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Nessuno deve sapere
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Nessuno deve sapere

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«L’ho adorato e ho divorato ogni riga fino al finale da brividi.» Gillian Flynn, autrice di L’amore bugiardo

La loro relazione è finita
Ma il gioco è appena cominciato

Mike Hayes ha avuto un’infanzia difficile e si è ricostruito con fatica una vita solitaria ma serena. Almeno fino al giorno in cui ha incontrato Verity. Mike si è innamorato e ha giurato a se stesso che l’avrebbe resa felice. Ha trovato un lavoro, una casa e ha persino modellato il fisico per essere l’uomo dei suoi sogni. È sicuro che, nonostante gli alti e i bassi, finiranno per stare insieme. Non importa se V non risponde alle sue mail e alle sue chiamate. Non importa se sta per sposare Angus. Fa tutto parte del gioco segreto tra loro. Mike deve solo osservarla costantemente per essere sicuro di cogliere “il segnale” non appena V deciderà che è giunto il momento di salvarla. E così, quando riceve l’invito al matrimonio, Mike non esita un secondo a confermare la sua presenza. Probabilmente è lì che V ha intenzione di chiedergli di intervenire. La loro è un’intesa speciale, segreta, e Mike è sicuro di conoscerne a fondo le regole. Perché non importa se apparentemente la loro relazione è finita. Il gioco è appena cominciato.

Tradotto in 12 paesi

Un morboso gioco segreto tra due amanti può avere conseguenze mortali

«L’incredibile storia di un’ossessione.»
Daily Mail

«Un incubo perfetto.»
A.J. Finn, autrice del bestseller La donna alla finestra

«L’autrice ha saputo costruire una trama angosciante che sfrutta le ambiguità dei protagonisti. Araminta Hall è una scrittrice da tenere d’occhio.» 
Publishers Weekly
Araminta Hall
è una giornalista e insegna Scrittura creativa a Brighton, dove vive con il marito e i tre figli. Dopo il successo dei primi libri, che le sono valsi numerosi riconoscimenti, arriva in Italia con Il nostro gioco crudele, recentemente ristampato con il titolo Nessuno deve sapere.
LanguageItaliano
Release dateSep 10, 2018
ISBN9788822726216
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    Book preview

    Nessuno deve sapere - Araminta Hall

    I

    37470.png

    Le regole del Desiderio erano semplici. Io e V andavamo in un nightclub, scegliendolo molto lontano da dove abitavamo. Il viaggio lo facevamo insieme, ma entravamo separati. Ci avvicinavamo al bancone del bar e ci mettevamo a sedere divisi, per non far capire che eravamo insieme, però non troppo distanti, in modo che potessi tenerla sempre d’occhio. Poi, aspettavamo. Non ci voleva mai molto. E del resto, V brillava come una stella. Qualche sfortunato si avvicinava per offrirle da bere o le chiedeva di ballare. Lei iniziava delicatamente a flirtare con lui, mentre io aspettavo, con gli occhi sempre incollati su di lei, pronto a scattare in qualsiasi istante. Usavamo un segnale: non appena sollevava la mano per tirare l’aquila d’argento che teneva sempre al collo, io entravo in azione. In quelle stanze palpitanti di oscurità mi facevo largo tra la massa di gente, prendevo lo sfigato che le sbavava addosso e gli dicevo che non doveva permettersi di parlare con la mia ragazza. E siccome sembro proprio uno con cui è meglio non scherzare – sono alto e ben piazzato, perché V ci tiene che faccia sollevamento pesi e cominci ogni giornata facendo jogging – quello lì immancabilmente indietreggiava, alzando le mani, tutto impaurito e timido. Qualche volta non riuscivamo a trattenerci e ci baciavamo, altre volte andavamo in bagno a scopare, con V che gridava per farsi sentire da tutti. Altre volte ancora, riuscivamo ad aspettare di arrivare a casa. Ma ogni singola volta, le labbra di entrambi sapevano di Southern Comfort, il liquore preferito di V.

    Fu V a dare un nome al nostro gioco, in una di quelle notti buie e gelide in cui la pioggia colava giù scrosciando dalle finestre. Indossava una maglietta nera, morbida come il velluto, che le sfiorava i seni rotondi. Evidentemente non portava il reggiseno. Il suo corpo mi provocava sempre la stessa reazione. Scoppiò a ridere quando la sollevai, le presi la mano e me la premetti contro il petto bollente.

    «Lo sai, Mikey, è così per tutti. Tutti quanti. Tutti desideriamo qualcosa».

    Si può dire che il Desiderio abbia sempre fatto parte della natura di V.

    42243.png

    C’è una parte di me che non vorrebbe scrivere queste cose, ma il mio legale dice che devo, ne ha bisogno per comprendere al meglio la situazione. Dice che nella mia storia c’è qualcosa che non riesce ad afferrare. E comunque è convinto che possa servire anche a me. Per fare il punto, dice. Secondo me è un idiota. Ma non ho nient’altro da fare tutto il giorno, a parte stare seduto in questa cella dimenticata da Dio insieme a Terry il Ciccione – un tizio che ha il collo più grande della coscia della maggior parte della gente – e sentirlo masturbarsi davanti alle foto di tipe famose che io neppure conosco.

    «Il gatto ti ha mangiato la lingua? Non sono abbastanza simpatico per te?», mi dice lui quasi tutte le mattine, mentre me ne sto sdraiato sulla mia branda, e le parole sono bombe inesplose sulla sua lingua. Io non gli rispondo, ma la cosa muore sempre lì, perché a quanto pare qui dentro tutti ti guardano con una specie di scontroso rispetto, se hai ammazzato qualcuno.

    42250.png

    Faccio fatica a credere che non sia passato neanche un anno da quando sono tornato dall’America, perché sembra una vita, se non due. Ma è vero: sono arrivato a casa a fine maggio e ora, mentre me ne sto seduto qui a scrivere in questa cella minuscola e buia, è già dicembre. Dicembre può essere un mese pieno di calore e cose belle, ma questo qui è freddo e noioso. Le giornate non si rischiarano mai, la nebbia non accenna neppure a diradarsi. I giornali parlano di una cappa di smog che ha avvolto Londra, come se un milione di anime dell’epoca vittoriana fossero tornate dall’oltretomba e ora stessero fluttuando sopra al Tamigi. In realtà, sappiamo tutti che si tratta di un trilione di minuscole particelle chimiche che inquinano la nostra aria e i nostri corpi, mutando e cambiando l’essenza stessa di ciò che siamo.

    Sono convinto che l’America sia stata l’inizio di tutto il casino. Io e V non avremmo mai dovuto separarci, eppure siamo stati sedotti dalla promessa di guadagni facili. Tanti soldi in poco tempo. Ricordo quando mi incoraggiava ad andare. Diceva che a Londra avrei impiegato cinque anni a tirar su quello che avrei potuto accumulare a New York in ventiquattro mesi. Ovviamente aveva ragione, ma adesso non sono più così sicuro che valesse la pena farlo per i soldi. È come se avessimo perso qualcosa di noi stessi, in quegli anni. Ci siamo consumati, logorati, ridotti a un involucro così sottile da diventare quasi irreale.

    Eppure, la nostra casa è reale. Concreta. Forse è proprio questo il senso? Un’equazione così folle che ti fa girare la testa: due anni all’inferno, uguale una casa di quattro camere da letto a Clapham. Sembra una barzelletta, detta così. Nessun uomo sano di mente accetterebbe di vendere la sua anima per una cosa del genere. Eppure questo non toglie che la casa esista. E rimarrà lì ad aspettarci, paziente e muta. Sì, rimarrà lì.

    Quando ho saputo che sarei tornato a Londra ho assoldato una cacciatrice di case, così la chiamano laggiù. Me la immaginavo aggirarsi per le strade della città con una pistola in mano e un paio di case buttate sulla spalla, il sangue che gocciolava ancora dalle ferite. Mi mandava un’infinità di foto, e io, seduto alla mia scrivania a New York, le passavo in rassegna una a una, finché tutte quelle immagini non mi confondevano la vista. Ho capito che la casa in sé e per sé non mi importava poi troppo, però doveva assolutamente soddisfare dei criteri molti specifici, perché sapevo quali erano le esigenze di V. Ho prestato grande attenzione alla posizione e all’orientamento. Sapevo che il giardino doveva essere rivolto a sud-est, e ho sottolineato con forza che dovevano esserci due finestre sul davanti, una a destra e una sinistra della porta d’ingresso – V trovava che dessero un tocco di calore, che rendessero più accogliente la facciata.

    Lungo il corridoio si affacciano delle stanze di cui da piccolo ignoravo totalmente l’esistenza. V mi ha insegnato che hanno dei nomi originali, tipo salone o biblioteca. Però, le librerie devo ancora riempirle e non ho alcuna intenzione di frequentare salotti o saloni.

    C’è un soggiorno con un ampio angolo cucina, per usare la definizione che gli agenti immobiliari amano utilizzare per qualsiasi stanza che ospiti il necessario per cucinare. Occupa tutta la parte posteriore della casa. I precedenti proprietari hanno allungato di un metro e mezzo la casa verso il giardino e hanno chiuso il tutto con una gigantesca vetrata, dotata di due enormi porte scorrevoli. Si aprono e si chiudono solo a sfiorarle, un movimento fluido, come passare la mano sotto un getto d’acqua.

    La pavimentazione riscaldata, in materiali naturali, copre tutta la stanza e arriva fino in giardino, così quando le porte sono aperte si può passare da dentro a fuori senza notare alcuna differenza di superficie.

    «Portiamo l’esterno all’interno», così si è espresso Toby, l’agente immobiliare, facendomi venire una grande voglia di prenderlo a pugni. «Hanno esteso la pavimentazione su tutto il giardino», ha specificato, piuttosto inutilmente, indicando il braciere e la vasca per l’idromassaggio, il barbecue in muratura, i raffinati laghetti decorativi. Per sua fortuna sapevo che V avrebbe adorato tutti questi dettagli, altrimenti avrei girato i tacchi e me ne sarei andato seduta stante.

    Ma sarebbe stato un vero peccato, perché il piano di sopra è la parte che preferisco. Ho fatto buttare giù i muri delle stanze sul retro e ho fatto risistemare gli spazi, perciò adesso abbiamo quella che Toby senza dubbio chiamerebbe la camera da letto padronale, ma che in realtà non è altro che una stanza molto grande, dotata di una cabina armadio e di un bagno sfarzoso.

    Per gli interni ho scelto materiali di lusso: seta e velluto, marmo e pietra. Quando li vedi non puoi proprio fare a meno di passarci la mano sopra. Ho fatto mettere delle pesanti tende alle finestre e un sistema di illuminazione intelligente, così l’ambiente è buio e sensuale o chiaro e luminoso a seconda delle esigenze. Sulla parte anteriore della casa ci sono due camere da letto più piccole e nel sottotetto c’è un’altra camera con bagno e una terrazza. È perfetta per gli ospiti, ha detto Toby.

    Ho messo lo stesso impegno anche nell’arredamento. Ho scelto una raffinata combinazione tra moderno e antico, per così dire. Moderno per tutte le cose utili come la cucina, i bagni, l’impianto audio, l’illuminazione e via dicendo. Antico per tutto il resto. Ho maturato una certa esperienza nel passare al setaccio i negozi specializzati. Adesso sembra quasi che sappia di cosa parlo. Ho persino scovato un terreno nel Sussex che quattro o cinque volte all’anno si trasforma in un gigantesco mercato antiquario. Alcuni tizi vengono dall’Europa dell’Est a bordo di enormi camion pieni di anticaglie del loro passato: ridendo di noi, ci rifilano tonnellate di cianfrusaglie alle quali nel loro Paese darebbero fuoco. Contrattare è d’obbligo, anche se spesso non ne ho voglia, perché rimango letteralmente incantato. In effetti, quando passi il palmo sullo schienale di una sedia, scoprendone solchi e grinze, rendendoti conto che la tua è solo una delle tante mani che hanno compiuto lo stesso identico gesto… be’, la sensazione è travolgente.

    L’ultima volta ho comprato una credenza, e quando l’ho portata a casa e l’ho aperta, nell’anta interna ho trovato un mucchio di numeri di telefono scritti a matita: «Marta 03201», «Cossi 98231», e tantissimi altri. Come leggere una storia monca dell’incipit, della parte centrale e del finale. Quelle cifre hanno colpito la mia fantasia. Mi pareva di vedere un investigatore privato alle prese con un caso complicato, o addirittura con un omicidio. Quando l’ho acquistata l’idea era di farla rifoderare, o di dipingerla di grigio scuro, ma dopo aver trovato i numeri l’ho lasciata esattamente così, con la vernice verde squamata e un cassetto interno che s’incastra ogni volta che cerco di aprirlo. Mi sono affezionato all’anonimato di quei contatti. Mi piace pensare che nessuno saprà mai cosa sia davvero accaduto a tutte quelle donne, o alla persona che si è segnata i loro numeri. Ma non credo che V perderà troppo tempo con la credenza. Forse deciderà persino di cancellare tutto.

    I colori delle pareti sono i preferiti di V. Le ho fatte dipingere soprattutto di blu marino e di grigio scuro, ma c’è anche del nero in certi punti – l’arredatrice mi ha assicurato che ormai non è più considerato deprimente. Mi ha convinto a dipingere l’esterno degli scaffali della cabina armadio di un nero lucido, e l’interno di uno scarlatto acceso. Mi ha detto che avrebbero trasmesso un senso di lusso, ma non ne sono tanto sicuro: ogni volta che entro lì mi sembra di vedere solo pelle e sangue rappreso.

    42256.png

    Una delle prime comunicazioni che ho ricevuto per posta dopo essermi trasferito è stato l’invito per il matrimonio di V. Era in una pesante busta color crema e sopra c’era il mio indirizzo, che mi appariva ancora poco familiare, scritto a mano con un inchiostro pregiato. Con la stessa grafia svolazzante e curata era stato vergato anche il mio nome, in alto sopra al cartoncino: tratti spessi e corposi, lettere nere in rilievo, molto piacevoli al tatto. Sono rimasto fermo a osservare il mio nome a lungo. Tanto a lungo che a un certo punto sono riuscito a visualizzare la mano che teneva la penna e tracciava delicatamente quelle lettere.

    C’era un lieve sbaffo sulla i, ma a parte questo era perfetto. Ho portato l’invito nel salone e l’ho posato sulla mensola sopra al camino, sotto allo specchio dorato, dietro ai lunghi candelieri d’argento. Mi sono accorto che mi tremava leggermente la mano, e mi sono reso conto che il sangue mi ribolliva nelle vene, una vampata che di certo non era provocata dalla temperatura esterna. Ho tenuto la mano contro il marmo fresco del caminetto e mi sono concentrato sulle intricate venature che incrinavano la perfetta levigatezza della mensola. E questo mi ha fatto ricordare che il marmo puro e perfetto è uno dei materiali più ricercati e desiderati dall’uomo, ma anche uno dei più difficili da trovare. «Se fosse facile, non varrebbe la pena possederlo», mi ha detto una volta V. Ho sorriso a quel ricordo, mentre me ne stavo in piedi nel mio salone, con la mano premuta contro il marmo.

    Sapevo cosa stava facendo. Era tutto a posto.

    Ho inviato una mail a V da New York per dirle che stavo per tornare a casa. E lei mi ha risposto dicendomi che presto si sarebbe sposata. Non avevo più avuto sue notizie da Natale, e sono rimasto davvero molto scosso. Avevo continuato a cercare di contattarla fino a febbraio, poi le ho scritto la mail alla fine di aprile. Il che significava che ci aveva messo solamente un paio di mesi per conoscere un tizio e accettare di sposarlo. So che resterai sorpreso… c’era scritto.

    …ma credo che il tuo silenzio di questi ultimi mesi sia la prova che hai accettato che tra noi è finita e che vuoi girare pagina come lo voglio io. Chissà, forse lo avrai già fatto! E so che potrebbe sembrarti una decisione affrettata, ma sto facendo la cosa giusta, ne sono convinta. Sento di doverti delle scuse per come ho reagito per quello che è successo a Natale. Forse ti sei solo reso conto prima di me che tra noi era finita, non avrei dovuto comportarmi come ho fatto. Avrei dovuto mettermi a sedere e parlarti tranquillamente. Spero che sarai felice per me e spero anche che riusciremo a essere amici.

    Tu sei stato e sei molto speciale per me e non sopporterei l’idea di non averti nella mia vita.

    Per un po’ di giorni mi sono sentito come intontito, come se ci fosse stata un’esplosione vicino a me che mi avesse ridotto a brandelli. Ma ben presto mi sono reso conto di quanto fosse mediocre e dozzinale la mia reazione. A parte tutto l’amore che chiaramente provava ancora per me, V sembrava convinta che io volessi la fine della nostra relazione. Il suo tono disinvolto mi pareva così lontano dalla V che conoscevo che per un istante mi sono chiesto se non fosse stata rapita e se non fosse stato qualcun altro a scrivere la mail. La spiegazione più plausibile era che V non fosse più in sé, o che stesse usando quel tono per mandarmi una specie di messaggio in codice. Le cose erano due: o aveva perso il senno a causa delle sofferenze che le avevo procurato a Natale, lanciandosi tra le braccia del primo arrivato, o voleva farmela pagare per quello che avevo fatto. L’ultima ipotesi mi sembrava più probabile: quella era V, dopo tutto, e senza alcun dubbio avrebbe fatto in modo di farmi bere fino in fondo l’amaro calice del pentimento. Le frasi della sua mail si sono come dissolte sotto i miei occhi, rivelando le sue vere parole. Era un gioco, il nostro preferito. Sì, era evidente: stava iniziando il nostro ennesimo Desiderio, e questa volta sarebbe stato più intricato che mai.

    Ho aspettato qualche giorno prima di rispondere alla mail di V e ho scelto le parole con molta cura. Ho usato il suo stesso tono ottimistico e le ho detto che ero molto felice per lei e che, ovviamente, saremmo sempre rimasti amici. Le ho detto anche che non appena fossi tornato a Londra le avrei scritto per comunicarle il mio nuovo indirizzo, ma quando quell’invito si è materializzato sul mio zerbino ho capito che non ce n’era bisogno. Era evidente che avesse chiamato Elaine. E già questo fatto doveva significare qualcosa. Tanto per cominciare, significava che non era più arrabbiata. Presto sono giunto a vedere quell’invito per quello che era davvero, e cioè il primo passo di un’elaborata richiesta di scuse, una danza che solo io e V eravamo capaci di padroneggiare. Ho provato addirittura un certo dispiacere nei confronti di questo tale Angus Metcalf – a quanto pareva era il suo nome, come chiariva quel ridicolo invito.

    Il signor Colin Walton e signora hanno il piacere

    di invitarla al matrimonio

    della figlia Verity con il signor Angus Metcalf

    presso la Steeple Chapel, nel Sussex

    sabato 14 settembre,

    dalle ore 15:00, presso Steeple House

    A volte mi svegliavo con l’invito poggiato sul letto vicino a me, e non ricordavo nemmeno di averlo messo lì.

    Una volta me lo sono ritrovato sotto la testa, mi aveva lasciato dei segni sulla guancia. Sono addirittura riuscito a leggere allo specchio quelle parole incise nella mia pelle.

    L’ho tenuto da parte per qualche giorno, poi ho mandato un breve messaggio alla madre di V, dicendole che avrei partecipato con piacere. Non pensavo certo che lei condividesse quel piacere.

    Nel corso degli anni ho trascorso molto tempo insieme a Colin e a Suzi, per un periodo sono arrivato a pensare che un giorno mi avrebbero visto come un figlio. A volte, a Natale, era difficile scrollarsi di dosso la sensazione che io e V fossimo fratelli seduti insieme ai genitori attorno alla carcassa di un tacchino. «Siamo una coppia buffa», mi ha detto una volta, «tu non hai i genitori e io non ho fratelli. Siamo così precari. Dobbiamo tenerci stretti per evitare che uno dei due scivoli nell’oblio». E a me stava bene. Perché non c’era nulla che amassi di più che cingere la minuscola vita di V, tirarla verso di me nel letto, sentire le sue natiche scivolare sul mio inguine, combaciare con il mio corpo come due tessere di un puzzle, mentre le nostre gambe si sovrapponevano formando un incastro perfetto e la sua testa andava a infilarsi sotto al mio mento.

    A volte, credo che V mi piacesse ancora di più quando dormiva. Quando la sentivo rilassarsi tra le mie braccia e il suo respiro si faceva lento e profondo. Aprivo la bocca per far scorrere il mento lungo la sua testa, in modo da sentire ogni sporgenza e incavo del suo cranio. Non sembrava per niente difficile arrivare oltre l’osso, affondare nel miscuglio polposo che protegge la massa di fili grigi del suo cervello. Percepire gli impulsi elettrici che la tenevano viva e vigile. Spesso ero geloso di quelle correnti e di tutte le informazioni che nascondevano. Avrei voluto farmele scorrere addosso, così avrebbe sognato solo me, e io l’avrei riempita quanto lei riempiva me.

    Mi chiedo se V abbia dovuto insistere con sua madre per invitarmi. O forse Suzi pensava che mi sarebbe servito da lezione vedere sua figlia felicemente sposata con un altro? Chissà se si era ripromessa di guardarmi durante la cerimonia e di concedersi un sorriso.

    Ripensandoci, Suzi è sempre stata una donna stupida. Ha sempre finto di voler essere diversa, quando invece desiderava soltanto essere perfettamente identica alle persone che aveva avuto attorno per tutta la vita. Avrei dovuto capirlo prima. Non appena l’ho sentita pronunciare il suo nome.

    «Sono Susan», mi ha detto la prima volta che ci siamo conosciuti, «ma chiamami Suzi». Non mi è sembrato un brutto nome, finché non ho scoperto che lo scriveva con la i. Una y sarebbe stata troppo comoda per Suzi, troppo normale, troppo simile a ciò che è in realtà. Non ci si dovrebbe mai fidare delle persone che desiderano essere diverse da quello che sono.

    42261.png

    Non è stato affatto difficile trovare lavoro nella City una volta tornato a Londra. Avevo ottime referenze dalla banca americana e il mio operato lì parlava da solo. Il mio nuovo stipendio era piuttosto alto e i bonus promettevano anche di meglio. Non m’importava di dover fare il viaggio fino in ufficio ogni mattina, e poi mi piaceva l’edificio torreggiante e scintillante nel quale lavoravo, in alto tra le nuvole. Trascorrevo le giornate a urlare numeri e a osservarli tintinnare e saltellare sugli schermi sopra la mia scrivania.

    Era talmente facile che non riuscivo a capire come mai non lo facessero tutti.

    V ha sempre detto che dovevamo puntare a ritirarci a quarantacinque anni, un obiettivo che sembrava facilmente alla mia portata. Presumevo che la sua vita non fosse cambiata più di tanto da febbraio, e che lavorasse ancora nello sterile seminterrato del Calthorpe Centre con i suoi programmi informatici, che stando a quanto diceva un giorno avrebbero reso del tutto superflui gli esseri umani. Sosteneva di non sapere perché lo facesse, perché si ostinasse tanto a creare delle macchine più intelligenti di noi, ma credo che le piacesse l’idea di riuscire a inventare qualcosa di artificiale che fosse migliore di ciò che è reale. Sono convinto che le piacesse la sfida di superare l’emozione umana.

    Mi viene in mente solo ora che se V non avesse ottenuto quel lavoro saremmo andati in America insieme. Magari saremmo ancora lì. Ma non mi piace pensare a queste cose, rischiano di condurmi su strade pericolose, verso mondi di tentazione che non saranno mai concreti. E ho indugiato fin troppo in pensieri di questo tipo da piccolo: quella donna che sta baciando il suo bambino nel parco potrebbe essere mia madre, la chiave che stringo in mano potrebbe farmi entrare nella casa in fondo alla strada, quella con le rose ai lati della porta. E quest’odore di cipolle fritte? È qualcuno che mi sta preparando la cena.

    Be’, comunque, ormai era andata così. Mi hanno dato quel lavoro in America e lei si è trovata quel posto a Londra. Entrambi eravamo sulla cresta dell’onda, lo stipendio che mi avevano offerto era talmente alto da sfiorare il ridicolo, mentre V era la dirigente più giovane della storia del Calthorpe Centre. Ha ottenuto la nomina a soli sei anni dalla laurea. «Sono stati davvero furbi a dargli un nome così apparentemente innocente, sembra una fondazione per la ricerca medica o qualcosa di simile», ha detto dopo aver ricevuto la chiamata.

    Io l’ho abbracciata sussurrandole in un orecchio che ero orgoglioso di lei.

    «Ma dovrò partire per New York tra tre mesi», ho detto.

    Si è tirata indietro, il viso distorto in un’espressione severa mentre diceva: «Non posso rifiutare, Mikey».

    Qualcosa mi è risalito da dentro a quelle parole, così forte e improvviso che per un attimo ho avuto quasi paura di perdere l’equilibrio. «Allora non andrò. Posso trovarmi un altro lavoro qui».

    «No. Devi partire. È un’opportunità strepitosa per te. Lavorerai un paio di anni e guadagnerai un sacco di soldi e quando tornerai potremo iniziare a fare la bella vita».

    «Lo fai sembrare così semplice».

    «Perché lo è. Ci sentiremo ogni giorno e dopotutto non è così lontano. Possiamo prendere un volo tutti i fine settimana. Sarà romantico». Ha riso. «Sarai ancora di più la mia aquila, attraverserai l’Atlantico a bordo del tuo proiettile d’argento».

    Ma quel pensiero mi turbava. L’ho afferrata per le spalle. «Devi promettermi che non farai mai il Desiderio senza di me, V».

    Si è liberata dalla presa e si è massaggiata il punto in cui le mie mani l’avevano stretta. «Non dire sciocchezze».

    Il suo tono era così affilato che mi sono sentito ferito fisicamente. Mi sono allontanato cercando di nascondere il mio dolore. Ma lei mi ha seguito, avvinghiandomi, aggrappandosi a me.

    «Mike, non lo farei mai, dovresti saperlo».

    Si è tirata su in punta di piedi e con la bocca all’altezza del mio orecchio mi ha sussurrato: «Adoro vedere quanto sono spaventati da te».

    Sono rimasto immobile, poi ho detto: «Giochiamo».

    Credo che avessimo intuito entrambi che sarebbe stata l’ultima volta. Siamo andati in un bar non lontano da Leicester Square. Ci eravamo già stati circa sei mesi prima. Era sempre pieno di studenti stranieri, di turisti e di bande di ragazzini di provincia. Di tanto in tanto una prostituta o una escort. Nessuno aveva l’aria di divertirsi, la musica era violenta: un battito profondo e regolare che rimbombava costantemente trapassandoti il corpo, come se qualcuno ti stesse facendo un massaggio cardiaco. Le luci stroboscopiche si sono accese, colorando tutti di un pallore alieno e malaticcio. Qualcosa di fluorescente nell’aria faceva scintillare il bianco degli occhi, si vedevano perfino i pelucchi sui vestiti. V indossava un abito grigio di seta che le metteva in risalto le spalle bianche e il lungo collo magro. Si era raccolta i capelli sulla testa, ma qualche riccio le sfuggiva accarezzandole la nuca, come una promessa lanciata alle mie labbra.

    La matita nera che aveva messo sugli occhi li rendeva più lunghi e larghi. Si è leccata le labbra carnose che non avevano mai avuto bisogno del rossetto. C’era un vago rossore sui suoi zigomi, ma non avrei saputo dire se fosse artificiale o naturale. Ha sorriso al barista, che le ha passato un lungo bicchiere con dentro un liquido marrone. Mi sono accorto che aveva messo lo smalto nero alle unghie.

    Il mio cocktail era troppo dolce, lo zucchero mi infastidiva, sentivo la gola irritata, dolorante. Il pensiero di tutto il tempo che avremmo dovuto trascorrere lontani mi ingolfava la mente, le tempie mi pulsavano. Un tizio ubriaco e barcollante mi è venuto addosso, la ragazza che teneva al braccio ridacchiava. Eravamo proprio accanto al bar, sarebbe stato facilissimo prendergli la testa e sbatterla contro il legno duro del bancone. Avrebbe subito iniziato a sanguinare, la sua testa si sarebbe deformata e frantumata prima che chiunque potesse fermarmi.

    Ho posato di nuovo gli occhi su V: era ancora sola, e ancora appoggiata al bancone del bar. Si portava spesso il bicchiere alla bocca. Probabilmente era troppo perfetta per quel posto. Mi sono chiesto se non fosse il caso di dirle di andarcene. Era come mettere una farfalla esotica in una stanza piena di mosche ronzanti e svolazzanti intorno alla loro stessa merda. Mi sono avviato per raggiungerla, ma proprio in quell’istante le si è avvicinato un uomo. Non era molto più alto di lei. Era tarchiato, gli enormi muscoli tendevano la maglietta di un bianco immacolato. Assomigliava a Braccio di Ferro. Era scuro di carnagione, anche da quella distanza vedevo che era molto sudato. Una pesante collana d’argento con una specie di moneta rotonda gli pendeva al collo, aveva i capelli neri pettinati all’indietro. Non era orrendo, ma c’era qualcosa di grottesco in lui, come se i suoi lineamenti fossero troppo ampi per la sua faccia.

    Mi sono fermato immediatamente e sono rimasto a fissare il loro incontro. Come facevo sempre in questi momenti, ho immaginato cosa si provasse a stare così vicino a V, a sentire il calore emanato dal suo corpo e a sognare di farvi correre sopra le mani. Guardarle le labbra mentre parlava, intravedere a tratti la sua lingua mentre rideva, chiedendosi di cosa potesse essere capace. Il tizio si è chinato in avanti, avvicinandosi al suo orecchio, con la mano sospesa vicino al suo braccio, come per trovare il coraggio di toccarla. Lei si è messa a ridere. Lui le ha posato la mano sui fianchi, e finalmente è venuto a contatto con il suo corpo attraverso la seta. Lei era ancora appoggiata al bancone, ma ha scostato leggermente i fianchi in modo che il tizio riuscisse a farle scivolare la mano proprio sopra al sedere. Lui si è avvicinato ancora, divorando lo spazio che prima li divideva, e le ha spinto l’inguine contro i fianchi, deciso a mettere in mostra tutto quello che poteva offrirle. Tenevo gli occhi incollati sulle mani di V, ma non si sono mosse dal bicchiere, mentre l’aquila pendeva inerme dal suo collo.

    Il mio respiro si è fatto più profondo, mi sentivo debole e inutile. Stava calando una fitta nebbiolina dal soffitto, avevo paura che ben presto non sarei riuscito a vedere più niente. A breve non sarei stato più in grado di scorgere il segnale di V, e lei sarebbe stata inghiottita dalla notte e da quell’uomo. Mi sono girato e ho visto l’insegna al neon dell’uscita sopra alla porta. Ho immaginato di incamminarmi in quella direzione, e poi uscire, tornare da solo a casa nostra, mettermi a letto e aspettare il suo ritorno. Ho immaginato di lasciar perdere, dimenticare tutto. Quell’idea mi si conficcava nel cervello come una moltitudine di minuscoli aghi.

    Ho spostato di nuovo lo sguardo su di loro, e anche se il volto di quell’uomo era attaccato al collo di V sono riuscito a vedere la sua mano sopra l’aquila. La donna davanti a me si è messa a urlare quando l’ho spinta via per farmi largo. «E sta’ attento!», mi ha gridato inutilmente. Nei lunghi attimi che ho impiegato per raggiungerla ho visto V cambiare espressione. Ha smesso di ridere, ha premuto la mano contro il petto dell’uomo per spingerlo via proprio mentre lui chinava il viso verso il suo. L’ho afferrato per le spalle con uno strattone e il

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