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La spia dei Borgia
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La spia dei Borgia
Ebook442 pages6 hours

La spia dei Borgia

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Un autore da oltre 1 milione di copie
Tradotto in tutto il mondo

Un grande thriller

Un papa al culmine del suo trionfo
Il più celebre delitto della Roma rinascimentale

Il papa Alessandro VI Borgia sta perfezionando i suoi progetti per il controllo dell’Italia, quando un atroce delitto lo priva di uno degli affetti più cari e sconvolge i suoi piani. Tutta Roma viene mobilitata per scoprire l’autore del crimine ma, per una strana serie di coincidenze, in prima linea nelle indagini si viene a trovare il pittore di corte, il celebre Pinturicchio. Per far luce su un omicidio che ha ferito il cuore del papato, Pinturicchio si servirà dell’aiuto dei più affermati artisti in città, da Michelangelo Buonarroti a Filippino Lippi, da Piermatteo d’Amelia al Perugino. L’elenco dei nemici dei Borgia è così lungo che la lista dei sospettati si alimenta di giorno in giorno. Ma un uomo mascherato potrebbe essere il testimone chiave del delitto o il suo autore… Di chi si tratta? In una Roma rinascimentale dove la ricchezza delle espressioni artistiche va di pari passo con le lotte per il potere, la penna di Andrea Frediani rievoca uno dei più celebri cold case della storia.

Uno dei più celebri casi irrisolti della Roma rinascimentale insidia il papato di Alessandro VI Borgia

«Non si può fare a meno di appassionarsi alla narrazione di questo autore.»
Il Messaggero

«Grande conoscitore del quotidiano annidato nella storia, Frediani usa il particolare come un fregio arricchendo le vicende con precisione, dalle descrizioni degli abiti fino alle regole dei cerimoniali.»
Sette – Corriere della Sera
Andrea Frediani
È nato a Roma nel 1963; consulente scientifico della rivista «Focus Wars», ha collaborato con numerose riviste specializzate. Con la Newton Compton ha pubblicato diversi saggi (tra cui Le grandi battaglie di Roma antica; I grandi generali di Roma antica; L’ultima battaglia dell’impero romano; Le grandi battaglie di Napoleone; La storia del mondo in 1001 battaglie; L’incredibile storia di Roma antica) e romanzi storici: Jerusalem; Un eroe per l’impero romano; la trilogia Dictator (L’ombra di Cesare, Il nemico di Cesare e Il trionfo di Cesare, quest’ultimo vincitore del Premio Selezione Bancarella 2011); Marathon; La dinastia; 300 guerrieri; 300. Nascita di un impero; I 300 di Roma; Missione impossibile. Ha firmato le serie Gli invincibili e Roma Caput Mundi, i thriller storici Il custode dei 99 manoscritti e La spia dei Borgia e, con Massimo Lugli, Lo chiamavano Gladiatore. Le sue opere sono state tradotte in sette lingue.
LanguageItaliano
Release dateJan 30, 2018
ISBN9788822718815
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    La spia dei Borgia - Andrea Frediani

    I

    Basilica di San Pietro, 26 ottobre 1496

    «Ecco fatto, adesso siamo nelle mani di questi spagnoli…».

    «Allora forse erano meglio i francesi, a questo punto…».

    «Scherzi? Quelli stuprerebbero le nostre donne e ci attaccherebbero il mal francese… Ti sei scordato cos’è successo solo due anni fa?»

    «Hai ragione. Ma la boria di questi spagnoli non la sopporto: finché avevamo un papa romano, almeno avevamo dei concittadini alle cariche più importanti, anche se erano tutti suoi parenti. Ma adesso, questo papa Borgia… ci sta mettendo tutti spagnoli».

    «Suoi familiari, se è per questo…».

    «Già. Siamo diventati un dominio spagnolo, come il regno di Napoli nel Meridione. Solo nel concistoro, adesso, ci sono cinque cardinali spagnoli, tra cui il figlio del papa, Cesare, e il cugino Juan. Cosa rimarrà ai romani?».

    Bernardino di Betto non riusciva proprio a concentrarsi sulla cerimonia cui era stato chiamato ad assistere dal papa non appena era giunto a Roma per la sua nuova commissione: l’investitura del secondo figlio del pontefice, Giovanni Borgia, alla carica di gonfaloniere della Chiesa e capitano generale delle truppe pontificie. Ben più interessanti sembravano i commenti sussurrati dai romani seduti accanto a lui in mezzo alla folla straordinaria che si era accalcata nella basilica di San Pietro per l’occasione, non tanto per amore verso il papa e la sua famiglia quanto, come il pittore aveva modo di constatare, per la curiosità di assistere all’ennesimo sfoggio di sfarzo e potenza da parte dei Borgia.

    «Dubito che le grandi famiglie romane rimarranno a guardare», rispose uno dei due interlocutori su cui si era concentrata l’attenzione dell’artista, un individuo basso e grasso dalle vesti sfarzose che aveva tutta l’aria di un mercante.

    «Gli Orsini no di certo; hanno già ingaggiato Bartolomeo Alviano per difendersi dalle mire dei Borgia. Guarda lì quel tronfio ragazzotto spagnolo che il papa rimira tutto orgoglioso», disse l’altro, un vecchio calvo dall’aria trasandata ma di buon eloquio, probabilmente un maestro o uno studioso, indicando il protagonista della cerimonia, un bel ragazzo di poco più di vent’anni, splendente nel suo vestito di broccato verde ricoperto di gioielli. «Dà più l’impressione di un gaudente, che di un comandante di eserciti».

    «Certo che è un gaudente. Non lo sai quante nobildonne e popolane si è portato a letto da quando è tornato dalla Spagna con la sua bella qualifica di duca di Gandia? E pensare che nella penisola iberica ha lasciato una bella moglie incinta…».

    «Ma questi Borgia sono dei pervertiti immorali… Come vuoi che sia questo Giovanni se il padre ha disseminato figli ovunque e se ne contorna ostentandoli in continuazione? Se fino a poco fa si teneva a palazzo, fregandosene dei giudizi altrui, una giovane amante come Giulia la Bella? C’è voluta l’invasione francese per mettere fine alla loro relazione, ma intanto i Farnese ne hanno ricavato grandi vantaggi…».

    «Ah be’, quel fratellino piagnucoloso, Alessandro Farnese, adesso è tesoriere della Chiesa. Sai i soldi che gli passano tra le mani…».

    «Soldi che adesso però il papa dilapiderà nella sua guerra contro gli Orsini… Non ti suona strano che il duca di Gandia, il mese scorso, sia stato insignito anche della carica di governatore della legazione del Patrimonio? Si tratta proprio dei territori in mano agli Orsini».

    «Ma certo: quanto vuoi scommettere che in capo a qualche settimana quel ragazzotto partirà alla conquista dei possedimenti degli Orsini a nord di Roma? Sua santità non gli perdonerà mai di essersi schierati coi francesi, due anni fa».

    «Non gli perdonerà mai di essere una famiglia potente che ostacola l’ascesa della propria, e la sua volontà di fare dello Stato della Chiesa uno Stato Borgia, ecco la verità!», rispose lo studioso senza riuscire a controllare il tono di voce, talmente alto da suscitare gli sguardi di riprovazione della gente seduta nelle vicinanze.

    A Bernardino venne in mente la filastrocca che aveva letto il giorno precedente a Piazza della Pace, accanto a una statua molto rovinata presso cui, gli avevano spiegato, qualche buontempone sconosciuto, soprannominato Pasquino, amava lasciare motteggi contro i potenti: Il vecchio papa si è stancato di scopare, ma anche sul letto di morte avrà la forza di brigare; finalmente ha smesso di spargere il suo seme, ma non di procurar vantaggi al suo stesso gene, principi, re e imperatori, nulla è mai abbastanza per i suoi tesori, e finché l’Italia tutta non sarà ai piedi del toro, dice a se stesso no, nun moro!

    «Resta il fatto che non si conquistano dei territori con un comandante inesperto come quel Giovanni. Il papa rischia di andare incontro a una disfatta, perché gli Orsini hanno i soldi dei francesi», commentò il mercante.

    «Questo non gli ha impedito di finire scomunicati e di veder morire in prigione il vecchio Virginio», obiettò lo studioso. «E comunque, guarda lì», aggiunse, indicando uno dei nobili seduti nei pressi del pontefice. «C’è Guidobaldo di Montefeltro, il duca di Urbino, pronto a sopperire all’inesperienza del giovane: lui sì che è un condottiero esperto. Il papa non è uno stupido e conosce i limiti del figlio: il comando che gli affiderà nelle operazioni belliche sarà solo nominale, ma quello reale sarà nelle mani di Guidobaldo».

    «Dubito che un ragazzo tanto arrogante come Giovanni Borgia si lasci mettere i piedi in testa da qualcuno che in teoria è alle sue dipendenze. Anche se glielo dice il padre. È una testa calda…».

    Bernardino era un po’ confuso. Mancava da Roma da un pezzo e aveva seguito distrattamente gli eventi politici degli ultimi anni. Di certo, sapeva che papa Borgia aveva un’infinità di nemici o, nella migliore delle ipotesi, amici assai infidi e alleati precari. Ed era questo, forse, che lo spingeva a voler costituire una base territoriale con cui sostenere il proprio potere. Due anni prima il re di Francia Carlo viii era sceso in Italia con un forte esercito per rivendicare le sue pretese sul trono di Napoli, in mano agli Aragonesi, e col sostegno di Ludovico Sforza, detto il Moro, signore di Milano. Ed era stato facile, per loro, impossessarsi del Meridione della penisola, al punto da spingere il papa a dire che erano scesi in Italia con gli speroni di legno e col gesso per segnare i loro alloggi; anche perché era bastato dare qualche esempio della ferocia e della brutalità di cui erano capaci, e che non si vedeva nella penisola da secoli, perché nessuno, tantomeno il re di Napoli, osasse contrapporsi alla loro avanzata.

    Il papa era stato abile, durante la permanenza di Carlo a Roma, evitando accuratamente di concedergli l’agognata investitura per la corona di Napoli ma ottenendo da lui un formale atto di vassallaggio; si era limitato a far ripartire il proprio figlio Cesare, il cardinale, al seguito dell’esercito francese, con l’incarico di provvedere all’incoronazione del sovrano; sfortunatamente, il giovane si era eclissato prima di raggiungere la capitale meridionale, e la posizione di Carlo era rimasta illegittima, divenendo insostenibile. Anche perché il pontefice, subito dopo, aveva saputo far leva sui timori dei vari Stati italiani di dover subire una dominazione transalpina e aveva promosso la formazione di una lega con Milano e Venezia, inveterati nemici, nella quale col tempo erano confluiti anche l’Aragona, l’imperatore e il re d’Inghilterra. Carlo, alla fine era dovuto andare via da Napoli senza aver raccolto nulla e sulla strada del ritorno oltralpe era stato intercettato e sconfitto a Fornovo dalle forze della lega.

    Ma il vero vincitore dell’esercito transalpino era stato il cosiddetto mal francese, che ne aveva decimato le truppe; quindi papa Borgia ne era uscito nel migliore dei modi, anche se rimaneva circondato da nemici: Girolamo Savonarola, che a Firenze aveva cacciato i Medici e instaurato una repubblica teocratica, lanciava strali contro di lui, e a Roma in particolare gli Orsini, schieratisi con i francesi, costituivano uno Stato all’interno dello Stato della Chiesa. E una cosa era chiara: presto ci sarebbe stata la guerra civile.

    E Bernardino era stato chiamato a Roma per illustrare nella fortezza capitolina gli eventi legati alla permanenza dell’esercito francese a Roma, per glorificare l’indubbia abilità diplomatica del pontefice nel liberarsi del sovrano transalpino con minor danno possibile; avrebbe dovuto illustrare sia gli attriti tra le truppe di occupazione e quelle spagnole e svizzere, sfociati almeno in un’occasione in un vero e proprio scontro campale all’interno della città, sia le varie fasi delle trattative che avevano condotto all’accordo tra sovrano e pontefice, che poi nessuno dei due aveva rispettato. E le istruzioni che aveva ricevuto parlavano chiaro: doveva sembrare la narrazione della sfida tra due sovrani, tra i quali quello spagnolo aveva avuto la meglio; e che Alessandro si considerasse anche un sovrano terreno era evidente dal suo desiderio, espresso dagli emissari papali che gli avevano presentato la commissione, di dare un ruolo nelle vicende raffigurate anche ai suoi familiari.

    Bernardino guardò con attenzione i personaggi che doveva dipingere: a parte il re di Francia, erano tutti lì, davanti ai suoi occhi, radunati intorno al loro capofamiglia, il pontefice spagnolo tanto temuto ed esecrato: la scena stessa, maestosa e ieratica nel suo immobilismo statuario, con tutti i protagonisti compresi nel proprio ruolo, i loro lenti movimenti scanditi dal cerimoniale e dai canti sacri del coro vicino al pulpito, sembrava già un affresco. Su tutti emergeva Giovanni Borgia, duca di Gandia, principe di Tricarico, conte di Chiaramonte e di Lauria, ora gonfaloniere della Chiesa, governatore del Patrimonio, capitano generale pontificio ad appena vent’anni; il papa voleva che fosse il protagonista assoluto della cerimonia, l’attore principale del maestoso palcoscenico rappresentato dalla basilica dell’apostolo, l’uomo sul quale dovevano appuntarsi tutte le attenzioni dei romani.

    Il pontefice lo guardava con orgoglio e con immenso amore, e solo ora Bernardino poteva capire quel che aveva sentito dire: Alessandro vi stravedeva per quel figlio che molti giudicavano degenere, depravato, insulso, al punto da aver puntato su di lui tutte le proprie aspettative, deluse dalla morte del figlio maggiore Pedro Luis; al secondogenito maschio, Cesare, il papa aveva conferito il cardinalato a soli diciassette anni, ma a Giovanni aveva dato la possibilità di diventare, un giorno, un sovrano: il suo recente matrimonio con la cugina del re d’Aragona Ferdinando, infatti, ne faceva uno dei principi più prestigiosi della cristianità.

    Ma non era il solo cui Alessandro aveva preparato un brillante avvenire. Cesare aveva la strada aperta per diventare papa un giorno, ma bastava osservare la sua espressione per capire che non sarebbe mai stato un uomo di Chiesa. Bernardino aveva realizzato un numero sufficiente di ritratti, nella sua carriera, da aver imparato a carpire l’indole più nascosta degli esseri umani. Cesare era fatto per il mondo, non per lo spirito, più ancora del padre, e quel che era peggio, se ne rendeva pienamente conto: c’era da giurare che avrebbe desiderato essere al posto di Giovanni, anzi, che reputasse il fratello indegno degli onori che gli venivano conferiti. Di sicuro, i suoi occhi emanavano una più vivida intelligenza, e un’astuzia calcolatrice che non sembrava rientrare, viceversa, tra le caratteristiche dell’irruento e un po’ primitivo duca di Gandia.

    Bernardino li aveva conosciuti entrambi tre anni prima, quando il papa lo aveva esortato a raffigurarli nelle vesti di altri personaggi sugli affreschi che aveva realizzato per i suoi nuovi appartamenti nel Palazzo Apostolico in Vaticano. E di Cesare, Bernardino aveva fatto un imperatore, il Massimino Daia assiso sul trono nella Disputa di Santa Caterina ad Alessandria, mentre Giovanni aveva prestato il volto a un principe turco, proprio per la sua tendenza a vestirsi come il fratello del sultano, Djiem, ospite per anni a Roma e, si diceva, morto di veleno proprio ad opera dei Borgia.

    Più insignificante appariva il terzo fratello, il quindicenne Goffredo, per il quale il papa non aveva tuttavia trascurato di preparare una carriera fulgida quanto quella degli altri due. Anche per lui, infatti, c’era stato il matrimonio con una principessa, ovvero la ventiduenne Sancia, la nipote del re di Napoli Federico, ed era stato fatto principe di Squillace e conte di Cariati. Non era difficile capire quanto quella donna di temperamento focoso dominasse lo sposo non solo per la sua maggiore età ma per un carattere più incisivo e passionale che, si diceva, aveva già attirato l’attenzione degli altri due fratelli Borgia. Bruna dagli occhi azzurri e la pelle bronzea, procace e seducente, la ragazza creava un visibile contrasto con l’altrettanto splendida sedicenne Lucrezia, la figlia del papa che le politiche matrimoniali paterne avevano voluto sposa di uno Sforza, Giovanni di Pesaro, per cementare l’alleanza col ducato di Milano. Bionda e minuta, la pelle diafana e gli occhi verdi, Bernardino aveva raffigurato anche lei nella Disputa di Santa Caterina ad Alessandria, ritraendola proprio nelle vesti della santa.

    E ora doveva raffigurarli tutti di nuovo, ma non in vesti altrui bensì nelle proprie. Tre anni erano passati da quando ne aveva incastonato i volti in affreschi che narravano tutt’altro. Adesso erano gli assoluti protagonisti; avrebbe narrato la loro, di storia. E nel frattempo, la loro importanza era cresciuta: il padre era riuscito a realizzare una parte delle ambizioni che riponeva nei propri figli, facendone dei personaggi potenti e in vista.

    E questo comportava una responsabilità ben maggiore, rispetto al lavoro di tre anni prima.

    Il portone si aprì all’improvviso e una colonna di cavalieri pesanti, con le armature che emanavano bagliori luccicanti alla rossa luce del tramonto, si materializzò tra l’esercito pontificio e la sagoma maestosa del castello di Bracciano, con le sue cinque, possenti torri che si stagliavano come giganti sull’orizzonte. Giovanni Borgia, capitano generale dell’esercito assediante, fissò incredulo le milizie degli Orsini che, non paghe di essere riuscite a tenere lontani dagli spalti i soldati del papa, osavano addirittura contrattaccare.

    Gli uomini più vicini a lui lo guardarono in attesa di ordini ma il giovane, istintivamente, cercò con gli occhi l’altro capitano generale, Guidobaldo di Montefeltro, che soprintendeva le operazioni di assedio sul versante delle mura digradante verso il lago.

    Ma non lo vide. Le truppe del duca erano nascoste e separate dalle sue per la presenza dei caseggiati del borgo ai piedi del castello.

    «Presto, vai a chiamare il duca! Digli che siamo sotto attacco! Che mandasse rinforzi, subito!», gridò al soldato più vicino.

    Uno dei suoi comandanti subalterni lo guardò perplesso: «Ma… signore…», obiettò. «Il duca ha detto più volte che ciascun contingente deve presidiare il settore assegnato senza sguarnirsi; quei cavalieri non sono molti, e potrebbero essere un diversivo per attirare truppe qui sulla fronte del castello ed effettuare poi una sortita da tergo».

    Giovanni trasse un profondo sospiro, chiuse gli occhi e ricorse a tutto il proprio autocontrollo per non aggredire fisicamente il sottoposto. «Osi discutere i miei ordini?», replicò stizzito.

    «No, signore. Ma noi possiamo difenderci con facilità», provò a spiegare l’altro. «Quei cavalieri non si muoveranno agilmente nelle strette vie del borgo. Noi invece possiamo farlo, coi nostri fanti, tendendogli agguati casa per casa. Li ricacceremo indietro, vedrete».

    Giovanni rifletté qualche istante. Era un rischio troppo grosso. Se si fosse fatto sbaragliare, mentre le truppe del duca di Urbino rimanevano intatte, tutti avrebbero detto che non era all’altezza del comando affidatogli dal papa. Fino ad allora si era solo limitato alle operazioni d’assedio, a Bracciano e a tutti gli altri castelli che le truppe papali avevano sottratto agli Orsini in quelle settimane, e a tentare qualche timido assalto alle mura; scontri campali non ne aveva ancora affrontati e non era certo di possedere il sangue freddo necessario.

    No, doveva coinvolgere il duca.

    «Là dentro non hanno abbastanza truppe per fare due sortite contemporaneamente», disse infine. «Vai a chiamare il duca di Urbino, ho detto», ribadì al soldato.

    Ma il subalterno si frappose tra lui e la staffetta. «Non posso permetterlo. Il duca non vuole. E per quanto mi riguarda, anche sua santità ritiene che si debbano seguire le sue direttive», precisò.

    Il soldato guardò entrambi spaesato, poi fissò la colonna di cavalieri che si avvicinava, mentre gli altri fanti dell’armata, disorientati dalla mancanza di ordini, iniziavano ad arretrare alla rinfusa.

    «Vado io, duca, non preoccupatevi! Voi pensate a resistere, nel frattempo!». La voce di una donna attirò l’attenzione dei litiganti. Giovanni vide Isabella strappare di mano al suo scudiero le redini del suo cavallo e montare in sella di slancio, lanciandosi al galoppo verso il settore presidiato dalle truppe del duca di Urbino. Un lampo d’odio passò negli occhi del subalterno, che tuttavia si affrettò a dare disposizioni per formare una linea difensiva con i soldati più pronti a rispondere alla sua chiamata.

    In cuor suo, Giovanni fu grato alla sua amante per averlo tratto d’impaccio: a quanto pareva, non aveva motivo di pentirsi di aver ceduto alle insistenze di quella splendida amazzone per portarla con sé in guerra. Si stava rivelando utile non solo nei momenti di riposo e divertimento che seguivano le dure giornate di combattimento.

    «Andate a disporvi con gli altri nei vicoli tra un edificio e l’altro, duca!», si sentì suggerire Giovanni, mentre i cavalieri nemici si avvicinavano con le lance in resta. Il giovane esitò. Sapeva che un condottiero sarebbe dovuto rimanere in prima linea, ma il padre gli aveva raccomandato di non correre rischi inutili e non c’era comandante subalterno che non sapesse di doversi occupare della sua salvezza più ancora che della vittoria. Sentiva che per farsi apprezzare dai suoi uomini avrebbe dovuto infischiarsene, dare l’esempio col suo coraggio e affrontare il nemico a viso aperto: prima di partire per la campagna, Cesare lo aveva esortato a farlo, sostenendo che al posto suo non avrebbe esitato a cercare il corpo a corpo in combattimento. Ma probabilmente il fratello maggiore lo aveva detto solo per spingerlo a cercare la morte per liberarsi di lui: aveva sempre detestato il destino che gli aveva riservato il padre, relegandolo alla carriera ecclesiastica, e non aveva mai fatto mistero di reputare ingiusto che i privilegi del defunto Pedro Luis fossero passati a Giovanni, invece che a lui, che era il maggiore tra i figli superstiti.

    Ma non intendeva dargli quella soddisfazione. Non aveva alcuna intenzione di morire. Pertanto, si rassegnò a fare come gli aveva suggerito il subalterno e corse a radunare gli altri uomini nelle retrovie, mentre la prima linea si apprestava a sostenere l’urto della colonna d’attacco. Tuttavia, sperò che lo sbarramento tenesse fino all’arrivo del duca di Urbino: in un combattimento in mischia nelle stradine, rischiava davvero di lasciarci la pelle, per giunta in modo oscuro e anonimo. Esortò i soldati a seguirlo e li dispose a piccoli gruppi in ogni vicolo che incontrava percorrendo la via principale del paesino, creando formazioni miste di arcieri, balestrieri, picchieri e archibugieri. Il borgo era stato abbandonato dagli abitanti già prima dell’arrivo delle truppe pontificie, e ciò gli diede la possibilità di approfittare delle porte aperte per piazzare truppe anche all’interno delle case. Rimasto con gli ultimi cinque archibugieri, entrò in un’abitazione e li condusse al piano superiore, facendoli appostare sul tetto ed esortandoli a tenere sotto tiro la strada, nell’eventualità che i cavalieri nemici sfondassero e arrivassero fin lì.

    E poi rimase a guardare quello che succedeva in prima linea.

    La colonna di cavalieri, alla testa della quale gli parve di vedere lo stesso comandante della piazzaforte Bartolomeo Alviano, facilmente riconoscibile per la sua bassa statura, si avventò sulla formazione dei pontifici non ancora del tutto schierata. Né gli archibugieri né i balestrieri ebbero il tempo di prendere la mira e tirare contro il nemico. I ranghi appena abbozzati dei fanti si scompaginarono all’istante, aprendo dei varchi in cui gli assalitori poterono insinuarsi. Ma i picchieri ebbero il tempo di protendere le loro lance contro i bersagli, tormentandoli ai fianchi e arrestando, almeno per il momento, lo slancio dei cavalli.

    Gli Orsini si resero presto conto che le loro lunghe lance li impacciavano, nel combattimento ravvicinato, così le gettarono via ed estrassero le spade, prendendo a menar fendenti nel tentativo di tagliare le picche saettanti tutt’intorno. Un cavallo si imbizzarrì e poi stramazzò a terra, trafitto da una picca. Il suo cavaliere si ritrovò alla mercé dei nemici, che gli si fecero subito intorno cercando con le proprie lance gli interstizi tra una placca e l’altra della sua pesante armatura. Le punte penetrarono nella gola, sotto le ascelle, nel bacino, ma intanto uno dei suoi uccisori, esaltato dal successo, non si accorse della spada che gravava sul suo capo, se non quando fu troppo tardi. Un attimo dopo, la sua testa penzolava inerte dal busto. Il soldato rovinò addosso alla sua vittima, mentre l’Alviano incitava i suoi ad avanzare, dando l’esempio con la sua azione incalzante, che gli aveva consentito di abbattere già due avversari.

    «Trovate il Borgia! Lasciate perdere questi qui! Non ci servono!», urlò il condottiero. Un brivido percorse la schiena di Giovanni, una morsa lancinante gli avviluppò lo stomaco. Era lui, a quanto pareva, l’obiettivo dell’incursione: il comandante nemico era consapevole che, impossessandosi del figlio del papa avrebbe potuto imporre una pace di compromesso. Pensò per un istante di scappare, ma vide convergere su di sé gli sguardi dei suoi uomini e si rese conto di non poterlo fare senza deludere il padre.

    Intanto, gli assalitori stavano avendo la meglio. Una parte dei cavalieri aveva oltrepassato la linea di sbarramento e molestava i fanti da tergo, impedendo loro di sgominare definitivamente i compagni rimasti al di là della linea; grazie alla loro azione, ogni tanto qualcun altro degli attaccanti riusciva a oltrepassare la barriera e a dare manforte all’Alviano. Presto, si disse Giovanni, sarebbe toccato a lui affrontarli, e non aveva idea del modo: aveva disperso i suoi effettivi lungo tutta la strada e non poteva più coordinarne i movimenti: ogni gruppo, adesso, era abbandonato a se stesso e, per quanto ne sapeva, i suoi componenti potevano essersene andati via, approfittando della copertura offerta loro dai vicoli. Si rese anche conto di non aver lasciato a nessuno direttive precise. Poteva solo sperare che avessero il coraggio di gettarsi addosso al nemico.

    Ma era più facile sperare in un pronto intervento del duca di Urbino.

    L’Alviano ripartì al galoppo con una parte dei suoi mentre la sua retroguardia era ancora impegnata con la prima linea pontificia. Giovanni lo vide avvicinarsi e sentì le gambe tremargli. Quell’uomo, cognato del capo degli Orsini, godeva fama di grande combattente e, se pur consapevole di servirgli più da vivo che da morto, ne era terrorizzato. Avrebbe voluto gridare alle sue avanguardie di intervenire, di sbarrargli la strada, ma temeva di tradire la sua posizione. Per sua fortuna, il primo gruppo di armati piazzato nel vicolo più vicino alla prima linea si materializzò improvvisamente sulla strada al momento del passaggio del drappello; un dardo di balestra centrò in pieno il fianco di un cavallo, che rovinò sul selciato scaraventando il suo cavaliere tra le braccia degli assalitori. Si udirono due scoppi di archibugio e subito dopo un altro cavaliere stramazzò a terra. Poi tutto il gruppo di fanti provò a circondare i cavalieri, che fecero volteggiare per aria le spade nel tentativo di tener a distanza gli aggressori.

    Ma da dietro sopraggiunsero altri tre uomini degli Orsini, che erano riusciti a sbarazzarsi della prima linea pontificia, e presto l’inerzia dello scontro cambiò a loro favore. Due fanti finirono travolti dagli zoccoli delle bestie, un balestriere fu falciato da un fendente mentre tentava di ricaricare la propria arma.

    E un attimo dopo, il drappello era di diversi passi più vicino a Giovanni.

    C’era un altro gruppo appostato nei pressi. Il giovane sperò che intervenissero: si trattava di fermare i nemici per un altro po’ di tempo; poi ci avrebbe pensato il duca di Urbino. L’Alviano giunse all’altezza del contingente nascosto. Giovanni attese di veder sibilare dardi e pallottole. Ma non successe nulla.

    Gli parve che il cuore gli esplodesse in petto dall’angoscia; lo sentì battere in modo forsennato e concluse che non gli rimaneva altro da fare che prepararsi alla difesa.

    «Caricate e puntate!», ordinò ai suoi uomini, che erano già pronti con archibugi e balestre. Le sagome scintillanti dei cavalieri nella penombra divennero sempre più grandi, fino a sembrargli gigantesche, quando furono a portata di tiro. Levò il braccio per ordinare il fuoco, quando sentì urla levarsi dalla prima linea.

    Strizzò gli occhi per capire cosa stesse succedendo. Distinse una massa di cavalieri aggredire da tergo la retroguardia nemica, che fuggì in avanti per riunirsi al drappello di Bartolomeo Alviano. Il comandante avversario si voltò e si rese conto a sua volta di essere minacciato alle spalle; attese che i fuggitivi si ricongiungessero a lui e poi si diresse in un vicolo laterale per svincolarsi prima di vedersi preclusa la ritirata. In un attimo, il nemico scomparve e la strada ospitò solo le truppe del duca di Urbino, la retroguardia di Giovanni e i pochi prigionieri rimasti nelle mani delle truppe pontificie.

    Giovanni tirò un sospiro di sollievo. Isabella lo aveva salvato.

    II

    «Ora mi aspetto che mi ringrazi come si deve…».

    Isabella, seduta sulla sponda del letto, si sollevò la gonna e dischiuse le gambe, fissando negli occhi Giovanni, eccitato dalla passionalità straripante di quella ragazza, dal corpo androgino ma dalla femminilità esasperata: una miscela esplosiva che lo aveva fatto impazzire fin dalla prima volta che l’aveva sedotta.

    Si sentiva ancora mortificato e umiliato per come erano andate le cose solo poche ore prima, ed ebbe qualche esitazione. Ma il desiderio prevalse e si gettò in ginocchio tra le gambe della sua amante. Si cibò del suo sapore e gli piacque che non si fosse lavata da quando si era lanciata a cavallo dal duca per salvargli la pelle. La sentì fremere di piacere in quel modo selvaggio che moltiplicava la sua eccitazione, con rauchi, ritmici sospiri sempre più forti, che risuonavano nel cubicolo della casa di Bracciano dove avevano preso alloggio. Lei gli afferrò la nuca e gli spinse la testa quasi dentro di sé. Lui le mise le mani sulle natiche, la fece inarcare, poi ebbe uno scatto e si issò in piedi, continuando a tenerle il viso tra le cosce. La ragazza gridò ancora più forte.

    Infine, Giovanni la distese sul letto in posizione prona, avventandosi su di lei e prendendola da dietro con violenza. Raggiunsero l’apice del piacere nello stesso momento, dopo poco tempo. Urlarono insieme, poi lei si girò e lo riempì di baci ovunque, stringendogli il viso tra le mani. Giovanni le sorrise dolcemente, colpito, ancora una volta, dalla sua trasformazione istantanea in una tenera gattina che faceva le fusa, un istante dopo essere stata più passionale di una meretrice da lupanare.

    Si abbandonarono l’uno accanto all’altra, ansimando appagati, fino a quando lei non riprese ad accarezzarlo. Ecco, adesso arrivava il momento del fastidio; Giovanni le scansò la mano e lei, disciplinatamente, rimase a distanza, rispettando la sua esigenza di non essere più toccato. L’amore sconfinato che Isabella nutriva nei suoi confronti la rendeva la migliore compagna di letto che avesse mai avuto ma, subito dopo, la trasformava in una persona fin troppo invadente. E quando lo guardava con quegli occhi languidi da innamorata in adorazione, pallida imitazione di quelli ardenti di desiderio dei momenti più carnali, la trovava infinitamente meno attraente.

    Senza più la distrazione del desiderio, il giovane riprese a pensare agli eventi della giornata.

    «Come l’ha presa il duca, quando sei arrivata da lui ad avvertirlo?», le chiese all’improvviso.

    Isabella fece una smorfia. «Ha fatto un gesto di stizza e ha mormorato un Lo sapevo…», rispose.

    Giovanni sbatté il pugno sul lenzuolo. «Quell’insolente! Come si permette? Il mio bastone di capitano generale non vale meno del suo!».

    «Per sua santità sì, però…», obiettò lei. «Mi hai detto tu che tuo padre ti ha consigliato di seguire i suoi suggerimenti».

    Giovanni scosse la testa. «Ma questo valeva per l’inizio della campagna!», protestò. «Ormai sono passate settimane, e abbiamo sottratto un mucchio di roccaforti agli Orsini e ai loro alleati francesi… Sacrofano, Campagnano, Galera, Formello, Anguillara… Avrò pur imparato qualcosa, no?».

    Isabella si strinse nelle spalle. «Be’, ad ogni modo adesso avrai modo di dimostrarlo, visto che per un po’ sarai solo tu al comando».

    Giovanni annuì. «Di sicuro mi sono fatto un nemico», considerò. «Ora che il duca è rimasto ferito nell’azione di soccorso e dovrà rimanere a letto per settimane, ce l’avrà a morte con me».

    «E che ti importa? Ora te la caverai da solo, ti farai valere e della sua invidia te ne infischierai. Sei il figlio del papa, in fin dei conti», lo incoraggiò lei.

    «Giusto!», esclamò Giovanni, esaltato dalle sue parole. «Ma cosa posso fare di più di quello che abbiamo fatto finora? Questo castello è inespugnabile, maledizione. Non posso mandare ancora all’assalto gli uomini: gli spalti non riescono proprio a raggiungerli e sarebbe un suicidio. Con quelle maledette torri ci tengono costantemente sotto tiro non appena ci avviciniamo alle mura, e le poche bocche da fuoco che abbiamo non gli fanno nulla!».

    «E tu chiedine altre a sua santità. Non ti lesinerà bombarde, spingarde e mortai, se glieli chiedi! Se martelliamo le mura come si deve prima o poi cederanno e l’Alviano dovrà arrendersi».

    Giovanni la fissò stupito. Mai avrebbe immaginato che la più cara dama di compagnia di sua sorella Lucrezia, con cui aveva intrecciato una focosa relazione da quasi un anno, si sarebbe rivelata non solo un’amante strepitosa, ma perfino una brillante stratega. Le diede una pacca sul sedere. «Quasi quasi non ti restituisco più a mia sorella… Mi fai troppo comodo a portata di mano», le disse sorridendo.

    Il viso di Isabella si illuminò. I suoi occhi, scuri quanto i capelli di un nero intenso, brillarono d’amore. Giovanni si pentì di aver parlato in quel modo smielato: ma ormai era troppo tardi. «Davvero mi terresti al tuo servizio?», si esaltò lei. «Se continui a insegnarmi a duellare di spada potrei esserti molto utile: con tutti i nemici che può farsi un uomo potente come te…».

    Giovanni fu tentato di alzare gli occhi al cielo. Ci mancava solo averla sempre intorno, e magari doversi sorbire le sue scene di gelosia ogni volta che andava a spassarsela con qualcun’altra. No, Isabella si stava attaccando troppo a lui: era opportuno che la restituisse alla sorella, non appena la campagna contro gli Orsini fosse terminata.

    «Veramente, mi pare che tu abbia imparato piuttosto rapidamente. Ti ho vista, l’altro giorno, a duellare in addestramento con la truppa: te la cavavi piuttosto bene», valutò con sincerità.

    «Si può sempre migliorare! Farei molto più volentieri la tua guardia del corpo che la dama di compagnia di Lucrezia: le voglio bene come a una sorella, ma ora ho capito che sono fatta per l’azione, io!», lo incalzò.

    «E lei ne vuole a te, infinitamente», le rispose. Lucrezia amava quella ragazza e aveva fatto parecchia resistenza per concederle di partire col fratello: sapeva da tempo della loro relazione e non l’aveva osteggiata, ma non aveva alcuna intenzione di perderla come dama di compagnia.

    E lui non aveva alcuna intenzione di sottrargliela. «Vedremo. Intanto pensiamo a vincere questa guerra», si limitò a rispondere, alzandosi dal letto.

    Bernardino sentì crescere dentro di sé l’imbarazzo, man mano che il tempo trascorreva nella sala d’aspetto degli appartamenti privati del sommo pontefice. Non avrebbe voluto disturbarlo in un periodo in cui sua santità era talmente indisposto da non aver potuto neppure celebrare la messa di Natale in San Pietro; ma per andare avanti col lavoro a Castel Sant’Angelo aveva bisogno di far capire al pontefice che le modifiche che gli aveva chiesto su uno degli affreschi del ciclo erano irrealizzabili. La sua pretesa di inserire il figlio Giovanni in una scena di battaglia era certamente un palese falso storico, ma non era questo che lo preoccupava e anzi ne capiva il motivo: con ciò che stava accadendo a Bracciano, il pontefice voleva restituire credibilità al figlio attraverso la propaganda. Ma porlo in primo piano, come voleva lui, avrebbe rovinato l’armonia della struttura grafica, peraltro già in parte realizzata.

    Proprio per evitare di risultare invadente, aveva fatto pervenire al pontefice la sua alternativa con il disegno della variazione, e aveva atteso che suoi emissari gli comunicassero il responso; ma, sorprendentemente, era stato convocato al Palazzo Apostolico per un incontro privato con Alessandro vi.

    Non era esattamente quello che desiderava. Si diceva che il papa si fosse ammalato per lo sconforto causato dall’andamento deludente della guerra contro gli Orsini. In particolare, pareva che a renderlo furioso fosse stata la manifesta incapacità del figlio Giovanni che, forse un po’ superficialmente, aveva messo a capo delle truppe pontificie. Da quando l’altro comandante, il duca di Urbino, era stato ferito in combattimento e la guida delle operazioni era passata nelle mani del Borgia, l’assedio di Bracciano si era arenato in un imbarazzante stallo, che esaltava i difensori e mortificava gli assedianti. Il giovane condottiero aveva preteso e ottenuto dal padre dozzine di bocche da fuoco, che avevano avuto bisogno di tempo per giungere da Roma ed essere messe in posizione, senza peraltro sortire significativi risultati.

    Ormai tra i romani il nome di Giovanni Borgia veniva sussurrato con scherno, e non aveva mancato di alimentare l’ironia dell’immancabile Pasquino. Bernardino rammentava gli ultimi versi che aveva letto accanto al busto: «Ora c’è un asino, al posto del toro, cercava onori, ma per lui nessun alloro». E non c’era romano che non sapesse interpretare la metafora. Era notizia di poco tempo prima: con tutti i cannoni che aveva ricevuto dal padre, il giovane condottiero era riuscito ad aprire una breccia nel castello di Bracciano e a farvi penetrare una colonna di armigeri all’interno. Ma era stata solo una breve illusione: Bartolomeo Alviano, uno dei più valenti soldati d’Italia, aveva ricacciato indietro gli assalitori, facendoli seguire da un asino recante la scritta Lasciatemi passare perché sono inviato come ambasciatore al duca di Gandia. L’animale portava attaccato sotto la coda un messaggio del condottiero, che offriva ai soldati dell’esercito assediante già disertori degli Orsini una paga doppia rispetto a quella percepita dal duca per il loro tradimento, e li invitava a tornare a difendere il castello.

    E il guaio era che diversi soldati avevano accettato.

    E così, mentre gli effettivi del duca di Gandia diminuivano, quelli degli Orsini aumentavano; si diceva che i francesi avessero riccamente sovvenzionato Vitellozzo Vitelli, il signore di Città di Castello, loro alleato, e che questi stesse ingaggiando un gran numero di mercenari per soccorrere Bracciano. Lo stesso stava facendo il prefetto dell’Urbe, Giovanni della Rovere. Per i Borgia si metteva male.

    Non era il momento migliore per starsene a Roma; tanto meno per lavorare per un papa spagnolo.

    Ma in fin dei conti, si disse, anche quando aveva affrescato

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