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Le indagini dei fratelli Corsaro
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Le indagini dei fratelli Corsaro

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3 romanzi in 1

Insoliti sospetti • Una famiglia diabolica • L’uomo sbagliato

Un uomo viene scarcerato dopo un periodo di ingiusta detenzione. Fabrizio Corsaro, cronista di nera, lo contatta per fargli raccontare la vicenda in un’intervista. Ma quando si presenta all’appuntamento, trova l’uomo assassinato. Gli inquirenti cominciano così a sospettare che il killer sia Fabrizio. E toccherà al fratello Roberto, avvocato penalista, cercare di tirarlo fuori dall’incubo. 
L’avvocato Roberto Corsaro ha accompagnato un’amica a riscuotere un’eredità. Le pratiche per la riscossione procedono senza intoppi, ma durante la notte, nell’albergo che ospita tutti i componenti della famiglia, uno di loro viene brutalmente assassinato. Fabrizio Corsaro, giornalista di cronaca e fratello di Roberto, viene inviato nel paesino per scrivere un articolo sul delitto.
Cosimo Pandolfo è in galera da anni, accusato di omicidio, ma si è sempre dichiarato innocente. Solo il figlio gli crede. E quando una testimone in punto di morte gli racconta una verità rimasta nascosta che potrebbe scagionare il padre, il ragazzo si rivolge ai fratelli Corsaro.

Un autore ai primi posti delle classifiche

La nuova voce del giallo italiano parla siciliano

«Una Palermo disincantata ritratta con ironia anche nei suoi lati più sinistri.»
Corriere della Sera

Salvo Toscano
È giornalista e autore dei romanzi Ultimo appello, L’enigma Barabba e Sangue del mio sangue. È stato semifinalista al Premio Scerbanenco e finalista al Premio Zocca Giovani. Con la Newton Compton ha pubblicato Insoliti sospetti, Falsa testimonianza, Una famiglia diabolica e L'uomo sbagliato. È stato tradotto nei Paesi di lingua inglese.
LanguageItaliano
Release dateFeb 6, 2019
ISBN9788822729880
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    Le indagini dei fratelli Corsaro - Salvo Toscano

    Indice

    Colophon

    Insoliti sospetti

    Dedica

    Nota dell'autore

    PARTE PRIMA. Delitto

    Capitolo 1. Racconto di Fabrizio Corsaro

    Capitolo 2. Racconto di Roberto Corsaro

    Capitolo 3. Racconto di Fabrizio Corsaro

    Capitolo 4

    Capitolo 5. Racconto di Roberto Corsaro

    Capitolo 6. Racconto di Fabrizio Corsaro

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    PARTE SECONDA. Castigo

    Capitolo 9. Racconto di Roberto Corsaro

    Capitolo 10

    Capitolo 11. Racconto di Fabrizio Corsaro

    Capitolo 12. Racconto di Roberto Corsaro

    Capitolo 13

    Capitolo 14. Racconto di Fabrizio Corsaro

    Capitolo 15. Racconto di Roberto Corsaro

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    PARTE TERZA. Verità

    Capitolo 18. Racconto di Roberto Corsaro

    Capitolo 19. Racconto di Fabrizio Corsaro

    Capitolo 20. Racconto di Roberto Corsaro

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23. Racconto di Fabrizio Corsaro

    Capitolo 24. Racconto di Roberto Corsaro

    Capitolo 25. Racconto di Fabrizio Corsaro

    Epilogo. Racconto di Roberto Corsaro

    Ringraziamenti

    Una famiglia diabolica

    PRIMA PARTE. ZIA FIFÌ

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    SECONDA PARTE. ZIA ROSETTA

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    TERZA PARTE. VERITÀ

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Epilogo

    Ringraziamenti

    L'uomo sbagliato

    PARTE PRIMA. I semi del male

    Capitolo 1. Racconto di Fabrizio Corsaro

    Capitolo 2

    Capitolo 3. Racconto di Roberto Corsaro

    Capitolo 4. Racconto di Fabrizio Corsaro

    Capitolo 5

    Capitolo 6. Racconto di Roberto Corsaro

    Capitolo 7

    Capitolo 8. Racconto di Fabrizio Corsaro

    Capitolo 9. Racconto di Roberto Corsaro

    Capitolo 10. Racconto di Fabrizio Corsaro

    Capitolo 11. Racconto di Roberto Corsaro

    PARTE SECONDA. Il soldato e la principessa

    Capitolo 12. Racconto di Fabrizio Corsaro

    Capitolo 13

    Capitolo 14. Racconto di Roberto Corsaro

    Capitolo 15. Racconto di Fabrizio Corsaro

    Capitolo 16. Racconto di Roberto Corsaro

    Capitolo 17. Racconto di Fabrizio Corsaro

    Capitolo 18. Racconto di Roberto Corsaro

    PARTE TERZA. I vivi e i morti

    Capitolo 19. Racconto di Fabrizio Corsaro

    Capitolo 20. Racconto di Roberto Corsaro

    Capitolo 21

    Capitolo 22. Racconto di Fabrizio Corsaro

    Capitolo 23. Racconto di Roberto Corsaro

    Capitolo 24. Racconto di Fabrizio Corsaro

    Capitolo 25. Racconto di Roberto Corsaro

    Capitolo 26

    Capitolo 27. Racconto di Fabrizio Corsaro

    Capitolo 28. Racconto di Roberto Corsaro

    Capitolo 29

    Epilogo. Racconto di Fabrizio Corsaro

    Nota dell’autore e ringraziamenti

    en

    2203

    Prima edizione ebook: marzo 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma

    ISBN 978-88-227-2988-0

    www.newtoncompton.com

    Salvo Toscano

    Insoliti sospetti

    omino

    Newton Compton editori

    A Niccolò, Michele e Marcella

    «Sentinella, quanto resta della notte?»

    Isaia, 21,11

    nota dell’autore

    Questo romanzo è un’opera di fantasia. I fatti e i personaggi raccontati sono immaginari. Le descrizioni del carcere dell’Ucciardone non hanno ambizioni di reportage e si basano sulla documentazione consultabile rielaborata a fini romanzeschi, trasfigurando in una struttura realmente esistente le note e drammatiche criticità del sistema carcerario italiano.

    PARTE prima

    Delitto

    Such a mean old man.

    Mean Mr Mustard, The Beatles

    (Lennon & Mc Cartney), 1969

    1. Racconto di Fabrizio Corsaro

    Li guardo e mi vedo riflesso come in uno specchio. Hanno tutti la mia stessa faccia, l’aria spenta, il capo pesante affossato nelle spalle. Si aggirano come fiere svogliate, rinchiuse in gabbia da troppo per conservare ancora l’istinto predatorio perduto. Se davvero esiste il purgatorio, deve essere stracolmo di gente ridotta così. Ogni tanto ci guardiamo in faccia, scorgendo nei nostri occhi i medesimi segni di sconfitta. Qualcuno si accende una sigaretta, un altro gioca col cellulare, i più nervosi camminano disegnando traiettorie da neurodeliri. Tutti e otto – sì perché li ho contati e con me fanno otto disperati – rimaniamo lì, sospesi fuori dallo spazio e dal tempo, a consultare compulsivamente l’orologio, chiedendoci quanto ancora ci toccherà aspettare in questo immaginario recinto di cinque metri per due, che è la porzione di marciapiede di via Ruggiero Settimo, davanti all’ingresso di Zara.

    È un terribile sabato pomeriggio. E noi reietti – tutti maschi, ça va sans dire – aspettiamo mogli, compagne e fidanzate, risucchiate dentro quel palazzo in cui verosimilmente intervengono fenomeni misteriosi tipo Triangolo delle Bermude, con donne che scompaiono dai radar come aerei, per lassi di tempo incommensurabili.

    Osservo con mestizia i miei compagni di sventura, mentre mi passano e spassano davanti ragazzine in tiro con minigonne minimal e zeppe da trampolieri, e mi domando come mi sia potuto accadere tutto questo. Inseguo nel labirinto della memoria l’immagine di ciò che ero fino a un paio di anni fa e nella bocca dello stomaco mi si spalanca un precipizio tipo Fossa delle Marianne. Maria – dopo trenta minuti trenta – riemerge dalla fortezza dello shopping low cost con in mano una busta microscopica contente roba che a un maschio di media intelligenza avrebbe richiesto una permanenza in negozio di non più di centottanta secondi. Afflitta, mi comunica che, come sempre, non c’era niente che le stava bene. A quel punto mi produco in un sorriso forzato, le offro il braccio come un anziano che si prepara alla gara di liscio del sabato sera e, senza dire una parola, mi avvio in direzione Politeama col passo brioso di uno degli ospiti di Tom Hanks mentre percorre il miglio verde.

    Sì, erano tempi duri, devo ammetterlo. Il primo anno con Maria era stato quasi perfetto. Quando vivi per sette lustri come un eterno Peter Pan, cambiando donne e mutande quasi con la stessa frequenza, innamorarsi davvero è proprio una grande cosa. O almeno, lo era stato per me. Maria Librizzi mi sembrava diversa da ogni donna in cui mi fossi imbattuto nei trentacinque anni precedenti. E, a onor del vero, lo era. Aveva carattere. Sapeva ascoltare, ma riusciva anche a dire le cose che andavano dette, alle volte con grazia, altre con una schiettezza cameratesca che avevo imparato ad amare. E tutte le piccole e grandi rinunce che l’inedita esperienza della convivenza comportava, per almeno un anno mi erano pesate poco o niente.

    Accanto a Maria mi sentivo davvero una persona completa. E certi censurabili eccessi della mia vita precedente non mi mancavano, affatto. Anzi. Una mattina di primavera, la ricordo bene, m’ero svegliato ritrovandomela addosso. Dormiva come una bambina, emettendo un impercettibile rantolo. Il vecchio Fabrizio Corsaro, in una situazione del genere, avrebbe svegliato l’occasionale compagna di letto per dare il giusto sfogo alla puntuale e gloriosa erezione mattutina. O, al peggio, per sollecitare l’intrusa a uscire di scena in tempi ragionevoli.

    Quel giorno, invece, ero rimasto immobile a fissarla per quasi un’ora, come per imparare a memoria ogni centimetro della sua faccia. E sbirciando fuori dalla finestra il cielo azzurro e dolcissimo sopra la cupola verde della cattedrale di Palermo, avevo concluso che per vivere da coglione senza sentirti un coglione devi avere sedici anni. Ma se ne hai venti di più è forse arrivata l’ora di vivere da uomo. Scoprendo, magari, che la cosa non è poi tanto male.

    Il primo anno, insomma, era andato più che bene. Mi piaceva fare le cose insieme a lei. Certo, la sua passione politica da inguaribile rivoluzionaria non mi aveva contagiato, ma l’amore aveva tanto mitigato il mio cinismo da farmi guardare a questo suo aspetto con una certa tolleranza.

    Anche il mio lavoro di cronista, che col tempo aveva cominciato ad annoiarmi, mi sembrava pesare meno. E quando uscivo dal giornale, il pensiero di trovare qualcuno ad aspettarmi mi ripagava anche dei pomeriggi più insulsi. Maria mi amava, non si appoggiava a me per sostenere la leggerezza di un’esistenza vuota, non cercava nella nostra storia il riscatto di errori passati, non si annullava sull’altare dell’amore, amava dare più che ricevere nel rapporto. Insomma, era una compagna straordinaria, per come la vedevo io.

    Amavo persino certi fine settimana bucolici, in cui salivamo su al suo paesello madonita dove l’avevo conosciuta, nella casa in cui era rimasto ad abitare da solo quello svitato di suo zio Valentino Ambrosetti, un gigante piemontese che dedicava il suo tempo all’elaborazione di strampalate teorie del complotto, alla preparazione e al consumo di micidiali liquori e di quantità industriali di bagnacauda, e alla cura dei suoi undici cani meticci battezzati coi nomi dei giocatori del Grande Torino.

    Tutto filava liscio. Finché qualcosa cominciò a rompersi.

    Il primo campanello d’allarme suonò una sera d’ottobre.

    Io e Maria non litigavamo quasi mai. Un miracolo, considerato che entrambi potevamo vantare un pessimo carattere. Eppure, al netto di qualche schermaglia sul filo del sarcasmo, per un anno buono casa nostra era scampata allo scontro. Ad accendere la miccia ci pensò un trittico di amici.

    Pippo Nocera, mio collega alla cronaca nera, Marcello Mancuso, mio compagno di liceo – eterno notaio mancato a dispetto del blasone di famiglia – e Salvo Morgano, sempreverde punta di diamante della nostra squadra di calcetto, malgrado la perenne rotondità addominale. Quella sera avevano tanto insistito per il pokerino. Ho sempre trovato il gioco d’azzardo una pratica noiosa, classificandolo tra i succedanei scadenti del sesso, ma quella sera, per la prima volta dopo più di un anno, avevo acconsentito. Primo errore. Il secondo, ben più marchiano, lo avevo commesso quando Maria mi aveva comunicato di non sentirsi bene.

    «Allora, guarda, per non lasciarti sola dico ai ragazzi che ci vediamo qua».

    Lei non aveva battuto ciglio. E in quel silenzio avrei dovuto saper leggere la prima folata della valanga. Ma mi ci sarebbe voluta – e Dio solo sa quanto mi costi ammetterlo – l’esperienza di mio fratello, che è sposato dai tempi delle elementari, per capire che razza di maldestro autogol stavo mettendo a segno. Non lo capii.

    Gli amici si presentarono armati delle peggiori intenzioni. Il soggiorno di casa mia assunse in una manciata di minuti l’aspetto di una bisca in zona porto. Il whisky andò via come acqua minerale, il posacenere straripò più volte di cicche, l’aria nella stanza si infestò di un condensato di catrame, nicotina e monossido di carbonio da stroncare pure il cowboy del Marlboro Country. Insomma, una serata coi fiocchi. Che si concluse intorno alle due e mezza, quando affidai a Salvo, l’unico non completamente ubriaco, le sorti degli altri due ospiti che nell’ingresso si attardavano a disquisire di massimi sistemi, cercando di trovare una risposta all’impegnativo quesito se fosse più forte la Juventus di Trapattoni o il Milan di Sacchi.

    In camera da letto mi mossi con passo felpato da scassinatore. Ma notai subito che Maria non dormiva.

    «Ti senti ancora male?».

    «Hai aperto di là? C’è una puzza da fare schifo», rispose lei senza nemmeno guardarmi.

    «Sì, lo sai com’è, i ragazzi…».

    «Hai aperto, sì o no?».

    «Sì, certo», mentii. Volevo solo chiuderla lì. Non mi piaceva quel tono. E poi Laphroaig e sigarette mi avevano scatenato un mal di testa devastante.

    Mi infilai in mutande sotto le coperte.

    «Che fai?», intimò lei, sempre più incazzata.

    «A te che cosa ti sembra?», mi scappò.

    «Puzzi anche tu di sigaretta. Vatti a lavare, almeno».

    Ecco, fu a quel punto che il pensiero cominciò a prendere corpo.

    Mi alzai senza obiettare nulla e filai in bagno. Dove mi raggiunse la voce di lei.

    «E spero che tu abbia messo ordine di là, perché la donna di servizio ai tuoi amici io di certo non la faccio».

    Mi guardai allo specchio incredulo. Ero io il tizio con le tempie imbiancate e qualche filo candido che si insinuava tra la peluria del petto? Sì, ero proprio io. Fabrizio Corsaro. Mi sciacquai la faccia imponendomi il silenzio. Il pensiero era sempre più nitido.

    Rientrai in camera da letto. Lei non aspettava altro che una mia risposta. Non la ebbe.

    Scivolai sotto le coperte muto, mentre l’alcol mi martellava le tempie come un pistone.

    «Solo il poker ci mancava», sibilò lei voltandosi dall’altra parte.

    Sì, lo so. La più banale e scontata delle discussioni tra conviventi. Roba da archiviare senza battere ciglio. E invece dopo quella chiosa, sbirciai nella sua direzione. E il pensiero fu chiaro.

    Anche quel lato del letto un tempo non lontano era appartenuto al sottoscritto. E quella notte mi ricordai per la prima volta di quanto potesse essere comodo.

    2. Racconto di Roberto Corsaro

    Il giorno in cui ti accorgi di essere giunto sulla soglia degli anta si presenta subdolo, celato sotto sembianze mendaci e traditrici. A me, per esempio, il ferale annuncio lo recapitò senza preavviso mia figlia Rebecca. Le avevo fatto il bagno e mi stavo dedicando alla delicata pratica dell’asciugatura dei suoi bei capelli corvini. È tra i piccoli gesti da padre che preferisco, perché richiede cura e attenzione: devi evitare di scottarle la cute col getto d’aria calda del phon e non puoi distrarti andando appresso ai tuoi pensieri.

    Accarezzavo la testa della mia bambina, mentre Monica di là faceva cenare Giacomo, imponendogli con fatica dieci minuti di stop dal suo inarrestabile peregrinare. Assaporavo con gusto quel momento idilliaco, tanto più che era il primo giorno, dopo una settimana di strazio, in cui la mia crudele sciatalgia non mi dava il tormento. Il frastuono dell’asciugacapelli soffocò le parole di Rebecca, che dovettero essere ripetute più volte prima di giungere al destinatario. Spensi per un attimo il phon quando mi accorsi che la bambina cercava di dirmi qualcosa.

    «Dimmi, amore mio».

    «Guarda che peli, papà», gridò lei, tutta divertita indicandomi la faccia.

    «Quali peli, gioia?».

    «Questi».

    E mi ficcò a tradimento un dito dentro l’orecchio sinistro.

    Spiazzato, mi avvicinai allo specchio per capire a cosa si riferisse.

    E scorsi, mettendolo a fuoco per la prima volta, l’orrendo cespuglio che mi era cresciuto dentro il padiglione auricolare. Uno spettacolo da creatura tolkieniana. Quando era spuntato questo mostro nauseabondo? E quali altre abominevoli mutazioni genetiche stavano sconquassando il mio corpo?

    Rebecca ridacchiava tutta giuliva.

    «Sembri un gorilla, papà».

    Io rimasi inebetito a guardarmi allo specchio fin quando mia moglie non si presentò in bagno, irrompendo inquietante come Jack Nicholson con l’ascia in mano, e mi riportò alla realtà con una feroce cazziata delle sue perché avevo lasciato la bambina con i capelli ancora bagnati.

    Nei miei primi quasi quarant’anni non avevo mai dedicato particolare attenzione al mio aspetto. Posso ben dire, anzi, di essermene sempre disinteressato. Una volta sono persino andato in tribunale con due scarpe diverse, tanto per dare l’idea della mia confidenza con lo specchio. Ma dopo quel giorno in bagno, qualcosa di curioso si attivò nella mia mente, sottraendola ai suoi consueti passatempi, cioè il cinema, la lirica e l’ipocondria. Per la prima volta da che avevo memoria, avevo preso a studiarmi allo specchio, cerchiando con un ideale segno di matita blu le piccole e grandi mutazioni che nel mio fisico il tempo stava consumando, approfittando della mia distrazione. E ne trovavo a bizzeffe.

    Monica mi colse sul fatto per la prima volta con una delle sue incursioni silenziose da giungla vietnamita. Si materializzò in bagno con passo felpato e mi trovò con la forbicina in mano alle prese con certi invadenti ciuffi di peluria che debordavano dalle mie narici.

    «Ma che fai?», domandò scrutandomi perplessa, come se nella stanza avesse trovato un brontosauro.

    Non risposi per evitare di sfregiarmi il labbro superiore. Mia moglie scosse il capo con aria di compatimento e si dileguò senza commentare oltre.

    La mia crociata contro l’invecchiamento era appena cominciata. Le schermaglie contro il pelo superfluo che intorno ai quarant’anni imperversa come gramigna negli orifizi maschili furono solo l’inizio. La mia psicosi nuova di zecca individuò presto un bersaglio più grosso e stimolante, un avversario all’apparenza invincibile, al quale in anni di ignavia era stato concesso un vantaggio che appariva incolmabile. La panza.

    Mi misi a dieta e presi a massacrarmi di addominali manco avessi dovuto prepararmi per le olimpiadi. Monica dapprima mi rifilò qualche commento velenoso, poi, quando si rese conto che tutta la faccenda portava grande giovamento alla mia sciatalgia, accettò la cosa senza protestare più di tanto. Forse un’altra donna si sarebbe fatta venire strane idee in testa, sospettando amanti e redivive ambizioni da galletto siculo. Ma Monica mi conosceva a memoria e non parve mai sfiorata da quel genere di pensiero. Le sue sinapsi, del resto, erano già fin troppo consumate dal conflitto senza quartiere che quotidianamente combatteva con Giacomo, che sembrava fosse stato messo al mondo con una missione ben precisa: farla definitivamente impazzire. Un traguardo verso il quale mia moglie era, peraltro, già ben avviata di suo.

    In quella primavera, insomma, la mia vita procedeva scandita dal ritmo indemoniato della mia crociata contro l’adipe tra alti – come quel pomeriggio allo studio in cui la mia collega Valeria per la prima volta mi osservò con attenzione, accorgendosi dei miei progressi, e mi chiese quanti chili avessi perso – e bassi – come quel giorno che, aspettando Rebecca all’uscita dell’asilo, una mamma obesa e particolarmente logorroica mi attaccò un bottone infinito, raccontandomi i tre quarti della sua vita, con dettagli ai limiti del referto clinico sugli ultimi esami delle urine di suo marito. E quando, per un moto di cristiana misericordia, le avevo detto che anch’io in passato avevo avuto i miei acciacchi, le mie orecchie avevano udito proferire, dal labbro sporgente della balenottera ossigenata, le seguenti parole: «Eh, che vuole fare, avvocato. Quando voi uomini arrivate ai quarantacinque, comincia la discesa». La tentazione di abbatterla fu forte.

    Per il resto, quando i bambini davano tregua, e Monica dormiva stremata, mi dedicavo a qualche visione notturna delle mie amate pellicole: molto Hitchcock, qualche Kubrick e varie ed eventuali. In quei giorni di aprile, ad esempio, mi godevo una raccolta di grandi film con Dustin Hoffman che qualche tempo prima un quotidiano aveva venduto in allegato. E ricordo abbastanza nitidamente la notte in cui rividi Il maratoneta, in cui l’ottimo Dustin mi ricorda sempre mio fratello Fabrizio: sarà per quei capelli, o per la voce beffarda di Giannini che lo doppia al posto di Amendola e me lo fa sembrare diverso, o per quell’aria fuori posto che conserva per tutto il tempo, anche quando Lawrence Olivier gli maciulla il dente. Pensai a Fabrizio, al fatto che non lo sentivo da settimane e che avrei dovuto chiamarlo. Ma, proprio come Babe-Hoffman quando sgambetta all’inizio del film, non potevo certo immaginare quale macigno si stesse per abbattere sulle nostre esistenze da lì a meno di ventiquattro ore.

    3. Racconto di Fabrizio Corsaro

    La pallina sul piano inclinato scorreva implacabile. Il menage con Maria mi stava sempre più stretto, come il vestito ogni giorno più corto della mamma sedicenne in 4 marzo 1943 di Lucio Dalla, Dio l’abbia in gloria. Erano pur sempre passati due anni e nessuno alla vigilia avrebbe scommesso cento lire sulla mia capacità di resistere così a lungo con la stessa donna, sotto lo stesso tetto e in un inedito regime di fedeltà da monaco zen.

    A volte mi fermavo, nei rari momenti di solitudine che mi erano rimasti, per sforzarmi di capire cosa fosse cambiato rispetto ai primi tempi. Era un esercizio vano: non trovavo mai una risposta. Finché non misi a fuoco l’unica possibile. Ero cambiato io. Un’immagine rivelatrice me la fornì un librone di Stephen King che mi tenne compagnia per qualche settimana in quella primavera. Raccontava di un tizio che viaggiava nel tempo per fermare l’assassino di Kennedy. Ma ogni volta che il protagonista tentava di cambiare il corso della storia, qualcosa si opponeva, come se il futuro non volesse essere modificato e si ribellasse. Ecco, in quei mesi, ebbi l’impressione che il vecchio me stesse opponendo resistenza, si stesse insomma mettendo di traverso per non farsi trasformare in qualcos’altro.

    A complicare le cose ci si era messa la tempesta ormonale senile dello zio di Maria, Valentino, che aveva perso la testa per un tizio ben più giovane di lui. Si trattava di un quarantacinquenne palermitano che non mi finiva di convincere. A partire già dal nome. Si faceva chiamare Pierre, ma sulla carta di identità doveva per forza aver scritto Pietro, se non di peggio. A disturbarmi di lui non erano tanto certi eccessi da checca ridanciana con i capelli tinti, e nemmeno la tendenza a parlare troppo per lo più di argomenti insulsi, e nemmeno l’ignoranza grossolana, a tratti persino simpatica, che gli faceva scappare dalla bocca frasi del tipo ho l’ulcera diagonale e nemmeno quella costante e persistente fragranza di cipolla che misteriosamente lo avvolgeva. C’era dell’altro a turbarmi nell’individuo con cui mi capitava di condividere certi fine settimana a Castelferro e che spesso e volentieri vedevo materializzare pure a casa mia al fianco del gigante buono piemontese. In primis, non avevo mai capito cosa facesse per vivere. E questo – sia che il mio interlocutore abbia le ragnatele nelle tasche sia che usi le carte da cento euro per accendersi il sigaro – è qualcosa della quale la mia mamma mi ha insegnato a diffidare. In secundis, Pierre mi sembrava esercitare sul vecchio Ambrosetti un’influenza non esattamente positiva. Lo teneva in pugno, un po’ come certe femmine fatali, che si cucinano a fuoco lento vecchi satiri impasticcati di viagra per poi lasciarli in mutande, e non certo per scoparseli. Non mi piaceva. E non lo dico adesso, dopo tutto quello che è successo, perché sì, sarebbe troppo facile, troppo semplice e troppo comodo, come dice qualche volta mio fratello Roberto citando con pose teatrali l’immenso Saro Urzì in Sedotta e abbandonata. In tempi non sospetti ne avevo parlato anche a Maria, che aveva liquidato infastidita le mie perplessità, appioppandomi le sue consuete e ingiustificate accuse di velata omofobia.

    «Non lo vedi che zio Valentino con lui è contento? Stanno così bene insieme, prova a superare i tuoi pregiudizi».

    «Ma quali pregiudizi? A me quello non piace, senza pregiudizi».

    «Perché non gli perdoni di vivere la sua sessualità in un modo diverso dal tuo».

    «Cazzate, Maria. Non mi venire a fare la stronza blu».

    «Ma che cazzo stai farneticando, Fabrì?».

    Intendevo dire che Maria si comportava come quelle scrittrici femministe che sparano cazzate dalla mattina alla sera e, quando qualcuno glielo fa notare, gridano alla misoginia e alla discriminazione della donna. Proprio come i sequestratori neri di Spaghetti House, che prendevano in ostaggio dei camerieri italiani a Londra. Uno di loro gli aveva dato dello stronzo e quelli lo avevano apostrofato come razzista. E a quel punto, il solito Manfredi, vecchia volpe, gli diceva la battuta migliore del film: non è che sei stronzo perché sei nero. Sei stronzo perché sei stronzo. E se eri blu, eri uno stronzo blu.

    Era questo che intendevo dire, ma non lo spiegai a Maria: non avevo più voglia di discutere. Perché ero stanco di parole inutili. E perché in fondo al cuore, forse, di Pierre – o Pietro, o Totuccio, o come minchia si chiamasse lui – me ne fotteva meno di niente.

    «Va bene, scusa, lasciamo perdere. Però a me non piace. Mettilo agli atti, un giorno mi darai ragione», tagliai corto. Non potevo certo avere idea di quanto fossi nel giusto.

    Diventavo sempre più nervoso e irritabile. E il giornale ci metteva del suo. L’infame crisi internazionale ci aveva investiti in pieno e l’editore aveva colto la palla al balzo per gettare via tutta la zavorra. Una strage. Dopo una serrata trattativa sindacale portata avanti dal comitato di redazione, un trittico di colleghi a cui una persona sana di mente non delegherebbe nemmeno il compito di buttare l’immondizia, era scattato l’esodo dovuto ai prepensionamenti. Nel giro di tre mesi avevamo perduto sette colleghi, una Caporetto. Chi se ne andava, salutava i superstiti con l’aria raggiante di chi zompa sull’ultima scialuppa mentre gli altri disperati rimangono sul ponte ad aspettare il naufragio intonando inni sacri.

    La redazione si era svuotata. Continuava a sembrare uno zoo, ma uno zoo in cui la mucca pazza o l’aviaria o un’altra pandemia animale avesse sterminato la metà delle bestie. Lasciando le altre malconce e ammutolite. I carichi di lavoro, infatti, si erano allineati agli standard dell’Inghilterra dickensiana, ci mancavano solo le frustate. E a tutti era passata la voglia di chiacchierare. Si stava lì, a zappare sui computer illuminati da quella luce al neon tipo nosocomio per lungodegenti, aspettando con lo spirito del minatore la fine della giornata lavorativa.

    L’uscita di scena di alcuni colleghi, compagni di lavoro da una vita, mi era pesata nei primi tempi. Osservare quel trippone di Totò Favuzza addormentarsi davanti al computer puntualmente intorno alle quindici e trenta era una delle poche certezze della mia vita disordinata nell’era pre-Maria. Così come lo sguardo catatonico di Franco, il segretario di redazione, che fissava imbambolato pagina 101 del Televideo, mentre revocava spietato giorni liberi a destra e manca. Retaggi d’un’era perduta, ormai. Eravamo davvero rimasti in quattro gatti. Con Pippo Nocera ogni tanto rivangavamo i bei tempi andati e sembravamo due reduci del Vietnam disadattati, scappati da un film americano fine anni Settanta.

    Il terzo nerista, Corrado Palma, nel Risiko dei prepensionamenti aveva guadagnato i gradi di caposervizio, lasciandoci in due: troppo pochi. E così, aveva fatto il suo ingresso nel club Vittorio Spampinato, un ragazzotto poco più che trentenne, ultimo miracolato assunto dal giornale prima della crisi. Spampinato era uno di quegli stronzi per diritto di nascita che il sottoscritto non ha mai sopportato. Non perché fosse un presuntuoso – anch’io lo sono sempre stato – ma perché la sua presunzione affondava le radici in un nulla cosmico, umano e professionale. Raccomandato da certi parenti massoni del paesello marinaro suo, aveva acciuffato l’assunzione scalzando una piccola schiera di ottimi colleghi precari da una vita, che con pazienza e fede aspettavano il posto come gli ebrei il messia e sulle cui legittime aspettative quel rimbambito di Tucci, il nostro eterno direttore, aveva orinato con disinvoltura. Abile leccaculo, Spampinato s’era conquistato la fiducia dei capi e le antipatie dei colleghi più smaliziati con impressionante velocità. Quel suo ciuffo biondo da cantante degli anni Ottanta, gli occhi sottili di un celeste liquido, la erre blesa e vagamente viscida: tutto in lui sembrava costruito con meticolosa sapienza per produrre repulsione.

    Mi tocca tirare in ballo l’indisponente individuo, perché la drammatica catena di eventi che partì da quella primavera, prese le mosse in qualche modo da lui. O almeno, così mi piace raccontare. In realtà, tutto fu scatenato dalla mia frustrazione del momento, mi tocca dire adesso se mi guardo indietro con una ritrovata lucidità.

    Il ragazzotto si dava parecchio da fare alla nera. Io e Pippo eravamo stanchi e svogliati e lui si infilava alla grande negli spazi che lasciavamo. Non mancava di iniziativa e con le fonti se la cavava bene. Da principio lo lasciai nel suo brodo, ma dopo qualche settimana, per ammazzare la noia, mi dissi che era da troppo tempo che non puntavo qualcuno. E mi misi all’opera.

    Prima, tanto per gradire, ci giocai a tennis. Il pischello si era dato certe arie, dipingendosi come il figlio segreto di Roger Federer e Serena Williams. Lo invitai per una partitina, un martedì mattina di sole. All’inizio gli lasciai un po’ di spago, permettendogli di prendere il largo. Poi cominciai a giocare sul serio, demolendolo. Lasciai il campo appagato come un tredicenne dopo la prima scopata.

    Era solo l’inizio, ripeteva il bambino dispettoso che governava il mio cervello bacato. Avevo notato che una bella collaboratrice, Gloria Benincasa, ronzava attorno a Spampinato rivolgendogli occhiate palesemente precoito. Da troppo tempo non corteggiavo una donna, ma ricordavo ancora bene le basi del mestiere di femminaro. Puntai la fanciulla, una venticinquenne laureanda in scienze delle comunicazioni con begli occhi scuri e scarsa confidenza con il congiuntivo, facendola deragliare dall’orbita del biondo Vittorio nel giro di quarantotto ore. Lui, che sulla terra rossa aveva incassato con disinvolta signorilità, stavolta mi parve accusare il colpo. Il bambino dispettoso che governava i miei emisferi cerebrali se la godette parecchio. L’unico problema fu liquidare la fanciulla evitando di mettere le corna a Maria. Me la cavai con un drink, riempiendola di complimenti ma spiegandole, rammaricato, che i miei gloriosi tempi da seduttore erano terminati ora che avevo trovato l’amore. Sapevo bene che un’uscita del genere avrebbe alimentato ulteriormente il desiderio in lei, ma non me ne rammaricai più di tanto, complici la sua seconda di reggiseno e un’ombra di cellulite che si indovinava dai jeans troppo stretti.

    «È raro in questo lavoro trovare persone serie come te», cinguettò ciucciando il suo spritz.

    «Ma no, c’è qualche brava persona persino tra i giornalisti. Vittorio Spampinato, per esempio…».

    Lei mi parve arrossire. Mollò il drink, si produsse in una smorfia perplessa e poi disse quello che volevo dicesse: «Mah, lui veramente mi mangia con gli occhi. Certo, non è sposato o fidanzato, quindi non c’è niente di male. Però non è il mio tipo, è troppo ragazzino. A me piacciono gli uomini. Come te».

    «Ti mangia con gli occhi, dici? Sicura? E pensare che…».

    «Che cosa?».

    «Niente, certe serpi… Nel nostro mestiere ci sono delle malelingue, guarda. Non ti fidare mai».

    «Ma perché?».

    «Perché io avevo sentito dire che Vittorio era gay, pensa».

    Gloria spalancò gli occhioni. Molto belli, devo ammetterlo.

    «Ma no, dai, non me lo dire!».

    «Non ti sto dicendo niente. È una cosa che raccontano in giro, non è che io ci credo… Per la verità non me ne importa niente. Saranno pure fatti suoi, no?».

    «Ma sai che ora che me lo dici, sto pensando a certi suoi atteggiamenti… Pazzesco, non avevo capito niente».

    «Dai, parliamo d’altro, non sono tipo a cui piace fare pettegolezzi sui colleghi».

    «Sei proprio una mosca bianca, Corsaro», commentò lei accarezzandomi la mano.

    Il moccioso dispettoso sghignazzava di gusto.

    Esaurito il repertorio di dispetti da scuola media, spostai sul lavoro il fronte del mio conflitto termonucleare totale contro Spampinato. Da tempo scrivevo con la mano sinistra e dedicavo il meglio del mio tempo al Tetris o ai social network. Decisi che era ora di rimettersi all’opera. E ci presi gusto. Infilai un filotto di notizie una meglio dell’altra: una rissa all’ospedale tra due sedicenti padri dello stesso neonato; un rapinatore gentiluomo che offrendosi di portare i sacchetti della spesa alle signore fino all’ascensore, lì si faceva consegnare, con modi garbati da professore oxfordiano, gioielli e contanti; una svolta nelle indagini sull’omicidio di una prostituta moldava che era salito alla ribalta, per poi cadere puntualmente nel dimenticatoio. Insomma, andavo forte. E, da bravo minchia, volli strafare.

    Qualche settimana prima, l’ottimo Nicola Galanti, il nostro sempreverde cronista di giudiziaria, aveva scritto di un risarcimento per ingiusta detenzione in favore di un tale Onofrio Palillo, che sei anni prima era stato al centro di un clamoroso errore giudiziario: cinquantenne originario dell’agrigentino ma palermitano d’adozione, era finito dentro con l’accusa di omicidio. Due tizi avevano fatto fuori un benzinaio al termine di una rapina, roba da Alacazzobama, non proprio classico repertorio siculo. Palillo ebbe la sventura di possedere un’automobile simile a quella dei banditi. E di somigliare, stando almeno alla prima testimonianza di una certa Concetta Sferlazzo, all’epoca ottantunenne e affetta da cataratta, a uno di loro, «quello con la pistola». Era rimasto sei mesi in galera, fino a quando non era stata accertata la sua totale estraneità ai fatti, peraltro sin dall’inizio facilmente verificabile. La perizia balistica aveva dimostrato che a sparare era stato un uomo alto almeno quindici centimetri più di Palillo e un paio di testimoni, magari non affidabilissimi, giurarono di averlo visto quel pomeriggio in tutt’altra zona della Sicilia. I responsabili dell’omicidio non erano mai stati trovati.

    La notizia era finita in taglio basso, trenta righe mal titolate, sintomo dello stato confusionale in cui versava la cronaca nella gestione di Corrado Palma. Io ci rimuginai un po’, col ritrovato fiuto del cronista. E pensai che se ne poteva tirare fuori una bella intervista. A Ivan Bosco, il mio detestabile caporedattore, la cosa sarebbe piaciuta senz’altro. E ancor più a sua maestà Tucci. Nel mio giornale, i magistrati non godono di particolare popolarità. E assestare un colpetto alla già logora immagine della procura di Palermo, raccontandone una pagina talmente oscura e poco edificante, non sarebbe risultato sgradito ai nostri piani alti. Non avevo una posizione precisa sulla questione. Conosco e rispetto magistrati seri e scrupolosi, gente che si guadagna il pane ripulendo davvero questa città dalla feccia di mafiosi e altri galantuomini nel rispetto della legge. Così come conosco magistrati osceni, ignoranti, svogliati o, peggio ancora, invasati. Funziona così per ogni mestiere: per illudersi che lo stesso non accada per una sola schiatta al mondo, quella togata, bisogna essere palesemente in malafede o definitivamente imbecilli. Due categorie che a mio autorevole giudizio racchiudono almeno l’ottanta per cento del genere umano. Per farla breve, della bega politica pro o contro le procure, a me non importava un fico secco. Volevo solo scrivere un bel pezzo, era il mio lavoro.

    Fu così che contattai l’avvocato Troja. E che mi rovinai la vita.

    4

    Dovevo entrare alle tre quel pomeriggio e dare il cambio a Pippo. Maria lavorava la mattina, solo mezza giornata. C’era una piacevole temperatura primaverile, un cielo senza nuvole d’un azzurro pastello accarezzava Palermo e così ne approfittai per concedermi una nuotata alla piscina scoperta dell’università. Ci trovai solo quattro o cinque temerari e nuotai per un’ora buona, spegnendo il cervello come si deve.

    Chiusa la fase Phelps della mattinata, optai per una passeggiata nel parco Cassarà, una meraviglia che sembrava incredibile potesse essere nata nella decadente Palermo del nuovo millennio: ettari ed ettari di verde, tra la cittadella universitaria e la circonvallazione, in piena città. Non potevo sapere allora – io come gli altri sventurati palermitani che lo affollavamo – che quel paradiso campestre fosse imbottito d’amianto, piccolo dettaglio che ne avrebbe provocato la chiusura poco dopo i fatti di quella mattina.

    Mi buttai sull’erba all’ombra di un albero per leggere un po’. Stavo cercando di mandar giù Meridiano di sangue di Cormac McCarthy, ma a ogni scena di spargimento di cervella sul selciato mi fermavo, provato, per domandarmi se davvero volessi andare avanti. Non che non mi convincesse la poetica dell’uomo dipinto come una belva e la vita come un ferino e insensato massacro, anzi. Quando Maria, sempre mossa da afflati rivoluzionari da salvatrice dell’umanità in servizio permanente effettivo, mi tacciava di misantropia, mi costringeva puntualmente a farle notare quanto il genere umano fosse deprimente, nella sua disperata e totale dedizione alla bruttezza.

    L’estate precedente, un pomeriggio in spiaggia, le avevo mostrato una mandria di tripponi e culone che si cimentavano con esiti disastrosi in balli di gruppo a bagnomaria, ascoltando musiche orrende, spazzatura latinoamericana da due soldi.

    «Perché, invece di questa merda, non usano la bossa nova, se proprio devono far ballonzolare la trippa?», le avevo chiesto, serissimo. Lei non mi aveva nemmeno dato retta, lasciando che una delle mie impagabili perle di saggezza si perdesse alla deriva su quelle note. Sacrilegio. E invece io sono davvero convinto che il mondo sarebbe un posto meno indecente se la gente si educasse al bello, se ascoltasse Jobim e la sua Garota de Ipanema invece che rimbambirsi tutto il giorno davanti alla tv, se investisse un po’ dei propri risparmi per passare una giornata al Prado e vedere dal vivo la Crocifissione di Velázquez, invece che per comprare due borse Louis Vuitton.

    Spazzai via quel pensiero, ricordando a me stesso dell’appuntamento alle quattro del pomeriggio al giornale. Dopo qualche giorno di trattativa, l’avvocato Troja aveva convinto Palillo a concedermi l’intervista. Sarebbero venuti entrambi in redazione per raccontare la sua epopea kafkiana. Era il siluro definitivo per Spampinato, che avrebbe ripristinato le gerarchie nel branco, mi dissi. Abbandonai le gesta degli scotenna-indiani del libro dopo poche pagine, optando per una passeggiata nel parco. Il mio lettore mp3 mi accompagnava con una miscellanea di pop inglese, mentre attorno a me s’affannavano corridori sudati e qualche bel pezzo di figliola con rotondità bene in vista. Giusto su un paio di glutei ben scolpiti avevo concentrato il mio sguardo, mentre l’udito era monopolizzato da Karma Police dei Radiohead, quando mi accorsi, troppo tardi, della mountain bike e del suo maldestro titolare, un giovinastro grassoccio devastato dall’acne. Aveva preso troppa velocità sul ponticello di legno e adesso, sul terreno sconnesso di ciottoli e sterrato, non governava più la bici. Lo misi a fuoco quando distava da me meno del metraggio d’ordinanza di un divo del porno. Troppo tardi, insomma. Mi rovinò addosso colpendomi il polso con il manubrio. Finimmo entrambi a terra sotto gli occhi incuriositi, e mi parve divertiti, di Culetto d’oro e di un paio di altri sportivi.

    Mi accorsi del dolore al polso solo quando tornai in piedi. Brufolo Bill s’era scorticato dappertutto, mi fissava inebetito farfugliando delle scuse e la fanciulla col sedere di marmo si era avvicinata per sincerarsi delle mie condizioni. E fu lì che capii d’essermi fatto male, avvertendo la fitta al polso sinistro sul quale ero caduto dopo l’impatto.

    «Forse dovrebbe farsi vedere al pronto soccorso», osservò il mio carnefice, mortificato. Non doveva avere più di diciannove anni.

    «No, non è niente», risposi riluttante, ostentando l’immagine dell’uomo che non deve chiedere mai, mentre il dolore esplodeva sempre più acuto.

    «Invece io credo che il ragazzo abbia ragione», si intromise la valchiria con la tuta nera aderente. Aveva una bella voce calda, e doveva avere superato, brillantemente, la boa dei trent’anni.

    «Lei dice?».

    «Mi lasci vedere».

    Mi sfiorò appena il braccio, trascurando le escoriazioni del palmo. Aveva mani curate e, malgrado il sudore, emanava un gradevole olezzo di deodorante.

    «Dovrebbe essere solo una distorsione. Ma è meglio che faccia una radiografia. È venuto qui in macchina?».

    «No, sono in moto».

    «Allora qualcuno deve accompagnarla».

    Il mio paffuto investitore farfugliò qualcosa, imbarazzato. Era venuto in bici e non sapeva come fare.

    «La accompagno io, sono un medico», si offrì la mia statuaria samaritana.

    Non me lo feci dire una seconda volta.

    Ci volle parecchio. Giusto il tempo necessario a fare amicizia con Sveva. E di scoprire, compiaciuto, che apparteneva alla migliore delle categorie: giovane separata con prole. Il top. Non calcano troppo la mano per impegnarsi, frenate dalle sacrosante paranoie verso la figliolanza, ma reclamano legittimamente quel minimo sindacale di sesso che un individuo adulto, per di più abituato alla vita di coppia, necessita. Fino al giorno in cui Maria Librizzi aveva posto fine alla mia lunga e onorata carriera di femminaro impenitente, quella categoria di giovani signore aveva rappresentato una generosa riserva di caccia per il sottoscritto.

    Sveva aveva trentaquattro anni e faceva l’anestesista. Me lo raccontò durante il tragitto verso l’ospedale Ingrassia – il più vicino al parco, nella parte alta di Corso Calatafimi, proprio ai piedi di Monreale – e nel tempo che ci volle ad ammazzare l’attesa prima che si degnassero di farmi una radiografia. Intanto, il polso si era gonfiato e faceva un male da cani. Avevo chiamato Maria per avvisarla che avrei fatto tardi, senza dirle cosa mi era capitato. Non volevo che stesse in pensiero, dissi a Sveva. In realtà, non intendevo liquidare la mia soccorritrice prima del tempo, e lei lo capì benissimo, compiaciuta.

    Vista la malaparata, avevo chiamato anche il giornale per avvisare che non sarei andato al lavoro. I medici sentenziarono che si trattava di una brutta distorsione. Solo allora telefonai a Maria, con voce da cane bastonato, chiedendole di venirmi a recuperare. Sveva lasciò la scena giusto in tempo, ma non prima di aver memorizzato il mio numero sul suo smartphone.

    Fu così che il gigantesco complotto ordito contro di me dalla malasorte fece saltare il mio appuntamento con Palillo. L’ex galeotto era tornato con le pive nel sacco dal giornale, dove si era presentato puntuale, ma invano, accompagnato dal suo avvocato. Preso dal casino dell’incidente – e dal risveglio del testosterone – me ne ero completamente dimenticato.

    Rimasi a casa per qualche giorno, che trascorsi in compagnia di ottima musica e di qualche B-movie di quelli che piacciono a me. Maria mi coccolava come un bambino, riempiendomi d’attenzioni. Lo zio Ambrosetti e il suo odoroso fidanzato non si fecero vedere per giorni. Invece la mia samaritana dalle natiche di marmo si fece viva, puntualmente, con qualche apparizione su WhatsApp, il cui contenuto scivolava sempre più sulle note del flirt. Insomma, andava tutto alla meraviglia.

    Finché non decisi di essere stato abbastanza in panciolle, convinzione che maturai nel corso della visione del Commissario Lo Gatto di un tardo ma sempre efficace Dino Risi. Me ne tornai al lavoro, malgrado avessi ancora qualche giorno di riposo da certificato medico, e telefonai a Troja per recuperare. L’avvocato – un cinquantenne missino di lungo corso, di quelli che a casa accanto al televisore tengono di sicuro il bronzo del busto del duce – mi spiegò di essere in partenza: si sarebbe trattenuto per una settimana fuori Palermo per impegni di lavoro. Ci saremmo sentiti al suo rientro, concordammo, mentre lo immaginavo congedarsi con tanto di saluto romano e fez sulla pelata.

    L’indomani coprii il turno di mattina di nera. Non succedeva un bel niente, passai un’ora a chattare su Facebook con Sveva, spulciando con gusto tutte le sue foto in costume da bagno. Lì ce n’era di materiale, eccome. Alle undici, finalmente, un balordo decise di rapinare uno di questi templi dello shopping low cost di via Ruggiero Settimo. Gli sbirri lo acciuffarono nel giro di cinque minuti, dopo un breve inseguimento nelle strette traverse che incrociavano la strada all’altezza del Teatro Massimo.

    Il tempo di scrivere questa e altre piccole minchiate e si fece ora di pranzo. Arancina al burro o trancio di pizza al panificio? Questo il dilemma che impegnava in quei minuti il mio libero arbitrio. Alla fine, decisi di osare una capatina dallo stigghiolaro della Kalsa, tentato dall’allettante idea del profumo di interiora arrostite per strada, quell’odore familiare di una Palermo antica che su di me ha sempre esercitato un discreto fascino. Stavo giusto per raccattare cellulare e ammennicoli vari, quando squillò il mio interno.

    «Cossaro, c’è il signo’ Pallino per te», mi intimò Pino Amato, centoventi chili di lumpenproletariat, punta di diamante del nostro squadrone di portieri e centralinisti, il più imperterrito nella storpiatura dei nomi e nella tortura della grammatica e della sintassi.

    «Ma cu è stu signo’ Pallino, Pino?».

    «E chi nni sacciu iu, addumannacillu tu», rispose col garbo di un pirata dei Caraibi ubriaco.

    «Ma dove sarebbe questo Pallino, Pinuzzo, in portineria o al telefono?».

    «In portineria non l’ho visto».

    «Va bene, passamelo».

    Un breve silenzio precedette il pronto di Onofrio Palillo. A occhio e croce, si doveva essere fumato da solo l’ottantacinque per cento dei monopoli di Stato. Ebbi l’impressione di essere sommerso dal catrame che colava denso dalla sua voce roca, quasi irreale.

    «Chi parla?».

    «Dottor Corsaro?».

    Dottore lo ero, al contrario di molti miei colleghi. Lo incassai con nonchalance.

    «Sì».

    «Sono Onofrio Palillo», rispose la voce cavernosa dopo una specie di rantolo.

    «Ah, buongiorno. Mi scusi per l’altra volta, so che è venuto a trovarmi, ma ho spiegato all’avvocato Troja che ho avuto un incidente».

    Di nuovo il rantolo. Era il suo modo di respirare. L’aria doveva fare una gran fatica a insinuarsi nei pochi varchi lasciati liberi dal condensato.

    «Lo so, non c’è pobbrema, dottore. Ci ho parlato con l’avvocato».

    «Sì, lui mi ha detto che ci saremmo sentiti per la prossima settimana».

    «Eh, lui così dice. Ma io dico: perché dobbiamo aspettare così assai?».

    La sua parlata palermitana era sporcata da un qualche accento paesano che non riuscivo a inquadrare sulla cartina della Sicilia.

    «Guardi, come preferisce. Se vuole, possiamo incontrarci io e lei».

    Troja si sarebbe potuto incazzare. Ma se lo avessi citato per come si deve nell’articolo, magari riuscendo a far piazzare in pagina anche la sua foto, non avrebbe avuto niente da ridire. E va bene, vecchia ciminiera, se proprio ti scappa di vedermi, leviamoci il dente subito.

    «Io ci posso raccontare belle cose a lei. Non solo la storia della galera».

    Non mi piacque quell’uscita. Quando hanno un giornalista davanti, molte persone hanno il pessimo vizio di tormentarlo (Ma perché non lo fate un bell’articolo su…?, è il collaudato incipit) raccontandogli tutti i guasti dell’universo, dalla coda troppo lunga alla posta alla maleducazione del vigile urbano che gli ha fatto la multa, aguzzino, perché avevano parcheggiato in tripla fila, ma solo per cinque minuti, eh? Non se ne esce vivi con tipi così.

    «Guardi, a me interessa che mi racconti tutta la storia dell’arresto e del processo. Poi, dopo, se vuole, parliamo anche d’altro».

    «Pure oggi ci possiamo vedere per me».

    Quanta fretta. Avevo fame, volevo tagliare corto.

    «Non lo so, io…».

    «Vengo da lei oggi pomeriggio al giornale?».

    «Guardi, io oggi vado via presto…».

    «E allora viene lei da me? A casa mia».

    A casa la gente si sente a proprio agio e parla meglio. A quel punto, meglio evitare il fotografo, lo avrebbe fatto irrigidire.

    «Va bene. Dove sta lei?».

    Me lo spiegò. Centro storico, non troppo lontano da casa mia. Una stradina dalle parti di via Maqueda, vicino alla facoltà di Giurisprudenza e a Casa Professa, un gioiello di chiesa barocca prediletta da molti palermitani per i matrimoni. Conoscevo bene la zona, ai confini con il mercato di Ballarò, mi ci strafogavo di pane e panelle ai tempi dell’università. Il pensiero del tempo trascorso da allora mi turbò.

    «Posso essere da lei alle cinque».

    «Va bene, lo aspetto», mormorò la voce impastata di catrame.

    Infilai in tasca il pizzino dove avevo scarabocchiato il suo indirizzo e scesi al bar a mangiare un sandwich con pomodoro e mozzarella. Non sapevo perché, ma la chiacchierata con Palillo mi aveva fatto passare la voglia di porcherie.

    5. Racconto di Roberto Corsaro

    Non erano i chili o tanto meno i peli superflui. Il vero problema era il tempo. Era la vita che se ne andava, la parte inferiore della clessidra che si riempiva con una velocità drammatica, a scapito di quella superiore. Ho sempre vissuto accompagnato dal pensiero della morte. Forse quando perdi un genitore da ragazzino diventa una cosa normale. Non lo so, nessuno psicologo ha mai lavorato sulle traiettorie delle mie angosce. Eppure sono abbastanza certo che tutto quel pensare al tempo che passava era solo un altro modo di pensare alla morte.

    Ero rientrato a casa dal tribunale trovando Monica di un umore più nero della media. Nella lunga guerra di logoramento con mio figlio Giacomo, mia moglie sembrava aver perduto le ultime battaglie. E non mancò, come d’abitudine, di sfogarsi col sottoscritto. Lasciai fare, sebbene fossi provato da una mattina già abbastanza pesante. Valeria – la collega che da sempre lavora con me, allieva anche lei del mio compianto maestro – mancava dallo studio da quasi un mese. Si era fatta male a una spalla arrampicandosi su qualche costone di roccia, uno di questi passatempi scellerati da sportivo che ho sempre considerato indice di un inconscio masochismo. Ero rimasto da solo a portare avanti la baracca, al netto dell’aiuto comunque prezioso dei due giovani avvocati che da qualche anno mi davano una mano. La mole di lavoro mi stava schiacciando e, insieme alla privazione del cibo imposta dalla dieta, contribuiva a rendermi particolarmente nervoso.

    A pranzo mi guardai bene dall’avventurarmi in una litigata con mia moglie. Mi dedicai ai bambini, smaltendo qualche tossina con una massiccia dose della loro dolcezza. Rebecca mi coinvolse in un gioco di bambole, a cui mi dedicai carponi, mentre il piccolo terremoto mi montava a cavalcioni come un toro da rodeo. Monica ne approfittò per rilassarsi un po’, e nel giro di mezz’ora ritrovò un umore decente, esorcizzando il demone che la possedeva nei momenti di stress.

    Insomma, uscii di casa col sorriso quel pomeriggio di aprile. Prima di andare allo studio, dovevo passare da Valeria. Era stata lei a chiedermelo, qualche giorno prima, al telefono.

    Arrivai sotto casa sua, in via dei Cantieri, dalle parti del porto e del carcere dell’Ucciardone, che erano quasi le quattro e mezza. Il cielo si stava annuvolando bruscamente e anche la temperatura mi parve in caduta libera, tanto che la mia sciatalgia, silente da settimane, stava tornando a dare preoccupanti e inaspettati segnali di vita.

    Valeria mi accolse in tuta, i capelli raccolti in una coda sbrigativa, due occhiaie marcate a segnarle il viso stanco. Era più giovane di me di tre anni, ma l’orologio biologico correva anche per lei, pensai mentre la baciavo entrando in casa.

    Nel soggiorno, arredato con mobili dell’Ikea che la mia amica aveva montato da sola, da buon maschio mancato qual era, trovai con mia sorpresa Greta, sua sorella maggiore. Non la vedevo da un pezzo e neanche lei mi parve in splendida forma.

    «Avvocato, quanto tempo. Accomodati», fece lei indicando una sedia.

    Somigliava tanto a Valeria, ne era sempre stata una copia più curata e femminile, malgrado i suoi lineamenti fossero meno regolari di quelli della mia collega. Bella, l’avevano sempre ritenuta i miei coetanei, senza mai trovarmi troppo d’accordo. Aveva sposato Armando Centineo Bordonaro, tributarista figlio di papà ricco sfondato, uno di questi post-comunisti in Lacoste che comprano due quotidiani per darsi un tono. Per doveri di vita sociale, avevo dovuto trascorrere con quell’individuo un numero cospicuo di ore, inclusa una drammatica vacanza in Sila, maturando nei suoi confronti un’intolleranza ai limiti dell’allergia. Apparteneva alla temibile categoria di individui che la sanno lunga su tutto: quelli che non lo ascoltano nemmeno il tuo punto di vista perché tanto – si parli di massimi sistemi o di come arrostire la salsiccia – loro sanno già cosa è giusto, sanno come si fa e poveri imbecilli tutti gli altri. Mi rincuorò non poco notare che nessun altro membro del clan Centineo, al di fuori di Greta, si trovasse a casa di Valeria in quel momento.

    La mia amica ci lasciò per andare a preparare il caffè. Io ritenni opportuno sgombrare subito il campo da possibili apparizioni a sorpresa.

    «Sei sola?».

    «Sì, Armando è al lavoro. E la bambina è da mia madre».

    «Come va?».

    Fece spallucce, i muscoli della faccia contratti.

    «Va».

    È quel genere di risposta di fronte alla quale mi ripropongo sempre di comprare un manuale di conversazione. Cosa dici a una che ti risponde così? Se ti informi per cercare di capire cosa la turba, magari passi per indiscreto. Se non lo fai, dai la sgradevole impressione che non te ne importi nulla. Mi rifugiai nel buon vecchio modo di dire, porto sicuro per chi non dispone della battuta giusta.

    «Buon tempo e malo tempo non dura tutto un tempo, dice sempre mia madre».

    Greta non ricambiò il mio sorriso. Spostò lo sguardo triste verso la finestra. Fuori si era messo a piovere.

    «Monica e i bambini?», soffiò senza guardarmi.

    «I bambini crescono. Giacomo è un piccolo terremoto, ci impegna molto».

    Greta annuì. L’aria a casa di Valeria era satura di silenzio e di tensione. La pioggia che ticchettava sui vetri e il profumo del caffè mi distolsero dai cattivi pensieri che si andavano insinuando dentro di me.

    Valeria poggiò il vassoio sul tavolo, davanti a me. Addolcì il mio caffè con l’esatta quantità di zucchero che avrei messo io e mi porse la tazzina con un sorriso tirato. Poi si sedette accanto a me.

    Greta si alzò. Sfiorò i capelli di sua sorella passandole accanto.

    «Scusa, Roberto, vado di là a fare una telefonata. Vi lascio parlare in pace».

    «Che le prende?», domandai a Valeria quando fummo soli.

    «Diciamo che è un momento particolare».

    «Ha problemi col marito?». Mi parve l’ipotesi più verosimile.

    «No, il marito non c’entra».

    Notai che Valeria si muoveva ancora in modo innaturale. La spalla doveva darle fastidio.

    «Non ti sei ancora rimessa? Ma non è che vuoi farti tre mesi di vacanza… Guarda che senza di te io sto diventando pazzo».

    «Insomma, stai ammettendo ufficialmente che senza di me sei perduto, avvocato Corsaro?».

    Le sorrisi annuendo. Non avevo sorelle. Valeria era la cosa che più ci si avvicinava.

    «Dove devo firmare?», le chiesi, trangugiando l’ultimo sorso di caffè.

    Valeria mi accarezzò il dorso della mano. Non era da lei.

    «Mi dispiace averti lasciato nei guai, Robbi. È per questo che ti ho chiesto di vederci».

    «Per chiedermi perdono? Tagliamo corto: sei perdonata. Ora torna, però».

    Valeria

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