, ero qui in attesa che ti menassero in ceppi per la via dei Malcontenti».

    «Spiacente d’averti deluso».

    «Non fare il somaro. Stavo in pena».

    Il ladro non l’ascoltava già più. Osservando il lato opposto della strada, aveva colto lo sguardo di un tizio ammantato di verde un attimo prima che sparisse dietro un angolo. «Via di qui», mormorò, imboccando un androne diretto alla via dei lavatoi.

    «Cosa t’angustia?», indagò Caco, trotterellandogli al seguito.

    «Meglio se non t’impicci».

    «Non ti fidi più di me?»

    «Se mi servirà manforte, sarai il primo a saperlo».

    «Oh, già ti serve!», ridacchiò il piccolo uomo. «O non hai visto lo spione con il mantello?».

    Tigrinus si arrestò di colpo. «Dunque l’hai notato anche tu».

    «Fa la posta alle Stinche da stamane», rivelò Caco con un filo di voce, «e guarda caso, si è dileguato proprio quando sei comparso».

    «Era solo?»

    «Come la morte».

    Il ladro resistette alla tentazione di guardarsi alle spalle e proseguì lungo la via, una strada in cui risiedevano molte attività legate all’Arte della Lana, fra botteghe di tintori e mercanti di stoffe. In una zona così frequentata era difficile imbattersi in agguati. Eppure, nella luce grigia del vespro, Tigrinus non si sentiva affatto sicuro. Si avvicinò a uno dei tanti lavatoi di cui si servivano donne e artigiani per lavare i panni e sciacquò il viso, liberandosi del nero della pece e dell’odore della prigione. «Senti, amico mio», riprese con maggior risolutezza, «hai rischiato già abbastanza con l’affare di Santa Trìnita. Questa è una faccenda diversa, capisci?»

    «Girala come ti pare», protestò il nano, «ma non abbandonerò un compare che mi ha salvato la vita in più di un’occasione».

    «L’ultima volta», motteggiò Tigrinus, concedendosi un sorriso, «non rischiavi di annegare in una botte di vino?».

    Caco borbottò qualcosa, ma l’altro non ci fece caso.

    Battendogli una mano sulla spalla, s’incamminò per le strade sempre più buie di Firenze. Ripensava a Cosimo de’ Medici, alla morte di Giannotto Bruni e alla strana donna che l’aveva aggredito come una furia. Ed era proprio lei a occupare gran parte dei suoi pensieri. Perché ora che il ladro si trovava fuori di prigione, si accorgeva di un dettaglio su cui fino ad allora non aveva avuto tempo di riflettere.

    Quella Bianca era la donna più bella su cui avesse mai posato lo sguardo.

    10

    Bianca guardò la lettera, poi Angelo e ancora la lettera. «Sei sicuro», disse, «che sui libri mastri di zio Giannotto non si faccia menzione a quanto ci scrive messer Balduccio?»

    «Sono sicuro», confermò lui.

    Si trovavano nello studio del palazzo, con gli scaffali di legno ad avvolgerli come un abbraccio. L’allungarsi delle ombre aveva reso necessario accendere dei lumi, primo fra tutti una grande lanterna a olio che il vecchio Bruni aveva recuperato dalla prora di un brigantino turco e appeso al soffitto. I suoi raggi purpurei si posavano fluidi su ogni cosa.

    «Sicuro», lo canzonò la cugina, «come del fatto che questa missiva sia collegata alla morte di tuo padre?»

    «Be’», tentò di giustificarsi Angelo, «il ladro ha parlato di…».

    «Di Famagosta, sì», sospirò lei, sedendosi su uno scranno a iccasse. Nonostante il volto provato dall’angoscia, i capelli sciolti e lo scollo dell’abito le conferivano un’aria quasi voluttuosa. «E presumo», continuò, «che al pari di mezza Firenze quel Tigrinus sappia della nostra rete di affari estesi non solo fino a Cipro, ma anche a Maiorca e a Tunisi. Davvero non pensi che abbia tirato a indovinare?»

    «E la lettera di messer Balduccio?», obiettò il cugino, contrariato. «La lettera che ti ho appena mostrato?»

    «Ce ne sono a bizzeffe di lettere del genere, nell’archivio di tuo padre».

    «Questa però è giunta poco prima che lui venisse pugnalato».

    Bianca meditò un istante, poi scosse il capo. «Insisti finché vuoi, io non mi fido di quel ladro».

    «Non ti chiedo di fidarti di lui», precisò, «ma di aiutarmi a verificare se ci siamo imbattuti in qualcosa che è più di una coincidenza. Ti pare così assurdo?»

    «Dovrebbero essere altre le tue priorità», lo ammonì lei, fissandolo d’un tratto con aria severa. «La tua presenza è reclamata al quartiere di Santa Croce. Il banco, gli affari, i soci di famiglia… Sono doveri che vanno onorati, lo capisci?»

    «Ci andrò, te lo prometto. Ma prima…».

    «La promessa di un bambino».

    Angelo finse di non aver udito e le strinse una mano. «Aiutami, ti supplico».

    Bianca fece per rimproverarlo, poi fissò quel volto paffuto, somigliante a un cherubino, ed emise un sospiro. Seppur riluttante, lesse ad alta voce il contenuto della lettera di messer Balduccio: «7 decine

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