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Codice Excalibur
Codice Excalibur
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Codice Excalibur

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About this ebook

Tra Clive Cussler e Glenn Cooper
Un successo mondiale

Autore del bestseller La città perduta dei nazisti

Per generazioni, la spada è stata tenuta nascosta, custodita per quando ce ne fosse stato bisogno. Era il luglio del 1937 quando Excalibur scomparve, inghiottita dalle nubi della guerra che presto avrebbe travolto il mondo. 1941. Dodici generali delle SS si riuniscono in un castello della Prussia orientale per evocare, con un rito antichissimo, gli spiriti dei più potenti guerrieri d’Europa. Al centro del rituale c’è un pentagramma formato da cinque spade. Una di loro è Excalibur, la mitica arma estratta dalla roccia da Re Artù. 
2010. L’esperto di opere d’arte Jamie Saintclair sta consultando un documento appartenente a un veterano di guerra tedesco, quando incappa nella descrizione di uno strano rituale che coinvolge la leggendaria Excalibur. La cosa lo fa sorridere, ma il collezionista Adam Steele si dichiara disposto a pagare una fortuna per la spada. E così Jamie parte alla volta della Tana del Lupo di Hitler. Braccato da un gruppo di assassini, dovrà imparare a distinguere i nemici dagli amici: la missione potrebbe rivelarsi la più pericolosa che abbia mai affrontato.

Un maestro del thriller storico

Per ritrovare la leggendaria spada di Excalibur, Jamie Saintclair dovrà affrontare un nemico insidioso e invisibile

«Avvincente ed estremamente accurato, vi aggancerà dal primo capitolo fino al finale esplosivo.»
Scottish Daily Record

«Il talento di questo autore sta nel farti dimenticare la realtà e immergerti in un mondo di miti e leggende.»

«Ha ritmo e profondità, colpi di scena, ma si percepisce anche tutto il grande lavoro di ricerca che c’è dietro.»
James Douglas
è lo pseudonimo di Douglas Jackson, autore di romanzi storici di successo pubblicati in  Italia dalla Newton Compton. La città perduta dei nazisti e La piramide del faraone maledetto danno inizio alla serie di thriller storici che hanno come protagonista Jamie Saintclair, esperto nel recupero di opere d’arte, serie che prosegue con Codice Excalibur.
LanguageItaliano
Release dateOct 23, 2018
ISBN9788822723888
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    Book preview

    Codice Excalibur - James Douglas

    1

    «E la pioggia leggera proseguirà fino al pomeriggio…». Abeba Trelawney allungò di scatto una mano per spegnere la radio e ricacciare le previsioni meteo in qualche remoto angolo dell’etere. Dio, quanto odiava guidare sotto la pioggia. La piccola auto sportiva andava bene per fare una scappata in città, ma in un ingorgo sulla M25 perdeva gran parte del suo fascino. Abeba digrignò i denti quando la mole minacciosa di un autoarticolato si lanciò verso la corsia esterna, alzando un muro d’acqua che la accecò per un istante. «Dove vai così di fretta?», urlò lei contro quel bestione. Tre corsie di traffico che si muoveva a intermittenza, da zero a settanta chilometri orari al massimo; erano tutti costretti ad andar piano. E questo la fece riflettere. Sarebbe arrivata in ritardo. Era il caso di chiamare Jamie? Cercò a tentoni il cellulare sul sedile del passeggero.

    «Accidenti». Si era distratta e aveva visto solo all’ultimo gli stop dell’auto davanti.

    Fece un lungo respiro. No, telefonare alla guida era illegale, e Abeba era figlia di avvocati che le avevano insegnato il rispetto della legge. Per il momento poteva lasciar perdere, magari dopo si sarebbe fermata a una stazione di servizio per mandargli un messaggio. Quel pensiero fu accompagnato da un’ondata di emozione che le saliva dal bassoventre. Doveva dirglielo? Sorrise tra sé e decise di no. Non era il tipo di notizia che potevi dare con un messaggio, e nemmeno con una telefonata. Doveva farlo di persona. Il sorriso divenne più ampio quando provò a immaginare la sua reazione. Sarebbe stato felice? Certo che sì. Abeba colse il proprio riflesso nello specchietto retrovisore: vivaci occhi castani, capelli lunghi e neri come le ali di un corvo, la pelle chiara color miele. Sembrava una gatta che avesse appena ricevuto un piattino di panna. Sarebbe stato felice? Certo che sì. Ti prego, Dio, fa’ che sia felice. Altrimenti non so cosa farò. Basterà un attimo di esitazione e scoppierò a piangere.

    Ma Jamie non avrebbe esitato. Non il Jamie Saintclair che lei conosceva e amava.

    E in quel momento fu come se ci fosse stato anche il suo volto nello specchietto retrovisore. Labbra sottili, un sorriso sarcastico e forse un po’ stanco, ma grandi occhi verdi che risplendevano di ironia, contornati da piccole rughe. Abeba adorava il modo in cui i capelli scarmigliati gli ricadevano sulla fronte, ed era rimasta stupita dal corpo asciutto e muscoloso che si nascondeva sotto gli abiti eleganti e la finta aria di assoluta ingenuità. Col tempo aveva capito che la sua cautela era un meccanismo di difesa, una barriera nata da presunti fallimenti con altre donne in passato. Aveva dovuto lottare per abbatterla. Era facile trovare Jamie piacevole, ma aveva delle zone d’ombra che lo rendevano un po’ più difficile da amare, e che lo trattenevano dall’innamorarsi. Era un mercante d’arte – Abeba sorrise al ricordo del loro primo incontro – non proprio il suo tipo, aveva pensato all’epoca, e forse eccessivamente geloso dei propri segreti, cosa che l’aveva intrigata e un po’ infastidita, fin quando non ne aveva compreso il motivo. Con grande pazienza l’aveva convinto a spogliarsi di quell’armatura psicologica. Le prime volte le era sembrato che si trattenesse molto anche a letto, e che volesse esser guidato, ma quando l’aveva spinto a lasciarsi andare e a farsi trasportare da passioni e desideri il risultato era stato spettacolare, e assai notevole. Ridacchiò in modo ben poco signorile per le immagini appena rievocate. Non si vedevano da una settimana, e lui era appena tornato da un viaggio in Francia dove era andato a indagare su un quadro che si presumeva fosse stato rubato dai nazisti durante la seconda guerra mondiale. Magari, più tardi…

    Sulla corsia esterna il traffico scorreva più veloce e pensò di spostarsi lì, ma cambiò subito idea, anche se il grande autotreno era ormai centocinquanta metri più avanti. Per fortuna la pioggia aveva cominciato a diminuire, e c’era una migliore visibilità. Con la stessa casualità di prima ora anche la corsia esterna rallentò fino a fermarsi, e quando guardò a destra Abeba si ritrovò a fissare due occhi sgranati e un volto scarlatto. Un braccio peloso si alzò a salutarla, e lei batté le palpebre. Poi il pupazzo svanì in un istante, sostituito da un ragazzino dai capelli ricci che doveva avere la stessa età dei suoi alunni di prima elementare. Ricambiò il sorriso e provò a concentrarsi sulla strada, dove finalmente sembrava che il traffico avesse cominciato a scorrere.

    Dall’alto dell’abitacolo del camion, Rasul Mohammed aveva una visuale perfetta di tutte e tre le corsie. Sentì l’adrenalina che gli inondava l’organismo man mano che il sistema di navigazione satellitare gli diceva che era sempre più vicino all’obiettivo. La pioggia riduceva di molto la visibilità esterna, ma era sicuro che avrebbe riconosciuto il posto non appena ci fosse arrivato. Aveva percorso questo tragitto dieci volte nelle ultime settimane, e non si era mai sbagliato. Continuò ad avanzare verso la meta. Schiacciò leggermente il pedale dell’acceleratore e arrivò quasi a sfiorare il paraurti dell’auto che aveva davanti, che a sua volta si allontanò dalla minacciosa presenza di quel mostro metallico da quaranta tonnellate. Rasul si leccò le labbra secche. Aveva già eseguito diverse volte la manovra che stava per tentare, ma mai con la pioggia, e mai con un tir a pieno carico. In passato l’aveva fatto per il cinema. Adesso sarebbe stato tutto reale. La scena più importante della sua vita.

    «Primo traguardo». La voce gli risuonò innaturalmente forte nelle orecchie, ma non aveva bisogno di quell’indicazione. Eccolo, lo straccio bianco legato a un cespuglio. A circa quattrocento metri di distanza. Azionò la leva di plastica per mettere la freccia e segnalare che voleva spostarsi nella corsia centrale, poi cominciò a farsi lentamente strada tra quelle file ininterrotte di automobili. Dallo specchietto sul lato del passeggero poteva vedere le bocche spalancate di chi senza dubbio gli stava imprecando contro per quella manovra avventata e potenzialmente pericolosa. Quasi percepiva la loro perplessità e la rabbia contro quel gigante che approfittava della propria mole quasi fosse un peso massimo in coda per entrare in un pub, ma ignorò tutti. Doveva restare concentrato. Mancava poco, e la posizione doveva essere giusta; metà in una corsia e metà in un’altra, a bloccarle entrambe.

    Vide il secondo traguardo, cento metri più avanti. Sembrava tutto così chiaro. Lo sguardo si spostò rapido tra i vari indicatori. Velocità: perfetta. Distribuzione del peso: perfetta. Posizione: perfetta. Forse la pioggia l’avrebbe persino aiutato, consentendo una minore trazione degli pneumatici.

    Ora.

    «Ora!». La voce nell’auricolare echeggiò l’urlo della sua stessa mente, ma già mani e piedi stavano lavorando in sequenza per mettere in pratica quel comando. In un solo movimento, girò il volante a sinistra e con il piede esercitò il giusto quantitativo di pressione sul freno.

    Per un istante, Abeba si chiese se non stava sognando. Era concentrata sull’auto che aveva davanti, ma vide comunque la scena surreale dell’autoarticolato che sbandava bruscamente. All’immagine si accompagnò il suono terribile del metallo lacerato e, come muovendosi al rallentatore, il camion si ribaltò bloccando l’intera superstrada a tre corsie. Lei schiacciò subito il pedale del freno, e il suo urlo di paura si mescolò a quello di centinaia di pneumatici.

    Quando l’assordante stridore cessò, Abeba rimase seduta a capo chino, ansimando come se avesse appena corso i cento metri, ancora incredula riguardo a ciò che aveva appena visto. Quell’idiota… ora rischiava… no, ora sicuramente sarebbe rimasta bloccata lì per ore. Ma subito la preoccupazione prese il posto della rabbia. Cos’era successo al camionista? E alle persone nelle auto più avanti? Di sicuro c’erano stati dei feriti, data la portata di quell’incidente. Doveva esser scoppiata una delle ruote dell’autotreno, per causare un cambio di direzione così improvviso. O forse l’uomo al volante aveva avuto un infarto… Allungò una mano verso la portiera, ma quando la aprì vide che già nel piccolo varco tra le auto davanti c’erano decine di persone che andavano verso i veicoli coinvolti nello scontro. Esitò, poi richiuse lo sportello. Per qualche istante rimase con le dita sulla maniglia, ma era costretta a riconoscere che a parte le basi del pronto soccorso non aveva conoscenze mediche che potessero risultare utili in quel frangente. Non aveva senso andare lì solo per essere d’intralcio. Per certi versi, si sentì sollevata. La macchina era come un tiepido guscio che la proteggeva dalla realtà di ciò che stava accadendo ad appena qualche centinaio di metri di distanza. Provò a chiamare Jamie, ma le rispose la segreteria, così lasciò solo un breve messaggio vocale per spiegargli la sua situazione, al quale ne aggiunse uno scritto perché sapeva che spesso lui dimenticava di controllare la segreteria.

    Più avanti, Rasul giaceva intontito tra i vetri infranti e i detriti sparsi del suo abitacolo capovolto, la mente in attesa del dolore che segnalasse eventuali ossa rotte o legamenti strappati. Nulla. Quasi soffocò sotto l’impeto del sollievo e dell’eccitazione che lo invasero. Aveva funzionato. L’autotreno ora occupava gran parte della superstrada, e il carico di ghiaia posizionato ad arte avrebbe bloccato lo spazio restante. Armeggiò frenetico con la chiusura della cintura di sicurezza. Aveva fatto la sua parte. Adesso non gli restava che servirsi della via di fuga già predisposta per lui.

    Aveva appena sganciato la cintura quando nel riquadro del parabrezza sfondato si stagliò una figura vestita di nero. L’uomo indossava un passamontagna che copriva tutto il viso tranne gli occhi e la bocca. Portava un fucile d’assalto a canna corta, e lo manovrava con l’aria di chi sapeva usarlo. La prima reazione di Rasul fu di paura per la vista inattesa di un individuo armato, ma passò ben presto all’esultanza.

    Ce l’avevano fatta. Un sorriso gli illuminò il volto. Ora quegli uomini avrebbero tenuto in ostaggio centinaia di persone e avrebbero chiesto un riscatto che sarebbe andato a finanziare la loro causa, mentre lui sarebbe sparito nel nulla, anonimo ma felicemente ricco. L’uomo col fucile ricambiò il sorriso, ma gli occhi comunicavano tutt’altro messaggio e a un tratto Rasul Mohammed si sentì preda del panico. L’oscura bocca della canna del fucile salì verso di lui, e l’ultima cosa che vide fu un guizzo di luce prima che i proiettili gli squarciassero il petto.

    Un rumore inconsueto paralizzò le dita di Abeba sul pulsante di invio. Un susseguirsi di suoni secchi, come di quegli attrezzi automatici che usavano dal meccanico per togliere dadi e bulloni quando dovevano cambiare le ruote. Ma non era dal meccanico. Da una certa distanza le arrivarono quelle che sembravano urla di terrore. Incuriosita, allungò il collo per guardare verso l’autotreno capovolto, e fece appena in tempo a vedere gli uomini e le donne che erano andati ad aiutare le vittime dell’incidente accasciarsi al suolo come marionette con i fili tagliati. Lo sconcerto si trasformò in un brivido di puro terrore quando un uomo corse disperatamente a un centinaio di metri da lei e Abeba vide la sua testa che spariva in una foschia scarlatta. Si ritrasse d’istinto e si chinò sotto il volante. Si sforzò di controllare il respiro, ma era come se il corpo si fosse scomposto nelle sue singole parti, sulle quali non aveva più il minimo potere. Al contempo, la mente cercava di elaborare quello che stava accadendo nella realtà, ma senza riuscirci. Ciò che aveva visto era impossibile. Non poteva essere successo davvero. Altre urla, e il rumore di vetri infranti, sempre accompagnato da quel secco susseguirsi di colpi che aveva sentito prima. All’improvviso, una palla di fuoco color rosso e oro prese vita davanti a lei, sulla sinistra, subito seguita dal forte boato di un’esplosione. Il serbatoio di una macchina. Ed era assai più vicino del tir. Qualsiasi cosa fosse, stava succedendo davvero, e stava per raggiungerla. Doveva fare qualcosa. In qualche modo. Subito.

    Guardò freneticamente a destra quando un giovane con una maglietta azzurra aprì la portiera dal lato del passeggero di un’auto vicina e si alzò per avere una visuale migliore. La mente di Abeba gli urlò di abbassarsi, ma era troppo tardi. Una raffica di proiettili aprì fori nel metallo con il clangore di un grande martello e l’uomo venne scagliato all’indietro, metà fuori dalla macchina e metà dentro. Abeba vide il volto di una donna trasformarsi in una maschera di orrore, poi notò che il ragazzino coi ricci di prima insieme a una bimba che doveva essere la sorella la guardavano dal sedile posteriore, occhi sgranati e bocca spalancata. Avrebbe voluto gridare per farsi sentire da loro, per rassicurarli e dire che tutto si sarebbe sistemato, ma quelli avevano davanti a sé il corpo del padre dilaniato, con il sangue scuro che sgorgava a fiotti dalla bocca aperta. Adesso le urla erano continue, tutto intorno a lei, e Abeba si rese conto che quella stessa scena si stava ripetendo tra le auto e i furgoni bloccati in un ingorgo che doveva aver superato il chilometro di lunghezza. Solo in quel momento si accorse che stava gridando anche lei, e si strinse il labbro inferiore tra i denti. Sentì il rumore metallico delle auto che si scontravano man mano che i conducenti tentavano invano di sfuggire a quella trappola. Alcune auto si lanciarono a gran velocità oltre la banchina stradale, ma una nuova e più forte esplosione, seguita da una seconda eruzione di fuoco, dimostrarono la futilità di quella via di fuga. Dopo aver lanciato uno sguardo atterrito alla famiglia distrutta che stava ad appena un metro da lei, Abeba si rannicchiò nell’angusto vano dei pedali e si sforzò di pensare razionalmente. Doveva andarsene da lì. Aveva sempre creduto di essere una donna coraggiosa, come sua madre, sopravvissuta alla guerra civile e alla carestia, ma in quel momento il coraggio c’entrava ben poco. Non poteva fare niente per quella donna e i suoi figli, o per tutte le altre persone rimaste bloccate in macchina. Il volto di Jamie tornò a profilarsi nella sua mente. Chiuse gli occhi e si concentrò sull’aura di placida serenità che lui pareva emanare, aggrappandovisi come un annegato a un salvagente. Ecco, pensò tra le lacrime. Era fondamentale arrivare da Jamie e comunicargli la notizia che gli aveva tenuto nascosta. Si azzardò a guardare da dietro il volante e si ritrovò a fissare negli occhi un uomo con il passamontagna a circa cinque metri da lei. Era alto e magro, e Abeba vide che in quel momento stava sollevando il fucile, una strana arma automatica dall’aspetto futuristico: sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbe visto. Trasalì per i tre lampi in rapida successione, ma la raffica doveva essere diretta contro qualcuno che aveva provato a fuggire da un’auto più indietro. Dopo un’ultima occhiata nella sua direzione, l’uomo si girò e lei abbassò la testa. Si accorse con vergogna di essersela fatta addosso. Un pensiero cercò di penetrare la paura, qualcosa riguardo a quell’uomo armato, ma lei lo spinse via, troppo presa dalla lotta tra istinto di sopravvivenza e puro terrore. Le tremavano forte le mani. Eppure in qualche modo riuscì a mitigare la paura, e a fare tremanti respiri tra un singhiozzo e l’altro. Doveva uscire da quella macchina, o sarebbe diventata la sua tomba. Doveva sopravvivere.

    2

    L’uomo con il passamontagna camminava sereno tra morti e moribondi, sceglieva i bersagli e li giustiziava con brevi, precise raffiche del suo Heckler & Koch 416, oppure sparava metodicamente nelle auto bloccate, trasformando gli abitacoli in mattatoi in miniatura. L’arma era la versione ultracompatta utilizzata dalle forze speciali americane, e montava un silenziatore e caricatori da trenta proiettili. Il silenziatore non annullava del tutto il rumore degli spari, ma era importante perché non ci fossero ondate di panico generalizzato nelle fasi iniziali della missione. Ovviamente, non sarebbe stato possibile evitarlo a lungo. Ma, arrivati a quel punto, sarebbe stato già troppo tardi per qualsiasi intervento.

    Le tre squadre avevano preso i nomi di Leopardo, Leone e Tigre, e il comandante, Leopardo 1, era abbastanza soddisfatto per come il piano era stato eseguito. Soddisfatto, non orgoglioso. Ovviamente gli dispiaceva causare un tale spargimento di sangue. Avevano discusso a lungo e con trasporto sulla possibilità di risparmiare donne e bambini, ma l’esito finale non era mai stato messo in discussione. Non esisteva l’innocenza nel loro mondo. C’era una lezione da impartire, e dovevano essere sicuri che tutti la apprendessero, se volevano che la loro gente ottenesse il futuro che meritava. Una cultura minacciava tutte le altre presenti sul pianeta, e solo comportandosi con la medesima durezza dei seguaci di quella stessa cultura potevano provocare la reazione di cui avevano bisogno. Scopo della missione era creare una zona di tiro compatta lunga un chilometro e mezzo e larga tre corsie dove, secondo i calcoli di Leopardo 1, sarebbero rimasti bloccati più di mille veicoli e tremila potenziali bersagli. Ovviamente qualcuno sarebbe riuscito a fuggire, ma per gran parte di quelle persone la reazione istintiva sarebbe stata rimanere in macchina. Ciascun combattente portava otto caricatori di riserva in apposite sacche legate in vita o su imbracature speciali. Il peso extra era un problema per la mobilità, ma forniva una potenza di fuoco straordinaria. A quindici metri da lui, tra le macchine in fila, una portiera si aprì e, non appena ne uscì un giovane, Leopardo 1 si girò e fece fuoco, ricacciandolo indietro in una pozza di sangue. In lontananza, le altre due squadre percorrevano le lunghe file di auto, furgoni e camion. La trappola era scattata. Poco più avanti, un’auto sportiva rossa attirò l’attenzione di Leopardo 1, ma in quel momento tre operai in tuta da lavoro uscirono da un furgone bianco lì vicino. Il fucile entrò in azione, e con mezzo caricatore riuscì ad abbatterli come birilli. Dopo aver ricaricato l’arma, Leopardo 1 era pronto a occuparsi dell’auto rossa, ma un urlo lo fece voltare verso un gruppo di persone in fuga da un autobus turistico verso lo spartitraffico centrale.

    «Leopardo 2. Bersaglio a ore dieci».

    Il laringofono distorceva la calma voce del comandante, ma l’ordine arrivò forte e chiaro. Leopardo 2 infilò una mano in una delle sacche della tuta nera aderente e ne tirò fuori un oggetto ovale in metallo color verde oliva. Con movimenti che denotavano una grande esperienza, l’uomo staccò il piccolo perno che teneva fermo un anello di metallo. Dopo aver contato per qualche secondo, lanciò la granata a frammentazione in un lungo arco che terminò in mezzo al gruppo dei fuggitivi. Quattro o cinque di loro furono avvolti nell’esplosione che innescò i serbatoi di tre auto vicine, causando altre vittime ancora. Con un’ultima, curiosa occhiata all’auto sportiva, Leopardo 1 andò a finire i sopravvissuti.

    Abeba si spinse oltre lo spazio tra i sedili anteriori, e imprecò quando la cinta rimase impigliata nella leva del cambio. Il motore era ancora acceso, e lei allungò una mano verso il pulsante che abbassava i finestrini. L’istinto le diceva di aprire la portiera e correre, ma aveva visto cosa era successo all’uomo della macchina accanto. Gli specchietti della MX-5 erano abbastanza grandi, e da quello sul lato del passeggero poteva vedere ciò che stava accadendo tra le auto dietro la sua. Queste squadre di uomini col volto coperto spuntate da chissà dove stavano sparando senza pietà nelle macchine bloccate, senza badare all’età, al sesso o all’etnia di chi c’era a bordo, gettando poi granate negli abitacoli di furgoni e autobus. Lo specchietto era abbastanza grande anche per usarlo come copertura mentre sbirciava per capire come fosse la situazione più avanti, restando comunque parzialmente nascosta. Aveva l’impressione che non stesse facendo altro che chiedere a gran voce che le sparassero ma, malgrado la paura, riuscì a restare in quella posizione abbastanza a lungo per farsi un’idea di quello che stava succedendo. Gli uomini armati si aggiravano tra le auto scegliendo i bersagli, e ormai mancava poco prima che arrivassero da lei. Aveva l’impressione che agissero con un terribile distacco professionale, ed era grata che non stessero percorrendo metodicamente le file di auto. Alcuni bersagli, evidentemente, dovevano essere più allettanti di altri, e poi c’erano tutte le persone che provavano a sfuggire a quella carneficina. Poteva farcela, se solo fosse rimasta calma e avesse scelto il momento giusto. Attese, contando i secondi, spostando continuamente lo sguardo dallo specchietto alla scena che aveva davanti a sé, per individuare l’attimo in cui nessuno avesse guardato nella sua direzione. Uno. Due. Oh, Cristo santo. Tre. Si issò oltre il finestrino aperto e si lasciò cadere a terra, graffiandosi una spalla e strappandosi i jeans all’altezza delle ginocchia. Per fortuna, l’auto di fronte alla sua era un enorme fuoristrada e lei era abbastanza magra da potersi infilare sotto lo châssis prima di attirare l’attenzione degli uomini a destra e a sinistra. Tremante di terrore, si distese sull’asfalto bagnato, con la puzza di benzina nelle narici e un pugno in bocca per fermare il pianto spasmodico che le sconquassava il corpo. Le si arrestò il cuore quando sentì esplodere il parabrezza della MX-5 e vide comparire un paio di scarponi neri alla fine di pantaloni scuri accanto alla sua testa. Immaginò l’uomo che guardava nella sua auto, chiedendosi dove fosse finita la proprietaria. Bastava che si chinasse a dare un’occhiata e lei sarebbe morta, ma il sicario aveva di meglio da fare e andò via. Abeba strisciò di lato sotto la macchina verso la banchina che l’avrebbe portata al ciglio erboso, dove avrebbe potuto nascondersi tra i cespugli di ginestra. Toccò con le dita qualcosa di morbido e si fermò. Si voltò lentamente a controllare cosa fosse… e trattenne a stento un urlo. Il corpo di un omone con mezza testa e un solo occhio ancora sgranato le bloccava la fuga. Si sforzò di respirare, cercando di tenere a bada il terrore che continuava a montarle dentro. Forse quel cadavere le sarebbe tornato utile. Se ci si fosse rannicchiata abbastanza vicino nessuno l’avrebbe vista. Ecco la soluzione. Restare sotto quell’auto finché non fosse passata la tempesta.

    Chiuse gli occhi e si stese quanto più possibile vicino a quel corpo senza vita. Sentì un qualche liquido che le inzuppava i jeans e capì che doveva essere il sangue del morto. Oh, Jamie. Perché non era lì a consolarla? Ma sapeva che se Jamie Saintclair fosse stato in macchina con lei sarebbe già morto nel tentativo di proteggerla. Cominciarono ad arrivare le domande. Chi e perché. Il rumore delle mitragliatrici era incessante, costellato dal boato delle esplosioni. Al-Qaeda era l’unica organizzazione capace di uccisioni così spietate. Al cospetto di questo attentato, i bombardamenti del 7 luglio 2005 sembravano un’inezia. Ma di sicuro la sicurezza nazionale teneva sotto controllo quel gruppo terrorista. Come avevano fatto a portare tutte quelle armi nel Paese, e da dove veniva una tale, spaventosa esperienza militare? Si rese conto che stava analizzando l’attentato per distogliere la mente dai pericoli che la circondavano; le urla incessanti delle persone che morivano; le suppliche stridule della donna che aveva lasciato nella macchina accanto e le grida spaventose dei bambini che venivano giustiziati. Eppure, distogliere la mente dal pericolo era di per sé pericoloso. Un’esplosione particolarmente sonora e abbastanza vicina fu seguita da un’onda di calore. Qualcosa guizzò nella periferia del suo campo visivo, e una striscia di fuoco giallo e blu saettò sull’asfalto verso il suo nascondiglio. Carburante in fiamme. Davanti ai suoi occhi, lambì una ruota posteriore del fuoristrada. Se non si toglieva da lì, sarebbe finita carbonizzata.

    Riuscì a girare su se stessa fino a trovarsi faccia a faccia con l’omone ucciso, e si spinse in avanti fino a che non poté guardare a destra e a sinistra. Niente. Era la sua occasione. Quattro metri fino alla striscia d’erba e altri due per arrivare al terrapieno e ai cespugli. Si preparò, controllando ancora in cerca dei terroristi, ma non c’erano tracce imminenti della loro presenza. Con una torsione dell’anca uscì da sotto la macchina e si accovacciò, diede un ultimo sguardo intorno prima di lanciarsi oltre la strada, verso i cespugli. Senza badare alle spine che le strappavano i vestiti, si incuneò tra i rami di ginestra e si schiacciò a terra, cercando di diventare tutt’uno col terreno umido. Proseguire era fuori discussione, perché di là dal cespuglio c’era una recinzione e poi il campo aperto. Non avrebbe fatto neppure cinque passi prima che la abbattessero.

    Da dove si trovava, attraverso un varco nel fogliame, aveva una visuale perfetta su più di un chilometro di superstrada. Cosa davvero incredibile, nel punto più lontano di tanto in tanto ancora passava un veicolo, e le persone a bordo osservavano atterrite il massacro prima di rendersi conto di quanto fosse pericoloso. Dal lato opposto, un gruppo di terroristi vestiti di nero risaliva tra le macchine verso l’autotreno capovolto, mentre un’altra squadra, che probabilmente comprendeva l’uomo visto da lei, gli andava incontro. Al centro, altri uomini armati sparavano metodicamente nelle auto rimaste intrappolate e lanciavano granate tra i morti e i moribondi. Dovevano aver fatto già centinaia di vittime, se non migliaia. Non era paragonabile all’attentato del 7 luglio, questo era l’equivalente britannico dell’11 settembre americano, un eccidio di massa che non sarebbe mai stato dimenticato… o perdonato. Al centro esatto di quell’enorme ingorgo, il terrorizzato conducente di un’autocisterna piena di benzina provò a liberarsi con la forza, schiantandosi contro le macchine che aveva dietro e davanti nel tentativo di crearsi uno spazio di manovra. Ma, vide Abeba, uno dei terroristi imbracciò una sorta di tubo, se lo mise in spalla e sparò un missile che andò dritto al centro del grande camion. Per un istante non parve succedere nulla, poi la cisterna si aprì come un gigantesco petalo di rosa, e con un enorme boato una palla di fuoco volò per decine di metri verso l’alto, mentre il carburante in fiamme avvolgeva il camion e tutto quello che c’era intorno. Le auto esplosero una dietro l’altra, ulteriori lingue di fuoco e dolore. Sconvolta da quella scena e paralizzata dal terrore, Abeba pregò che chi era in quelle macchine fosse già morto, ma sapeva quanto vana fosse la sua speranza. Al centro di quell’inferno di rossi e arancioni, c’erano individui e intere famiglie che bruciavano vivi; non poteva sentire le loro grida, ma il ricordo le sarebbe rimasto per sempre.

    Il missile sparato contro l’autocisterna doveva essere il segnale di ritirata, perché i terroristi cominciarono a muoversi in fila tra le macchine verso un punto centrale sul bordo della superstrada, a circa cento metri sulla sua destra. Si stupì nel vedere che erano davvero in pochi, forse appena una dozzina di uomini; alti e asciutti, vestiti di nero, il volto coperto da identici passamontagna e le armi portate con la disinvoltura di chi è abituato a usarle ogni giorno. Abeba si rannicchiò su se stessa per diventare ancora più piccola quando due sicari passarono camminando a circa un metro da lei. No, non stavano camminando; il modo in cui si muovevano, sicuri, arroganti, ma sempre circospetti, le faceva tornare alla mente i filmati che aveva visto sui leopardi in caccia. Avvertì un’ondata di sollievo quando sparirono dalla sua visuale, ed emise un piccolo rumore strozzato nel tentativo di reprimere l’impulso di vomitare.

    Un minuto più tardi sentì il suono di diversi motori che venivano avviati. Il primo istinto fu di restare nascosta, ma la curiosità e uno strano senso di colpa la costrinsero ad agire. Era sopravvissuta. Tutte quelle persone nelle auto bruciate no. Chi le aveva uccise stava per fuggire chissà dove, ed era suo dovere nei confronti delle vittime scoprire almeno che direzione avrebbero preso i terroristi.

    Girandosi e torcendosi tra i cespugli andò verso la cima del terrapieno. Una volta arrivata, vide due o tre potenti moto da cross che già sfrecciavano attraverso il campo, subito seguite da altre quattro. Le prime arrivarono a una recinzione, e Abeba si aspettava che si fermassero, ma proseguirono come se nulla fosse. Ovviamente, avevano già tagliato un varco per usarlo come via di fuga. Sirene in lontananza. Finalmente. Perché ci avevano messo tanto? Lanciò un’occhiata all’orologio e rimase di sasso quando vide che erano passati meno di dieci minuti da quando si era capovolto l’autoarticolato. Le immagini presero a sfrecciarle nella mente; sangue, fiamme e volti terrorizzati. E qualcos’altro. Con suo stupore, teneva ancora stretto in mano il cellulare quasi fosse una sorta di talismano, il messaggio per Jamie visibile sullo schermo. Doveva aver sentito dell’attacco alla tivù. Armeggiò con i tasti, e fece in tempo a digitare le parole Sto bene prima di sentire un fruscio alle sue spalle. Riuscì in qualche modo ad aggiungere altre sette lettere e a premere il pulsante di invio, prima che l’ombra le fosse addosso. Il suono delle sirene era sempre più forte, accompagnato ora dal sommesso, ritmico ronzio di un elicottero lontano, ma capì subito che per lei era troppo tardi.

    Alzò lo sguardo in una muta supplica e l’uomo col volto coperto disse qualcosa che lei non fu in grado di capire. La canna del fucile si alzò. L’ultimo pensiero cosciente di Abeba Trelawney fu la constatazione che il suo assassino aveva gli occhi azzurri.

    «Mi dispiace», ripeté Leopardo 1. «Dovevi restartene nascosta».

    Si voltò per unirsi agli altri, ma all’ultimo momento notò il cellulare nella mano della donna che aveva ucciso e si chinò a raccoglierlo, lo sguardo fisso sullo schermo. Il rumore degli elicotteri in arrivo gli impedì di prendere altre decisioni, e così il capo dei terroristi tornò di corsa dagli altri tre membri della squadra Leopardo che lo aspettavano già sulle motociclette, si infilò un casco e salì a sua volta in sella.

    «Andiamo», urlò. «Attiriamoli verso il centro del campo».

    «Cristo santo, ma che sta succedendo laggiù?». Le parole dell’osservatore avanzato parevano riecheggiare il pensiero del pilota dell’elicottero di sorveglianza della polizia, che però era troppo professionale per diffondere via radio le proprie emozioni. Inoltre, lui sapeva esattamente cosa stava guardando, mentre volava attraverso la coltre di fumo che incombeva sulla superstrada. Cosa insolita per un pilota della polizia, aveva guidato elicotteri anche in guerra, in Iraq, e la scena che aveva sotto di sé gli ricordò la strada per Bassora dopo che i jet e gli elicotteri militari americani avevano falcidiato un convoglio di iracheni in fuga lungo più di dieci chilometri. Tra le file di veicoli bloccati sulla M25 giacevano decine di sagome immobili, alcune così piccole che dovevano per forza essere bambini. Sperò che facessero così per restare nascosti, ma sapeva che non era vero. Il pilota era a sua volta genitore, e quando cominciò a farsi un’idea chiara della portata di quel massacro, lo stupore iniziale si trasformò in rabbia. Giurò che, se fosse dipeso in qualche modo da lui, i maledetti bastardi responsabili di quella strage avrebbero passato il resto della vita in carcere.

    «Guarda! A ore sei».

    Sentì il cuore che batteva più veloce non appena individuò il piccolo gruppo di moto che correva attraverso i campi. Più avanti, vide diverse altre motociclette che proseguivano verso una fitta boscaglia. «Vorrei che questo fosse un cazzo di Apache», disse, a denti stretti. «Non sarebbero così audaci con un centinaio di proiettili di grosso calibro e un missile Hydra attaccati al culo».

    «Tu pensa a restargli addosso». L’osservatore, che manovrava la telecamera dell’elicottero, apprezzava abbastanza il suo pilota, ma a volte non gli andava giù che per quell’uomo i soli eroi fossero i militari. Dietro di lui, il comandante tattico stava dando istruzioni alle unità di terra che si dirigevano verso la scena dell’attentato. Grugnì. «Non vi preoccupate, li prenderemo quei bastardi».

    Il pilota tenne sospeso l’elicottero in aria a quota novecento metri, per assicurarsi che la Wescam stabilizzata riuscisse a ottenere la migliore inquadratura possibile dei terroristi e delle loro moto.

    «Grandioso, capo», rispose l’osservatore. L’obiettivo ad alta definizione stava registrando tutto nei minimi dettagli. «E quello…».

    «Cosa?».

    Ma la scintilla bianca che l’osservatore aveva intravisto tra gli alberi era diventata ormai una striscia ed era già a metà strada dall’Eurocopter EC153. Il pilota reagì con la rapidità di un veterano, e azionò con una mano la leva di controllo mentre schiacciava il pedale del rotore di coda per far scendere in picchiata il velivolo, ma era già troppo tardi.

    «Oh, merda».

    Il missile Stinger non aveva neppure raggiunto la sua massima velocità di Mach 2 quando colpì l’elicottero a meno di mezzo metro dalle pale. Il comandante tattico, che era seduto proprio sotto il punto di impatto, morì all’istante quando esplose la testata da tre chilogrammi, carbonizzato e smembrato nella medesima frazione di secondo. Una tagliente scheggia del motore in lega decapitò il pilota, la testa ancora protetta dal casco rotolò tra i piedi e dal collo uno zampillo di sangue andò a dipingere il vetro anteriore di un rosso scarlatto. Senza più il motore e con nessuno ai comandi, l’Eurocopter prese ad avvitarsi su se stesso mentre piombava al suolo. Intrappolato al centro di quella catastrofe, l’osservatore poté soltanto urlare e guardare la terra che sembrava corrergli incontro in una macchia sfocata di velocità, fuoco e luce.

    Il leader dei terroristi osservò l’elicottero che veniva giù come una farfalla con le ali bruciate, per schiantarsi infine con un assordante rumore di metallo dilaniato. I serbatoi principali esplosero al momento dell’impatto con un forte boato, ponendo così fine all’agonia di quel che restava dell’osservatore. Leopardo 1 girò la moto e andò verso i resti del velivolo. Frenò in derapata e assaporò l’odore acre della benzina in fiamme, intrigato dalla figura umana annerita e contorta che sedeva dritta in una pozza di fuoco accanto ai rottami.

    «Si chiude così la prima lezione», sussurrò da sotto il casco. «Allahu Akbar».

    3

    Jamie Saintclair avvertì una strana sensazione di distacco mentre calavano la bara di quercia nella fossa, come se non fosse lui l’uomo lì in piedi sotto una pioggia leggera a guardar sotterrare il corpo devastato della donna che amava. Chiuse gli occhi. Forse in parte era per via della profonda stanchezza – proprio non riusciva a prender sonno – eppure avrebbe dovuto provare qualcosa di più. Strinse i pugni, affondando le unghie nei palmi, e trasalì quando qualcuno gli poggiò una mano sulla spalla. Michael, il fratello di Abbie; avrebbe dovuto essere lui a dargli conforto, e non il contrario. Quando riaprì gli occhi,

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