10 cose da sapere sull'arte contemporanea
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«Si può esistere senza arte, ma senza di essa non si può vivere.»
Oscar Wilde
Sono passati cento anni da quel lontano 1917, anno in cui fece la sua comparsa e destò scandalo l’orinatoio rovesciato di Marcel Duchamp. Ma in che cosa si differenzia l’arte contemporanea da quella del passato? Molti sono i punti di divergenza, come la preminenza dell’idea sulla realizzazione, l’onnipotenza dell’artista, la negazione della bellezza, l’importanza del sistema dell’arte e dunque dei personaggi che si muovono tra l’artista e il pubblico, i nuovi spazi espositivi e i criteri di allestimento. Partendo da questi presupposti si sottolinea l’impossibilità di catalogare l’arte del presente secondo i criteri usati per quella del passato e se ne rintracciano di nuovi. Sono, in questo caso, criteri emotivi. Gli artisti e i movimenti più importanti di questi cento anni sono divisi, in questo agile manuale, in dieci grossi blocchi tematici con titoli scelti per suggestioni, a cui corrisponde, in alcuni casi, anche una sostanziale affinità temporale. In questo viaggio attraverso un secolo di artisti e le loro opere, l’importante è non farsi spaventare, ma anzi, lasciarsi sedurre dalle idee, dalla varietà degli stimoli visivi, e non solo. Per capire l’arte contemporanea è sufficiente procedere con ordine, affidandoci alla storia dell’arte, sì, ma anche al puro godimento della fruizione, a sensibilità, intuito ed emozioni.
Tra le 10 cose da sapere sull’arte contemporanea
• così bianco che più bianco non si può (ovvero, quando il minimalismo è made in Italy)
• lo zen e l’arte della manutenzione dei rifiuti
• voyeurismi, masochismi, trasformismi
• le derive della forma: erotica, onirica, geometrica, antropica
Alessandra Redaelli
è giornalista, critico d’arte e curatore di eventi di arte contemporanea. Nata a Milano, collabora da diversi anni con i mensili «Arte» e «Antiquariato». Cura mostre in gallerie private e in spazi pubblici in Italia e all’estero. Si è occupata di manifestazioni fieristiche dedicate all’arte ed è stata anche membro della giuria in diversi contest di arte contemporanea. Con la Newton Compton ha già pubblicato Keep calm e impara a capire l’arte, I segreti dell’arte moderna e contemporanea, 10 cose da sapere sull'arte contemporanea e il romanzo in ebook Arte, amore e altri guai.
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10 cose da sapere sull'arte contemporanea - Alessandra Redaelli
448
Prima edizione ebook: maggio 2018
© 2018 Newton Compton editori s.r.l., Roma
ISBN 978-88-541-2043-6
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Librofficina
Alessandra Redaelli
10 cose da sapere sull’arte contemporanea
Dalla rivoluzione Duchamp alle follie di Jeff Koons, come orientarsi nel secolo incomprensibile: le correnti, gli artisti e le opere da conoscere assolutamente
Indice
Introduzione
E Marcel creò il concetto
Non è bello ciò che è bello
Le due C e le due M
Tutta colpa del white cube
Qualcosa è cambiato
Capitolo I. I sovversivi
Dada (umpa)
Sul lettino di Sigmund
Non rompete le scatole (soprattutto queste)
Upside down
Giochi per adulti
Capitolo II. I radical chic
Metti un culturista (in mutande) nel salotto
No anfetamine, no party
Oh, Jeff…
Radical sì, forse, e con un tocco – ma proprio un tocco – di chic
Viva l’Italia
Non è la RAI
Stritolate dal fashion system
Hacker, bambini terribili, orsi fluorescenti e piatti da lavare
Capitolo III. I selvaggi
E poi arrivò Jack
Tu chiamale, se vuoi, emozioni
Caos calmo
Suturare le ferite
On the road
Capitolo IV. I nuovi classici
Ritorno al futuro
L’anima e la carne
Dio salvi la regina
Ritratto di borghesia in nero (e a colori)
Orchidea selvaggia
Jan Vermeer prossimo venturo
Ricami, scheletri e veneri allo specchio
Oplà: un salto oltre le avanguardie
I favolosi Becher (e gli altri)
Trompe-l’œil in tre dimensioni
Le derive della forma: erotica, onirica, geometrica, antropica
Il cantastorie della Sassonia
Parola d’ordine: semplificare
Kitsch & chips
Cosa succede oggi in Italia
Capitolo V. Less is more
Strisce (e stelle). I tutori dell’ordine. Americani e no
Strega comanda colore…
Scultori al cubo
Occhio per occhio
Così bianco che più bianco non si può (ovvero, quando il minimalismo è Made in Italy)
Non ho parole!
Rompete le righe
Capitolo VI. I figli dei fiori
Amore e guerra
Slow art
Povera Italia
Balla coi lupi
Passeggiata selvaggia
Lo zen e l’arte della manutenzione dei rifiuti
Earth, wind & fire
Capitolo VII. I cannibali
Uno sparo nel buio (e quattro passi in macelleria)
Voyeurismi, masochismi, trasformismi
Eroine romantiche, femministe, sacerdotesse
Capitolo VIII. I nuovi mistici
Non c’è più religione
Orrifico ergo sum
La grande bellezza
Assenza essenza
Un bel dì vedremo…
Il cielo in una stanza
Nello scantinato di Jan
Corpi estranei
Scultura e antiscultura
Distopie, sciamani, frattali
Capitolo IX. I luxury brand
Specchio, specchio delle mie brame…
Come dentro un film
Fashion victims
Live in Japan
Uno, nessuno, centomila
L’opera d’arte c’est moi
Capitolo X. Quelle che corrono coi lupi
Jardin pubic. Viaggio intorno al corpo.
Your body is a battleground. Uomini, donne, relazioni
O tu o io. Indagine sull’identità
Structural psychodrama #3. Lo spazio nel mondo, l’identità politica e sociale
Ringraziamenti
Il grande nemico dell’arte
è il buon gusto
MARCEL DUCHAMP
Introduzione
1.tifE Marcel creò il concetto
Circa cento anni fa nasceva l’arte concettuale. Per essere precisi nel 1917.
Non che la data sia stabilita in modo incontrovertibile come, per esempio, lo scoppio della Rivoluzione francese o la scoperta del Bosone di Higgs, certo. Ma diciamo che è molto divertente oggi, con il gabinetto d’oro di Maurizio Cattelan (America, 2016) in pianta stabile al Guggenheim Museum di New York – dopo essere stato un anno intero nella restroom, a disposizione dei visitatori che desiderassero usarlo – pensare a questo cerchio perfetto che fa partire il concettuale dall’orinatoio rovesciato di Duchamp (Fontana, 1917) e lo riporta, in un secolo esatto, a un oggetto sanitario per il bagno, giusto nobilitato dal materiale. Una sorta di nemesi scatologica dell’arte contemporanea che dall’intuizione fulminante del papà del dadaismo passa attraverso la raccolta delle feci in barattolo del nostro Piero Manzoni (Merda d’artista, 1961), sfiora la scomunica con il Piss Christ di Andres Serrano (il Crocifisso immerso nell’urina, 1987) e con la Holy Virgin Mary di Chris Ofili, dipinta utilizzando sterco di elefante nel 1996, e poi approda trionfalmente al Guggenheim. Trovando posizione – com’è giusto che sia – nelle toilette.
Ma cento anni fa nasceva anche l’arte contemporanea?
Questa domanda ha un sapore quasi metafisico, data l’acrobazia intellettuale di fissare nel passato l’inizio di qualcosa che ha una definizione temporale attuale, ma è tutt’altro che peregrina. Arte contemporanea e arte concettuale sono spesso considerati sinonimi. E anche se questo crea uno slittamento semantico e un evidente problema di collocazione cronologica, la verità e che i due concetti vengono sovrapposti dalla maggior parte delle persone, dal grande pubblico fino agli addetti ai lavori. Arte contemporanea, dunque, non è l’arte degli artisti a noi contemporanei – come dovrebbe essere ovvio – ma quella degli artisti che a un certo punto hanno sparigliato le carte, hanno messo a ferro e fuoco le accademie e hanno deciso che da quel momento in poi sarebbero stati il gesto e l’idea a fare l’opera d’arte.
È vero, le case d’asta Sotheby’s e Christie’s hanno stabilito che l’arte contemporanea sia iniziata nel 1960, ma si sa che la datazione, quando si tratta di aste, cioè di mercato e soldi, è soggetta a relativizzazioni bizzarre. A mio parere il 1960 è un po’ troppo in là. Davvero potremmo sostenere che se un giorno quel signore francese non fosse entrato in un negozio di sanitari a New York, non avesse acquistato un orinatoio modello Bedfordshire, non l’avesse ruotato di novanta gradi, un gesto fondamentale, non ci avesse scritto:
R. MUTT, 1917
e in seguito non l’avesse presentato al concorso artistico della Society of Independent Artists, che l’avrebbe rifiutato, sarebbero forse state concepite opere come i tagli di Fontana, i sacchi di Burri, i Mobiles di Calder o i dripping di Pollock?
Togliamocelo dalla testa.
Ciò che ha insignito l’artista del potere pressoché assoluto che detiene oggi, della libertà sfrenata di cui gode e dell’adorazione quasi feticistica del pubblico sta tutto lì, in quel negozio di sanitari di New York. E soprattutto nel momento magico in cui Duchamp prende l’oggetto e lo gira. La semplice azione sull’oggetto si trasforma quel giorno – e per sempre – nel gesto dello sciamano. Non è lo scandalo della scelta, la triviale banalità dell’orinatoio, ma è proprio l’onnipotenza del gesto – e dunque dell’idea, e dunque dell’artista – a scatenare la rivoluzione. A fare sì che oggi uno degli artisti più quotati al mondo, come è Damien Hirst, abbia costruito la sua carriera su un assegno da cinquantamila sterline, quello che gli fu gentilmente offerto da Charles Saatchi, su una telefonata, quella fatta a un pescatore di squali australiano, su un vetraio, quello che gli costruì una teca gigantesca, e su un chimico compiacente, che fu quello che gli fornì diversi ettolitri di formaldeide. Per creare il suo The Physical Impossibility of Death in the Mind of Someone Living, lo Squalo
, per gli amici, l’artista inglese potrebbe teoricamente non aver mai toccato nemmeno uno degli oggetti che avrebbero costituito l’opera.
Non è bello ciò che è bello
Uno squalo immerso nella formaldeide, dunque, fu la grande intuizione iniziale di Hirst. E poi arrivarono le mucche tagliate per il lungo di cui poter osservare le viscere, le teste di bovino mozzate lasciate lì a riempirsi di mosche. E i quadri fatti proprio con le mosche appiccicate sopra. Veniamo così a una delle caratteristiche principali dell’arte contemporanea: la relativizzazione della bellezza. Perché potete dire tutto quello che volete sulle allegorie della morte del Cinquecento o su certe rappresentazioni del dolore nell’iconografia sacra antica, ma la verità è che allora – anche quando si voleva rappresentare l’abominevole – la ricercatezza e la bellezza erano sempre salvaguardate, pena la cancellazione di tutte le commissioni affidate all’artista e l’allontanamento con ignominia dal consesso dei suoi colleghi. Poi arrivò l’orinatoio e improvvisamente la bellezza perse tutto il suo fascino. Anzi, la bellezza, a un certo punto, diventò quasi un vizio, una leziosità, la toppa sospetta a coprire il buco di un’effettiva incapacità.
Lo squalo in formaldeide con cui Damien Hirst diventò una celebrità, dunque, non è bello: proprio per niente. È maestoso, spaventoso, spiazzante. Ma bello no. E ancora meno belle sono le sue teste di vacca mozzate e ricoperte di mosche. E neanche i quadri fatti di mosche morte sono belli. Malgrado il nero vada su tutto… no, proprio non ce la farebbe nessuno a definirli un bell’oggetto da appendere in salotto
.
Tutta l’arte contemporanea è disseminata di negazioni della bellezza: dalle facce esplose di Francis Bacon agli assemblaggi di Rauschenberg; dal sangue schizzato nelle performance di Hermann Nitsch all’evirazione messa in scena da Edward Kienholz. Esclusione della bellezza che non porta solo una conseguenza estetica, ma anche una conseguenza di lettura. Perché se davanti a una Madonna di Raffaello o a un dipinto di Teomondo Scrofalo (lo ricordate, vero, l’archetipo del pittore della domenica inventato da Antonio Ricci?) chiunque dotato di vista potrà affermare Mi piace
oppure Non mi piace
, davanti all’enigma di una spirale di pietre messe in fila da Richard Long lo spettatore è costretto a fare un passo indietro e ad aspettare la spiegazione. E se – caparbio – davanti a un mucchietto di caramelle appoggiate in un angolo della galleria, come quelle di Félix González-Torres, nel suo Untitled, Portrait of Ross in L.A. del 1991, oserà dire: Ma che cavolo… questo lo sapevo fare anch’io!
, verrà immediatamente preso da parte da qualcuno che gli spiegherà che non funziona così, che lo avrebbe saputo fare anche lui, sì, ma che lo avrebbe rifatto per secondo, e che quindi non vale. E che proprio non ha capito niente, perché González-Torres con quel mucchio di caramelle voleva rappresentare il suo amante che stava morendo di
AIDS
in un letto d’ospedale a Los Angeles, e per quello le caramelle pesavano proprio come lui, e per quello la gente era invitata a prenderle e mangiarle: perché quella piccola percentuale di peso che se ne andava simboleggiava l’avanzare della morte. Una storia così triste che il povero malcapitato incauto spettatore si sarebbe anche sentito un verme, oltre che un ignorante.
L’arte contemporanea, insomma, ha negato allo spettatore la possibilità di esprimere un giudizio: lo ha messo nell’angolo. Lo ha estromesso dal suo mondo fatato facendolo sentire inadeguato e pure ignorante. Lo ha costretto a trovare dei tramiti, degli interpreti che dessero un senso a un letto matrimoniale con le lenzuola sporche e stropicciate, la biancheria intima usata buttata sopra e intorno bottiglie di alcolici vuote, mozziconi di sigarette, preservativi e altre amenità (Tracey Emin, My Bed, 1998). Un senso che non fosse: Santa pazienza, è ora di fare le pulizie e di avviare la lavatrice, e magari anche un programma di riabilitazione!
, ma che fosse: Questo è l’autoritratto intimo di una donna disperata, lasciata dal suo uomo, che beve per dimenticare e che considera i ricordi di lui delle reliquie…
.
La dimostrazione di come il pubblico si senta oggi totalmente estromesso dal mondo dell’arte – e si aspetti oramai qualsiasi sorpresa – è lampante se si pensa all’episodio accaduto nel dicembre del 2015 durante una delle più blasonate fiere di settore, Art Basel a Miami. Immaginatevi la scena: gli stand pieni di opere meravigliose, i galleristi più famosi del mondo pronti come giaguari ad acchiappare il potenziale collezionista, gente dello spettacolo come Brad Pitt e Leonardo DiCaprio sempre in prima fila che fa incetta di flash, addetti ai lavori, signore con borse che costano su per giù come alcune delle opere d’arte esposte e artisti abbigliati in maniera eccentrica, folle di curiosi e tutta la stampa. Laggiù c’è un dibattito sull’ultimo libro del curatore di grido, dall’altra parte si proietta un video. Improvvisamente, lungo uno dei corridoi appare una signora urlante, coperta di sangue. La folla si sposta per farla passare, i più veloci scattano una foto con lo smartphone, c’è anche chi si avvicina per farsi un selfie, e intanto pensa: Wow, l’arte contemporanea!
. Ci vogliono diversi minuti perché qualcuno si accorga che le grida sono autentiche e che la signora non è una performer, ma la vittima di un’aggressione.
La sensazione condivisa che ha fatto fremere più di un addetto ai lavori quando in televisione sono passate le prime immagini dell’attentato avvenuto un anno dopo ad Ankara ha più o meno le stesse radici, con il corpo del povero Andrej Karlov a terra, l’attentatore in giacca e cravatta che solleva il braccio e grida verso la folla e, dietro, una serie di quadri appesi. La tragica apoteosi della morte che diventa performance.
Insomma, i messaggi si sono fatti ambigui, le interpretazioni multiple. L’arte si è infiltrata nella vita e la vita è diventata opera d’arte. E questo ha reso le cose molto ma molto più complicate. Ecco perché oggi l’arte non può più essere un affare privato tra artista e fruitore, una specie di folie à deux. Oggi il ménage è per forza di cose piuttosto affollato: lasciati da soli, infatti, l’artista e lo spettatore non si capiscono più, è come se parlassero due lingue diverse. Ecco allora che entra in scena il magico quartetto.
Più audaci delle Tartarughe Ninja e più devastanti dei cavalieri dell’Apocalisse, ecco a voi, signori, i quattro poli – imprescindibili – di quella cosa ancora misteriosa ma che oggi non si può fare a meno di tenere in considerazione: il sistema dell’arte.
Le due
C
e le due
M
Già, oggi la relazione tra artista e pubblico non può prescindere dai quattro poli del sistema dell’arte. Prima di tutto c’è il comunicatore: costui è curatore, critico, giornalista di settore, scegliete voi, tanto sono figure intercambiabili e spesso sovrapponibili. Il comunicatore è quello che ha il compito di comprendere la poetica dell’artista, studiarne la storia, analizzarne le opere e il messaggio e poi raccontarli agli altri con parole sue. Peccato che queste dovrebbero essere, in teoria, semplici e comprensibili, ma spesso non lo sono per niente, gettando lo spettatore, e qualche volta anche l’artista, nello sconforto. Poi c’è il collezionista, che viene convinto dal comunicatore del fatto che l’artista ha qualcosa da dire e vale la pena di seguirlo e magari di acquistarlo. C’è, dunque, il mercante, che – a sua volta incoraggiato dal comunicatore – si occupa di vendere le opere dell’artista. E infine il museo, rappresentato dal direttore o dal curatore, che affascinato dall’artista decide di esporlo nelle sue sale, dando una svolta positiva e di crescita alla carriera di quest’ultimo.
Il punto è che i ruoli non sono sempre molto chiari. A volte il collezionista finanzia le opere prima ancora che siano realizzate. Decide, insomma, di puntare su quel cavallo per una sua intuizione personale, o magari su consiglio del comunicatore. Poi, però, a questo punto ha tutto l’interesse a che l’artista venga spinto e promosso. Se possiede il giornale su cui scrivono un po’ di comunicatori, il gioco è fatto: gli basta commissionare qualche articolo e in un attimo l’artista è sulla bocca di tutti. Altrimenti potrebbe possedere una bella casa d’aste (sì, succede…) e per un artista essere battuto all’asta – soprattutto dalle case più importanti – equivale alla crescita delle sue quotazioni. Lo stesso museo si trova in una posizione piuttosto ambigua, perché mentre una volta era il punto d’arrivo di una carriera artistica consacrata, oggi spesso ne rappresenta il punto di partenza.
Insomma, il sistema dell’arte è un gran pasticcio.
Prendiamo – di nuovo – Damien Hirst: nel settembre del 2008 (con un tempismo a dir poco curioso), mentre la Lehman Brothers chiude i battenti dando il via a una delle crisi economiche più devastanti della nostra storia recente, decide di mettersi all’asta. No, non lui personalmente. Non è abbastanza carino per farsi comprare: tutta la sua opera. Raccoglie oltre duecento lavori e li mette in vendita da Sotheby’s. Fin qui nulla di strano. Davvero? Mica tanto. Perché per una casa d’aste, per quanto solida come quella citata, dedicare un’asta a un solo artista e per giunta vivente non è proprio un affarone. La cosa è talmente rischiosa che le azioni di Sotheby’s crollano di quasi il dieci percento nell’attesa del risultato. L’operazione rappresenta un rischio gigantesco anche per l’artista: se le opere restano invendute o se comunque spuntano prezzi troppo bassi, l’artista è morto. E morire a quarantatré anni non è una bella cosa. E se l’asta fallisse? Difficile. Il vecchio volpone con gli anelli a forma di teschio non si sarebbe mai impelagato in quell’affare se ci fosse stato il minimo rischio. L’asta non fallisce, infatti, perché i galleristi di Hirst non lo permettono, altrimenti che cosa se ne farebbero di tutte le vacche in putrefazione, le mosche morte, le scatoline di farmaci e i pallini dipinti che hanno in magazzino, una volta che questi non avessero più alcun valore? Sono loro, infatti – Larry Gagosian e Jay Jopling in testa – a tenere alti i prezzi. Così alti che alla fine Sotheby’s e Damien, leccandosi i baffi, contano un incasso di 111 milioni e mezzo di sterline.
Poi Damien se ne sta buono buono per una decina d’anni, ma all’alba del 2017 cosa si inventa? Per festeggiare i cento anni del concettuale – che gli ha portato un bel po’ di fortuna – realizza la mostra del secolo, per alcuni la mostra del millennio, e la porta sulla laguna di Venezia proprio durante la Biennale. Treasures from the Wreck of the Unbelievable è un’operazione colossale: una mostra dislocata nelle due sedi di Palazzo Grassi e Punta della Dogana che ha fatto ombra alla kermesse dell’Arsenale e dei Giardini. Hirst ci ha lavorato per dieci anni nella più assoluta segretezza. Finanziato da uno dei collezionisti e mecenati più influenti del momento, qualcosa a metà tra un pontefice del Rinascimento e Paperon de’ Paperoni: François Pinault. Questo arzillo vecchietto, che nonostante l’età mantiene parecchio di quel fascino tipicamente francese (ma i soldi aiutano, si sa), è al 34º posto nella classifica degli uomini più ricchi al mondo. E si può permettere qualche regalo. Dunque si è comprato una casa d’aste, la famosa Christie’s, e poi un museo, il magnifico Palazzo Grassi a Venezia, e già che c’era ha anche messo in piedi gli spazi espositivi di Punta della Dogana.
Solo a me trillano un sacco di campanelli nella testa?
Ma non fa niente, non pensiamoci! Pensiamo a Hirst e al suo faraonico progetto. Quando cominciano a filtrare le prime indiscrezioni si parla di una colossale operazione di recupero, del ritrovamento di un’imbarcazione naufragata non lontano dalle coste africane duemila anni fa e degli oggetti preziosi che conteneva. Pare che l’artista ne abbia finanziato il ripescaggio e che ora voglia metterli in mostra in una generosa iniziativa culturale. Wow!
Non ci crede nessuno, ovviamente. Questo è l’impianto narrativo su cui si basa la mostra. E poi ci sono gli oggetti, a deliziare gli sguardi. Quasi duecento manufatti che parlano una lingua misteriosa, un ibrido tra la classicità e l’estetica pop degli anni Ottanta. Ci sono statue di divinità, teste di Medusa, guerrieri, ma anche Mickey Mouse e i robot Transformers. Splendenti d’oro e di altri materiali preziosi, incrostati di coralli e conchiglie, in un grandioso trionfo della finzione che trasporta il pubblico in un mondo altro, a metà tra Disneyland e un viaggio spazio-temporale. All’interno dell’esposizione lo spettatore può vedere anche le foto e il video del recupero, con i sommozzatori in azione e le sculture sollevate dagli argani fino al bordo della barca.
Una volta usciti dalla mostra, dopo un’ultima sbirciata alle gambe muscolose del colosso nel cortile, non si è in grado di decifrare con chiarezza l’esperienza vissuta. Quella appena vista può essere considerata arte o è una straordinaria operazione economica? E gli oggetti possono essere acquistati uno per uno (bisogna avere tanti soldi, però) oppure quella gigantesca performance ha senso di esistere solo nella sua interezza, qui e ora?
Eccoci, dunque, a un’altra delle caratteristiche dell’arte contemporanea: oramai accade sempre più di rado, soprattutto ai livelli più alti, che l’artista realizzi l’opera, il gallerista decida di esporla, il giornalista sia incuriosito e interessato a parlarne, il collezionista l’acquisti, il valore salga, il museo ne consacri il successo mettendola in mostra con un allestimento deciso insieme a un curatore e poi, magari, una casa d’aste – più avanti – arrivi a metterla all’incanto. Oggi accade che il collezionista compri spesso a scatola chiusa, finanzi l’operazione per un tot di anni, metta a disposizione il suo museo senza nemmeno sapere che cosa conterrà, e, una volta avvenuta l’esposizione, magari abbia voglia di rivendere l’opera realizzata. Tanto domani potrà finanziare e mettere nel suo museo le opere di un altro artista e, se le cose si mettono male, farne lievitare i prezzi utilizzando la sua casa d’aste.
Ma l’altro fatto che salta all’occhio è che i big dell’arte contemporanea diventano curatori di se stessi, registi di colossali operazioni, divinità assolute e indiscutibili, meravigliose galline dalle uova d’oro con splendide code, a volte posticce, di pavoni. E la mostra, oramai, non è più un assemblaggio di opere indipendenti l’una dall’altra, ma piuttosto un’esperienza sensoriale da attraversare come un rito d’iniziazione.
Tutta colpa del white cube
Tutto ciò è cominciato quando la galleria ha smesso di essere il luogo dove le opere di diversi artisti venivano posizionate secondo un allestimento più o meno armonioso, perché un potenziale acquirente potesse immaginarsele in casa propria e dunque decidere di comprarle.
Sono lontani i tempi in cui Ambroise Vollard gironzolava per Parigi tra gli studi degli artisti per fare incetta di dipinti e poi, nella sua galleria di rue Laffitte al 6, appendeva qui un Cézanne, lì un Gauguin, un Van Gogh e magari, negli ultimi anni, anche un bel Picasso, così di tendenza. Ve li immaginate oggi gli equivalenti di quegli artisti che si accontentano di mettere le loro preziose opere in mano a qualcuno che poi le appenderà nella sua galleria? E se magari la cornice di un altro quadro facesse a pugni con il mio capolavoro? Io su quella parete in fondo??? Ma stiamo scherzando!?
Quello che è successo è che, mentre l’ego dell’artista andava crescendo a dismisura, anche la collocazione dell’oggetto nello spazio andava prendendo significati totalmente nuovi. L’opera perdeva la sua connotazione così facilmente gestibile di rettangolo chiuso da una cornice o di oggetto tridimensionale su un piedistallo. Spesso la cornice spariva e così, idealmente, l’opera andava dilagando lungo le pareti. I concetti di scultura e pittura si fondevano e si confondevano. Immaginiamoci un gallerista alla Vollard che deve esporre nella sua galleria vecchio stampo un’opera come One and Three Chairs di Joseph Kosuth (1965), composta da una sedia – vera – appoggiata a terra, la foto di quella stessa sedia appesa al muro e, sempre appeso, un pannello con scritta sopra la definizione presa dal vocabolario della parola sedia
. Il minimo che potrebbe capitargli è che qualche spettatore un po’ stanco si sieda sulla sedia.
Il white cube – il cubo bianco – nasce proprio così: dall’esigenza di fornire all’artista uno spazio il più possibile neutro nel quale sia solo la sua opera a parlare, senza che nessuno stimolo ulteriore possa inficiarne la fruizione. Anche in quel caso, tuttavia, l’artista – soprattutto se di un certo calibro – non ama delegare le decisioni sull’allestimento e men che meno ama condividere gli spazi, se non con artisti che considera al suo stesso livello (sì, insomma, andiamoci piano: diciamo quasi allo stesso livello…). Per questo i curatori che trattano con le star devono avere le spalle larghe, un’autostima inossidabile e il polso di un domatore di leoni.
L’artista raggiunge l’apoteosi della sua felicità quando può gestire da solo, e secondo il suo gusto, l’intero spazio. Soprattutto nel caso in cui questo spazio non sia proprio un white cube, ma abbia magari qualche altra connotazione, come spesso accade nei musei più importanti. L’artista, in quel caso, non rinuncia al progetto, ma