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Io sono Mia
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Ebook332 pages4 hours

Io sono Mia

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About this ebook

Un romanzo che arriva dritto al cuore

C'è bisogno di coraggio per essere fragili

Mia ha diciotto anni e una brutta cicatrice sul viso. La mattina va a scuola e di sera costruisce scenografie per il Teatro dell’Opera di Roma. Vive a MU, una casa famiglia che somiglia a un sommergibile, ed è abituata a cavarsela da sola. Da sempre. Con le mani riesce a plasmare tutto quello che vuole. Con le compagne e i ragazzi, invece, è una frana. In classe la chiamano “Non” e tutti sanno che non bisogna toccarla… Andrea è stata per anni una delle più spregiudicate produttrici cinematografiche europee. Nessuno ha mai potuto mettersi tra lei e il successo, nemmeno sua figlia. Finché un giorno, un brutto incidente ferma la sua corsa. Le strade di Mia e Andrea si incrociano di nuovo, in modo del tutto inaspettato, in un viaggio che per entrambe è una fuga. Dalla Roma dei Fori imperiali e delle torri di periferia fino alle aurore boreali e ai vulcani addormentati di un piccolo arcipelago al largo dell’Islanda, Mia e Andrea si trovano a vivere – senza volerlo – l’avventura più importante della propria vita. Dopo tanto tempo, finalmente insieme.

La storia di una madre e una figlia, implacabili e fragili, alla ricerca di un riscatto: disposte a tutto, perché non hanno nulla da perdere.

Hanno scritto dei suoi libri:

«La lingua di Giovagnoli è perfetta, insegue se stessa, tentenna intorno alle titubanze dei personaggi, colpisce e si sporca di sangue, coccola, culla e sospira.»
Chiara Valerio - Nuovi Argomenti

«Un misto di suspense e poesia attraversa questo romanzo.»
Il Corriere della sera

«Avventurosa e intima, la storia affascina tra spruzzate d’onde di un’isola nebbiosa e la luce di una Roma studentesca schizzata di murales.»
Il Messaggero

«Quello di Giovagnoli è un romanzo che cela in sé una telecamera nascosta e filma gli attori dall’interno per inchiodare su carta le ragioni delle loro scelte.»
la Repubblica
Max Giovagnoli
È story architect per le major del cinema e per broadcaster televisivi. I suoi saggi sullo storytelling sono pubblicati in Italia, Inghilterra e USA, dove è stato definito «una delle trenta voci che stanno cambiando il modo di raccontare i ragazzi nei media in tutto il mondo». Dirige la Scuola di Arti Visive dello IED di Roma. Ha collaborato con Festival Letterature, Premio Solinas, Fondazione Bellonci-Premio Strega, Scuola Holden, Romics e Alice nella città. Io sono Mia è il suo quarto romanzo. La Newton Compton ha già pubblicato Il messaggio segreto delle stelle cadenti.
LanguageItaliano
Release dateJan 30, 2018
ISBN9788822718785
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    Book preview

    Io sono Mia - Max Giovagnoli

    1911

    Prima edizione ebook: marzo 2018

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-1878-5

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Max Giovagnoli

    Io sono Mia

    Indice

    Parte prima. Terra

    Mia

    Andrea

    Thorir e Kolbeinn

    Mia

    Andrea

    Thorir e Kolbeinn

    Andrea

    Mia

    Andrea

    Mia

    Thorir e Kolbeinn

    Andrea

    Mia

    Andrea

    Mia

    Kolbeinn e Thorir

    Mia

    Parte seconda. Acqua

    Andrea

    Mia

    Andrea

    Mia

    Kolbeinn e Thorir

    Mia

    Andrea

    Mia

    Andrea

    Mia

    Andrea

    Mia

    Andrea

    Mia

    Kolbeinn e Thorir

    Mia

    Kolbeinn e Thorir

    Mia

    Andrea

    Mia

    Andrea

    Mia

    Kolbeinn e Thorir

    Andrea

    Mia

    Thorir e Kolbeinn

    Andrea

    Mia

    Parte terza. Fuoco

    Andrea

    Mia

    Andrea

    Mia

    Andrea

    Mia

    Kolbeinn e Thorir

    Andrea

    Mia

    Andrea

    Mia

    Andrea

    Thorir e Kolbeinn

    Mia

    Kolbeinn e Thorir

    Parte quarta. Aria

    Andrea

    Mia

    Andrea

    Mia

    Thorir e Kolbeinn

    Mia

    Andrea

    Mia

    Andrea

    Per Spiki e A.

    ConsegnaMaxDEF.png

    Parte prima

    Terra

    Mia

    Me ne sto qui impalata come una statua da chissà quanto, al centro del capannone, su un tappeto di trucioli azzurri e scarti di stoffe. È buio e fa un freddo cane. Dai merli delle torri, costruiti con fil di ferro e cartapesta, pendono veli lunghi dieci metri. Gialli, argento e cremisi, a tratti si gonfiano e mi finiscono addosso. Mi lascio avvolgere, tendo le braccia e non mi sposto. Non dico niente. Mantengo la posizione e mi trasformo in Mia la sacerdotessa. La ninfa. La Regina dei Topi. E non sanguino più.

    Appeso alla trave più alta del soffitto, Giuspe forza il movimento scomposto della carrucola per riavviare il rotore.

    «Cazzo, se è duro! Ma quanto manca?», grugnisce con le vene del collo grosse come radici. Il pannello scende a singhiozzi, assecondando le sue bestemmie. Il tatuaggio a forma di faro e la scritta

    GECO

    si allungano malamente sul suo corpo d’acciuga.

    «Due metri», mento e lui sogna già la cena che preparo per tutti e due, da quando non vive più con me a

    MU

    .

    Tutto intorno a noi, il magazzino delle scene del teatro somiglia a una cattedrale scoperchiata. Scenografie, fondali e telai con minuscole formiche al lavoro su arredi che è impossibile ricondurre ai mondi artificiali ritratti sui bozzetti appesi alle pareti.

    Lo spettacolo è sempre più vicino. Per completare i sei pannelli dello Schiaccianoci ci hanno dato venti giorni. All’inizio sembravano perfino troppi ma poi abbiamo saputo che il corpo di ballo ha cominciato le prove già da tre settimane e l’orchestra addirittura da un mese, e tutto ha preso a correre al doppio della velocità. Il Mastro ha intensificato i turni e anche stasera, nonostante siano le dieci passate, di tornare a casa non se ne parla ancora. Per me non è un gran danno, alla fine: ho fatto i compiti durante il pranzo e Diana è già a letto a quest’ora. Pure Giuspe non ha fretta. Da quando l’hanno mandato in affido, pur di non tornare a casa, praticamente dorme qui dentro. Sui ponteggi dei tappezzieri è tutto un cincischiare velenoso, invece. Ce l’hanno col Mastro. Corri!, Sbrigati!, e tutti i giorni si fa male qualcuno, come è capitato a me poco fa, sempre alla stessa gamba.

    Per fortuna abbiamo recuperato un po’ di tempo e siamo arrivati al quadro più difficile dello spettacolo: il castello della Fata Confetto. Col tessuto che ci ha rifilato l’ufficio acquisti, non ce la faremo mai. Solo per stendere quella stoffaccia dura come la canapa ci vorranno ore! Per fortuna i macchinisti hanno già montato le torri e i carpentieri stanno ultimando le decorazioni. Finestroni dorati. Volte alla turca. Giganteschi bassorilievi di polistirolo. La facciata della reggia è una meraviglia, con marchingegni leonardeschi per muovere le mura e un’esplosione di colori in mezzo al palco. Non vedo l’ora di metterci mano anch’io. Sempre che finiremo in tempo, quassù.

    Quando sfioro il pannello, Giuspe ha gli occhi di piombo e i capelli che somigliano a una medusa per quanto è stato a testa in giù. Aggiusto la traiettoria per rispettare i mark sul pavimento e riesco finalmente a distinguere le sfumature del fondale. Per il passaggio dal tramonto alla notte, nel secondo atto del balletto, il Mastro ha deciso di utilizzare gli spray fluorescenti. Fosse stato per me ci avrei incollato un retino di tulle riflettente. Basta passarci sopra un velo di smalto per le unghie mischiato alla porporina e ottieni un effetto molto più naturale. Ma non ho suggerito a nessuno quella soluzione, ovviamente. Ci manca solo che mi metta a fare le barricate anche qui, come a scuola. E poi, non sono già la persona più fortunata al mondo a lavorare in teatro? Ho uno spazio tutto mio, sto alla larga dai bordelli del quartiere e mi pagano pure. Cosa potrei desiderare di più? A parte una famiglia e una vita normali, forse. Alla prossima reincarnazione magari. Che in questa ho già dato.

    Il magazzino delle scene è un edificio del Quattrocento che affaccia da una parte sulla vasca gigantesca del Circo Massimo e dall’altra sui torrioni rossi del Palatino. Il cancello è a un passo dalla Bocca della Verità e il capannone somiglia a una rimessa ma, superata la porta, ti ritrovi in una caverna magica in cui in due giorni costruiamo un veliero alto dieci braccia, laghi dei cigni più azzurri di quelli veri e piramidi azteche. Da qualche settimana è diventato una specie di casa per me, e ormai riesco a starmene in pace solo qui dentro. Sono l’unica femmina della squadra e tutti sanno che la mia vita è un bordello e mi lasciano tranquilla. Col tempo, anzi, sono diventata la mascotte del gruppo. Grazie a Giuspe hanno imparato a sopportarmi e aspettano perfino che arrivi da scuola, per firmare i pannelli dei fondali. Mia io e

    GECO

    lui, col suo nuovo nome da writer. Nei giorni come oggi sanno che è meglio lasciarmi in pace e tenersi alla larga, invece. E non è per la storia della ferita.

    Per tutto il turno non ho spiccicato una parola. Al suono della sirena – per la prima volta da quando lavoro in teatro – ho mollato tutto e tutti e sono schizzata via. Quanto ci avranno messo a sgamare il piano? Sparire prima degli auguri. Evitare i festeggiamenti. Saltare sul primo autobus e andare a sbollire da un’altra parte. E adesso eccomi qui. Sul marciapiedi di un viadotto infinito che potrebbe appartenere alla periferia di qualsiasi altra città. Supero le torri di cemento di Ostiense, taglio a piedi il campo nomadi della Vasca Navale e raggiungo il cavalcavia della Colombo. Sollevo le lamiere della recinzione e seguito pancia a terra fino ai cancelli del luna park. Sfilo tra carcasse di autoscontri, cabine d’elicottero e gruppi elettrogeni minacciosi come detonatori, attenta a non farmi beccare. Bisbiglio un pezzo degli Alt J per scacciare i mostri e arrivo finalmente ai piedi dell’Apollo 11, il mio rottame preferito. Un tempo era l’attrazione di punta del luna park. Oggi è un condannato a morte che si riconosce a stento, con gli alari corrosi dalla pioggia, le sonde per l’atterraggio simili alle zampe di un ragno e il radar che minaccia di crollarmi in testa da un momento all’altro. Mi arrampico sulla fusoliera e raggiungo la cabina. Mi muovo con passi studiati. Ondeggio ma so cosa fare. L’Apollo è la mia cuccia e certe sere trascorro ore intere quassù. Collane di auto sfilano sotto i miei piedi con gli occhi rossi come mantidi mentre mi specchio nell’oblò della carlinga e me la prendo col mondo. Sul vetro dell’Apollo ogni volta compare per prima la Mia che vede la gente, coi lineamenti gentili dei ritratti di Ingres, i capelli color inchiostro e l’incarnato trasparente come quello dei pesci. Poi in un lampo cambia tutto, però. Nel buio violato dai neon distinguo i canini appuntiti e il piercing con due balls nere ai lati del naso. Gli occhi scavati dalla fatica e le labbra assottigliate dall’odio della ragazza impossibile, della delinquente vera o del caso a parte come mi chiamano quelli dei servizi sociali. Osservo la cicatrice che dal collo mi arriva fino al labbro, simile a una specie di branchia. Ci aggiungo la rabbia e il vuoto che mi tormentano stasera, ed è fatta. Perché oggi c’è una ragione in più per odiare tutto e per mostrare i denti al mondo. A mezzanotte in punto compirò diciotto anni e anche se è soltanto un fatto anagrafico, quello scatto di lancette mi fa un effetto bruttissimo. Non cambierà nulla di ciò che importa davvero, lo so. Eppure continuo a pensarci, e un po’ alla volta mi perdo. Resto a fissare le auto che corrono sotto di me. Ringhio e misuro le righe della mezzeria o mi lascio ipnotizzare dai cubi di lamiere del luna park. Seguo la linea del fiume che taglia in due la città come in un quadro di Kandinsky, poi, quando il passaggio di un tir solleva quasi l’Apollo e fa ondeggiare tutto, torno di colpo nel mio corpo. Controllo l’ora sul cellulare e mi prende un accidente. Un salto e corro giù. Sforbicio nell’inferno di ferraglie e urto in continuazione contro qualcosa, come se fossi finita fuori bolla. È tardissimo!

    Mi è sfuggito il tempo, come dice sempre Diana? Cerco il suo numero nella rubrica del cellulare ma alla fine non la chiamo. Taglio il vento e mi stringo nel giacchetto in una specie di abbraccio. Scelgo la scorciatoia tra i casermoni dei Peggiori di Roma Sud anche se lo so che non è prudente. A mano a mano che mi avvicino a casa mollo la presa, o almeno ci provo. Accelero e mi sforzo più che posso per non pensare al problema vero. Non funziona però. Supero le pile di pneumatici bruciati e i motorini fatti a pezzi dalle bande del quartiere, ma torno in continuazione sul timore per l’appuntamento. Domani. Di nuovo. Quando incontrerò l’Infame e comincerà tutto daccapo, già lo so. Armeremo le nostre lingue e ci sfideremo a chi ferisce più a fondo. Ci morderemo al collo. Alzeremo le mani e sputeremo veleno fino a quando una delle due non rimarrà a terra. Perché è così che succede sempre con lei: è una cicatrice la vita. Per questo la odio. E da quando mi ha messa al mondo, di smettere di soffrire non se ne parla ancora.

    Andrea

    Ma quali lampi in cui ti passano negli occhi gli istanti più importanti di una vita? Quale attimo che dura un’infinità? Quali entra-esci da gallerie profondissime coi bagliori accecanti in fondo, come nei suoi film? Andrea Gigante l’ha già guardata negli occhi una volta, la morte, prima di oggi, e non era certo il tunnel di Dio né un sonno assoluto. Somigliava piuttosto a un cencio di piombo. Una colata di pece che ti artiglia alla gola. Ti ghiaccia i polmoni. Ti strizza il cuore e ci soffia dentro fino a farlo scoppiare, proprio come stamattina. Soltanto al pensiero le torna negli occhi la sagoma aguzza di quel palo che di colpo era diventato gigantesco e puzzava di ruggine e di topi mentre invadeva il casco, superava la visiera e si piantava nel piccolo incavo tra il collo e la spalla che è da sempre una delle sue armi migliori. Secco come uno scrocchio. Più preciso di una bastonata. E forte al punto da farla svenire.

    L’auto della polizia era comparsa dal nulla e le aveva tagliato la strada a tutta velocità. Andrea aveva provato a evitarla ma uno degli scappamenti s’era impuntato a terra e la sua Triumph, avvitandosi, era finita dritta contro la ringhiera del sottopasso di Porta Pia. Un metro più avanti e avrebbe imboccato il controviale come tutti gli altri giorni. Due più indietro e sarebbe precipitata direttamente nella pancia del tunnel, tra i vortici assassini del fiume di auto che scorre a tutte le ore in direzione del centro. Nell’istante dell’impatto, all’improvviso non aveva visto più nulla. Aveva sentito la moto scartare sulla carreggiata e un attimo dopo era distesa sull’asfalto con la leva del freno infilata in un fianco e i duecentocinquanta chili della Bonneville che la placcavano a terra. Il dolore le aveva tolto il respiro e una lunga vertigine aveva innescato un silenzio irreale. Il monumento al bersagliere di Porta Pia, l’arco di Michelangelo e i platani allineati come baionette lungo il viale: tutto era come ibernato. L’auto della polizia era schizzata via in un lampo. Gli agenti erano fuggiti zigzagando come lucertole tra i cassonetti e i banchi del mercato di piazza Alessandria. Le era sembrato perfino di vedere la coda mozza di uno dei due schiaffeggiare all’impazzata le auto in sosta, a un certo punto.

    Schiacciata tra la ringhiera e lo zoccolo di travertino del marciapiede, stordita, non riusciva a respirare. La gamba poteva ancora muoverla, per fortuna. Il polso iniziava a gonfiarsi ma non era rotto e anche il fianco non le faceva troppo male. In compenso, il viso le bruciava come un vulcano. Colpa dell’olio motore che a furia di schizzare dappertutto aveva violato la visiera e l’aveva colpita in piena faccia. La scossa era stata violentissima. Il taglio, millimetrico. Tra il panico e il dolore era riuscita chissà come a sollevare di qualche centimetro la moto e a sfuggire alla traiettoria di quello zampillo infuocato. S’era seduta a terra con le mani sugli occhi e il cuore che batteva a duemila. La bocca rossa di sangue e le anche inchiodate dal dolore. All’arrivo dell’ambulanza, la grana bruzzolosa dell’asfalto le aveva già bruciato la bocca. La melma che per mesi aveva girato negli ingranaggi della Triumph s’era sparsa come uno strato di miele sui suoi zigomi e invece di raggrumarsi e scivolare via, era penetrata. Il liquido viscoso aveva scavato nelle piccole rughe delle sue guance perfette e, zitto zitto, implacabile, aveva cominciato a tagliare.

    Luce bianca e artificiale, fioca, tutta finta. La stanza gelida in cui l’hanno parcheggiata somiglia a quelle dei medical che con la

    CROSS-MEDIA

    facevano uscire in sala un paio di volte l’anno. Filmacci infarciti d’effetti speciali e con la solita star in caduta libera, spalmati su cento cinema amici che li avrebbero cancellati nel giro di due week-end al massimo. Bruce Willis, William Hurt, il negro ciccione di Ghost Dog… Andrea neanche li distingue più, ormai.

    Ingoia la saliva sopravvissuta al tanfo d’etere che invade la stanza e percepisce subito un sapore acidissimo, simile al puzzo del Vinavil. Colpa della flebo che le stanno sparando in vena? Le coperte sono di piombo e il sibilo dei respiratori annuncia altre torture. Allunga una mano e scopre una piccola massa di fili elettrici che spunta da un impacco sotto le lenzuola, all’altezza del suo petto. Che le hanno fatto? Una macchina dalla scocca arancione si aziona e le spara sulle palpebre uno sbuffo tiepido, colloso, come quando ti misurano la pressione dall’oculista e devi restare immobile, non puoi neanche respirare.

    A parte l’incidente, non ricorda granché. Potrebbe essere in una stanza del policlinico come sull’astronave di un remake coreano di Alien, con la capsula rigenerante e i cloni riparatori al lavoro sul suo viso. Perché è questa la cosa peggiore. La novità che le ha squarciato il cuore appena si è svegliata. Ha gli occhi incorniciati da un bendaggio gigantesco e ogni minima luce la abbaglia, come se l’avessero immersa in una tazza di latte. Non può alzarsi e riesce a malapena a respirare. È imprigionata in un blocco di calcare con un cucchiaio infilato tra le costole.

    Medico e infermiera confabulano col tono roco e impunito di fine turno. Sfruttano la studiata familiarità di chissà quante notti spese in quel modo ma non le fanno capire nulla. Sono convinti che Andrea dorma, oltretutto.

    «E che ti hanno detto?», borbotta il dottore, al termine di un elenco infinito di numeri. Roba che ha a che fare col suo sangue, a quanto pare.

    «Che è proprio lei: quella del cinema».

    «Sì, ma ce l’hanno un posto?»

    «Macché! Solo codici rossi».

    «Be’, noi gliela mandiamo su lo stesso. Se ho ragione, nella sfiga è stata pure fortunata!», sbraita il medico, mentre raccoglie lo stetoscopio e il cercapersone dal tavolino, già pronto a uscire. E non è assurdo?

    Dopo un anno di flop grossi come buchi neri! Con sei film bolliti al botteghino e tre milioni di passivo nel fatturato della

    CROSS-MEDIA

    tutti per colpa sua. Per non parlare del licenziamento e dei tribunali. Davvero la chiameranno così invece, lì dentro? Andrea Gigante la Fortunata?

    Mentre le bucano per la terza volta il braccio, chiude gli occhi e traccia una specie di grafico della sua vita. Per anni aveva nutrito col lavoro gli istinti più biechi del suo animo e giustificato con la fame di potere le mosse spregiudicate con le quali s’era fatta spazio nel cinema. Ma aveva sempre sottoposto se stessa per prima agli imperativi di quella folle corsa. Altro che buona sorte! Tutto quello che aveva ottenuto nella vita se l’era guadagnato col veleno e coi denti. Quando aveva lasciato l’università per trasferirsi a New York, per esempio. Aveva mostrato i pugni all’onorevole Gigante e se n’era fregata di tutto, perfino della morte fresca di sua madre, pur di partire. E cosa non aveva fatto per sopravvivere laggiù? Aveva sgomitato come un’assassina. Aveva affittato un buco muffoso nei vicoli di Dumbo e non si era concessa un minuto di ferie in due anni. Aveva trattato i film in cui aveva lavorato con lo stesso spietato, algido cinismo che aveva conosciuto nel salotto di suo padre ai Parioli, dove nessuna violenza era ingiustificata, nessuna umiliazione troppo dura e nessuna bassezza inaccettabile, e i risultati s’erano visti in fretta. La notizia della sua fama aveva attraversato il paese e un cacciatore di teste era arrivato da Los Angeles solo per lei. Il tempo di rifarsi il look nei negozietti giusti tra Tribeca e Soho, e via.

    In California aveva sfruttato la nuvola di ricci rossi, il seno a punta e i lineamenti taurini che donano al suo viso un tono elegante e primitivo, e si era data subito da fare. Aveva rubato con gli occhi. Tagliato gambe. Spremuto tutti quelli che avrebbero potuto assicurarle contatti. Ma soprattutto aveva sedotto gli uomini giusti e creato il mito di una nuova orca assassina a caccia negli Studios. Di giorno sul set e di notte con gli straordinari nelle ville delle star affacciate sugli spiaggioni bianchi tra Malibu e Topanga.

    Per sei anni aveva rotolato come una trottola sul tetto del mondo: dalle major australiane ai festival canadesi, dagli Orsi di Berlino a Dubai, dalle chicche di Cannes ai mammut di Hollywood. L’errore vero era stato tornare in Italia, però. L’essersi lasciata inchiodare a Roma dai titoloni dei giornali, dai premi e dal blockbuster dell’anno ma soprattutto… dalla storia con Pietro e dalla nascita di Mia, coi loro tempi tutti sbagliati. Anche allora era riuscita a salvarsi, certo. Quella notte aveva offerto l’anima al diavolo e il mattino successivo, fuori dal commissariato, le era arrivata puntuale la telefonata della

    CROSS-MEDIA

    . La major della vita. Si era liberato un posto nella sede di Roma. Contratto a sei cifre e benefit. E poiché il gruppo aveva uffici in tutto il mondo, presto avrebbe potuto trasferirsi di nuovo. Doveva semplicemente volare basso, resistere fino al prossimo vuoto di potere e tenersi pronta alla scalata. Che ci voleva? Aveva mandato tutto a puttane, invece. Alla Triade erano bastati cinque minuti via Skype e un passaggio lampo in amministrazione. Arrivederci e grazie. Non aveva neppure tentato di fare muro, Andrea. Piuttosto, come mai non se n’era accorta per tempo? Dai sorrisini degli agenti durante il festival di Taormina. O dai gestori dei multiplex che non l’avevano corteggiata come al solito, in aereo. Perfino i soliti sceneggiatori rompicoglioni s’erano tenuti a distanza!

    Fuori dagli Studi, era tornata in un lampo l’altra Gigante. La bastarda che non aiutava mai nessuno. L’inetta fuggita oltreoceano e l’Infame, come la chiama Mia ogni volta che le loro strade s’incrociano. Non ha ancora finito di bisbigliare il nome della figlia che tra le ombre degli infermieri affiora il suo viso da bambola con la solita aria da giudice e il mento sfregiato. Il caschetto da rondine e quell’affare di metallo incastonato in mezzo agli occhi. Ma è solo un sogno, un autodafé, un’allucinazione. S’incontrano una o due volte l’anno, ormai, giusto per le udienze o su convocazione degli assistenti sociali. Non nutre più rimorsi verso di lei e ricambia il suo odio con indifferenza. Ma Mia non è da meno. L’ultima dimostrazione l’ha data a tutti l’estate scorsa, quando è scomparsa nel nulla per giorni e poi una notte s’è ripresentata nella casa famiglia da Diana, cianciando che da allora avrebbe studiato e lavorato insieme. S’era trovata perfino un posto! Un contratto da muli nella prima squadra scenografi del Teatro dell’Opera. Dieci ore al giorno senza contributi e in mezzo a barbari dalle mani nodose come radici e coatti tatuati dalla testa fino al sedere. Non che le interessino le prospettive di vita di sua figlia, certo. A farla impazzire è il paradosso alla base della sua scelta: quale altra ragazza non avrebbe seguito le orme della madre, se quella avesse lavorato ai suoi livelli nel cinema? Mia invece se n’era sempre fregata. S’era costruita un percorso alternativo e ci avrebbe sbattuto le corna per tutta la vita piuttosto che fare dietrofront. Non era identica a lei anche in quello? Sorda e cocciuta, manesca, ribelle eppure… sempre pulita, lei! L’incarnazione del teorema elaborato da avvocati e assistenti sociali del tribunale secondo i quali Andrea era sempre stata la causa e Mia l’effetto. Sua figlia la vittima e lei il predatore impegnato a svuotarla o a distruggerla. A cancellarla dalla faccia della terra e a tentare di renderla sbagliata, violenta ed egoista quanto lei. Come se ce ne fosse il bisogno, poi.

    Thorir e Kolbeinn

    Soltanto lassù, nel cielo opaco dell’Artico, la luna è così bassa e sottile. La luce basta appena a distinguere l’ombra gigantesca del leviatano. Coi fanoni scoperti, le pinne spalancate e la pancia a galla sul pelo dell’acqua, la sagoma scura si confonde con quella della nave. Della presenza implacabile di poco prima resta appena il suono spettrale delle vocali contenute nel suo nome: ba-le-na.

    Non taglia più le onde. Non spartisce in due le creste spumose del canale. Non è Rauðhofði dalla testa rossa che mastica i bastimenti sul fondo dell’arcipelago. Non è Grýla dai tredici figli assetati di sangue. Fino a quando non l’avevano ancorata a tribordo, non erano riusciti neppure a stabilire quanto fosse lunga.

    «Forza con quel verricello!», grida Thorir, sbracciandosi sulla tolda.

    «Ammainate, o spaccheremo tutto! Farà quaranta tonnellate!», gli fa eco Kolbeinn dalla plancia di comando.

    Thorir e Kolbeinn. Maestro e allievo. Asso e re sempre in gara per il punto più alto. Navigano insieme per l’ultima volta, stanotte. Thorir lascerà il suo posto in plancia e sarà proprio Kolbeinn a rilevarlo. Qualche minuto prima erano stati sempre loro a distinguere il dorso senza pinna della balena, in lontananza. Ne avevano indovinato l’età dallo sbuffo oleoso e avevano studiato la sua coda che cuciva il mare nella notte islandese, poi il nuovo comandante le aveva dichiarato guerra a motori spianati e Thorir era schizzato a

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