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Il tradimento del centurione
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Ebook389 pages5 hours

Il tradimento del centurione

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«Brutale, audace e con un ritmo incalzante.»
Anthony Riches

Un grande romanzo storico

Un soldato senza memoria
Una brutale battaglia alle porte

9 d.C. Quindicimila legionari romani si sono inoltrati nelle profondità della foresta in formazione da battaglia. Ad attenderli, silenziosi e letali, i guerrieri delle tribù germaniche appostati nell’oscurità. I soldati marciano, ma la loro avanzata si interrompe bruscamente quando, in una radura, trovano dodici corpi massacrati e impiccati. Sono legionari romani. Si tratta di un avvertimento? Tra i cadaveri c’è solo un sopravvissuto, completamente ricoperto di sangue. Il trauma l’ha scosso al punto da fargli perdere la memoria e adesso non ricorda neppure il proprio nome: sa solo di essere un soldato. A mano a mano che le legioni avanzano, una minaccia oscura si abbatte sui romani, falciando i manipoli di uomini fino a che solo un piccolo gruppo di sopravvissuti dovrà cooperare per avere salva la vita. E saranno costretti a fidarsi l’uno dell’altro perché la loro unica speranza è combattere insieme. Ma chi è davvero il soldato senza passato? E da che parte sta?

Uno spettacolare esordio in cui sangue e onore danno vita alla gloria immortale

«Un romanzo magnetico e cruento.»
Mail on Sunday

«Ben riuscito il tentativo di dare ai legionari romani una voce più contemporanea: brutale, audace e con un ritmo incalzante.»
Anthony Riches, autore della serie bestseller L’impero

«Un romanzo storico scritto da un vero veterano di guerra che sa rendere vividi i dettagli più brutali. Una lettura potente.»
Geraint Jones
È un veterano di guerra americano. Ha partecipato alle missioni in Iraq e Afghanistan, che gli sono valse riconoscimenti e onorificenze. Dopo il congedo ha lavorato in operazioni contro la pirateria in Somalia e in Nigeria. Il tradimento del centurione è il suo primo romanzo.
LanguageItaliano
Release dateMar 28, 2018
ISBN9788822719331
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    Il tradimento del centurione - Geraint Jones

    PARTE PRIMA

    1

    Avevo visto posti peggiori in cui morire.

    In quel caso si trattava di un ombroso bosco di querce, antico e monolitico, dove l’abituale canto degli uccelli si faceva notare per la sua assenza. Gli squarci d’azzurro visibili in mezzo ai rami alti si intonavano agli occhi della gente nata in quella terra piena di foreste e fiumi impetuosi: i germani.

    Il primo di quei guerrieri l’avevo incontrato lontano da lì. Col tempo, i loro volti si erano poi sovrapposti l’uno l’altro, ma restava un popolo unico per la lingua aspra e gutturale e la sua imponenza fisica: barbe folte, spalle larghe, arti muscolosi. Rispetto alla mia corporatura, fatta ormai poco più che di nervi e cartilagine, sembravano quasi delle divinità.

    Sui loro dèi, fino a quella mattina non sapevo niente. Una volta informato, sognai di tornare alla beata ignoranza.

    Gli dèi germanici, infatti, gradivano molto i sacrifici. Sacrifici umani.

    Non avendo mai assistito al rito, per fortuna ancora non sapevo cosa accadeva a due passi da dove mi ero fermato a riposare, su un cuscino di fango e foglie di felce. Ad attirarmi fu l’odore – odore di carne cotta – e la fame, che superò la mia tendenza alla solitudine. Mi ero avvicinato a quel che ritenevo un fuoco da campo sperando di mendicare o rubare un po’ di cibo, a seconda dell’impressione che mi avrebbero fatto i presenti al banchetto.

    Invece trovai un festino riservato agli dèi. Contai sei cadaveri in sei gabbie di vimini carbonizzate, sospese su pire ormai ridotte in cenere. I corpi erano arrostiti e rinsecchiti ma, dalle cinture di pelle che avevano ai fianchi, si intuiva che erano soldati romani. Lo sapevo perché ero stato uno di loro. Altri sei commilitoni erano stati impalati a terra a formare un cerchio coi piedi verso il centro, l’addome sventrato, i visceri ammucchiati sul petto.

    Sì, avevo visto posti peggiori in cui morire, ma quel modo era imbattibile: vedere le budella viscide e i muscoli smembrati mi diede le vertigini. Vomitando, sul suolo della foresta cadde solo una patetica manciata di bacche non ancora digerite.

    Guardai di nuovo gli uomini a terra, profanati, le facce piegate dal dolore. Come mai non li avevo sentiti urlare?

    Come mai non avevo sentito i cavalli?

    Erano vicini a me. Lanciai un’occhiata in fondo al bosco e tra i rami vidi i bagliori delle corazze sui destrieri.

    Merda. La cavalleria romana.

    Mi voltai e imprecai. Mi avevano bloccato la via di fuga. Tra gli alberi vidi arrivare un’avanguardia di fanteria leggera. Non mi avevano ancora visto, tenevano gli occhi bassi per setacciare il sottobosco. Erano esploratori, ma le loro prede se n’erano andate da un pezzo: c’erano solo le mie budella a soddisfare le lance della cavalleria.

    Guardai il cerchio di cadaveri. Sapevo cosa fare ma esitai, anche quando cominciai a sentire i militari che si chiamavano in latino.

    «Coprite più territorio possibile! Infila un giavellotto in quel cespuglio! Occhio alle cime degli alberi!».

    No, non mi avrebbero mancato. Non avevo scelta.

    Mi inginocchiai accanto a uno degli uomini impalati. Poteva avere una quarantina d’anni, forse gli mancava poco al congedo; la bocca era lacerata dove il dolore gli aveva fatto digrignare i denti. Da così vicino si vedevano gli organi esposti su cui strisciavano gli insetti e la profonda cava dello stomaco vuoto.

    Affondai la mano e trovai il fegato. Avevo un coltello ridicolo, lungo un paio di dita e nemmeno più affilato. L’avevo usato moltissimo. Non mi tradì neanche in quell’ultima missione. Il fegato si staccò. Spinsi la lama all’interno e la lasciai dentro quell’uomo, poi mi infilai nella boscaglia.

    Mi nascosi in un groviglio di rovi. Mi sfilai quel che restava della tunica e la feci sparire tra le radici spingendola sottoterra. Mi voltai a destra e sinistra, e le spine iniziarono a graffiarmi e pungermi la pelle. Quando le prime gocce di sangue mi mascherarono la faccia dando inizio a un fiotto continuo, mi tornò in mente un ricordo, una città portuale battuta dal sole. Lì, certi marinai dalla pelle olivastra mi avevano parlato di un uomo in Oriente, un illustre condottiero, che era morto indossando una corona di spine. Pregai di non morire per mano dei romani come lui.

    I rovi affondarono ancor più le loro spine.

    Vidi due uomini avvicinarsi e mi immobilizzai. Avendo vissuto al confine con l’impero riconobbi subito la fitta rete di disegni e decorazioni sullo scudo di uno dei due: era un prefetto, la terza più alta carica della legione, l’unica che poteva essere ricoperta da chi non era nato nella casta superiore dei senatori. Doveva essere in prima linea a difendere Roma almeno da una trentina d’anni, perché ne poteva avere circa cinquanta e ormai aveva assunto le stesse sembianze dello scudo di un legionario: scuro e rigido, appena smozzicato sul bordo, con una sottilissima linea di borchie al centro. Persino lo spuntone di ferro sullo scudo richiamava il naso bulboso dell’ufficiale.

    Quello che mi colpì, però, fu l’uomo che stava con lui. Poteva avere la metà degli anni del romano, era un ufficiale di cavalleria e faceva strada nella vegetazione con gesti che emanavano forza e autorità. Solo i nobili di nascita avevano quel portamento risoluto. Quell’uomo però era alto e aveva i capelli biondi fin sulle spalle. Era un nobile germano della provincia.

    Lo osservai mentre studiava le gabbie carbonizzate e i corpi che c’erano dentro. Il ghigno sulle labbra lo nascose bene al compagno, ma io lo vidi comunque. Indicò le cinture di pelle arrivando alle mie stesse conclusioni.

    Mi sforzai di stare immobile per ascoltare. Aprii la bocca, trattenni il respiro e isolai in secondo piano il rumore dei soldati che rastrellavano la boscaglia.

    «È un soldato ma non è dei miei», osservò il veterano. «Tutte le mie squadre operative hanno fatto rapporto. Forse è di un reparto venuto da un forte sul Reno».

    «E sono solo in dodici?», chiese il germano.

    «Potrebbero essere della Prima Legione. Gente cazzuta, garantisco. Signore», aggiunse accennando al modo in cui erano morti quegli uomini, «sei nelle gabbie, sei sbudellati».

    L’osservazione nascondeva una domanda, l’ufficiale si sentì interpellato. «Temo di non saper decifrare il messaggio. Forse non ce n’è», disse incurante. «Quello che posso dirti, Ceonio – e puoi riferirlo direttamente al governatore – è che metterò i miei uomini, i miei segugi migliori, sulle tracce dei selvaggi che hanno fatto questo scempio. Dallo stato dei corpi e dal calore della legna avranno al massimo un giorno di vantaggio».

    Il prefetto – Ceonio, come l’aveva chiamato il germano – calò la testa con ardore in segno di approvazione, pregustando ancor più il castigo che avrebbe inflitto.

    Dopo secoli di conquiste, ormai tutto il mondo conosceva l’insaziabile sete di vendetta dei romani. Non avevo idea della provincia in cui mi trovavo ma, quant’era vera l’imminente fine dell’autunno, presto su quelle foreste si sarebbe abbattuta l’ira di Roma.

    «Faccio venire degli uomini per seppellire i corpi, signore». Il soldato anziano si congedò dal più giovane e iniziò ad andare, ma fu bloccato da una risposta inattesa.

    «Non farlo», disse l’ufficiale di cavalleria.

    Ceonio sembrò ragionare sulle parole del germano, che intanto si era inginocchiato accanto a uno dei cesti incendiati e con un gesto ordinò al romano di fare lo stesso; il rude veterano accolse la richiesta e fece scricchiolare le giunture.

    «Qui», disse il nobile indicando il bordo inferiore della gabbia. «Sotto il telaio c’è una zeppa di legno. Quando il telaio si muove, questa fune», indicò una cordicella di rampicanti intrecciati, «fa scattare la trappola su chiunque ci passi sopra».

    «Trappola, signore?», chiese Ceonio mentre l’ufficiale di cavalleria ispezionava il fogliame sopra di loro.

    «Lì». Indicò un punto, senza alcun’ombra di trionfo. Sopra di loro, un ramo pesante faceva un angolo innaturale con gli altri. L’avevo già notato: se anche il germano si aspettava di vedere in giro trappole del genere, forse avevamo qualcosa in comune – un patrimonio condiviso di trucchi da usare in guerra. «Da quell’altezza, se ti cade in testa sei morto», aggiunse.

    «Anche questo è un rito religioso?», borbottò il veterano, nostalgico dei tempi in cui partecipava all’azione. Lo sfottò era riferito al fatto di trovarsi in un territorio sacro per gli indigeni, anche se tutti sapevano che i romani le annientavano le altre culture, piuttosto che includerle. «Grazie, signore», aggiunse poi il prefetto sinceramente grato. «Farò rimuovere i corpi dagli schiavi».

    Stavano davanti ai soldati impalati, ad appena dieci passi dal mio nascondiglio. Dietro di me sentivo la linea dei legionari che si avvicinavano lenti ma inesorabili. Ormai, in quei paraggi non si aspettavano di trovare nessuno; ma come potevano non vedermi?

    Era ora.

    Mi alzai.

    «Ehi», li chiamai levando una delle tipiche spade corte dei legionari con la mano tremante. Tremavo per la tensione ma, da fuori, somigliavo più a uno che stava per compiere un gesto folle.

    I due ufficiali si voltarono, il romano mise mano alla spada, ma il germano gli fece segno col palmo aperto di fermarsi. Lo stupore iniziale piegò lentamente la bocca aperta del nobile in un sorriso ironico, come se fosse l’unico a conoscere la migliore barzelletta dell’impero.

    «Ehi», ripetei con la voce incrinata. Era la prima volta che mi capitava di usarla dopo settimane.

    Vedermi nudo li stupì. Dopo aver gettato la tunica, l’unica cosa che mi copriva era uno smalto di sangue scuro sulla pelle. Avevo preso a morsi il fegato, respingendo i conati sulla carne fredda, e usato l’organo come una spugna imbevuta per trasformarmi da accattone decrepito in una figura da incubo.

    «Ehi», dissi un’ultima volta puntando la spada verso il germano e battendo le palpebre da cui uscì altro sangue. «Chi sei tu?», farfugliai.

    Lui alzò le mani lentamente, i palmi aperti, e parlò fra l’autoritario e l’amichevole. Niente faceva capire se pensava di trovarsi davanti a uno spettro più che a un uomo. «Mi chiamo Arminio. Comando una coorte romana di soldati ausiliari, la cavalleria dei cherusci, di cui sono anche il principe. Sono germano, ma cittadino di Roma. Tu chi sei, amico?».

    Feci cadere la spada a terra, avevo perso l’ultima briciola di forza.

    La commedia era finita.

    «Non lo so».

    2

    Poco dopo svenni e mi risvegliai sotto la pelle scolorita di una tenda da campo. Essendo stato un soldato, avevo già dormito sotto l’incerata di capra, ma riconobbi ancor più ciò che veniva da fuori la tenda: i suoni di un intero accampamento militare. Il rumore dei sandali chiodati; quello del metallo sul metallo, per le martellate che piantavano a terra i picchetti; quello degli ordini urlati, in latino e in una lingua a me incomprensibile.

    Così mi trovavo fra le truppe ausiliarie dei germani.

    Da una breve occhiata all’interno della tenda, capii di essere ospite del comandante, Arminio. A quanto sembrava, viveva in modo semplice, cosa che lo rendeva certamente popolare tra i suoi uomini, ma lo status di capo si evinceva comunque dalla presenza di una cassa e un tavolo da campo, su cui era aperta una mappa.

    Una mappa! Dov’ero? Benché fossi diretto a nord, viaggiare di nascosto nel fitto delle foreste aveva complicato moltissimo l’orientamento basato sul sole: potevo solo sperare di non aver deviato troppo a sud tornando nell’entroterra dell’impero.

    Dovevo sapere. Dovevo vederla.

    I miei occhi invece furono richiamati dal fruscio della tenda che si aprì di scatto lasciando entrare Arminio e il suo sorriso accogliente, per nulla intonato alla serietà dello sguardo.

    «Ti sei svegliato?», chiese in un latino molto più corretto del mio.

    Decisi che il mio alleato migliore era il silenzio e scrollai piano la testa.

    «Bene. Vino, allora?». Aveva iniziato a versarlo prima ancora di chiedere. Mi mise in mano una coppa e, quando capii che voleva sedersi accanto sul letto di paglia, mi scostai subito.

    «Alla tua guarigione», brindò facendo un gran sorso. «Hai fatto tanta strada».

    Lo ringraziai mormorando e buttai giù un gran sorso pure io. Il vino era ottimo. Quando arrivò in fondo alla gola, per un attimo rividi casa mia: il sole mediterraneo, i dolci fianchi delle colline, l’acqua azzurra. Quanto tempo era passato?

    «Grazie», ridissi con vera gratitudine pur uscendomi con voce triste. Arminio lo scambiò per stato confusionale.

    «Sei svenuto. Per un attimo abbiamo pensato che fossi morto». Si interruppe, un guizzo sinistro gli illuminò gli occhi. «Gli uomini con cui stavi erano tuoi compagni?».

    Alzai le spalle. Il silenzio era il mio alleato.

    «Era un reparto venuto dal presidio sul Reno a rimpiazzare le nostre ultime perdite», spiegò Arminio puntandomi addosso uno sguardo inquisitore. Temendo l’esito di quell’esame, mi assalì l’impulso improvviso di fuggire lontano. Evidentemente il mio travestimento non l’aveva ingannato, presto sarei morto tra urla atroci. Ancora urla. Mi rigirai la coppa tra le mani. Potevo colpirlo con quella e poi avventarmi sulla sua gola. Potevo…

    «Tu sei un soldato, amico», disse dando un taglio alle mie fantasie assassine. «Ti abbiamo trovato nudo, ma i tuoi sandali erano quelli in dotazione ai legionari».

    Mi guardai i piedi. Sandali nuovi di pelle liscia. Le borchie di metallo sotto le suole stavano sicuramente brillando. Mi venne una fitta per la perdita dei miei due vecchi compagni, i migliori, e mi maledissi per non averli eliminati subito, nascondendo il mio passato.

    Continuai a fare il vago sfiorando senza accorgermene la tunica che mi era stata infilata dalla testa mentre dormivo. Era di un rosso porpora, l’ideale per nascondere il sangue.

    Arminio seguì il mio sguardo e mi lesse nel pensiero. «Non puoi andare in giro per l’accampamento nudo. Come fanno i britanni».

    I britanni. Da piccolo ne avevo conosciuto uno. Era uno schiavo da cui avevo appreso che quel popolo era un insieme di tribù violente che abitavano oltre il mare del Nord e non sottostavano alla legge di Roma, alle sue tasse e ai suoi castighi. Giulio Cesare aveva solcato quelle acque una sessantina di anni prima stringendo accordi commerciali e alleanze con le loro tribù del Sud, e io non vedevo l’ora di seguire le sue orme. Sistemarmi all’ombra di quelle scogliere bianche e sottrarmi allo sguardo pieno d’odio delle aquile di Roma.

    «Il reparto con cui eri», continuò il germano. «Alcuni erano veterani. Cicatrici», spiegò. «Ce le hai anche tu, soldato».

    Soldato. Non potevo più sottrarmi a quell’identità. Anche senza vedermi in sandali, qualunque veterano poteva leggere la storia incisa e segnata sulla mia pelle e questo germano, ormai lo sapevo, era un esperto in fatto di guerra.

    «Io sono un cavaliere. Sto in sella da quando ho imparato a camminare. E come cavaliere mi piace andare avanti, amico. Dovresti farlo anche tu. Forse, nella testa hai cose che non riesci, o non vuoi, ritrovare. Bene, ma devi andare avanti».

    Piegai la testa, confuso. Erano parole stupide.

    Il tempo ha un modo tutto suo di cancellarci la memoria. Se ne passa abbastanza, anche la faccia di nostra madre diventa una macchia indistinta. Ma come funziona per le atrocità? Per gli orrori. Le cose che vorremmo dimenticare. Quelle impossibili da superare. Sono quelle che ci perseguitano ogni volta che chiudiamo gli occhi.

    «Ti serve un nome», disse di punto in bianco. «Che ne dici di Felix? Porta bene, no?».

    Piegai ancora la testa, poteva andare. Felix era un nome come un altro. Arminio sembrò elettrizzato da quel battesimo, si mise in piedi, mi versò dell’altro vino e posò l’otre mezzo vuoto sulla mappa. L’idea che in quella carta ci fossero le risposte che mi servivano mi fece agitare.

    «Hai un nome. Ora ti serve una mansione. Sarei felice di farti lavorare per me, Felix. La mia unità è fatta solo di germani scelti dalla mia stessa tribù, i cherusci, ma per stavolta posso chiudere un occhio. Dalle tue gambe, comunque, intuisco che non sei un cavaliere, dico bene?».

    Scossi la testa e non capii se lo prese per un no o un non lo so. Non importava. Aveva un tetto da offrirmi.

    «Diciassettesima Legione», annunciò Arminio. «Il tuo reparto era destinato alla Diciottesima, ma… sento che un nuovo inizio fa più al caso tuo».

    Non capivo la differenza. Ovunque fossi finito, avrei destato sospetti. La gente avrebbe voluto sapere da dove venivo e perché ero solo. I rimpiazzi dei reparti decimati in battaglia non si presentavano mai da soli.

    Da una falda della tenda sbucò una faccia. La brutta faccia di un germano. Parlò al principe nella loro lingua e poi fece sparire il suo ceffo grinzoso.

    «Berengar dice che è arrivato il tuo nuovo comandante», mi informò Arminio. «Prima di raggiungerlo, però, fammi sbrigare una faccenda che abbiamo in sospeso. Resta qui, Felix, rilassati. Prendi altro vino. Sèntiti a casa». Mi tese la mano, un gesto insolito per un ufficiale con un soldato, ma quel principe era molto diverso dai suoi pari grado. La strinsi, con un certo timore.

    «Alla prossima, amico», disse uscendo e lasciandomi rimbalzare in testa quelle parole. Alla prossima: era un saluto come un altro, o aveva un significato preciso?

    Non avevo tempo per pensarci. Mi fiondai sulla mappa. Era dettagliatissima, c’erano segnati fiumi, strade, città e fortilizi. C’era solo un problema: non sapevo dov’ero io.

    Dal territorio raffigurato, almeno si capiva che mi trovavo nella provincia della Germania Magna, un gruppo di territori assoggettati a est del Reno. Un insieme di tribù germaniche che pagava le tasse e i tributi a Roma. Alcune, tra cui evidentemente quella di Arminio, offrivano anche delle truppe in ausilio alle coorti dell’impero, soldati che formavano il grosso dell’esercito – sia destinati all’avanguardia degli eserciti sul piede di guerra, che al ruolo di colonna portante della difesa sulle frontiere imperiali – lasciando così alla fanteria pesante delle legioni romane il ruolo di truppa d’assalto.

    Se mi trovavo in Germania potevo sperare di aver mantenuto la direzione giusta: l’esercito poteva essere appostato ai confini dell’impero, confini che davano a est e a nord. Forse era colpa del vino, ma quel pensiero mi fece girare un po’ la testa.

    Mi avvicinai in silenzio all’ingresso della tenda. Trattenni il fiato per ascoltare fuori e sentii il respiro di due uomini: sentinelle. Dal suono che facevano solo respirando, dovevano essere dei giganti. Tesi ancor più l’orecchio e sentii due voci.

    Sbirciai da un buco della tenda e vidi che uno era Arminio, parlava in tono pacato ma di comando. Il tizio davanti a lui era un fascio di muscoli tesi e racchiusi nel corpo di un centurione, riconoscibile dal cimiero obliquo sull’elmo che luccicava al sole. Di sicuro era il mio nuovo comandante, un tipo che non passava inosservato. Arminio era più alto in grado, ma il suo ordine non rientrava nella scala di comando del centurione, perciò mi chiesi quale leva potesse sfruttare per manovrare quell’uomo.

    Col cuore in gola realizzai che avrei avuto molto tempo per rifletterci. In fondo, sapevo solo che mi tenevano in quella tenda ma, con le sentinelle all’ingresso e Arminio a due passi da me insieme al centurione, forse ero finito in una delle prigioni più remote di Roma.

    Non potendo fare altro, allungai la mano sul vino.

    3

    All’inizio dell’estate, nella città di Minden abitavano poche centinaia di cherusci, la tribù germanica che aveva giurato fedeltà alla nobile famiglia di Arminio. Come aveva fatto negli ultimi due anni di campagna militare, il governatore delle province germaniche sottomesse a Roma, un aristocratico che rispondeva al nome di Varo, ordinò a tre delle sue cinque legioni di uscire dalle mura dei loro fortini sul Reno per sfilare in marcia sui territori assoggettati e impressionare i germani, sia i nemici che gli altri già alleati. Su consiglio di Arminio, come sito per l’accampamento estivo di quell’anno il governatore aveva scelto Minden, trasformandola così in una provvisoria tendopoli di ventimila soldati.

    Minden era ancora una cittadina qualunque quando l’esercito romano si era accampato alle sue porte. Ora, pur restando un piccolo centro, il numero delle prostitute era aumentato in modo esponenziale. Alcune erano autoctone, ansiose di approfittare degli affari piovuti dal cielo con quell’arrivo. Altre avevano seguito l’esercito dalle postazioni invernali sul Reno, andando dietro alle aquile come qualunque soldato in servizio. Queste ultime non erano sole ma in compagnia di musici, maghi, ladri e di tutte le famiglie ufficiose della truppa: i legionari non potevano sposarsi ma, finché una coppia non dava troppe noie, i comandanti preferivano chiudere un occhio.

    Per soddisfare la letterale sete dei soldati, ogni altra casupola di Minden si era riconvertita in locanda, eccetto quelle usate per mettere sottochiave l’innocenza delle fanciulle della città.

    Tutte cose che avevo saputo dal mio nuovo centurione, Pavo. Era giovane per il grado che ricopriva, quindi, o aveva doti eccezionali, o era raccomandato. Andava in giro ostentando sicurezza, come si addiceva al grado e al suo aspetto piacente, ma dallo sguardo altèro trapelava un uomo pieno di amarezza.

    Il nostro viaggio nella provincia germanica era iniziato in silenzio, Pavo mi trattava come avrebbe fatto con un cane randagio, comunicando a gesti e mugugni. Io gli stavo sempre dietro facendo la parte dello spaesato, ma presto notai che girava impercettibilmente la testa per guardarmi mentre rifletteva su quell’assegnazione. Lo incuriosivo. Così, avvicinandoci all’accampamento principale dell’esercito e alla città di Minden, mi aveva dato un’infarinatura generale sull’insediamento e la campagna militare per l’estate.

    Il succo era che non c’era nessuna campagna. Il governatore Varo aveva spinto le tre legioni a ovest lungo il Reno per uno sfoggio di potenza che avrebbe tenuto a freno le rissose tribù germaniche ma, invece di marciare in lungo e in largo per tutto il territorio, Varo si era accontentato di piantare le tende e fare salotto a Minden, accettando gli omaggi delle tribù leali e chiudendo un occhio su quelle che mancavano all’appello. Per esperienza diretta, sapevo che tra i germani c’era gente che non si limitava a ignorare la presenza romana.

    «E ora che si fa, signore?», chiesi all’ufficiale.

    «Hai detto qualcosa?», disse abbandonando il filo dei suoi pensieri.

    Piegai la testa con rispetto e rifeci la domanda.

    «Ora?», borbottò. «Ora impacchettiamo l’equipaggiamento e marciamo di nuovo sul Reno. È da un maledetto anno che non saccheggiamo più i villaggi».

    Saccheggio. Il suo punto debole. Pavo era avido o pieno di debiti o, molto più facilmente, entrambe le cose. Forse era grazie a questo che Arminio lo teneva in pugno.

    Ora che avevo finalmente aperto bocca, Pavo sfoggiò il suo sorriso migliore per farmi stare a mio agio. «Ho saputo del bosco sacro e degli uomini sacrificati», disse con finta partecipazione.

    Non mi stupiva. I soldati spettegolavano come pescivendoli, quella storia aveva fatto senz’altro il giro di tutto l’esercito.

    «Be’, inizieranno a fare domande sul fatto che sei arrivato da solo». A quel punto si fermò e mi mise una mano fraterna sulla spalla. «Non devi preoccuparti di niente, capito? Sei hai un problema, lo dici a me».

    Lo ringraziai con un cenno e riprendemmo a camminare. Quell’uomo evidentemente intuiva che tra me e Arminio c’era una specie di legame. Certo, il primo a chiedersi che intenzioni avesse il principe ero io, ma potevo attribuirle solo agli interessi di un capo magnanimo.

    Entrammo nell’accampamento passando un portone di legno, sormontato da un arco in cui stavano le sentinelle. Il bastione era costituito da un terrapieno, con sopra una recinzione di pali aguzzi che circondavano l’intero insediamento. Il terriccio era tutto ricoperto di erba ormai, segno che quello che doveva essere un campo temporaneo, di fatto, stava già in piedi da mesi.

    Oltre l’ingresso, il sito si sviluppava secondo la planimetria di tutti gli accampamenti romani. Una grande strada libera e ininterrotta lo tagliava in due passando per il centro, dall’ingresso nord a quello sud. Al centro c’erano le baracche del quartier generale, dove probabilmente risiedeva il governatore. I soldati avevano sistemato le tende seguendo gli stessi accorpamenti delle unità in cui erano suddivisi in battaglia: le legioni in coorti, le coorti in centurie e le centurie in plotoni. Era la massima espressione della logica romana e della disciplina interna alla legione. Non avevo mai messo piede in quel campo, ma dai vialetti delimitati di tende in cui svoltammo, capii perfettamente dove eravamo diretti: dal quartiermastro o, come veniva chiamato dalle truppe, il qm.

    Lo trovammo dietro un lungo bancone di legno ricoperto dall’equipaggiamento per migliaia di soldati. Il pallore della sua pelle screziata di macchie lo faceva somigliare a una lastra di marmo. Con gli anni, avevo capito che chi era nato brutto in genere tendeva a esaltare il suo lato gioviale o quello rabbioso.

    «Che cazzo vuoi, Pavo?».

    Il quartiermastro era più incline alla seconda vocazione.

    «Dagli i ferri», disse Pavo indicandomi col pollice.

    «Nessuno mi ha detto che c’erano nuovi arrivi», grugnì lo sgorbio gigante. «Chi è questo?», insistette come se non fossi a meno di un metro da lui.

    «Uno dei miei. Dagli i ferri, del resto parliamo dopo».

    «Bah! Il deposito serve a depositare». L’imponente quartiermastro sputò quello che doveva essere il suo mantra, ma iniziò a recuperare l’equipaggiamento dietro il bancone del magazzino.

    «Tito è tornato?», chiese Pavo mentre iniziava a crescergli davanti un’alta pila di ferri.

    «Stamattina. Se lo vedi prima di me, digli di venire qua. Per come vanno le cose, potrebbe finire in una rissa da un momento all’altro e, se crepa senza darmi quello che mi spetta, dovrò farmi spompinare dal suo cadavere marcio».

    Pavo ignorò la minaccia sacrilega e riprese al primo accenno del quartiermastro. «Che rissa? Il governatore sta facendo i bagagli. Stiamo per tornare ai fortini sul Reno».

    «Sì, ma la musica è cambiata. In giro ci sono montagne di cadaveri ammucchiati in modi orrendi. Ieri, un gruppo di ingegneri che perlustrava un ponte: fatti a pezzi con l’accetta. Hanno fatto schifezze anche nella foresta. Quei barbari incula-capre li hanno bruciati vivi, brutti stronzi. E io mi sono dovuto occupare dei riti funebri, come se già non avessi abbastanza da fare».

    Cercai di non impressionarmi, ma potevo stare tranquillo. Il quartiermastro si era dimenticato che ero lì: aveva parole solo per Pavo. Dal canto suo, il centurione tratteneva sicuramente un irresistibile impulso di girarsi per guardarmi.

    «Non vuol dire che ci sarà una guerra. Varo è un bastardo indolente».

    «Certo, ma questi germani no».

    «Quali germani?»

    «Arminio».

    Pavo si trattenne ma il suo interesse era palese, sprizzava come una lingua di fuoco. Sperai solo che il mio non fosse altrettanto evidente.

    «È un nome romano, no?», chiese il centurione.

    «Sì». Il quartiermastro annuì poggiando sul bancone una serie di cotte di maglia arrugginite. «È arrivato a Roma da ostaggio, sottratto al padre e allo zio, i capi della sua tribù. Ha cambiato nome e poi è entrato in cavalleria. Ho sentito dire che è un soldato eccezionale. Comunque, per Varo il suo culo germanico caca margherite, mentre quel barbaro di merda ne approfitta per regolare i conti con le altre tribù».

    «Come lo sai?»

    «Voci di corridoio», disse il gigante. «Se sono stronzate, però, sono stronzate sputate da un sacco di bocche diverse». Esaminò la catasta di ferri davanti a lui e alla fine

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