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Le incredibili curiosità di Padova
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Le incredibili curiosità di Padova

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Un viaggio alla scoperta di una città affascinante e ricca di storia

Padova sta attraversando un momento magico. Sarà la candidata italiana a Patrimonio dell’Unesco nel 2020 grazie al progetto di “Padova Urbs Picta”, ossia al suo ciclo pittorico del Trecento. Ma quali incredibili curiosità si celano nella sua storia? Nel raccontarle si potrebbe iniziare da un confronto ardito come quello fra Dante e Giotto e continuare con il triangolo libertino che unisce Andrea Memmo, il creatore di Prato della Valle, la nobile Giustiniana Wynne, e il grande seduttore Giacomo Casanova. Un territorio, quello patavino, che ha sempre attirato grandi personalità, come quella di Pierre Jules Théophile Gautier, il “papà” del Capitan Fracassa letterario, giunto nella città del Santo nel corso del suo Grand Tour. E che dire di Mary Shelley e il marito, il poeta Percy Bysshe Shelley, che proprio nell’anno in cui fu pubblicato Frankenstein, insieme a Lord Byron, scelsero come luogo d’elezione i Colli Euganei? Questo libro racconta fatti, personaggi, grandi personalità legati a una città che si prepara a festeggiare, nel 2022, gli 800 anni dalla nascita della sua università.

Giotto, Dante e la “salvezza dell’anima”
Giacomo Casanova, Andrea Memmo, Giustiniana Wynne: “le relazioni pericolose”
Victor Hugo e il suo angelo, tiranno di Padova
Padova, i colli e la provincia: tappe del Grand Tour
Il “papà” di Capitan Fracassa nel Grand Tour patavino
La Banda Carità e Palazzo Giusti

Silvia Gorgi
Padovana DOC, giornalista, scrive di cinema, arte e nuove tendenze per le pagine di cultura e spettacolo dei quotidiani del gruppo editoriale L'Espresso. Alcuni suoi servizi di viaggio sono stati pubblicati da «Elle Italia» e «il Venerdì di Repubblica». Speaker radiofonica, ha ideato Nordest Boulevard, sito d'informazione. Ha curato mostre di artisti in Veneto e a Berlino. Con la Newton Compton ha pubblicato Forse non tutti sanno che a Padova…; Storie segrete della storia di Padova e I luoghi e i racconti più strani di Padova.
LanguageItaliano
Release dateSep 30, 2019
ISBN9788822737724
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    Le incredibili curiosità di Padova - Silvia Gorgi

    ES650 - le incredibili curiosita di Padova - silvia gorgi.jpges.jpg

    650

    Prima edizione ebook: ottobre 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-3772-4

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Manuela Carrara per Corpotre, Roma

    Silvia Gorgi

    Le incredibili curiosità di Padova

    omino.jpg

    Newton Compton editori

    A Padova

    la mia città

    Alle sue contraddizioni

    Ai suoi bisogni

    Al suo grande passato

    Agli incredibili personaggi che l’hanno attraversata

    e a Te

    che a Padova ho incontrato

    Non ho particolari talenti, sono soltanto appassionatamente curioso.

    Albert Einstein

    In milioni hanno visto la mela cadere, ma Newton è stato quello che si è chiesto perché.

    Bernard Baruch

    Perché quando un uomo costruisce un muro, l’uomo accanto ha subito bisogno di sapere cosa c’è dall’altra parte?

    George RR Martin

    Il pubblico ha un’insaziabile curiosità di conoscere tutto, tranne ciò che vale la pena conoscere.

    Oscar Wilde

    La curiosità uccise il gatto, ma la soddisfazione lo riportò in vita.

    Proverbio inglese

    Indice

    Copertina

    Logo

    Colophon

    Frontespizio

    Dedica

    Esergo

    Introduzione

    Enigma per gli spiriti curiosi

    UN TRECENTO RIVOLUZIONARIO: MAI PIÙ NULLA FU COME PRIMA

    Giotto, Dante e la salvezza dell’anima

    UN SETTECENTO SENSUALE E SPREGIUDICATO,COLTO E CRUDELE, DIVERTENTE E LIBERO

    Giacomo Casanova, Andrea Memmo, Giustiniana Wynne: le relazioni pericolose

    UN OTTOCENTO DI INTELLETTUALI PRONTI A SCOPRIRE IL MONDO IN VIAGGIO

    Victor Hugo e il suo Angelo, tiranno di Padova

    Padova, i colli e la provincia: tappe del Grand Tour

    Il papà di Capitan Fracassa nel Grand Tour patavino

    UN NOVECENTO NEL SEGNO DEL RICORDO PER NON DIMENTICARE MAI

    La Banda Carità e Palazzo Giusti

    Risoluzione dell'enigma Canton dee busie

    Bibliografia essenziale

    Sitografia

    Ringraziamenti

    introduzione

    Padova sarà la candidata italiana a Patrimonio dell’Unesco nel 2020 grazie al progetto di "Padova Urbs Picta, ossia al suo ciclo pittorico del Trecento, che ha come fulcro la Cappella degli Scrovegni di Giotto. Una grande opportunità per la città del Santo, che sta attraversando un momento magico. Ma quali incredibili curiosità cela nella sua storia lungo i secoli? Si potrebbe iniziare proprio da Giotto, uno dei suoi simboli, o meglio, non solo da lui, ma dal percorso di salvezza dell’anima" che se Giotto crea attraverso le immagini dei suoi dipinti, Dante plasma nella Divina Commedia. Perché questo parallelo? Perché Dante e Giotto e Padova, tutti e tre assieme, formano un triangolo assai curioso, dalle mille sorprese. Ed è sempre un triangolo, ma in questo caso d’amore e d’amicizia, quello che, in città, mette assieme il patrizio veneziano Andrea Memmo, creatore della piazza più nota della città in stile illuministico, Prato della Valle, la nobile veneziana, nonché scrittrice, Giustiniana Wynne, e il grande seduttore Giacomo Casanova che, fra le vie patavine, oltre a spezzare qualche cuore e praticare riti magici, trascorse l’infanzia e il suo periodo di formazione, allo studio e alla vita.Un territorio, quello patavino, che sempre ha attirato grandi personalità, come quella di Pierre Jules Théophile Gautier, il papà del Capitan Fracassa letterario, che vi arrivò mentre stava facendo il Grand Tour, e non poté esimersi dall’esercitare il suo spirito critico anche quando si ritrovò a visitare le bellezze del centro storico: dal Caffè Pedrocchi alla basilica del Santo, assistendo pure, al Teatro Nuovo, ossia all’odierno Teatro Verdi, a Il Barbiere di Siviglia. Non fu certo l’unico intellettuale a essere stato spinto attraverso le rotte del Grand Tour a conoscere la città universitaria patavina: prima di lui Goethe, e molti altri intellettuali. Alcuni di loro trovarono conforto e pace, fra Settecento e Ottocento, sui Colli Euganei, sulle orme del grande poeta, di Petrarca e della sua Arquà. Così, nell’800, giunsero la scrittrice Mary Shelley e il marito, il grande poeta romantico Percy Bysshe Shelley, nell’anno in cui venne pubblicato Frankenstein, il capolavoro di Mary. Soggiornarono nella villa che Lord Byron aveva preso come residenza, proprio sulle colline alle porte della città. Del resto il fascino del Grand Tour condusse a Padova, e nella sua provincia, moltissime personalità, che appuntarono sui loro taccuini immagini, sensazioni, osservazioni, rendendola una delle mete imprescindibili per la formazione dei giovani del tempo.

    Nel Novecento delle guerre mondiali, il Bo, l’ateneo patavino si distinse, cercando di mantenere, fin quando fu possibile, ciò su cui era stato creato: la libertà. Non va dimenticato che fu l’unico ateneo italiano a essere stato insignito della medaglia d’oro al valor militare poiché, come si legge nella motivazione di tale onorificenza, «nell’ultimo immane conflitto seppe, primo fra tutte, tramutarsi in centro di cospirazione e di guerra. Padova ebbe nel suo Ateneo un tempio di fede civile e un presidio di eroica resistenza». Una Resistenza, quella veneta, messa a dura prova in città, dalla presenza della banda Carità, nel corso del secondo conflitto mondiale. Il terrore prese forma a Palazzo Giusti, dove torture e nefandezze si materializzarono in maniera agghiacciante. Fatti, personaggi, relazioni che hanno segnato il passato di una città che s’appresta a vivere, oltre alla candidatura all’Unesco, un’altra grandissima celebrazione: è iniziato, infatti, il percorso di avvicinamento al 2022, un anno molto importante per i patavini, che potranno celebrare il Bo, che esiste da ben 800 anni, dal 1222, alzando i calici, al motto: Universa Universis Patavina Libertas! Tutta intera, per tutti, la libertà nell’Università di Padova.

    ENIGMA PER GLI SPIRITI CURIOSI

    Per chi Padova la conosce

    Per chi la vuole scoprire

    Quattro simboli fanno un luogo

    Son unità di misura padovane

    La prima misura uno degli ingredienti del pane

    La seconda ha a che fare con l’insieme dei cereali

    La terza misura quel con cui si fan le case

    La quarta, che ognun di noi possiede, è pure misura

    per dar forma alle vesti

    Quattro unità di misura,

    una accanto all’altra,

    incise su una parete

    laddove si ritrovavano i mercanti

    in un angolo assai particolare.

    Il suo nome non ha a che fare con la verità

    Sapete di che si tratta?

    (Risoluzione dell’Enigma alla fine del libro)

    UN TRECENTO RIVOLUZIONARIO:

    MAI PIù NULLA

    FU COME PRIMA

    58.tif

    Cristo morto, particolare di un affresco di Giotto nella Cappella degli Scrovegni, in un’incisione ottocentesca.

    GIOTTO, DANTE E LA SALVEZZA DELL’ANIMA

    Quante sono le statue che decorano Prato della Valle, la piazza più famosa di Padova, e tra le più grandi d’Europa, seconda, pare, solo alla Piazza Rossa di Mosca? Per iniziare un libro legato alle curiosità partiamo da uno dei luoghi simbolo della città del Santo, dalla piazza che fu voluta e progettata, nella versione visibile oggi, da Andrea Memmo, nobile veneziano. Nel 1775 Memmo iniziò un’opera di ristrutturazione della zona paludosa, e, insieme all’abate Domenico Cerato, professore d’architettura all’Università di Padova, donò alla piazza la configurazione attuale, caratterizzata dalla presenza di un’isola ellittica centrale, chiamata successivamente in suo onore Isola Memmia, circondata da una canaletta, alimentata dal canale Alicorno, sulle cui sponde si trova giustappunto un doppio anello di statue. Gli amanti della città, gli esperti patavini, risponderanno subito alla domanda, indicando il numero delle statue in 78, ma in realtà il disegno di Memmo ne aveva previste ben 88. Ma ne esistono altre due, cui pochi prestano particolare attenzione. Dovevano essere collocate lungo il perimetro ellittico, ma non si trovano lì. Se sono sfuggite all’occhio del turista, o se non ci si è soffermato neanche un padovano doc, ecco un primo indizio per individuarle. Dal centro dell’Isola le ritroverete dando uno sguardo verso la Loggia Amulea, quel palazzo dalla struttura neogotica, a due piani, con doppia loggia, che recupera elementi medievali, soprattutto nell’uso delle decorazioni architettoniche in terracotta, su modello degli edifici veneziani. Si trova lungo il liston (la pavimentazione) della Piazza del Prato al numero 102. Palazzo quattrocentesco, il cui nome deriva dal cardinale Antonio da Mula o Amuleo, che l’aveva utilizzato per creare un collegio, una vera e propria scuola per l’educazione dei giovani della nobiltà veneta. Subì un incendio però nel 1822, e il Comune di Padova ne deliberò la ricostruzione con il fronte di Loggia. Inizialmente l’edificio avrebbe dovuto articolarsi in caffè, sale da ballo, sale da gioco, teatri, ma in seguito si preferì destinarlo a uso militare. A fargli assumere questo stile particolare ci pensò Eugenio Maestri. Fu suo il progetto, intorno al 1860, che venne scelto per la sua riedificazione, fra gli altri, alcuni dei quali presentati dall’illustre architetto, ingegnere, paesaggista Giuseppe Jappelli, che aveva già realizzato, su volere di Antonio Pedrocchi, un altro dei luoghi simbolo della città, il caffè senza porte, il Caffè Pedrocchi. In precedenza, soprattutto nel ‘’600, il palazzo era utilizzato per ospitare grandi personalità quando giungevano in città, proprio per esibirsi in Prato della Valle, in occasione di spettacoli, circhi, corse di cavalli, per le quali la piazza si è sempre caratterizzata. Sulla parete a destra, accanto all’ingresso, si trova la tavola di marmo che porta inciso un sonetto del famoso poeta Gabriele D’Annunzio, il Vate, dedicato a Padova. Ma forse questo potrebbe essere un depistaggio e, a chi di curiosità è avvezzo, tutto ciò sarà già noto, meno quel che si ritroverà davanti al portico. Tra le arcate si ergono, infatti, due statue, che raffigurano due personaggi assai noti: si tratta di Dante Alighieri e Giotto di Bondone. Le statue furono create nel 1865 da Vincenzo Vela (1820-1891), famoso scultore all’epoca, di origini svizzere.

    211.tif

    Il Caffè Pedrocchi, in un’incisione tratta da La Patria, di Gustavo Strafforello.

    Nel 1864, in occasione delle celebrazioni dantesche, Vela aveva infatti ricevuto dal Municipio di Padova l’incarico di eseguire due statue di Dante e di Giotto, destinate al Prato della Valle. Va ricordato che le celebrazioni dantesche del 1865, a seicento anni dalla morte di Dante, furono a Firenze, da pochi mesi scelta come nuova capitale; la prima grande festa nazionale del Regno d’Italia (il Veneto fu annesso solo nel 1866). La statua di Giotto rappresenta l’artista con in mano i ferri del mestiere, la tavolozza, mentre il volto di Dante ha un’espressione corrucciata. Un tipo di iconografia già utilizzato nel modello del 1857 dello scultore toscano Enrico Pazzi, e che trova un significativo parallelo nella colossale statua del poeta, realizzata nello stesso anno, il 1864, a Firenze da Pazzi, su commissione di un comitato di cittadini. Un’espressione che sembrava essere allusiva della riflessione del poeta sui destini dell’Italia, interpretata come una sorta di severo monito, rimprovero verso il neonato Regno, che finì per suscitare accese polemiche destinate a coinvolgere anche il lavoro patavino di Vela. Considerazioni del tempo, ma qual è il legame fra i due rivoluzionari del Trecento e Padova? Son entrambi fiorentini, nati nello stesso periodo, creatori nella pittura e nella letteratura di mondi che hanno mutato la concezione del loro tempo, padri di un percorso che potremmo definire di salvezza dell’anima, che ognuno di loro, nelle opere principali, da una parte la Cappella degli Scrovegni, dall’altra la Divina Commedia, ha posto in essere in maniera nuova rispetto al tempo in cui ha vissuto. Un’epigrafe, in via San Francesco, superata la nota libreria Feltrinelli, subito dopo a sinistra, dove si trova Palazzo Romanin Jacur, di impianto trecentesco, ma completamente rifatto nell’800, denominato la Cà d’Oro, ricordando, infatti, gli edifici veneziani, afferma che vi abbia dimorato Dante nel 1306. Epigrafe che per la verità non ha alcun fondamento storico, circa il reale soggiorno in quel preciso palazzo ma che porta alla luce un altro aspetto, invece, assai probabile, che molti storici danno per certo: la presenza di Dante, nel periodo del suo esilio, a Padova. Mentre Giotto, la meravigliosa Cappella, commissionata da Enrico degli Scrovegni, finisce di affrescarla nel 1305.

    È tempo di fare un passo indietro. Di aprire il sipario su un’epoca storica, il Trecento, su due artisti che hanno cambiato tutto ciò che è venuto dopo di loro. Si potrebbe iniziare con C’era una volta… ma non è una fiaba quella che si vuole raccontare ma la realtà per mezzo di due voci straordinarie, due vite che incrociano i loro destini e che, a un certo punto nel loro personale percorso, restano di sicuro affascinate da… Padova!

    Giotto e Dante, l’inizio di una leggenda

    «Venne Giotto fiorentino il quale, nato in monti solitari, cominciò a disegnare» – così ne scriveva Leonardo da Vinci (1452-1519), facendo riferimento a quello che, già nell’epoca in cui visse Leonardo, si dava ormai per certo: ossia che fosse nato nel Mugel selvoso, e non a Firenze. Cosa per nulla scontata, visto che quando nacque Giotto non esistevano registri battesimali, e per anni gli storici hanno cercato prove e riprove su una, il Mugello, o l’altra tesi, Firenze. Del resto se la fama lo colse fin da subito e gli venne riconosciuta dai suoi contemporanei, così come numerose sono le sue opere universalmente note, è altrettanto vero che ci sono tanti, tantissimi dubbi sulla sua vita, molte sono le domande e i pezzi mancanti della parabola umana di un artista rivoluzionario. Quel che è certo, anzi certissimo, è che l’artista divenne, ben presto, un pittore richiestissimo che girava, in lungo e in largo, la Penisola, con un piccolo carro pieno di colori e pennelli. E di quei colori, il mito del colore giottesco, vi è traccia ancor oggi, basti pensare che quando nel 1920 un’impresa italiana decise di mettere sul mercato una linea di matite colorate, non fece che pensare al nome più appropriato e quella linea la chiamò Giotto, marchio italiano d’eccellenza che resta ancora oggi sinonimo di colore per i giovani creativi. I primi passi dell’artista sono a Firenze, in bottega, ma pochi anni dopo inizia a farsi strada su e giù per la Penisola. Viaggiava Giotto. Viaggiava e dipingeva e molte furono le città pronte ad accoglierlo, oltre che Firenze: Assisi, Milano, Napoli, la nostra Padova, Rimini, Roma. I suoi paesaggi, così diversi da quelli dei suoi predecessori e coevi, erano ispirati alla realtà, riproduzione fedele, fotografia emozionante di quel che gli si materializzava davanti agli occhi. E di questa straordinaria rottura con il passato, operata dal pictor eximius, tutti s’accorsero subito. Così ne scriveva Cennino Cennini (1370-1427), altro pittore italiano, noto per aver scritto in volgare all’inizio del xv secolo un trattato sulla pittura, il Libro dell’arte: «rimutò l’arte di greco in latino e la ridusse al moderno». Insomma un artista che appartiene alla storia dell’umanità, pur restando, come afferma lo storico e saggista Franco Cardini: «una gloria che profuma dei nostri fiori, delle nostre acque, del nostro olio, del nostro vino». Per quanto riguarda la sua nascita, su cui non si hanno documenti, viene comunemente dedotta da una testimonianza del cronista Giovanni Villani (1280-1348), mercante e storico fiorentino, che Antonio Pucci (1310-1388), poeta anch’egli fiorentino, riprese nel Centiloquio: «Maestro Giotto passò di questa vita a dì otto di gennaio 1336», all’età di settant’anni. Considerando che il calendario fiorentino¹ è un anno indietro rispetto al nostro, si deduce che Giotto morì nel 1337. Da cui si evince sia nato nel 1267, con uno scarto di al massimo uno o due anni. Resta solo una piccola frangia di critici che, invece, ipotizzerebbe la data di nascita nel 1276, in relazione alla cronologia che, nella seconda metà del xvi secolo, dette Vasari (1511-1574) nella biografia dedicata all’artista. Ma questa seconda possibilità risulterebbe inattendibile, considerato che le prime opere di Giotto sono datate 1290, data in cui doveva essere almeno ventenne.

    Ambrogio, Ambrogiotto o Angiolo, conosciuto semplicemente come Giotto, pittore e architetto, nacque, dunque, a Colle di Vespignano, attualmente a Vicchio del Mugello, da una famiglia di piccoli possidenti terrieri e solo in seguito si trasferì a Firenze. Su come si scoprì la sua particolare bravura nel disegno aleggiano una serie di credenze leggendarie: secondo Vasari Giotto era capace di disegnare una perfetta circonferenza senza bisogno del compasso, la famosissima O di Giotto; per alcuni, Cimabue (1240-1302), da cui finì a bottega, lo scoprì mentre disegnava delle pecore con del carbone su un sacco in campagna, aneddoto cui hanno dato credito sia Vasari, sia il grande scultore e orafo Lorenzo Ghiberti (1378-1455), nei suoi Commentari, così importanti per la storia dell’arte. Secondo Ghiberti, Cimabue, andando a Bologna, avrebbe incontrato fra i campi il giovanissimo Giotto, allora pastore delle greggi paterne, che, seduto a terra, disegnava dal vero una pecorella, tracciandone la figura su di una pietra. Ammirato, avrebbe chiesto il suo nome e si sarebbe fatto affidare il ragazzo da messer Bondone. Un anonimo racconta, invece, che le cose non andarono così, e che il padre del ragazzo l’avesse collocato in un laboratorio di filatura di lana a Firenze, per lavorare come apprendista. Ma Giotto, che vi si recava ogni giorno, si fermava, affascinato, alla bottega di Cimabue. Quando messer Bondone chiese notizie del figlio al lanaiolo cui l’aveva affidato, la sorpresa fu tanta. Sembra che il ragazzo non si facesse vedere da molto, molto tempo. Tempo che, in realtà, trascorreva tra i pittori di Cimabue, presso cui andò a bottega, e dove rimase alla sua scuola dal 1280 al 1290 circa. Nello studio fiorentino Giotto imparò quelli che sono i segreti del mestiere, che lui mise a frutto con grande talento. Fra questi divenne davvero abile nella preparazione della mistura dei colori, per la quale era necessario acquisire cognizioni di mineralogia e di botanica. E, certo, non si imparava solo ad avere un rapporto privilegiato con i colori, ma anche con tutta una serie di lavori manuali, come fare pennelli fini di coda di cavallo, o grossi grazie alle setole di maiale; preparare colle di pasta, di pesce, di calcina, e anche di formaggio, tutte utili affinché i colori aderissero alla tavola di legno su cui si dipingeva. Cimabue fece da mentore al giovane artista alle prime armi, forse fece approntare a lui le colle e la tavola, utili per la realizzazione di uno dei suoi capolavori: la grande Madonna (ora conservata nella Galleria degli Uffizi di Firenze). C’è un altro episodio leggendario che ha per protagonisti il maestro e il giovane apprendista, cui si potrebbe dare come titolo la mosca: pare che Giotto, per scherzare, avesse dipinto su una tavola dove stava lavorando Cimabue una mosca, e che fosse tanto reale, da condurre il suo maestro a cercare di scacciarla. A bottega Giotto imparò ad amare anche l’architettura. È in quegli anni, a vent’anni, nel 1287, che sposa Ciuta (Ricevuta) di Lapo del Pela, da cui ebbe quattro figlie e quattro figli, dei quali, uno, Francesco, divenne anch’egli pittore.

    Dante, dunque, era solo di due anni più grande di Giotto, e nacque a Firenze, nel 1265, nel sesto di porta San Piero, da una famiglia di piccola nobiltà guelfa, sotto la costellazione dei Gemelli. Il padre era Alighiero ii di Bellincione, la madre Bella degli Abati. Fra i gli antenati di Durante, questo il suo nome, un Cacciaguida, fatto cavaliere dall’imperatore Corrado iii, morto nella seconda crociata. Rimasto presto orfano, nonostante una condizione economica modesta raggiunse una raffinata cultura. Studiò grammatica, retorica e logica dai frati francescani di Santa Croce, filosofia dai domenicani di Santa Maria Novella. Influenzarono la sua formazione il notaio e retore Brunetto Latini e il poeta Guido Cavalcanti. Amico di Lapo Gianni e Gianni Alfano, con i quali partecipò al movimento del Dolce stil novo. La bottega di Cimabue sembra essere stata frequentata proprio dai giovani poeti che affermavano con questo nuovo stile di voler cantare l’amore e l’amicizia. In questo periodo Dante s’innamorò di Beatrice, che, secondo la tradizione, era la figlia di Folco Portinari, sposata a Simone de’ Bardi. La bellissima Beatrice morì di parto l’8 giugno 1290; sui sentimenti che provava per lei, Dante scrisse la Vita Nuova (1293-1294). Prima della morte della sua musa, il poeta, intorno al 1285, aveva sposato Gemma di Manetto Donati, da cui avrà tre figli, Iacopo, Pietro e Antonia; forse anche un quarto, Giovanni, citato in un documento del 1308.

    77.tif

    Giotto, La fuga in Egitto, Padova, Cappella degli Scrovegni.

    Giotto e Dante vivono dunque a Firenze, sono quasi coetanei, guelfi, si sposano a due anni di distanza, sono giovani e molto attivi nella vita sociale fiorentina, e non sono certo due personalità qualunque. I poeti del Dolce stil novo si stanno facendo notare, come i giovani artisti della bottega di Cimabue. I cronisti del

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