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Le tre legioni
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Le tre legioni

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Un uomo al comando delle tribù germaniche ha annientato tre legioni romane nella battaglia della foresta di Teutoburgo

9 d.C. Nella foresta di Teutoburgo, in un paesaggio reso accidentato da burroni, antiche querce e torrenti che scorrono veloci lungo sentieri scoscesi, Arminio ha annientato tre legioni romane, alla testa di un esercito formato da sei tribù di germani. Quasi ventimila uomini hanno perso la vita, massacrati senza pietà dai barbari. Il tradimento di Arminio ha sconvolto il Senato e la notizia del furto di tre aquile delle legioni ha raggiunto funesta il cuore dell’impero. Una pugnalata all’onore di Roma, ora costretta a ridimensionare i suoi domini entro il confine del grande fiume Reno. Ma come può un uomo onorato con la cittadinanza romana arrivare a sfidare così clamorosamente l’impero? Quale sfrenata ambizione può avere spinto un soldato, addestrato dai più valorosi generali romani, a tradire coloro che si erano fidati di lui?

La straordinaria vittoria di un uomo
La più grande sconfitta per Roma

«Una lettura epica che fa rivivere quei giorni terribili nella foresta.»
Express

Roberto Fabbri
è nato a Ginevra e vive tra Londra e Berlino. Per venticinque anni ha lavorato in produzioni televisive e cinematografiche. La passione per la storia, in particolare per quella dell’antica Roma, lo ha spinto a scrivere la serie dedicata all’imperatore Vespasiano, di cui la Newton Compton ha già pubblicato Il tribuno, Il giustiziere di Roma, Il generale di Roma, Il re della guerra, Sotto il nome di Roma, Il figlio perduto di Roma, La furia di Roma e Roma in fiamme.
LanguageItaliano
Release dateDec 18, 2019
ISBN9788822740991
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    Le tre legioni - Roberto Fabbri

    le.tre.legioni-cover.jpglogo-EN.jpg

    2504

    Questo romanzo è un’opera di fantasia. I nomi, i personaggi

    e gli avvenimenti descritti sono frutto dell’immaginazione dell’autore.

    Qualunque analogia con fatti, luoghi o persone reali,

    esistenti o esistite, è del tutto casuale.

    Titolo originale: Arminius

    Copyright © Robert Fabbri, 2017

    The moral right of Robert Fabbri to be identified as the author

    of this work has been asserted by him in accordance

    with the Copyright, Designs and Patents Act of 1988.

    All rights reserved

    Traduzione dalla lingua inglese di Rosa Prencipe

    Prima edizione ebook: gennaio 2020

    © 2020 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-4099-1

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Corpotre, Roma

    Roberto Fabbri

    Le tre legioni

    marchio.tif

    Newton Compton editori

    Indice

    PROLOGO

    CAPITOLO I

    CAPITOLO II

    CAPITOLO III

    CAPITOLO IV

    CAPITOLO V

    CAPITOLO VI

    CAPITOLO VII

    CAPITOLO VIII

    CAPITOLO IX

    CAPITOLO X

    CAPITOLO XI

    CAPITOLO XII

    CAPITOLO XIII

    CAPITOLO XIV

    CAPITOLO XV

    CAPITOLO XVI

    CAPITOLO XVII

    NOTA DELL’AUTORE

    RINGRAZIAMENTI

    Per Leo e Jodi Fabbri,

    augurandovi una vita lunga e felice insieme.

    Benvenuta in famiglia, a Jodi,
    e, naturalmente, a quel fagiolino di Carl!
    Le-tre-legioni-p.7.jpg

    PROLOGO

    Ravenna 37 d.C.

    «Ad affrontare Synatos, il reziario, vi do il secutor, Lico di Germania!».

    Il boato di approvazione della folla soffocò la voce dell’annunciatore; ma per Thumelicatz fu un brusio ovattato che penetrò appena l’elmo di bronzo che gli racchiudeva la testa. Avanzò a grandi passi nell’arena, mostrando la spada corta ai diecimila spettatori che scandivano: «Lico! Lico!», la forma abbreviata del suo nome latinizzato: Tumelico. Sollevando la spada in aria a tempo con il coro e impugnando lo scudo rettangolare semi-cilindrico, decorato con una testa di cinghiale, salutò ogni parte dell’arena ovale.

    Thumelicatz aveva imparato molto presto, nei suoi cinque anni sulla sabbia, dal lanista Orosio, suo proprietario nonché allenatore, a ingraziarsi la folla, malgrado i sentimenti che provava per essa: un gladiatore popolare con il sostegno del pubblico aveva una sorta di vantaggio in ogni combattimento e, in caso di sconfitta, poteva aspettarsi la sua misericordia. Orosio aveva una grande esperienza, essendosi guadagnato la spada di legno della libertà quindici anni prima, dopo cinquantatré combattimenti; a Thumelicatz mancava solo una vittoria per eguagliare quel risultato, grazie agli insegnamenti del lanista. Rivolse la spada verso il suo mentore seduto tra la folla; Orosio, un tempo oggetto di paura e disprezzo ma ora di riluttante rispetto, inclinò la testa per accogliere l’omaggio.

    Infine, urlando le rituali parole di un gladiatore in procinto di intraprendere un combattimento mortale, Thumelicatz salutò il promotore dei giochi, seduto sotto l’unico baldacchino presente nell’arena. Con un grazioso gesto della mano, il promotore, il recentemente insediato prefetto della piccola città provinciale di Ravenna, indicò di essere pronto a vedere sangue versato; si sistemò la toga bianca bordata da una sottile fascia porpora, simbolo del suo rango equestre, e tese i palmi per accettare il riconoscimento della folla.

    Il sudore colò sulla faccia di Thumelicatz dal berretto di feltro che portava sotto l’elmo; sbatté le palpebre e girò la testa, scrutando, attraverso i due piccoli fori per gli occhi nel visore liscio, il suo avversario, il reziario Synatos, senza elmo ma armato di rete e tridente. Individuato il nemico, tenne lo sguardo fisso su di lui, sapendo che il gladiatore più leggero e agile avrebbe cercato di sfruttare la propria velocità per sottrarsi alla sua visuale. Gravato da elmo, scudo e l’ampia cintura di cuoio che gli fissava il perizoma, insieme alle spesse protezioni imbottite sul braccio destro e la parte inferiore della gamba destra, oltre a un gambale di cuoio cotto a quella sinistra, il secutor era lento a paragone. Thumelicatz sapeva per esperienza che era fondamentale concludere alla svelta il combattimento, prima che la stanchezza avesse la meglio su di lui.

    Si toccò l’amuleto a forma di martello che portava al collo. «Donar, affila la mia lama, guida la mia mano e dammi la forza, Grande Dio del Tuono».

    Il rudis, la verga di legno impugnata dall’arbitro, il summa rudis, balenò tra i due combattenti; la folla ammutolì. I respiri mozzi di Thumelicatz, amplificati nell’elmo, si susseguivano veloci nel tentativo di estrarre quanto più ossigeno dall’aria soffocante che circondava il gladiatore. Calcò il piede sinistro in avanti, sollevando il braccio armato in modo che la spada puntasse verso il basso, all’altezza dei suoi occhi, e rivolse in avanti lo scudo, guardando Synatos da sopra il bordo. Il reziario ricambiò lo sguardo, strizzando gli occhi per via della polvere che gli impastava i ricci neri; si accovacciò, portando avanti la parte sinistra del corpo scolpito e oliato, facendo guizzare la rete piombata davanti a sé con la mano destra e muovendo il tridente nella sinistra, che spuntava dallo spesso manicotto di lino a protezione del braccio – un parabraccio in cotta di maglia completava lo scarno equipaggiamento protettivo.

    Il rudis rimase tra loro; Thumelicatz sostenne lo sguardo di Synatos, tentando di indovinarne la prima mossa; avevano combattuto tante volte insieme nel ludus, la scuola dei gladiatori, e conoscevano bene l’uno lo stile dell’altro; si erano già scontrati una volta nell’arena. In quell’occasione, cinque mesi prima, Thumelicatz aveva vinto dopo un duro combattimento, disarmando alla fine Synatos e infliggendogli la cicatrice increspata che gli attraversava l’avambraccio destro; la folla aveva mostrato il proprio apprezzamento concedendo la vita al perdente. Thumelicatz ne era stato sollevato. Nonostante il reziario fosse guardato dall’alto in basso da tutti i gladiatori armati di spada, che non lo consideravano alla loro stregua, Synatos era quanto di più vicino a un amico che Thumelicatz si concedesse nel chiuso mondo del ludus, dove gli uomini venivano addestrati a togliere la vita indiscriminatamente.

    Salterà a sinistra e tenterà di colpirmi con il tridente alla coscia destra, pensò Thumelicatz notando un impercettibile movimento degli occhi verso quella parte della propria anatomia. Poi lancerà la rete verso la mia mano mentre paro il colpo, cercando di far volare via la spada.

    Sbraitando l’ordine di combattere, il summa rudis tirò su la verga; la folla ruggì pregustando il sangue. Synatos spiccò un balzo a sinistra e, con un diretto fulmineo, spinse il tridente verso la coscia destra di Thumelicatz. Previsto il colpo, l’altro affondò la spada di sbieco, tra due delle punte del tridente; con uno sprizzo di faville e uno stridore metallico, il tridente grattò lungo la lama, arrestandosi contro la guardia ovale. Spinto in avanti lo scudo, Thumelicatz deviò la rete lanciata per avviluppargli la mano destra e avanzò, nel tentativo di chiudere la distanza con l’avversario, che non aveva altro che un pugio, un corto pugnale, per il combattimento corpo a corpo.

    Synatos vide il pericolo e saltò all’indietro lasciando la rete, come un’ombra circolare, sul terreno davanti a sé per far inciampare Thumelicatz, nel caso questi avesse deciso di inseguirlo.

    Un affondo di tridente alla gola costrinse Thumelicatz a tirare su lo scudo e a indietreggiare quando le tre punte acuminate trafissero il legno rivestito di cuoio, spaccandone il bordo che gli finì contro il visore; il clangore nell’elmo gli fece rimbombare le orecchie. Tirò via lo scudo, sperando che il tridente fosse saldamente conficcato e di riuscire a strapparlo alla presa di Synatos; lo scudo venne via mentre la rete gli calava sopra la testa. Thumelicatz sentì la corda attorno al perimetro della rete tendersi all’istante, minacciando di intrappolarlo. Gli elmi dei secutores, essendo del tutto lisci e privi di bordi, pinne o protezioni, erano progettati per evitare di restare impigliati nelle reti dei reziari. Thumelicatz tirò indietro la testa, facendola scivolare da sotto la rete e sollevò la spada, in modo che la lama ne recidesse le maglie. Saltò all’indietro, parando ripetuti affondi di tridente e tagliando la rete in due, fino a recidere la corda che la chiudeva e rendendo l’arma praticamente inutile.

    Il tridente si abbatté di nuovo sullo scudo quando Synatos tentò di proteggersi mentre abbandonava la rete e impugnava la lunga asta con due mani. Con la forza maggiore di una doppia presa, il tridente diventava una spaventosa arma d’offesa; con la chiassosa approvazione della folla, Synatos lo affondò a più riprese verso gli inermi piedi nudi di Thumelicatz, costretto a una danza e ad abbassare ancora di più lo scudo, menando fendenti alla testa metallica e alla spessa asta mentre aspettava l’inevitabile.

    Quando giunse, era pronto.

    Le tre punte si sollevarono all’improvviso e balenarono sopra lo scudo calato, dirette alla base della sua gola; si abbassò e sentì il tridente grattare sulla sommità dell’elmo mentre si spingeva in avanti, sbattendo con forza lo scudo contro il petto dell’avversario. Con un’esalazione esplosiva, l’aria fu sbalzata fuori dai polmoni di Synatos; il reziario barcollò ma calò l’asta dell’arma sulle spalle di Thumelicatz mentre questi, a sua volta, affondava la spada verso il cuore dell’altro. La mira fu compromessa dal sussulto e la punta colpì il galerus di Synatos senza provocare danni. Entrambi i gladiatori rovinarono al suolo e la sabbia si attaccò immediatamente ai loro corpi sudati. Il clamore della folla crebbe ancora di più alla prospettiva di una lotta all’ultimo sangue tra i due uomini che, si capiva, avevano come unico pensiero la sconfitta reciproca.

    Con un violentissimo schianto, Synatos calò l’asta del tridente a due mani in mezzo alle scapole di Thumelicatz; grugnendo di dolore, questi sferrò un pugno con la mano armata alla testa inerme del reziario e, contemporaneamente, premette con lo scudo sul petto già svuotato dell’avversario, impedendogli di respirare. Sentì che Synatos cominciava a cambiare presa sul tridente, rigirandolo in modo da affondarne le punte nella sua schiena; con movimento esplosivo, si issò sulle ginocchia, mettendosi a cavalcioni dell’avversario e facendo saltare via l’arma dalla sua presa indebolita. Un lancinante lampo bianco di dolore si accese davanti agli occhi di Thumelicatz quando Synatos sollevò con violenza lo stinco in mezzo alle sue gambe; disobbedendo a ogni istinto del suo corpo di piegarsi in due per proteggere quella preziosa parte di anatomia, si gettò all’indietro mentre il dolore gli saettava nel basso ventre come i ripetuti affondi di uno stiletto. Il petto gli si sollevò e il vomito gli sprizzò dalla bocca sulla parte interna del visore.

    Sguainato il pugio, Synatos si tirò su, balzò in piedi e si avventò su Thumelicatz. Ancora in iperventilazione per il dolore, Thumelicatz ebbe appena la presenza di spirito per tirare in alto lo scudo, deviando prima la lama e poi il corpo che la brandiva; si rotolò a sinistra e si issò sulle ginocchia mentre Synatos colpiva la sabbia e, con l’agilità di una lucertola, si rigirava di scatto per fronteggiare l’avversario. Usando la spada come un bastone, Thumelicatz si costrinse a rialzarsi; era troppo debole per impedire a Synatos di andare a recuperare il tridente. Ora, con l’arma principale nella destra e il pugnale nella sinistra, il reziario si preparò ad affrontare Thumelicatz. Il boato della folla fu assordante, penetrando perfino le orecchie di Thumelicatz racchiuse dal bronzo, mentre esultava alla prospettiva delle rinnovate ostilità ora che entrambi i gladiatori erano di nuovo ad armi pari. E, a quel punto, un coro di Lico! Lico! eruppe al di sopra del clamore.

    Ancora dolorante e più gravato dall’equipaggiamento rispetto all’avversario, Thumelicatz sapeva di doverla finire subito, prima di stancarsi e non riuscire a sferrare un attacco efficace. Calò lo scudo e afflosciò braccio armato e ginocchia, come se avesse già raggiunto quel punto di sfinimento; con un ringhio di trionfo, il reziario balzò in avanti, affondando il tridente ad altezza petto. Con un movimento rapido e violento, Thumelicatz incrociò la traiettoria dell’arma con lo scudo, sbalzandola da un lato, e, con un montante della spada sul corto pugnale che seguiva il tridente, lo fece volare in aria con un clangore metallico. Continuò poi la traiettoria del braccio destro e abbatté il pugno, che ancora serrava la spada, sulla faccia di Synatos, appiattendogli il naso con uno scricchiolio bagnato di cartilagine. Il reziario fu sbalzato all’indietro, con il sangue che tracciava un arco nell’aria, e il tridente, sfuggito alla presa indebolita, cadde con un sussulto sulla sabbia dell’arena. Thumelicatz si fermò sul corpo della vittima, che lo guardò dal basso e si affrettò a sollevare l’indice destro in segno di resa; il summa rudis calò la verga sul petto di Thumelicatz, mettendo fine al combattimento. Il secutor si riempì i polmoni di aria puzzolente di vomito, in respiri mozzi; il sudore gli bruciava gli occhi mentre guardava l’uomo che era quasi un amico, riverso ai suoi piedi.

    Adesso spettava al promotore dei giochi giudicare lo stato d’animo della folla e decidere la sorte di Synatos.

    Il coro di Lico! Lico! continuò mentre questi mostrava la spada al promotore in un gesto del quale tutti i presenti comprendevano il significato: vita o morte? Il prefetto si alzò adagio in piedi, la mano destra chiusa a pugno contro il petto; si guardò intorno nell’anfiteatro.

    Il tono della folla cambiò; dapprima lento ma inesorabile, il coro divenne: Morte! Morte!. Avevano la memoria lunga e non erano disposti a risparmiare un uomo sconfitto due volte dal medesimo avversario.

    Synatos, che aveva recepito la richiesta della sua morte a sangue freddo, girò piano la testa verso il promotore; i loro occhi si incontrarono. Sostenendo lo sguardo per qualche momento mentre la folla ammutoliva, il prefetto di Ravenna spinse in avanti il braccio destro, il pugno ancora chiuso e il pollice ben stretto contro di esso, a imitazione di una spada non tratta. Facendo una pausa drammatica mentre il silenzio piombava tutt’intorno all’ovale, inspirò a fondo, assaporando il potere di vita e di morte; all’improvviso, il suo pollice guizzò fuori dal pugno, in orizzontale, a imitazione di una spada tratta: il segno della morte.

    Synatos rivolse un debole sorriso di rassegnazione a Thumelicatz e si issò su un ginocchio.

    La folla ululò estasiata, molti visibilmente eccitati sotto le loro tuniche, toccandosi – alcuni in modo frenetico, altri languidamente – alla prospettiva di un’altra vita soppressa per il loro piacere.

    Thumelicatz tenne in alto la spada e girò adagio su sé stesso; il disgusto che provava traspariva liberamente sul suo volto celato dall’elmo mentre gli occhi osservavano ogni membro della folla: fornai, impiegati, piccoli magistrati, sicofanti professionisti, bottegai, prostituti, mercanti e altri ancora, ciascuno tutt’altro che marziale, esattamente come le donne che ingravidavano. Il grasso superfluo dell’impero – la cui esistenza era giustificata unicamente dal fatto fisico della loro nascita – che chiedeva a gran voce la vita di un uomo in grado di porre fine alla maggior parte delle loro vite in meno di dieci secondi. Era per questo che i Romani avevano forgiato il proprio impero, così che i pavidi e i flaccidi potessero vivere le loro fantasie marziali per interposta persona, versando il loro seme mentre il sangue di uomini migliori finiva sulla sabbia?

    Thumelicatz andò verso Synatos e si fermò davanti a lui.

    Il reziario condannato gli serrò con decisione la coscia destra e tirò su la testa, guardando il suo boia dritto negli occhi. «Fa’ una cosa pulita, amico mio».

    «Non vuoi un’arma in mano?»

    «No, io percorro un cammino diverso dal tuo; il mio porta al Traghettatore non al Walhalla».

    Thumelicatz inclinò la testa, prese la spada e la posizionò verticalmente tra la base del collo di Synatos e la clavicola, proprio accanto al parabraccio; con la mano sinistra serrò la cima dell’elsa sopra alla destra.

    Il frastuono della folla aveva raggiunto vette quasi impossibili.

    Synatos deglutì, lanciò una breve occhiata al sole che ardeva in un cielo azzurro e senza nuvole e poi annuì.

    Usando tutta la forza nelle spalle, Thumelicatz affondò la lama nella pelle, la carne e il polmone, fino a che la punta trafisse la parete di muscoli dell’organo che adesso pompava tre volte più veloce del normale. Synatos sgranò gli occhi per il dolore e gonfiò il petto, esalando un profondo grugnito che fu bruscamente interrotto dal sangue che gli esplose in gola. Thumelicatz sentì la presa dell’uomo morente sulla sua coscia aumentare e le unghie lacerargli la pelle; non ci badò, succedeva sempre. Con una torsione del polso sinistro e poi del destro, fece a brandelli il cuore e, infine, stringendo la spalla destra di Synatos con la mano sinistra, strappò via la lama con un liquido risucchio.

    Synatos rimase eretto per qualche momento, con il sangue che gli colava dalla bocca aperta e dalle narici in lunghi filamenti sul mento, gli occhi ciechi, l’espressione rigida: morto. La folla emise un gemito appagato, bestiale nella sua crudezza; il corpo crollò sulla sabbia.

    Thumelicatz alzò in aria la spada, salutando gli oggetti del proprio disprezzo, desiderando che la morte facesse visita a ogni esistenza ritenuta inadeguata, ovvero la maggior parte di esse. Senza un’occhiata alla vittima, si avviò ai cancelli che cominciavano ad aprirsi. Entrarono otto arcieri ausiliari, quattro a destra e quattro a sinistra, le frecce incoccate ma gli archi non tesi.

    Thumelicatz si fermò e gettò a terra la spada.

    Due figure in controluce, una drappeggiata nella toga, seguirono gli arcieri.

    Thumelicatz riconobbe il profilo muscoloso del suo lanista, Orosio; una rapida occhiata a dove era seduto il promotore dei giochi confermò l’identità della seconda. Il prefetto di Ravenna avanzò a grandi passi verso il centro dell’arena tenendo le braccia sollevate; Orosio rimase sulla soglia a osservare la scena.

    La folla acclamò il prefetto con il riserbo di gente che plaudeva a un uomo più noto per il suo potere che per la popolarità; se il prefetto se ne accorse, non lo diede a vedere. Raggiunse Thumelicatz e chiese silenzio con un gesto; la folla fu lieta di accontentarlo.

    Per quanto lo sconvolgesse, Thumelicatz intuiva cosa stava per succedere ma non riusciva a provare eccitazione, orgoglio né sollievo dopo cinque anni che era costretto a combattere per la vita. Aveva un unico pensiero e riguardava la sua patria, la terra che non aveva mai visto; la terra che non aveva mai pensato di riuscire a vedere. Era una terra che conosceva solo tramite le storie che sua madre, portata a Roma mentre era incinta di lui, gli aveva raccontato nei brevi anni che aveva trascorso con lei, prima di essere condotto via, all’età di otto anni, per essere addestrato a una vita nell’arena, dove, per via di chi era figlio, si era aspettato di morire.

    Il prefetto aveva cominciato ad arringare la folla ma Thumelicatz riusciva solo a sentire le sue parole, non a concentrarsi su di esse. L’immagine del padre che non aveva mai conosciuto gli ardeva nella mente al pensiero di tornare nella terra che l’uomo aveva liberato da Roma, sei anni prima della nascita di Thumelicatz: la terra della Germania Magna. Nel giro di quattro giorni, suo padre, Erminatz, noto ai Romani con il suo nome latinizzato, Arminio, aveva distrutto l’esercito di Publio Quintilio Varo, composto da tre legioni più gli ausiliari, in una serie di battaglie nella foresta di Teutoburgo; sua madre gli aveva raccontato magnifiche storie del massacro. Tre aquile erano state catturate e Roma si era ritirata dall’altro lato del Reno. Thumelicatz sarebbe tornato in una terra di uomini liberi; una terra in cui il valore di un uomo era giudicato dalla sua prodezza e gli uomini pavidi non avevano alcuna importanza, per quanto argento possedessero.

    Sentì una mano tirargli il gomito e i suoi pensieri furono catapultati di nuovo al presente; udì il prefetto parlare come se fosse stato costretto a ripetersi. «Togliti l’elmo, Lico di Germania».

    Thumelicatz infilò i pollici sotto il bordo e spinse verso l’alto; l’elmo di bronzo venne via e l’aria fu più facile da respirare. Strizzando gli occhi celesti, incassati nelle orbite sotto le folte sopracciglia nere, guardò dall’alto il prefetto, che fece una smorfia. Thumelicatz si passò il dorso della mano sulla faccia sbarbata, rimuovendo quanto più possibile del vomito che la incrostava prima di premere un dito sul naso lungo e sottile e liberare ciascuna narice di fluido acido.

    Il prefetto lo osservò disgustato. Thumelicatz si chiese se non stesse ripensandoci ma poi pensò che il prefetto avrebbe perso la faccia se avesse deciso di non concedere la libertà a un gladiatore solo perché ne trovava sgradevole l’aspetto dopo il combattimento; si raschiò la gola e sputò sulla sabbia un grumo di sangue e muco.

    Il prefetto rovistò tra le pieghe della toga; ne tirò fuori una spada da allenamento, di legno, del tipo che Thumelicatz aveva usato per anni, giorno dopo giorno per ore di fila, eseguendo ogni mossa di ogni combinazione fino a che non erano diventate naturali come respirare.

    Con un gesto plateale, il prefetto la sollevò in aria. «Io, Marco Vibio Vibiano, prefetto della città di Ravenna, premio il gladiatore Lico di Germania con la libertà dopo cinque anni nell’arena». Tenendo la spada con entrambe le mani, la presen-

    tò a Thumelicatz, che la prese senza una parola di ringraziamento.

    Sapendo che non poteva permettersi di insultare la folla, Thumelicatz spinse il simbolo dell’affrancamento gladiatoriale in alto e lo fece ruotare, accettando l’encomio della cittadinanza di Ravenna per quella che sperava fosse l’ultima volta.

    «Puoi diventare mio cliente e portare il mio nome», disse borioso Vibiano.

    Thumelicatz guardò il prefetto come se non riuscisse a credere a quanto aveva appena sentito. «Preferirei diventare la tua puttana e portare in grembo i tuoi rachitici mocciosi, romano». Superò il prefetto e si avviò ai cancelli, spogliandosi con ostentazione dell’equipaggiamento da secutor e gettando via ogni pezzo tra le acclamazioni, lavorandosi la folla, consapevole del fatto che Vibiano non avrebbe potuto fargli niente fintanto che avesse goduto del supporto del pubblico.

    Vibiano lo seguì, cercando di approfittare della situazione, la testa alta, il ritratto di un altero magistrato.

    «Mi pare di capire che tu e il nostro stimato prefetto non diventerete abituali compagni di cena», commentò Orosio, affiancando Thumelicatz mentre questi varcava i cancelli. Gli consegnò un rotolo di papiro. «Questo è il tuo certificato di affrancamento».

    Thumelicatz lo prese senza leggerlo. «Grazie, Orosio. Com’è successo? Pensavo di essere destinato a morire nell’arena».

    «Lo eri ma questa è un’informazione che nessuno si è preso la briga di comunicare al nostro nuovo prefetto quando ha preso servizio. Quando mi ha detto che desiderava comprare il favore della folla affrancandoti, chi ero io, un semplice lanista, per contraddirlo?».

    Thumelicatz rallentò il passo mentre procedevano attraverso le fumose viscere dell’anfiteatro illuminate da torce, affollate di prigionieri incatenati e terrorizzati, in attesa delle fauci delle bestie feroci i cui ruggiti famelici riecheggiavano tra gli archi di mattoni macchiati di fumo. L’acqua colava dal soffitto raccogliendosi in pozzanghere, bordate di poltiglia verde, sul consunto pavimento lastricato. «Perché hai fatto questo per me? Non mi devi niente. Anzi, è tutto il contrario, sono io che ti devo tutto per l’addestramento personale che mi hai dato».

    Orosio sorrise e lanciò un’occhiata di traverso al compagno. «Ci crederesti che l’ho fatto per impedirti di superare il mio punteggio e diventare il gladiatore più famoso di sempre a Ravenna?»

    «Stronzate. A nessuno frega un cazzo di essere qualcuno in questo merdaio».

    «È qui che ti sbagli. Al prefetto sì. Vuole guadagnarsi il favore del nuovo imperatore, Gaio Caligola, aumentando l’afflusso di tasse da questa città nei forzieri imperiali. Ha intenzione di farlo comprando per prima cosa la benevolenza dei cittadini e poi facendo tagli, uno dei quali riguarda il pagamento per la mia merce e i miei servizi; la somma che mi ha offerto per compensare il tuo affrancamento è stata irrisoria. Penso che quando l’imperatore scoprirà che Marco Vibiano, nel tentativo di rendersi popolare, ha liberato il figlio di Arminio, il prefetto verrà richiamato a Roma per spiegare questo modo inedito di contenere i nostri nemici; come minimo gli consiglieranno di accantonare eventuali ambizioni senatoriali».

    «E qui le cose torneranno alla normalità per te?»

    «Non chiedo altro. Perciò farai meglio ad andartene subito, prima che qualcuno lo informi di quanto sia sciocco l’errore che ha commesso».

    «Prima devo andare in un posto».

    «No, non devi, ho fatto portare dal ludus il denaro del tuo premio. Sei un uomo ricco, potresti quasi permetterti di comprare te stesso».

    «Tienilo, compenserà la scarsezza del tuo risarcimento».

    «Basterà e avanzerà». Orosio fece segno alle due guardie che sorvegliavano le porte sul mondo esterno di aprirle. «Cos’altro c’è di così importante da farti rimandare la partenza?»

    Thumelicatz uscì in strada, libero per la prima volta di andare ovunque desiderasse. Accennò alla spada nel fodero che pendeva alla cintura di Orosio. «Posso?».

    Orosio sganciò il fodero dalla cintura e lo consegnò a Thumelicatz.

    «Grazie, Orosio. Devo andare da mia madre; è schiava nella casa di mio zio».

    Thumelicatz batté alla porta di un’imponente villa nell’ampia e trafficata via che collegava il foro di Ravenna alla sua cittadella. Dopo qualche momento, lo spioncino ad altezza testa si aprì, rivelando un occhio scuro e inquisitore.

    «Sono venuto a vedere Tiberio Claudio Flavo», annunciò Thumelicatz, cercando di reprimere la tensione nella voce.

    «Che nome devo dire, padrone?»

    «Digli che è il figlio di suo fratello».

    La feritoia si richiuse.

    Thumelicatz attese con crescente impazienza, chiedendosi se suo zio Flavo, che lui conosceva come Chlodochar, avrebbe osato aprirgli la porta dopo una così lunga assenza.

    La risposta venne con lo stridere di un chiavistello e lo scatto di una chiave.

    La porta si aprì verso l’interno.

    Con la mano sul pomolo dell’elsa, Thumelicatz attraversò il vestibolo e si ritrovò nell’atrio della casa di suo zio per la prima volta dopo quattordici anni.

    L’atrio era quello di un romano, non di un guerriero germanico della tribù dei Cherusci, alla quale appartenevano sia Thumelicatz che suo zio. Un raffinato pavimento a mosaico, raffigurante scene tratte dall’Eneide, circondava l’impluvium al centro della stanza rettangolare; la fontana aveva la forma di Salacia, consorte di Nettuno, rappresentata come una ninfa dalla corona di alghe. Non c’erano armi né altri oggetti di guerra appesi alle pareti, niente zanne di cinghiale o corna di cervo, niente di ciò che, in base ai racconti della madre di Thumelicatz, avrebbe dovuto decorare le pareti della dimora di un nobile; non c’erano lunghe assi e panche di legno dove il suo seguito avrebbe banchettato e cantato, solo bassi tavoli di marmo lucido dalle gambe ornate, disseminati di ciotole di vetro e statuette bronzee di divinità romane. A Thumelicatz parve identica a ogni altra casa romana nella quale era stato costretto a entrare per esibire la propria abilità con la spada davanti ai ricchi di Ravenna, durante le loro lussuose e dispendiose cene; sputò sul pavimento.

    «È esattamente il comportamento che mi aspetterei da uno schiavo e un gladiatore», disse una voce dall’altro capo della stanza. Trasudava disprezzo. «Perché non sei ancora morto e come hai ottenuto il permesso per venire qui?».

    Thumelicatz alzò lo sguardo e vide un uomo alto e corpulento, con la toga equestre, entrare nella stanza. I biondi capelli corti stavano ingrigendo; una cicatrice livida al posto dell’occhio destro sfigurava una faccia tonda, flaccida e florida.

    Thumelicatz sputò di nuovo, stavolta in spregio all’uomo che vedeva piuttosto che alla cultura della quale si circondava. «Non sono morto perché ho la protezione di Donar, dio dei guerrieri; e sono qui perché non ho bisogno del permesso per andare dove mi pare, non essendo più uno schiavo né un gladiatore, zio».

    Flavo si fermò. La sua espressione passò dalla beffarda alterigia alla turbata preoccupazione ancora prima che Thumelicatz avesse finito di parlare. «Stai mentendo. Guardie!».

    Thumelicatz tirò fuori dalla cintura la spada di legno e attraversò la stanza mentre quattro massicce guardie entravano a spada tratta dietro a Flavo. Thumelicatz si fermò a sinistra dell’impluvium.

    Flavo fece segno ai suoi uomini di restare indietro. «Chi te l’ha data?»

    «Il tuo prefetto, neanche un’ora fa».

    «Allora gli dirò di riprendersela».

    «Non potrebbe neanche volendo. Il mio certificato di affrancamento fa di me un libero cittadino di Roma. Potrei appellarmi al nuovo Cesare e lui dovrebbe sostenere la mia causa».

    «Oppure potrebbe farti uccidere, come avrebbe dovuto fare Tiberio anni fa».

    Adesso toccava a Thumelicatz schernirlo. «Sai benissimo perché Tiberio non mi ha fatto uccidere. È stato per la stessa ragione per cui ha rifiutato l’offerta del re dei Catti, Adgandestrio, di avvelenare mio padre; perché aveva un briciolo di onore – concetto che tu hai dimenticato anni fa. Adesso dammi mia madre e ti lascerò a marcire nei rancidi frutti del tuo tradimento».

    «Non sta a me dartela, appartiene a Roma. Io mi limito a prendermene cura».

    «È la moglie di tuo fratello; adesso che lui è morto, hai il diritto di disporne come desideri. Dalla a me e andrò via con un’opinione leggermente migliore sul tuo conto. Dimenticherò la vendetta di mio padre, che adesso è mia di diritto, e non sentirai più parlare di me».

    «E se scegliessi di non farlo?»

    «Allora io sceglierò di prenderla. E la vendetta di mio padre su di te sarà quella di un uomo assassinato dal proprio fratello».

    Flavo scoppiò in una risata vuota e priva di gioia. Indicò con il pollice un punto dietro la spalla. «E tu pensi che loro te lo lasceranno fare?».

    Thumelicatz osservò la fila di guardie del corpo, ausiliari germanici che avevano portato a termine il periodo di leva ed erano rimasti al servizio del loro comandante, e ipotizzò: «Se dovessi pensare a loro, me ne occuperei uno alla volta». Nella mente, Thumelicatz si concentrò sull’uomo bruno all’estrema destra e quello più vecchio con la folta barba bionda accanto a lui.

    C’era qualcosa nel tono disinvolto della replica del nipote che indusse Flavo a esitare un momento prima che l’occhio superstite si indurisse. Si fece da parte. «Uccidetelo!».

    Le quattro guardie del corpo si lanciarono in avanti senza esitazione e insieme, come un sol uomo. Thumelicatz sapeva che avevano commesso un grave errore; saltò a destra, sul lato sollevato dell’impluvium, mentre la spada dell’uomo bruno calava sul punto in cui era stato un attimo prima. Sguainata la spada, Thumelicatz proseguì il movimento verso l’alto dell’arma e gli tagliò la mascella, che rimase penzolante dalla sottile pelle della guancia, mentre il biondo gli sferrava un colpo orizzontale mirando alla coscia. Con una rapida stoccata della mano sinistra, Thumelicatz parò il colpo con la spada da allenamento, rallentandolo e deviandolo mentre la lama affondava nel legno indurito e raggiungeva il polpaccio senza quasi più forza. Dominando il dolore, sollevò di scatto il moncone della spada di legno, conficcandolo in uno occhio del biondo, che finì scompostamente all’indietro con un urlo disperato. Estratta la lama gocciolante dalla prima vittima – che si accasciò, gorgogliante, sul pavimento – Thumelicatz la puntò contro le guardie rimaste. I due uomini si fermarono, non sapendo come affrontare colui che si era sbarazzato dei loro compagni in meno di cinque secondi. Thumelicatz non rimase ad aspettare che si facessero venire in mente un piano; cambiando presa alla spada, la diresse di rovescio verso l’uomo più vicino in un arco indistinto che terminò con il tonfo vuoto e bagnato della mannaia di un macellaio che fa a pezzi un maiale. La testa della guardia ruotò per la velocità del colpo e si rovesciò sulla destra; ancorata da qualche legamento non reciso, rimase appollaiata sulla spalla, fissando inorridita il compagno, mentre il cuore, dati due ultimi possenti battiti, eruttava sangue nell’aria. La testa ruzzolò in avanti, tirandosi dietro il corpo, mentre la lama di Thumelicatz affondava nell’incredula bocca aperta della quarta guardia; la punta eruppe dalla nuca. Prima ancora che la sorpresa si manifestasse nello sguardo dell’uomo, Thumelicatz si voltò a scrutare la stanza: suo zio era scomparso.

    Un grido di donna dal giardino, sul retro della casa, risuonò nell’atrio. Thumelicatz lasciò alla forza di gravità il compito di liberare la spada dall’ultima vittima quando il corpo si afflosciò sul pavimento a mosaico viscido di sangue. Con una rapida occhiata tutt’intorno per escludere la presenza di altri servitori determinati a difendere il proprio padrone, Thumelicatz corse verso il tablinum, all’altro capo dell’atrio, e, dopo averlo attraversato, si ritrovò nel giardino.

    «Metti giù la spada e tua madre vivrà!». Flavo stava tra due delle colonne a sostegno del portico in fondo al giardino; una donna sulla sessantina, alta, i capelli grigi e ribelli e i seni penduli che ondeggiavano sotto una sottile tunica al ginocchio, cercava di sottrarsi al coltello che lui le teneva contro la gola.

    Nel riconoscerlo, sgranò gli occhi azzurri. «Thumelicatz!».

    Thumelicatz alzò una mano. «Sta’ calma, madre».

    Dietro a Flavo, un’altra donna di età simile ma dalla corporatura più

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