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Un cucciolo di nome Percy
Un cucciolo di nome Percy
Un cucciolo di nome Percy
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Un cucciolo di nome Percy

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Una toccante favola che scalda il cuore

Il regalo più bello è l'amore di un cucciolo

Percy è un cagnolino che non ha più una casa. È stato abbandonato in un rifugio per animali durante una gelida notte di inverno. Quando, attraverso le grate della gabbia, i suoi occhi incontrano per la prima volta quelli di Gail, capisce che sarebbe in grado di fare qualunque cosa per renderla felice. E il desiderio di trovare una nuova famiglia che gli voglia bene per sempre comincia a sembrargli realizzabile. Gail spera che l’adorabile carlino che ha appena adottato possa essere il miracolo natalizio di cui la sua famiglia ha disperatamente bisogno. Sua figlia Jenny, infatti, entra ed esce dall’ospedale da quando si è ammalata di cuore. E le cose con suo marito Simon sono sempre più complicate. Determinato a rimettere insieme i pezzi della famiglia, Percy farà tutto ciò che è in suo potere per regalare un po’ di serenità a Gail, Jenny e Simon. E un simpatico gruppo di amici a quattro zampe sarà un alleato preziosissimo per il carlino dal cuore grande che conquisterà tutti.

Il miracolo del Natale arriva scodinzolando

Una dolcissima commedia per tutta la famiglia 

«Le ceneri di Angela a quattro zampe!»
London Evening Standard

«Un libro che fa subito stare bene, vi farà battere il cuore. La lettura perfetta per le notti invernali.»
Fiona Harrison
vive in Inghilterra, nella West Country, con il marito e la loro famiglia a quattro zampe. Dopo anni trascorsi a Londra, lavorando come giornalista, ha capito che una vita senza cani e gatti non vale la pena di essere vissuta e da allora si dedica alle sue grandi passioni: i cuccioli e i libri. Un cucciolo di nome Percy è il suo primo romanzo.
LanguageItaliano
Release dateSep 25, 2018
ISBN9788822726773
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    Un cucciolo di nome Percy - Fiona Harrison

    Capitolo 1

    Nonostante la luce della mattina autunnale che filtrava dalla finestra, sentivo le palpebre pesanti e il sonno mi impediva di aprirle. Così mi rannicchiai nella coperta blu di cashmere che il mio padrone Javier mi aveva comprato. Strizzai gli occhi, felice di godermi ancora qualche minuto a letto con il plaid che amavo e mi rigirai fino a trovare una posizione comoda. Ma per quanto mi impegnassi per tornare tra le braccia di Morfeo, qualcosa non andava.

    Aprendo gli occhi con rinnovata determinazione, mi sollevai sulle quattro zampe e mi guardai intorno. All’improvviso, mi accorsi che la stanza in cui mi trovavo non era per nulla familiare. Dov’era il divano su cui mi piaceva fare i sonnellini? E il televisore su cui guardavo Tom & Jerry? Dov’erano finiti il tavolino di vetro in cui inciampavo sempre e la morbida moquette multicolore su cui mi rotolavo? Perché non ero a casa?

    Con il battito accelerato per la paura, mi guardai alle spalle e capii che mi trovavo da solo in una piccola stanza in cui c’erano un letto e un vecchio scatolone di giochi, mentre dall’altra parte c’era una poltrona logora. Il cibo e la ciotola dell’acqua erano vicini all’ingresso e il pavimento era coperto da un tappeto liso di vello di pecora. Sentendo un rumore di passi oltre la porta, voltai la testa e sbirciai attraverso una grossa finestra in plexiglas che si affacciava su un corridoio affollato: vidi che pullulava di cani eccitati e di umani con addosso uniformi verdi.

    Veloci come un levriero, i ricordi mi riaffiorarono alla mente e fui scosso da un brivido rendendomi conto di quanto fossi lontano da casa. Rammentavo fin troppo bene che ero stato abbandonato in un canile da Javier, ma non sapevo il perché. Mi ero comportato male? Javier non mi voleva più bene? Ero stato cattivo con un altro cane? O peggio, mi ero macchiato del peggior peccato canino e avevo morso un umano senza alcuna apparente ragione?

    Disperato, crollai sul letto e, coprendomi gli occhi con le zampe, cercai di capire perché Javier mi avesse lasciato qui a marcire come molti altri cani prima di me. Conoscevo i posti come questo, quelli che nella comunità dei cani chiamavamo code dimenticate, canili, posti riservati agli animali indesiderati. Erano il rifugio dei trovatelli, dei randagi e dei senza famiglia. Ero uno di loro ora? Senza famiglia? Adoravo il mio padrone Javier e pensavo che lui provasse lo stesso. Eravamo insieme da tre anni, da quando ero un cuccioletto, ed ero stato incredibilmente felice. Pensavo lo fosse anche lui. Cosa lo aveva spinto a non amarmi più? Mi sfuggì un guaito di tristezza. Avrei fatto di tutto per riportare indietro le lancette dell’orologio e cancellare qualsiasi cosa avessi fatto per convincere Javier ad abbandonarmi qui. Gli volevo bene, era il mio padrone, era tutto il mio mondo e, molto semplicemente, sarei morto per lui.

    Fui attraversato da una nuova ondata di terrore rendendomi conto che ora che Javier mi aveva lasciato in questo posto non l’avrei mai più rivisto. Il pensiero di una vita senza il mio amato padrone e migliore amico, perché questo era lui per me, era terribile. Quando il suo bel viso di sudamericano mi apparve nella mente, emisi un latrato. Gli volevo bene, mi mancava e non riuscivo a immaginare di vivere senza di lui.

    Ripensai a come mi ero comportato negli ultimi giorni e settimane, ma non avevo commesso nulla di terribile. Anzi, ero sicuro di essere stato bravo: non mi ero seduto sui vestiti di Gabriella, la fidanzata di Javier, non avevo fatto molto rumore mangiando i croccantini e non li avevo infastiditi chiedendo di fare troppe passeggiate.

    Ululai di nuovo e sentii la porta della stanza aprirsi, poi dei passi leggeri che mi si avvicinavano. Dall’odore, potevo dire che chiunque fosse, era umano. Ma non mi interessava sapere di chi si trattasse o cosa volesse. Desideravo rimanere così, con le zampe a coprirmi gli occhi per sempre. Niente e nessuno mi avrebbero potuto far cambiare idea. Quando l’umano mi fu vicino, mi resi conto che si era chinato, perché i jeans che indossava mi sfiorarono il muso. Ci fu una pausa, poi sentii delle dita morbide, che appartenevano per forza a una donna, accarezzarmi la testa e la schiena.

    «Come stai oggi, Percy?», chiese lei gentilmente.

    «Malissimo», guaii, senza spostare le zampe dagli occhi.

    «Non mi sorprende», commentò dolcemente, «ti è successa una cosa terribile. Per te sarà uno shock, ma sono qui per aiutarti a superarlo».

    «Non ti credo», ringhiai. «Non c’è nulla che tu possa dire o fare per migliorare la situazione. Il mio padrone non mi ama più e mi manca molto. Nessuno mi vorrà mai più bene».

    «Oh, Percy», sospirò la donna. «Ti prometto che sarai amato di nuovo. Ce ne assicureremo noi. Mi chiamo Kelly. Forse non ti ricordi, ma ti ho dato un’occhiata quando sei stato lasciato qui dal tuo padrone la scorsa notte».

    «Me lo ricordo», piagnucolai piano.

    «Adesso il mio obiettivo è trovarti la miglior famiglia possibile. Persone che ti ameranno per sempre», disse Kelly teneramente.

    Era strano trovare un umano in grado di comprendere quello che noi cani comunicavamo con i latrati, ma Kelly, diversamente da Javier o Gabriella, capiva tutto al volo. C’era qualcosa nella voce di questa donna che trovavo rassicurante e spostai le zampe dagli occhi per guardarla. Aveva un viso solare e sorridente, piccolo, con il naso a patata e ciocche di capelli grigi che si mischiavano alla chioma bionda. Kelly mi stava sorridendo e mi sembrò che avesse l’aria di una che aveva fatto e visto di tutto. Starle vicino mi rilassava.

    Continuò ad accarezzarmi il pelo morbido e avvicinò la faccia alla mia. «Non dovrai aspettare a lungo una casa, Percy. Tutti amano i carlini, vedrai».

    Le leccai la guancia in risposta. Sapevo che stava solo cercando di essere gentile. Dopotutto, se avesse avuto ragione, Javier non mi avrebbe mai abbandonato.

    «Voglio raccontarti un segreto, Percy», continuò. «Ho sempre avuto un debole per i carlini e sono pazza di te da quando sei arrivato. Mi assicurerò che ti adotti qualcuno di molto speciale, perché voglio che tu abbia una vita davvero felice».

    Mi sollevò con le sue mani morbide e calde, poi mi ricoprì il muso di baci. Le sue labbra sembravano farfalle leggere che mi si posavano sul pelo e arricciai la faccia felice prima che Kelly mi mettesse giù.

    «So che hai subìto uno shock. Essere abbandonati dal proprio padrone non è bello, ma voglio che tu sappia una cosa: mentre mi impegnerò a cercare una buona famiglia che ti ami, sarò io a prendermi cura di te, capito?», disse con voce morbida e avvolgente.

    Abbaiai con un po’ più di entusiasmo rispetto a prima – volevo sapesse che avevo compreso tutto. Mi piaceva l’idea che Kelly si occupasse di me.

    «Ora, vorrei essere sicura che i miei amici trascorrano dei bei momenti mentre sono qui, quindi li incoraggio a giocare il più possibile», disse con un sorriso, incamminandosi verso le ampie porte a vetri e facendomi cenno di seguirla. Fuori, sul retro del canile, c’era un ampio cortile che avevo a malapena visto quando ero arrivato, perché ero troppo confuso per accorgermi di qualsiasi cosa stesse accadendo attorno a me. Sbirciai dalla vetrata e vidi molti altri cani giocare con degli umani in uniforme verde, come Kelly, mentre altri erano seduti a chiacchierare tra loro. Non sembravano per niente tristi. Infatti, guardando un cockapoo che si agitava correndo da una parte all’altra del cortile, sollevando manciate di foglie secche al suo passaggio, notai che sembrava davvero felice.

    «Vedi come alcuni corrono e si divertono?», mi chiese Kelly, leggendomi ancora una volta nel pensiero. «Tra un po’ sarai come loro. Riceverai coccole, farai passeggiate, correrai nel cortile e potrai farti tanti amici. Non sarà per niente male. E poi baderò io a te».

    Strusciai la testa contro la sua gamba in segno di gratitudine. Stare vicino a questa donna mi faceva sentire più forte e, per quanto volessi ancora disperatamente tornare a casa, ebbi la sensazione che Kelly si sarebbe davvero presa cura di me come se fossi stato il suo cane.

    «Ora lascio fare a te, visto che a quanto pare sono tornati i tuoi vicini, Barney e Boris». Kelly sorrise accarezzandomi le orecchie ancora una volta. «Ci vediamo più tardi».

    Mentre la donna mi salutava con la mano, vidi un giovane westie entrare nella stanza alla mia sinistra e un triste beagle, apparentemente più anziano, occupare lo spazio sulla destra. Appoggiai le zampe sui grossi teli di plastica che dividevano la mia stanza dagli altri cani e mi presentai con un latrato cordiale.

    «Io sono Boris», rispose il westie.

    «E io Barney», disse tristemente il beagle.

    Vidi che Barney era ancora umido per il bagno che chiaramente gli avevano fatto, e aveva un graffio che sembrava doloroso sulla pancia. Si accasciò sul pavimento davanti a me con aria affranta.

    «Come ti sei fatto quella ferita?», abbaiai con curiosità.

    «Cercando di passare da una gattaiola», rispose cupamente. Le lunghe orecchie rendevano i suoi afflitti occhi nocciola ancora più addolorati. «Volevo provare a trasferirmi nella casa accanto dopo che il mio padrone è morto. Ma quando sono rimasto incastrato, i vicini mi hanno portato qui».

    Scossi la testa sbalordito. I beagle dovrebbero essere intelligenti e questa non era certo la mossa più astuta che avessi sentito da parte di un cane di quella razza. Comunque, sapevo che non era il momento adatto per punzecchiare Barney. Quindi gli rivolsi un latrato comprensivo e un’occhiata. Una volta guarita la pancia, senza dubbio sarebbe stato un bel tipo e avrebbe trovato dei nuovi padroni. Glielo dissi subito.

    «Lo pensi davvero?», chiese Barney illuminandosi un po’, i tristi occhi scuri leggermente meno mesti.

    «Oh, sì», dissi con l’aria di chi ne sa, rendendomi conto che sarebbe potuto essere un cane molto carino se solo avesse ricevuto un po’ di attenzioni e coccole. «Sfonderanno la porta per venire qui e adottarti».

    «Percy ha ragione», abbaiò forte Boris da dietro la plastica. «Non dovrai aspettare molto per trovare una casa».

    La coda di Barney sbatté gioiosamente contro il pavimento. «Oh, davvero?», domandò. Si interruppe un attimo, poi mi guardò. «Be’, non credo che nemmeno tu ci metterai tanto a farti adottare. Tutti amano i carlini, no?», commentò Barney, facendo eco a quanto aveva detto poco prima Kelly.

    Boris si gettò a terra. «È vero. Voi verrete adottati e io rimarrò solo per sempre».

    «Ma non è così», replicò Barney.

    «Invece sì», abbaiò Boris. «Sono un cane cattivo. Sam, il mio ex padrone, e sua moglie Emma non mi sopportavano. Gli ero sempre tra i piedi».

    «Sono sicuro che non fosse così», risposi. «Molti pensano che a noi serva solo una ciotola con del cibo e un paio di passeggiate. Non si rendono conto che abbiamo bisogno di compagnia, affetto e…».

    «Amore», mi interruppe Boris. «I miei padroni non mi hanno mai amato. Pensavo mi volessero bene, ma poi si è scoperto che ero troppo impegnativo per loro».

    Provai un po’ di compassione per lui. In fondo era un ragazzino, appena più giovane di me e, nonostante le mie paure riguardo al futuro, volevo che si sentisse meglio.

    «Hai visto quanto sono affettuosi Kelly e gli altri. Ti ameranno, giocheranno con te, ti ascolteranno e intanto cercheranno di trovarti una buona casa».

    «Dovrò avere molta fortuna», abbaiò cupamente Boris. «Il mio padrone Sam diceva sempre che ero terribile e che nessun altro mi avrebbe mai voluto».

    Grugnii piano. Questo Sam non sembrava nemmeno degno di leccare le zampe del mio nuovo amico, pensai arrabbiato.

    «Non sei terribile», abbaiai con forza. «Sei un cane adorabile, Boris».

    «Non badare ai tuoi vecchi padroni», aggiunse Barney. «Qualsiasi famiglia sarebbe fortunata ad averti».

    Boris alzò gli occhi al cielo. «Facile dirlo per voi, siete entrambi molto più carini di me. Nessuno mi vorrà mai».

    «Ma non è sempre stato così», protestai. «Ero triste quanto sei tu ora, ieri, quando il mio padrone Javier mi ha lasciato qui».

    «Com’era lui?», chiese Barney.

    Sospirai e mi accasciai a terra, incerto su dove cominciare. Pensando a Javier stavo malissimo. Mi aveva abbandonato, ma lo adoravo e avrei fatto qualsiasi cosa mi avesse chiesto se solo fosse entrato in quell’istante dalla porta.

    «Javier era un dottore argentino a cui piacevano le cose belle della vita, mi trattava come un re, mi dava il cibo più buono, molte prelibatezze e tutti i giochi possibili e immaginabili», raccontai a Boris in tono burbero. «Vivevamo in un appartamento a Battersea, affacciato sul Tamigi. Mi ha adottato tre anni fa, io avevo solo pochi mesi».

    «Sembra una bella vita», abbaiò Boris.

    «Lo era», replicai. «Mentre era al lavoro sonnecchiavo. Quando tornava, si beveva una birra ghiacciata e poi andavamo a fare una passeggiata al parco, in cui chiacchieravamo e io masticavo palline da tennis. Se Javier aveva dei turni lunghi, mi portava fuori la sua ragazza, Gabriella, ma non era mai come uscire con lui, perché lei non vedeva l’ora che il giro finisse».

    «E allora cos’è successo?», chiese Boris, interrompendo il mio flusso di ricordi.

    «Una sera stavo guardando la televisione», abbaiai cupamente, «quando vidi che i due umani stavano facendo le valigie. Una volta finito, Javier mi prese in braccio, mi accarezzò, mi disse che mi voleva bene ma che lui e Gabriella dovevano andare a casa, a Buenos Aires, perché i loro permessi di soggiorno erano scaduti».

    «Perché non hanno portato anche te?», chiese ragionevolmente Barney.

    Alzai le mie piccole spalle e sentii tremare il labbro inferiore. Avevo abbaiato rabbiosamente a Javier la stessa domanda, implorandolo di portarmi con sé, ma lui mi aveva ignorato. Aveva raccolto le mie cose, chiamato un taxi e mi aveva lasciato qui.

    «È terribile», commentò Boris. «Devi aver avuto molta paura».

    La tristezza mi corse lungo il pelo ricordando Javier che si allontanava e come il mio corpo tremò di terrore quando capii che mi stava davvero abbandonando in un canile della periferia di Londra. Le mie guance rugose bruciarono di vergogna al pensiero di quando gli avevo abbaiato di non lasciarmi, che mi dispiaceva per qualsiasi cosa avessi fatto e che mi sarei comportato bene se solo lui fosse tornato a prendermi e mi avesse portato con sé in Argentina. Ma i miei latrati disperati e privi di dignità non erano serviti a nulla, perché il mio ex padrone era risalito sul taxi senza nemmeno voltarsi indietro.

    «Ero terrorizzato», abbaiai. «Lo sono ancora».

    Infatti, ero talmente spaventato che non avevo confessato a nessuno la mia più grande paura, nemmeno a Kelly. Se avesse trovato qualcuno che mi amasse e mi adorasse, nulla avrebbe impedito anche a quella famiglia di abbandonarmi. Chi avrebbe potuto giurare di tenermi con sé per sempre? Javier mi aveva insegnato una cosa: a volte l’amore non è abbastanza.

    Capitolo 2

    Mentre i giorni diventavano settimane e la maggior parte dei miei amici lasciava il canile per raggiungere più verdi pascoli, mi chiesi se Barney, Boris e Kelly si stessero sbagliando. Forse non tutti amavano i carlini. Negli ultimi giorni, avevo visto Frank il cocker andarsene con una giovane coppia di Cheam; Maggie, una weimaraner, era scomparsa con un anziano signore di Hove; e persino Daisy, la westie che soffriva di una flatulenza così forte da far scappare tutti, era stata adottata da un’amorevole famiglia di Chelmsford.

    Ora sembrava che anche Barney fosse pronto a partire, visto che era andato molto d’accordo con una giovane signora single di Clapham, che ora era ritornata per portarlo a casa. Mentre la donna si abbassava per accarezzargli le orecchie, Barney uggiolava e agitava la coda con così tanto entusiasmo da far vibrare il pavimento sotto le mie zampe. Ovviamente ero felice che lui avesse trovato qualcuno in grado di dargli l’amore che meritava, ma sotto sotto mi dispiaceva non essere al suo posto.

    Allontanandosi con la sua nuova padrona, Barney mi rivolse un’occhiata speranzosa. «Anche per te arriverà una famiglia speciale, te lo giuro».

    Lo guardai andare via attraverso le ampie porte a vetri che si affacciavano sul cortile e sul mondo. Lentamente trotterellai verso il mio letto morbido e m’infilai sotto la coperta soffice. Volevo solo estraniarmi. Anche se era sabato e sapevo che il canile sarebbe stato pieno di potenziali famiglie, non ero dell’umore giusto per esibirmi. Nelle ultime settimane, avevo fatto tutte le cose carine da carlino che si possano immaginare per convincere qualcuno ad adottarmi. Avevo arricciato la coda e l’avevo agitata, mi ero messo a pancia all’aria per far capire che mi piacevano le coccole e avevo persino incollato i miei occhi nocciola su tutti i bambini che passavano. Naturalmente avevo ricevuto la mia dose di coccole e, stando qui per qualche tempo, avevo persino smesso di guaire quando i ragazzini mi tiravano la coda o mi pestavano le zampe delicate. Ma anche se tutti erano stati così gentili da ricoprirmi di attenzioni, li avevo sentiti discutere concitatamente dei problemi di salute che avrebbe causato il mio muso corto, insieme alle preoccupazioni per la flatulenza.

    Ero distrutto. Avevo perso la casa, il mio padrone e persino la speranza mi stava abbandonando. Kelly aveva fatto del suo meglio per tirarmi su di morale dicendomi quanto fossi adorabile, ma sapevo che non era vero. Non avevo più voglia di dipingere un coraggio fasullo sul mio piccolo muso. Chiusi gli occhi e sognai una vita diversa. Passeggiate in grandi parchi verdi, solletico sulla pancia da parte di un bambino amorevole, coccole a letto con una mamma affettuosa e chiacchiere da uomo a uomo con il papà di casa in un capanno nel giardino.

    Ma questi pensieri ora mi sembravano poco più che fantasie e strizzai gli occhi, cercando di dimenticare il mondo. Il periodo che avevo passato al canile non era stato male, anzi, lo avevo trovato quasi piacevole, ma non era certo come avere una vera casa. Vedere tutti i miei amici adottati, tranne Boris, aveva fatto sì che mi ponessi molte domande, prima fra tutte: cosa non andava in me?

    Da quando avevo condiviso con Boris e Barney la storia del mio arrivo qui settimane fa, non ero riuscito a togliermi dalla testa il fatto che Javier avesse ignorato le mie suppliche di portarmi con sé. Avevo ripensato a tutto ciò che aveva potuto infastidirlo. Sapevo di non essere mai piaciuto troppo a Gabriella e forse era questa la ragione per cui lui non aveva insistito per farmi andare con lui in Argentina a iniziare una nuova vita.

    Ero assillato dal dubbio, capendo che anche se una famiglia mi avesse adottato, ci sarebbe comunque potuto essere qualcuno a cui non piacevo e che mi avrebbe mandato via di nuovo. C’erano così tante ragioni per cui un cane poteva finire al canile che avrei voluto guaire dalla disperazione. Mi sembrava che noi cagnolini fossimo condannati in ogni caso, per quanto adorabili o ben educati potessimo essere. Rattristato, feci quello che ho sempre fatto durante le crisi: mi abbandonai al sonno, sperando contro ogni probabilità che al mio risveglio la mia sorte fosse diversa.

    «Oh, ma è bellissimo», mormorò una voce femminile, destandomi gentilmente dal mio sonnellino.

    Mi voltai con gli occhi assonnati e guardai la donna dietro la vetrata. Era bassa e magra, con i capelli castani che si posavano sulle spalle in morbide onde; gli occhi azzurri emanavano un calore e un amore che non vedevo da tempo. Improvvisamente mi sentii speranzoso e, rivolgendo un’occhiata a Kelly, che era in piedi sorridente di fianco alla nuova arrivata, mi riscossi dal torpore e trotterellai verso la vetrata per darle il benvenuto con un abbaio. La donna sorrise chinandosi e il cappotto di lana rossa che indossava toccò terra dietro di lei. Batté le dita con gioia sul vetro.

    «Ciao, giovanotto». Sorrise ancora prima di voltarsi verso Kelly. «Penso di essermi innamorata. Posso andare a vederlo, per favore?».

    Kelly rise, infilandosi le mani in tasca per cercare una di quelle leccornie che tanto amavo. «Certo. Lui è Percy», spiegò alla donna, mentre io leccavo via il cibo dalla sua mano calda. «Mi è molto caro, è bello, affascinante e pieno d’amore: la mia idea di uomo perfetto».

    Dopo avermi sollevato, Kelly mi abbracciò per tranquillizzarmi e invitò la visitatrice a sedersi su una vecchia poltrona in un angolo. Poi mi appoggiò delicatamente sulle gambe della donna e mi accarezzò sotto il mento.

    «Questa è Gail», mi disse Kelly. «Abbiamo parlato molto di te, Percy, perché anche lei, come me, è una donna di buon gusto e ama i carlini».

    Abbaiai in segno di apprezzamento. Era la notizia più promettente che avevo ricevuto dal mio arrivo. Sistemandomi sulle ginocchia di Gail per poterla guardare meglio, la osservai con attenzione. Sembrava essere alla soglia dei quarant’anni, la pelle era bianco latte e le poche lentiggini sul naso le donavano un aspetto dolce e vulnerabile. Ma dalle leggere rughe intorno ai brillanti occhi azzurri e le occhiaie grigie, capii che aveva passato brutti momenti e che forse, come me, era stanca di lottare per trovare il proprio posto nel mondo. Mi piacque subito e, mentre lei ricambiava il mio sguardo con occhi calorosi, avvertii una fitta alla pancia e un colpo al cuore. Sentii che Gail era una donna piena di amore da offrire; emisi un altro latrato di gioia e lei mi solleticò dietro le orecchie ridendo.

    «Che ne dici di venire a fare una passeggiata con me, Percy?», chiese gentilmente. «Mi piacerebbe conoscerti meglio».

    Strofinai la testa contro il suo braccio con gratitudine, per mostrare il mio entusiasmo.

    «Credo che sia un sì», disse Kelly, porgendole il guinzaglio.

    Quando Gail lo legò al collare, camminai obbediente al suo fianco nel cortile. Sentendo l’aria fresca sul muso, guardai la donna e srotolai la coda, così da poterla agitare liberamente con gioia incontenibile. Nessun altro mi aveva chiesto di fare una passeggiata e io ero deciso a piacere a Gail

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