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La legge e la signora
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La legge e la signora

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About this ebook

Traduzione di Marta Lanfranco

Edizione integrale

Opera della maturità di Wilkie Collins e capolavoro della letteratura del diciannovesimo secolo, La legge e la signora è il primo poliziesco avente per protagonista una donna detective, Valeria Woodville, un’eroina forte che non ha paura di sfidare per amore le convenzioni della società vittoriana. Valeria è la signora Woodville solo da pochi giorni quando viene a sapere che suo marito Eustace l’ha sposata sotto falso nome. La neo sposa non solo scopre che il cognome di Eustace in realtà è Macallan, ma anche che qualche anno prima suo marito è stato processato per aver avvelenato la sua prima moglie e assolto solo per insufficienza di prove. Convinta dell’assoluta innocenza del suo amato, Valeria scoperchia un vaso di Pandora pieno di segreti, enigmi e misteri che si impegna a svelare con tenacia, nonostante spesso le sue azioni vengano considerate inappropriate per una donna. La forza e la determinazione di Valeria basteranno a riabilitare il nome di suo marito e a garantirle una vita serena?
Wilkie Collins
(1824-1889), figlio di un pittore paesaggista, studiò Legge senza mai praticare la professione, attingendo alle conoscenze del crimine così maturate per le sue opere. La fortuna arrivò dopo l’incontro con Dickens, che pubblicò gli scritti di Collins sulle sue riviste, inaugurando un rapporto di lavoro e di amicizia che durò dieci anni. Fu un autore molto prolifico, scrisse venticinque romanzi, più di cinquanta racconti e numerose opere teatrali. La Newton Compton ha pubblicato La donna in bianco, Senza nome, L’albergo stregato, La Pietra di Luna, Armadale, La legge e la signora e la raccolta I grandi romanzi.
LanguageItaliano
Release dateFeb 27, 2018
ISBN9788822705808
La legge e la signora
Author

Wilkie Collins

William Wilkie Collins (1824–1889) was an English novelist, playwright, and author of short stories. He wrote 30 novels, more than 60 short stories, 14 plays, and more than 100 essays. His best-known works are The Woman in White and The Moonstone.

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    La legge e la signora - Wilkie Collins

    parte prima

    Paradiso perduto

    Capitolo i. L’errore della sposa

    «Per questo motivo, nei tempi antichi, le donne pie che adoravano Dio si abbellivano, restando tuttavia soggette alla potestà dei loro mariti. La stessa Sara obbediva ad Abramo, chiamandolo mio signore. Non scordatevi mai che siete figlie di Dio, finché vi comportate bene e non vi lasciate sedurre dai divertimenti».

    Terminando con quelle parole ben note la celebrazione del matrimonio della Chiesa d’Inghilterra, mio zio Starkweather chiuse il libro e mi fissò dalla balaustra dell’altare con un’espressione curiosa dipinta sul suo tondo e rosso volto. In quel momento, accanto a me, mia zia, la signora Starkweather, mi diede un colpetto lieve sulla spalla.

    «Valeria, sei sposata!», esclamò.

    A cosa stavo pensando? Dove vagava la mia mente? Ero talmente stupefatta da ignorarlo. Trasalii, guardando il mio nuovo marito. Pareva fosse stupito quanto me. Immagino che, in quel momento, stessimo pensando la stessa identica cosa. Eravamo davvero riusciti, malgrado l’opposizione di sua madre al nostro matrimonio, a diventare marito e moglie? Mia zia Starkweather chiarì ogni dubbio, dandomi di nuovo un colpetto sulla spalla.

    «Prendilo sottobraccio», mi sussurrò con un tono che lasciava trapelare la sua impazienza.

    Eseguii l’ordine.

    «Segui tuo zio».

    Aggrappandomi con forza al braccio di mio marito, seguii mio zio e il curato che lo aveva assistito durante la celebrazione del matrimonio.

    I due chierici ci condussero in sagrestia. La chiesa si trovava in uno dei più degradati quartieri di Londra, tra la City e il West End; c’era brutto tempo; l’aria era pesante e umida. La nostra piccola, malinconica festa di nozze era degna del quartiere malfamato e della giornata grigia. Nessun parente o amico di mio marito si era presentato al matrimonio; la sua famiglia, come vi ho già detto, era contraria alla nostra unione. Da parte mia, erano presenti soltanto i miei zii. Avevo perso entrambi i genitori e non avevo molti amici. Il caro e vecchio impiegato di mio padre, Benjamin, mi aveva dato a mio marito, in modo che la tradizione venisse rispettata. Mi conosceva fin da quando ero nata e si era comportato come un padre quando ero rimasta orfana.

    L’ultimo atto da compiere era, ovviamente, la firma del registro matrimoniale. Sul momento mi confusi (soprattutto perché nessuno mi guidò) e commisi un errore che, secondo mia zia Starkweather, sarebbe stato causa di disgrazie future: firmai con il mio cognome da sposata invece che con quello da nubile.

    «Cosa?!», gridò mio zio con tono allegro. «Hai già dimenticato il tuo nome? Bene, bene. Mi auguro che tu non ti penta mai di essertene separata così presto. Ritenta, Valeria, ritenta».

    Con mani tremanti corressi ciò che avevo scritto, apponendo a penna il mio cognome da nubile. Il risultato, come vedete, fu terribile.

    immagine

    Quando toccò a mio marito, notai stupita che anche lui stava tremando e che, pertanto, la sua firma non era netta come al solito.

    immagine

    Toccò a mia zia apporre la sua firma. Lo fece protestando. «Un pessimo inizio!», esclamò, indicando il mio primo goffo tentativo con la piuma della penna. «Mi auguro, mia cara, che tu non debba mai pentirtene».

    Allora, quando ero ancora ignara e innocente, l’inaspettata scoperta che mia zia era superstiziosa mi lasciò piuttosto inquieta. Fu per me di grande conforto sentire la stretta rassicurante della mano di mio marito. Fu un incredibile sollievo, prima di salutarci, udire la voce gioiosa di mio zio augurarmi una vita felice. Quel brav’uomo aveva lasciato il suo vicariato su al nord, dove avevo vissuto dopo la morte dei miei genitori, proprio per celebrare il mio matrimonio. Lui e mia zia dovevano farvi ritorno con il treno di mezzogiorno. Mi cinse con le sue grandi e forti braccia, baciandomi sotto gli sguardi indiscreti della gente curiosa che, fuori dalla chiesa, aspettava di vedere la sposa e lo sposo.

    «Mia cara, ti auguro salute e felicità con tutto il mio cuore. Sei abbastanza grande da prendere da sola le decisioni e, senza voler offendere il signor Woodville, malgrado noi non ci conosciamo da molto, io prego Dio, Valeria, che tu abbia fatto la scelta giusta. La nostra casa è vuota senza di te. Non credere che io mi stia lamentando, mia cara. Al contrario. Se questo cambiamento ti rende felice, gioisco insieme a te. Suvvia! Non piangere, sennò farai stare male tua zia e, alla sua età, è sempre meglio evitare dispiaceri. Oltretutto, le lacrime rovinano la tua bellezza. Asciugati gli occhi e specchiati: vedrai che ho ragione. Addio, bambina mia, che Dio ti benedica!».

    Prese sottobraccio mia zia e si affrettò ad allontanarsi. Nonostante amassi mio marito, il mio cuore si rattristò un po’ al vedere il mio unico amico e protettore andare via.

    Poi fu il momento del vecchio Benjamin di accomiatarsi. «Ti auguro ogni bene, mia cara. Non dimenticarti di me», fu tutto ciò che disse. Ma quelle parole furono sufficienti a richiamare alla mia mente il passato, quando Benjamin pranzava con noi alla domenica, presentandosi sempre con un pensierino per i figli del suo capo. Mi stavo davvero abbrutendo, per usare le parole di mio zio. Sporgendomi in avanti per offrire la mia guancia al vecchio, lo udii singhiozzare, come se anche lui non nutrisse molta speranza per la mia futura vita.

    La voce di mio marito mi riportò al presente, rallegrando la mia mente con pensieri più felici.

    «Andiamo, Valeria?», domandò.

    Mi fermai lungo la strada per mettere in atto il consiglio di mio zio; in altre parole, mi guardai nello specchio sopra il caminetto della sagrestia.

    Quale riflesso rimanda lo specchio?

    Mostra una giovane donna alta ed esile di ventitré anni. Non è il genere di donna che attrae l’attenzione per strada, non ha i capelli biondi e le guance truccate di rosa. Ha, invece, i capelli neri acconciati esattamente come piaceva a suo padre, con ampi boccoli tirati indietro e legati insieme in un semplice chignon basso, simile a quello della Venere de’ Medici, in modo da mettere in risalto il collo. La sua carnagione è pallida. Raramente il suo volto si tinge di rosso; capita soltanto in momenti di violenta agitazione. Gli occhi sono di una tonalità di azzurro così scuro che spesso vengono scambiati per neri. Le sue sopracciglia disegnano un arco abbastanza definito, anche se risultano troppo nere e marcate. Il suo naso è leggermente a punta e grosso, secondo l’opinione di alcune persone di gusti difficili in questa materia. La bocca, il suo più grande pregio, ha dei contorni delicati in grado di atteggiarsi in una grande varietà di espressioni. Per quanto riguarda il volto in generale, è troppo stretto e lungo nella parte inferiore, troppo ampio e corto in quella degli occhi e della testa. Nell’insieme, il riflesso rimandato dallo specchio, mostra una donna con una certa eleganza, forse un po’ troppo pallida e decisamente seria e composta nei momenti di silenzio e riposo; in breve, una persona che non desta interesse al primo sguardo, ma che viene apprezzata quando la conoscenza si fa più profonda. Il suo vestito nasconde di proposito che si è appena sposata, invece di ostentarlo. Indossa, infatti, una mantella grigia di cachemire rifinita con seta anch’essa grigia, abbinata a una gonna in tono dello stesso materiale. Ha una cuffietta in testa, grigia come il resto del suo abbigliamento, adornata da mussola bianca e da una rosa rossa, l’unica macchia di colore nella sua intera figura.

    Sono riuscita oppure ho fallito nel descrivervi il riflesso di me stessa? Non sta a me dirlo. Ho fatto del mio meglio per non ricadere in una delle due seguenti vanità: quella di sottovalutarmi o quella di elogiare troppo il mio aspetto. Comunque, che vi piaccia o meno la mia descrizione, grazie a Dio è cosa fatta!

    E ora, chi c’è di fianco a me nel riflesso dello specchio?

    Un uomo più basso di me, che ha la sventura di sembrare più vecchio della sua età, dato che è prematuramente stempiato. La sua barba folta e castana e i suoi lunghi baffi mostrano già delle striature di grigio. A differenza della mia, la sua carnagione è accesa e la sua figura è solida. I suoi occhi castano chiaro mi guardano con una tenerezza e gentilezza mai vista in un uomo. Sorride raramente ma, quando lo fa, il suo sorriso è dolce. I suoi modi sono tranquilli e contenuti, tuttavia è in grado di persuadere in modo irresistibile le persone e, in particolare, le donne. Zoppica leggermente per via di una vecchia ferita riportata ai tempi in cui combatteva in India, per questo si appoggia spesso a un bastone di bambù, simile a una stampella nella forma, ogni volta che i suoi piedi gli danno qualche problema. A eccezione di questo piccolo difetto, se di difetto poi si tratta, non ha niente di malato o vecchio o strano; il suo lieve zoppicare, quando cammina, gli conferisce (almeno ai miei occhi imparziali) una certa grazia unica nel suo genere, che risulta più piacevole della perfetta mobilità degli altri uomini. Infine, cosa più importante: lo amo, lo amo, lo amo! E qui finisce il ritratto di mio marito nel giorno delle nostre nozze.

    Lo specchio mi ha mostrato quel che volevo sapere.

    Lasciammo la sagrestia.

    Il cielo, nuvoloso fin dalla mattina, si era ulteriormente incupito durante la cerimonia e aveva incominciato a piovere. I curiosi fuori dalla chiesa ci fissarono con sguardi severi sotto agli ombrelli, mentre ci affrettavamo a raggiungere la carrozza, facendoci largo tra di loro. Nessun sorriso, niente sole, nessun fiore ad accoglierci, nessuna festa di nozze, nessun discorso imbarazzante, nessuna damigella, nessun augurio da parte dei genitori. Un matrimonio triste, impossibile negarlo, e (se zia Starkweather aveva ragione) segnato da un pessimo inizio.

    Avevamo prenotato una carrozza che ci portasse alla stazione. Il facchino solerte, in cerca di una mancia, aveva abbassato gli oscuranti sulle finestre laterali della vettura, impedendo ai curiosi di sbirciare dentro. Dopo quello che parve un interminabile ritardo, il treno partì. Mio marito mi cinse con un braccio. «Finalmente!», sussurrò con un amore negli occhi impossibile da descrivere, attirandomi dolcemente a sé. Gli misi il braccio intorno al collo e lo guardai negli occhi. Le nostre labbra si toccarono nel primo lungo, e tanto agognato, bacio della nostra vita matrimoniale.

    Oh, quanti ricordi mi sovvengono mentre scrivo! Lasciatemi asciugare gli occhi. Oggi non posso proseguire oltre.

    Capitolo ii. I pensieri della sposa

    Eravamo partiti da poco più di un’ora, quando registrai un impercettibile cambiamento in noi.

    Seduti l’uno accanto all’altra con le mani intrecciate, io con la testa appoggiata sulla sua spalla, piano piano smettemmo di parlare. Avevamo forse già esaurito il ristretto ma eloquente vocabolario dell’amore? Oppure, dopo aver sperimentato il lusso di una passione espressa ad alta voce, avevamo concordato in modo tacito di passare ai più profondi e sottili piaceri di una passione mentale? Non sono in grado di determinarlo; so soltanto che, a un certo punto, per via dell’effetto di una strana influenza, le nostre labbra si sigillarono. Viaggiammo ognuno assorto nei propri pensieri. Lui stava forse rimuginando su di me allo stesso mio modo? Ancora prima di arrivare a destinazione, ero piena di dubbi; mi ero resa conto che i suoi pensieri non riguardavano la sua giovane moglie, ma piuttosto la sua anima infelice.

    Per me, invece, il piacere segreto di colmare la mia mente di lui, mentre mi era accanto, era un lusso.

    Rividi nella mia testa il nostro primo incontro nei pressi della casa di mio zio.

    Al nord, abbiamo un famoso torrente delle trote che, quel giorno, scorreva particolarmente impetuoso, facendosi largo nella landa rocciosa attraverso una fessura. Era una sera ventosa e buia. Il tramonto, velato dalla spessa coltre di nuvole, tingeva di rosso l’orizzonte basso a occidente. Un pescatore solitario si ostinava a lanciare l’amo nel torrente in un punto in cui l’acqua era calma e profonda, al riparo di un grande masso. Una ragazza (io) stava immobile sulla roccia, invisibile agli occhi del pescatore, in attesa di vedere balzare fuori dall’acqua la trota.

    Quel momento infine giunse; il pesce abboccò all’amo.

    Il pescatore inseguì la trota sulla stretta striscia di sabbia in riva al fiume e, immergendosi nel suo letto a tratti, quando la corrente cambiava direzione, mentre ora lasciava andare il filo ora lo riavvolgeva, mettendo in atto il difficile delicato processo di dar corda al pesce. Seguii dalla riva quella prova di abilità e astuzia tra l’uomo e il pesce. Avevo vissuto con mio zio Starkweather tanto da appassionarmi agli sport all’aria aperta e da imparare qualcosa, specialmente, sull’arte del pescare. Continuai a seguire con gli occhi il pescatore, la sua canna e il filo, senza badare a dove mettevo i piedi. Feci un passo falso sullo sdrucciolevole sentiero su cui stavo camminando, proprio sulla striscia di terra al limitare delle rocce, e precipitai nel torrente.

    La caduta fu breve; l’acqua era bassa; il letto del fiume era, per mia fortuna, di sabbia. Non mi lamentai, anche se mi ero presa un bello spavento ed ero bagnata. In un attimo riemersi dall’acqua e mi rimisi in piedi, provando una tremenda vergogna quando mi ritrovai di nuovo sulla terra ferma. La mia breve caduta fu sufficiente a permettere al pesce di fuggire. Il pescatore aveva udito il mio istintivo grido di sorpresa e si era voltato, abbandonando la canna da pesca per venire in mio soccorso. Ci fronteggiammo per la prima volta: io sulla riva, lui nell’acqua bassa. I nostri sguardi s’incrociarono e sono fermamente convinta che i nostri cuori si riconobbero. Una cosa è certa: ci scordammo di avere ricevuto un’educazione e ci fissammo in un silenzio ostinato.

    Io fui la prima a ritornare in me. Che cosa gli dissi?

    Qualcosa riguardo al non essere ferita e, forse, aggiunsi dell’altro, incitandolo a recuperare la canna da pesca nel vano tentativo di aiutarlo a riacciuffare il pesce.

    Lui eseguì di malavoglia, poi tornò da me, ovviamente senza la trota. Sapendo che, al suo posto, mio zio sarebbe stato estremamente deluso, gli presentai le mie scuse in modo sincero. Ansiosa di farmi perdonare, mi offrii persino di mostrargli un luogo, più a valle, dove avrebbe potuto pescare con più facilità.

    Non ascoltò una sola parola; m’intimò di andare a casa a togliermi il vestito bagnato. A me non importava, ma gli obbedii senza sapere bene perché.

    Mi accompagnò. La strada che portava al vicariato era la stessa che conduceva alla locanda dove lui alloggiava. Era venuto, mi spiegò, in cerca di calma e riposo, oltre che per pescare. Mi aveva già notata un paio di volte dalla finestra della sua stanza nella locanda. Mi chiese se fossi la figlia del vicario.

    Gli risposi di sì. Gli raccontai che il vicario aveva sposato la sorella di mia madre e che i miei zii mi avevano fatto da padre e madre da quando i miei genitori erano morti. A quel punto mi domandò se l’indomani poteva venire a trovare il dottor Starkweather, dicendomi di avere un amico che, con ogni probabilità, conosceva il vicario. Lo invitai a farci visita, come se fosse stata casa mia; ero incantata dai suoi occhi e dalla sua voce. Mi era capitato più volte di desiderare, davvero desiderare, d’innamorarmi di qualcuno. Tuttavia, non avevo mai provato, prima di allora, ciò che stavo provando alla presenza di quell’uomo. Ebbi l’impressione che la notte calasse all’improvviso non appena ci separammo. Mi aggrappai al cancello del vicariato. Non riuscivo a respirare, ero incapace di pensare; il mio cuore batteva all’impazzata. Tutto per un estraneo! Provavo vergogna. Ma, oh, soprattutto ero immensamente felice!

    E ora, a distanza di poche settimane dal nostro primo incontro, lui era seduto accanto a me. Era mio per il resto dei miei giorni! Sollevai la testa dalla spalla per guardarlo. Mi sentivo come un bambino che aveva appena ricevuto un nuovo giocattolo: volevo accertarmi che fosse davvero mio.

    Non si accorse di nulla; rimase immobile sul sedile dello scompartimento. Era assorto nei suoi pensieri? Stava fantasticando su di me?

    Riappoggiai la testa dolcemente in modo da non disturbarlo. Tornai con la mente a un altro episodio dorato del passato.

    Questa volta mi trovavo nel giardino del vicariato. Era notte. Avevamo stabilito d’incontrarci in gran segreto. Camminavamo piano avanti e indietro, lontano dalle finestre della casa, ora sui sentieri nascosti dagli arbusti, ora esposti al chiaro di luna sul prato aperto.

    C’eravamo già da tempo dichiarati il nostro amore, consegnandoci l’uno all’altra. Pensavamo con un’unica mente, godevamo degli stessi piaceri e soffrivamo per gli stessi dolori della vita. Quella sera ero uscita per incontrarlo con il cuore pesante, alla ricerca di conforto nella sua presenza e di coraggio nella sua voce. Lui notò che mi ero lasciata sfuggire un sospiro al suo primo abbraccio e, gentilmente, rivolse il mio viso a favore della luce lunare per sondare la mia espressione. Quanto spesso aveva visto il volto della felicità nei nostri primi giorni d’amore!

    «Porti brutte notizie, angelo mio», disse, spostandomi con tenerezza una ciocca di capelli dalla fronte. «Non riesci a nascondere la tua ansia e agitazione. Vorrei non amarti così tanto, Valeria».

    «Perché?»

    «Potrei ridarti la libertà. Mi basterebbe lasciare questo posto. Tuo zio sarebbe soddisfatto e tu saresti sollevata dai problemi che ora ti affliggono».

    «Non dirlo neanche per scherzo, Eustace! Se vuoi che io dimentichi i miei problemi, dimmi che mi ami più che mai».

    Mi rispose con un bacio. Vivemmo un momento squisito di totale estraniazione dal mondo, un momento di deliziosa fusione l’uno nell’altra. Tornai alla realtà, più forte e calma, ricompensata nelle difficoltà, pronta ad affrontarle pur di avere un altro suo bacio. Basta dare a una donna un po’ d’amore e non c’è niente al mondo che lei non sia disposta ad affrontare e per cui soffrire.

    «Hanno fatto altre obiezioni alla nostra unione?», mi chiese mentre tornavamo verso casa.

    «No, hanno smesso di opporsi. Si sono ricordati che, in fondo, sono maggiorenne e che quindi sono libera di fare le mie scelte. Mi hanno pregato, Eustace, di lasciarti perdere. Mia zia, che ero convinta fosse una donna dal carattere forte, ha pianto per la prima volta da quando la conosco. Mio zio, sempre così gentile e buono con me, si è comportato in modo ancora più condiscendente del solito. Mi ha detto che, se davvero voglio diventare tua moglie, non mi lasceranno sola il giorno delle nozze. Ovunque ci sposeremo, sarà lui a celebrare il nostro matrimonio e mia zia mi starà vicina in chiesa. Però ha anche aggiunto di riconsiderare seriamente quanto sto per fare e mi ha consigliato di separarmi da te per un po’ di tempo per sentire l’opinione di altre persone, nel caso trovi la sua piuttosto insoddisfacente. Oh, mio caro, sono ansiosi di separarci, come se tu non fossi il migliore degli uomini, ma il peggiore!».

    «È forse successo qualcosa che ha alimentato la loro sfiducia nei miei confronti?», domandò.

    «Sì».

    «Di che si tratta?»

    «Ti ricordi che hai parlato a mio zio di un amico che avete in comune?»

    «Sì, il maggiore Fitz-David».

    «Ebbene, mio zio gli ha scritto».

    «Perché?».

    Aveva pronunciato quell’unica parola in un tono stranamente innaturale, tanto che mi parve che la sua voce appartenesse a un estraneo.

    «Ti arrabbierai, Eustace, se ti racconto ogni cosa?», domandai. «Mio zio, a quanto ho capito, aveva diversi motivi per scrivere una lettera al maggiore. Il primo dei quali era ottenere l’indirizzo di tua madre».

    Eustace si bloccò di colpo.

    Io tacqui nello stesso istante, temendo di offenderlo se avessi proseguito con il mio racconto.

    A dire la verità, il suo comportamento, quando aveva annunciato a mio zio per la prima volta il nostro fidanzamento, era stato piuttosto evasivo e strano, o almeno così mi era sembrato. Ovviamente mio zio lo aveva interrogato sulla sua famiglia. Lui aveva risposto, senza troppo entusiasmo, che il padre era morto e che avrebbe presto annunciato alla madre la sua intenzione di sposarsi. Ci aveva informato che anche lei viveva in campagna, dove sarebbe andato a trovarla, senza precisare il suo indirizzo. Due giorni dopo si era ripresentato a casa di mio zio con un messaggio piuttosto allarmante. Sua madre non aveva alcuna intenzione di offendere la sottoscritta oppure i miei parenti, ma disapprovava in modo assoluto il nostro matrimonio. Lei e tutti i membri della sua famiglia erano d’accordo nel rifiutarsi di partecipare alla cerimonia, se il signor Woodville avesse insistito a portare avanti il fidanzamento con la nipote del dottor Starkweather. Quando gli era stato chiesto di spiegare quell’assurdo messaggio, Eustace ci aveva detto che la madre e le sorelle si erano impegnate con un’altra donna e che, pertanto, erano deluse dal fatto che lui avesse scelto di sposare una sconosciuta. Considerai una simile spiegazione plausibile, soprattutto perché, per quanto mi riguardava, dimostrava la mia influenza su Eustace, cosa che fa sempre piacere a una donna. Purtroppo i miei zii non furono dello stesso avviso. Il vicario espresse al signor Woodville il desiderio di scrivere a sua madre o d’incontrarla per chiarire il suo strano messaggio. Eustace si rifiutò in modo ostinato di comunicare l’indirizzo della madre, giustificando il suo comportamento con la convinzione che la sua interferenza sarebbe stata del tutto inutile. Mio zio si convinse, a quel punto, che dietro a quell’indirizzo si celasse qualcosa di losco. Si rifiutò di concedere la mia mano al signor Woodville e, quello stesso giorno, scrisse una lettera al suo vecchio amico, il maggiore Fitz-David, per chiedere delucidazioni in merito alla famiglia di Eustace.

    Vista la situazione, esprimere ad alta voce le motivazioni di mio zio significava camminare su un terreno molto delicato. Eustace mi tolse dall’imbarazzo, ponendomi una domanda alla quale potevo facilmente replicare.

    «Tuo zio ha ricevuto una risposta dal maggiore Fitz-David?», chiese.

    «Sì».

    «Ti hanno permesso di leggerla?». La sua voce parve esitare a quelle parole; il suo volto tradì la sua improvvisa agitazione, cosa che mi fece soffrire.

    «L’ho qui con me. Posso fartela vedere», risposi.

    Mi strappò la lettera dalle mani, poi mi diede le spalle, mentre leggeva il contenuto al chiaro di luna. Il messaggio era piuttosto breve, quindi terminò in fretta. Sarei in grado di ripeterlo parola per parola. Me lo ricordo ancora oggi.

    Caro vicario,

    il signor Eustace Woodville non mente quando afferma di essere un gentiluomo per nascita e posizione e di avere ereditato, per via testamentaria dal suo defunto padre, un patrimonio non vincolato di duemila ghinee all’anno.

    Sempre vostro,

    Lawrence Fitz-David

    «Non potevamo desiderare una risposta più chiara di questa», affermò Eustace, restituendomi la lettera.

    «Se io gli avessi scritto per avere delle informazioni su di te, sarei stata più che soddisfatta», replicai.

    «Non è così per tuo zio?»

    «No».

    «Che ne pensa?»

    «Perché t’interessa, mio caro?»

    «Voglio saperlo, Valeria. Non ci devono essere segreti tra di noi. Tuo zio ti ha detto qualcosa quando ti ha consegnato la lettera del maggiore?»

    «Sì».

    «Che cosa?»

    «Mi ha detto che la lettera che ha inviato al maggiore consisteva di tre pagine stracolme di domande e che invece, ha sottolineato, lui ha risposto con un’unica frase. Mi ha annunciato la sua intenzione di andare a trovare il maggiore Fitz-David per chiarire di persona la faccenda. È alterato perché ha ignorato la sua richiesta, ovvero non gli ha fornito l’indirizzo di tua madre. A suo avviso, il maggiore si è limitato di proposito a confermare i fatti in modo impersonale. Usa la testa, Valeria, mi ha detto. Non ti sembra strano che un gentiluomo per nascita ed educazione si limiti a rispondere in modo così secco a un amico?».

    Eustace m’interruppe.

    «Hai risposto alla domanda di tuo zio?», chiese.

    «No», replicai. «Mi sono limitata a dirgli che non capisco il comportamento del maggiore».

    «Che cosa ti ha detto tuo zio dopo? Se mi ami, Valeria, dimmi la verità».

    «Ha usato delle parole molto dure, Eustace. È un uomo vecchio. Non devi sentirti offeso».

    «Non lo sono. Che ha detto?»

    «Ricorda le mie parole! Il signor Woodville nasconde qualcosa, lui e la sua famiglia, qualcosa che il maggiore Fitz-David non osa riferire. Interpretata nel modo corretto, Valeria, quella lettera è un avvertimento. Mostrala al signor Woodville e raccontagli pure, se preferisci, quello che penso…».

    Eustace m’interruppe per la seconda volta.

    «Sei sicura che tuo zio abbia davvero pronunciato queste parole?», mi domandò, scandagliando con attenzione il mio volto illuminato dal chiarore della luna.

    «Assolutamente sì. Non credere, però, che io la pensi come lui. Ti prego, non farlo!».

    All’improvviso mi attirò a sé e fissò i suoi occhi nei miei. Ebbi paura.

    «Addio, Valeria!», esclamò. «Ricordami con affetto, mia cara, quando sarai felicemente sposata a un altro uomo».

    Cercò di lasciarmi, ma io mi aggrappai a lui terrorizzata.

    «Che cosa significa?», domandai non appena ritrovai la voce. «Io sono tua e tua soltanto. Che cosa ho detto, che cosa ho fatto, per meritarmi queste parole così terribili?»

    «Dobbiamo lasciarci, angelo mio», replicò tristemente. «Non è colpa tua. La sventura è tutta mia. Mia Valeria! Come puoi sposare un uomo che suscita sospetti tra i tuoi cari? Ho vissuto una vita triste. Non ho mai trovato in nessun’altra donna la simpatia, il dolce conforto e la compagnia che trovo in te. Oh, è così dura perderti! Com’è difficile tornare alla mia precedente vuota vita! Ma devo sacrificarmi, amore, per il tuo bene. Proprio come te, non comprendo il vero significato di quella lettera. Tuo zio mi crederà? I tuoi amici si fideranno di me? Un ultimo bacio, cara! Perdonami per averti amato con passione e devozione. Perdonami e lasciami andare!».

    Mi aggrappai a lui disperatamente, in modo ostinato. Il suo sguardo mi stava facendo impazzire; le sue parole mi avevano colmato di un’angoscia convulsa.

    «Ovunque andrai», dissi, «io verrò con te! Gli amici, la reputazione, non m’interessano. Non importa se perderò tutto! Oh, Eustace, sono soltanto una donna. Non mi fare impazzire! Non posso vivere senza di te. Io devo essere e sarò tua moglie!».

    Quelle parole violente furono le ultime che riuscii a pronunciare prima che la miseria della follia sfociasse in uno scoppio di lacrime e singhiozzi.

    Lui cedette. Mi tranquillizzò con la sua dolce voce; mi fece tornare in me con le sue tenere carezze. Chiamò il cielo rischiarato sopra le nostre teste come testimone del fatto che avrebbe consacrato la sua vita a me. Giurò in modo solenne, con parole molto eloquenti, che da quel momento in poi il suo unico pensiero, giorno e notte, sarebbe stato quello di dimostrarsi degno del mio amore. Non aveva forse mantenuto quella promessa? Il giuramento proclamato in quella memorabile notte non era stato forse seguito da quello pronunciato all’altare, dalle promesse scambiate dinanzi a Dio? Ah, che vita mi attendeva! Provavo una felicità quasi ultraterrena.

    Di nuovo sollevai la testa dalla sua spalla per bearmi della sua vista. Vita mia, amore mio, marito mio! Sei mio!

    Non mi ero ancora del tutto ripresa dai ricordi del passato e dalla dolce realtà del presente, quando lasciai che la mia guancia sfiorasse la sua per sussurrargli con tenerezza: «Oh, quanto ti amo! Quanto ti amo!».

    Subito dopo mi staccai da lui. Il mio cuore si fermò. Portai la mano al viso. Che cosa c’era sulla mia guancia? Io non stavo piangendo, anzi ero talmente felice. Che cosa c’era sulla mia guancia? Una lacrima!

    Lui girò il viso dall’altra parte. Io lo obbligai a guardarmi a forza.

    Lo fissai e vidi mio marito, il giorno delle nostre nozze, con gli occhi pieni di lacrime.

    Capitolo iii. La spiaggia di Ramsgate

    Eustace riuscì a placare i miei timori, ma non posso dire che soddisfece anche la mia mente.

    Mi disse che si era soffermato a pensare al contrasto tra la sua vita passata e quella presente. Gli erano tornati alla memoria alcuni ricordi amari, che lo avevano colmato di tristi timori di non essere in grado di rendermi felice. Si era domandato se non mi avesse conosciuto troppo tardi, se non fosse già troppo ferito, deluso e disincantato. Questi e altri dubbi gli avevano appesantito la mente, provocando le lacrime che sfortunatamente avevo scorto. Mi pregava, in nome dell’amore che avevo per lui, di cancellare per sempre quell’episodio dalla mia memoria.

    Lo perdonai, lo rassicurai, gli rallegrai l’animo. Tuttavia, in alcuni momenti il ricordo di quell’avvenimento mi tormentava in segreto; mi chiedevo se davvero potevo fidarmi di mio marito come lui poteva fidarsi di me.

    Scendemmo dal treno a Ramsgate.

    La famosa località balneare era vuota; l’alta stagione era appena finita. Avevamo incluso nel nostro viaggio di nozze una crociera nel Mediterraneo su uno yacht prestatoci da un amico di Eustace. Entrambi adoravamo il mare ed eravamo desiderosi, viste le singolari circostanze del nostro matrimonio, di fuggire lontano da amici e conoscenti. Con questo scopo in mente, dopo aver celebrato il matrimonio privatamente a Londra, avevamo avvisato lo skipper della barca di raggiungerci a Ramsgate. In quel porto, a differenza dei più frequentati attracchi dell’Isola di Wight, senza più turisti in giro, saremmo riusciti a salpare senza dare troppo nell’occhio.

    Trascorsero tre giorni, giorni di perfetta solitudine, di squisita felicità, che non dimenticherò mai né rivivrò più fino alla fine delle nostre vite.

    Il quarto giorno, di mattina presto, poco prima dell’alba, successe un fatto insignificante, che tuttavia considerai importante in quanto, per com’ero fatta, pensai che fosse strano.

    Mi svegliai di colpo, in modo inspiegabile, da un sonno profondo e privo di sogni, con una pressante sensazione d’angoscia mai provata prima. In passato, negli anni trascorsi al vicariato di mio zio, ero stata spesso presa in giro scherzosamente per la mia capacità di dormire profondamente. Nell’istante stesso in cui posavo la mia testa sul cuscino mi addormentavo fino al mattino successivo, quando la cameriera veniva a bussare alla mia porta. In ogni stagione, in ogni condizione, riuscivo ad avere il lungo e giusto riposo dei bambini.

    Eppure, quella mattina mi svegliai senza una causa apparente, molte ore prima del mio solito orario. Cercai invano di tornare a dormire. Ero talmente inquieta che non ero nemmeno in grado di stare ferma a letto. Al contrario, mio marito dormiva tranquillamente accanto a me. Temendo di disturbarlo, mi alzai dal letto e indossai la vestaglia e le pantofole.

    Mi diressi verso la finestra. Il sole stava sorgendo sopra il calmo e grigio mare. Per qualche istante quello spettacolo magnifico ebbe il potere di tranquillizzare i miei nervi irritati. Però, ben presto, l’irrequietezza si fece risentire. Incominciai a camminare avanti e indietro nella stanza, finché non fui stufa di quell’esercizio monotono. Presi un libro e mi sdraiai di nuovo. La mia mente continuava a vagare; l’autore non era in grado di catturarla. Mi alzai una seconda volta e osservai con ammirazione e amore Eustace mentre dormiva tranquillo. Tornai alla finestra, ma mi stancai di ammirare la bella mattinata. Mi accomodai di fronte allo specchio e osservai il mio riflesso. Ero così sciupata ed esausta per essermi svegliata prima del solito! Mi alzai in piedi non sapendo bene che cosa fare. Iniziai a non tollerare le quattro mura della stanza. Aprii la porta che conduceva allo spogliatoio di mio marito e vi entrai, cercando sollievo nel cambiamento.

    Il primo oggetto che notai fu il suo necessaire aperto sul tavolo.

    Tirai fuori le bottigliette, i vasetti, le spazzole, i pettini, i coltelli, le forbici poste in uno scomparto, e il necessario per scrivere in un altro. Annusai i profumi e gli unguenti; pulii con un fazzoletto e spolverai le bottigliette che man mano tiravo fuori. Piano piano svuotai completamente il necessaire. Era foderato di velluto blu. In un angolo, notai una piccola striscia di seta dello stesso colore. La presi tra pollice e indice e la tirai, scoprendo così uno scomparto segreto sul fondo del necessaire contenente dei documenti. Nella strana condizione in cui mi trovavo (il mio amore era capriccioso, ozioso, indagatore), trovai divertente tirare fuori quelle carte esattamente allo stesso modo degli altri oggetti.

    Vi erano dei conti, che non destarono il mio interesse; delle lettere che, non vale nemmeno la pena dirlo, misi da parte non appena lessi gli indirizzi; e, sepolta sotto il resto, una fotografia posta a faccia in giù con una scritta sul retro. Diedi un’occhiata a quelle poche parole: al mio caro figlio Eustace.

    Sua madre! La donna che si era ostinatamente opposta al nostro matrimonio!

    Incuriosita voltai la fotografia, aspettandomi di vedere una donna dall’aspetto severo, burbero, serio. Con mia grande sorpresa, il volto che apparve fu estremamente bello; l’espressione, malgrado fosse compita, era affascinante, dolce e gentile. I capelli grigi erano stati acconciati in boccoli fuori moda, ugualmente ripartiti sui lati della testa e sistemati sotto a una cuffietta di pizzo. A un angolo della bocca vi era un segno, forse un neo, una caratteristica che rendeva quel volto ancora più peculiare. Rimasi lì a fissare la fotografia, rimuginando nella mia mente. Quella donna, che quasi aveva insultato me e i miei parenti, era, oltre ogni dubbio, almeno per quanto riguardava l’aspetto fisico, una persona dal fascino inusuale, una persona che sarebbe stato un piacere e un privilegio conoscere.

    Ragionai a lungo. La scoperta della fotografia tranquillizzò il mio animo. I rintocchi dell’orologio all’ingresso della casa mi allertarono sullo scorrere del tempo. Rimisi con cura gli oggetti dentro al necessaire, a cominciare dalla fotografia, esattamente come li avevo trovati e tornai in camera da letto. Guardai ancora una volta mio marito che dormiva tranquillamente, domandandomi che cosa aveva portato quella madre, in apparenza brillante e gentile, a trattarci in modo così duro. Perché si era dimostrata inflessibile e impietosa nell’affermare la sua opposizione al nostro matrimonio?

    Potevo pronunciare quella domanda ad alta voce non appena Eustace si fosse svegliato? No, avevo paura ad avventurarmi così in là. Avevamo concordato in modo tacito che non avremmo più parlato della madre e, oltretutto, si sarebbe potuto arrabbiare se avesse saputo che avevo frugato tra le sue cose private.

    Quella mattina, dopo colazione, ricevemmo notizie dello yacht. L’imbarcazione era saldamente ancorata nel porto e lo skipper era in attesa di ricevere ordini da mio marito.

    Eustace esitò a chiedermi di accompagnarlo a visitare lo yacht. Aveva l’obbligo di esaminare l’inventario della barca, doveva prendere delle decisioni su questioni poco interessanti per una donna, che riguardavano carte e barometri, provviste e acqua. Mi chiese di aspettarlo fino al suo ritorno. La giornata era di una rara bellezza e la marea si stava abbassando. Comunicai la mia intenzione di fare una passeggiata sulla spiaggia e la padrona di casa, presente in quel momento, si offrì di accompagnarmi e di prendersi cura di me. Concordammo di camminare finché ne avessimo avuto voglia in direzione di Broadstairs; Eustace ci avrebbe raggiunto sulla spiaggia dopo aver terminato le faccende a bordo dello yacht.

    Mezz’ora dopo la padrona di casa e io affondavamo i piedi nella sabbia.

    Il paesaggio in quella mattinata d’autunno era straordinariamente incantevole. La brezza fresca, il cielo azzurro, il mare luccicante, le scogliere illuminate dal sole, la sabbia dorata sotto i nostri piedi, la lenta processione di navi che in modo ordinato sfilavano nella Manica: era tutto così elettrizzante, così delizioso, che avrei potuto benissimo mettermi a ballare dalla gioia come una bambina, se solo fossi stata sola. L’unica cosa che m’impediva di godere appieno della felicità era la parlantina instancabile della padrona di casa. Era una donna estroversa, dal carattere semplice e dalla testa vuota, che insisteva a parlare, a prescindere dall’interesse del suo interlocutore per le sue chiacchiere, e che aveva l’abitudine di rivolgersi a me chiamandomi signora Woodville, il che, a mio avviso, era un po’ troppo familiare vista la differenza di posizione sociale.

    Credo che stessimo camminando da circa mezz’ora quando raggiungemmo una signora che procedeva sulla spiaggia nella stessa nostra direzione.

    Quando stavamo per sorpassarla, la sconosciuta tirò fuori un fazzoletto dalla tasca e, così facendo, senza accorgersene, perse accidentalmente una lettera sulla sabbia. Mi trovavo vicina, perciò la raccolsi e la restituii alla donna.

    Nell’istante in cui si volse per ringraziarmi, io m’immobilizzai. Avevo dinanzi a me, in carne e ossa, il ritratto fotografico trovato nel necessaire di mio marito! La riconobbi dai peculiari boccoli grigi, dai lineamenti gentili, dall’espressione brillante, dal neo all’angolo della bocca. Non mi ero sbagliata. Era sua madre!

    La vecchia signora, naturalmente, scambiò la mia confusione per timidezza. Con perfetto tatto e gentilezza, fu la prima a parlare. Il minuto successivo mi ritrovai a camminare accanto alla donna che si era ostinata a rifiutare il mio ingresso nella sua famiglia. Devo ammettere che mi sentivo terribilmente male e che non sapevo se dovevo o meno svelare la mia identità, in assenza di mio marito.

    Dopo un altro solo minuto, la mia loquace padrona di casa, che camminava fianco a fianco a mia suocera, decise al posto mio. A un certo punto dissi che dovevamo ormai avere quasi raggiunto la meta della nostra passeggiata, la località marina chiamata Broadstairs. «Oh no, signora Woodville!», esclamò l’irreprensibile donna, chiamandomi come al solito per nome. «È meno vicina di quel che pensate!».

    Osservai la vecchia signora con il cuore in gola.

    Con mia enorme sorpresa, non dimostrò il benché minimo segno di aver riconosciuto quel nome. La vecchia signora Woodville continuò a parlare alla giovane signora Woodville nello stesso modo compito, come se quel nome le fosse del tutto sconosciuto!

    Tuttavia doveva avere intuito dall’espressione del mio volto l’agitazione che mi attanagliava, perché, al termine della frase seguente, mi guardò e trasalì.

    «Temo che voi abbiate abusato delle vostre forze», disse col suo solito tono gentile. «Siete pallida e sembrate esausta. Venite a sedervi. Lasciate che vi presti i miei sali».

    La seguii senza oppormi fino alla base della scogliera, dove alcune rocce ci fecero da sedute improvvisate. Registrai vagamente le parole

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