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101 perché sulla storia della Sicilia che non puoi non sapere
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101 perché sulla storia della Sicilia che non puoi non sapere

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Una terra come la Sicilia è il luogo ideale per osservare il Mito che si fa Storia e la Storia che si anima di racconti e credenze popolari. Siamo al centro del Mediterraneo, culla della civiltà occidentale. La Trinacria è stata “posseduta” da almeno una decina di dominatori che da quest’isola sono stati a loro volta conquistati. Nella bandiera regionale un simbolo che richiama mitologie nordiche. Un parlamento antichissimo. Una miriade di scrittori, filosofi, scienziati, che hanno reso celebre questa terra immersa nella luce, un paradiso che sa essere inferno. E poi una smisurata eredità di arte, architettura, costumi e prelibatezze gastronomiche. I 101 perché qui raccolti sono animati dalla stessa curiosità di un moderno Ulisse e compongono un piccolo grande viaggio attraverso un’isola tutta da scoprire.

Perché c’è un coccodrillo appeso al soffitto di una vecchia drogheria della Vucciria?
Perché in Sicilia si possono vedere le “Dolomiti a mare”?
Perché a Ispica il gelsomino è come la lavanda in Provenza?
Perché il celebre guardiacaccia amante di Lady Chatterley parlava siciliano?
Perché Caltanissetta era considerata “la piccola Atene”?
Perché la caponata nasce dalla religione zoroastriana?
Perché le mummie di Burgio sono tornate a… vivere?
Ulisse Spinnato Vega
è un siciliano DOC trapiantato a Roma dal lontano 2001. Come giornalista, si occupa prevalentemente di economia e politica. Ha lavorato in RAI, scritto per «Espresso.it», «Left-Avvenimenti». Oggi è addetto stampa e content editor alla Camera dei Deputati, e dirige la rivista «Avtobiog a – Journal on Life Writing and the Representation of the Self in Russian Culture». Ha all’attivo un volume di poesie.
LanguageItaliano
Release dateOct 23, 2017
ISBN9788822714800
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    101 perché sulla storia della Sicilia che non puoi non sapere - Ulisse Spinnato Vega

    1

    PERCHÉ LA TRISCELE (O TRINACRIA) È IL SIMBOLO DELLA SICILIA?

    Chiunque abbia mai visto una bandiera siciliana, avrà notato sul giallo e sul rosso quello strano essere composto da una testa di donna e tre gambe disposte a spirale. È la Triscele (o Triskele), una raffigurazione con al centro il volto di una Gorgone, figura della mitologia greca che secondo Esiodo era incarnata da tre sorelle, le figlie di Forco e Ceto (una divinità marina e un mostro delle acque). La più famosa delle Gorgoni è certamente Medusa, con la sua chioma animata da una moltitudine di serpenti intrecciati tra loro. Un volto reso vivido, tra l’altro, da un celebre ritratto del Caravaggio.

    Le tre gambe che si irradiano dalla testa, a distanze uguali l’una dall’altra, sono piegate all’altezza del ginocchio, come a dare un senso di circolarità al simbolo. Tanto che, a volte, la Triscele è raffigurata attraverso tre spirali intrecciate, in modo da rafforzare l’idea della rotazione.

    Un’altra versione è quella della testa di donna tratteggiata con due ali ai lati, ali che rimandano allo scorrere eterno del tempo. Mentre gli stessi serpenti che ne contornano l’ovale indicano saggezza. Le spighe di grano aggiunte successivamente raffigurano, invece, la fertilità della Sicilia, non a caso conosciuta sin dai tempi dell’impero romano come granaio dell’Urbe.

    La Triscele, comunque, racchiude un coacervo di significati mistici e religiosi che rimandano alle filosofie orientali da una parte e dall’altra ai popoli del Nord Europa. Non per niente essa è ricorrente anche nell’araldica di varie dinastie in giro per il nostro continente.

    C’è chi in questo simbolo legge la credenza celtica circa il passato, il presente e il futuro che si ritrovano al centro in un unico grande ed eterno Ciclo chiamato Continuo-Infinito-Presente. Sempre restando in area nordeuropea, alcuni vi rintracciano un collegamento con il trifoglio irlandese, attraverso il quale san Patrizio, patrono dell’Isola di smeraldo, spiegò il dogma della Trinità alla gente del luogo. E ancora, rimanendo nelle zone druidiche, la Triscele potrebbe incarnare il simbolo della triade femminile della battaglia Morrigan-Macha-Boadb e di quella maschile Ogma-Lugh-Dagda. Qualcuno la collega poi alle tre fasi solari del giorno: alba, mezzogiorno, tramonto. Oppure alle tre manifestazioni fondamentali dell’uomo: emozioni, sentimenti, pensieri.

    La Triscele.

    Pullulano, insomma, le interpretazioni legate a una qualche forma di trinità a sfondo antropologico o religioso. Fatto sta che la Triscele ha origini antichissime in Sicilia: è stata ritrovata in ceramiche gelesi del VII secolo a.C., poi ha fatto capolino sulla monetazione siracusana del III secolo a.C. e comunque sono stati i greci i primi a chiamare l’isola Trinakìa (oggi Trinacria è un diffuso sinonimo di Sicilia), parola che significa tre promontori. In pratica, Capo Lilibeo a ovest, vicino Marsala, Capo Passero a sud, oltre Siracusa, e Capo Peloro a Messina, a nord-est.

    Anzi, si narra che i tre promontori ai vertici dell’isola sarebbero sorti grazie a tre splendide ninfe che vagavano, danzando, per il mondo e raccoglievano pugni di terra, sassi e frutti delle aree più fertili. A un tratto si sarebbero fermate in una zona con un cielo incredibilmente terso e azzurro. Soltanto lì il loro ballo si sarebbe fatto più intenso, frenetico, gioioso e le tre ninfe avrebbero gettato in mare tutto quello che avevano raccolto sul globo. Il mare si sarebbe a quel punto acceso con i colori dell’arcobaleno e sarebbe emersa dall’acqua una nuova terra ricca, fertile e profumata. Questa terra avrebbe preso la forma di un triangolo poiché riempiva lo spazio tra i promontori generati dalle ninfe che lì avevano lasciato cadere il loro prezioso carico.

    Tornando al simbolo della Sicilia, colpisce la somiglianza tra la Triscele e il Triskell dell’Isola di Man che fu colonizzata da popolazioni vichinghe. Probabilmente, da lì discende un legame che ci porta dritti dritti alla dominazione normanna sull’isola: ecco quindi un altro fil rouge culturale antichissimo che unirebbe gli estremi d’Europa.

    Va segnalato, comunque, che la Triscele è stata adottata dal Parlamento siciliano soltanto nel 2000. Mentre alcuni economisti e intellettuali, tra coloro che ancora coltivano il sogno dell’indipendentismo isolano, hanno di recente ragionato su una teorica sovranità monetaria della Trinacria e hanno pensato di denominare triskele l’ipotetica valuta da coniare. Più di recente, poi, un partito politico siciliano, emanazione di un ex governatore dell’isola, ha proposto a sorpresa di cancellare la Triscele dal vessillo della Regione perché, come declamato da un esponente di spicco di questa formazione, la Triscele «ha origini ricollegabili alla mitologia con chiari riferimenti a varie divinità, in lampante antitesi con la cultura e l’essenza del Cristianesimo».

    Il rappresentante politico in questione chiosava stentoreo:

    Vogliamo sensibilizzare i siciliani che credono profondamente nei valori cristiani ad unirsi in questa prima proposta. Naturalmente, seguiranno numerosi altri appuntamenti, utili a ripristinare e a mettere al centro della vita sociale i principi del cristianesimo, in un’epoca dove [sic] la secolarizzazione sta determinando un degrado morale sempre più marcato ed evidente, con un decadimento della vita sociale, politica ed economica.

    Tutto la povera Gorgone poteva immaginare, ma non certo di diventare il capro espiatorio dei mali della Trinacria, dalla depressione economica all’illegalità diffusa, fino al malaffare.

    La verità è che forse, dalle parti dell’Assemblea regionale siciliana, sarebbe utile ancora oggi lo sguardo pietrificante di Medusa e delle sue sorelle.

    2

    PERCHÉ LA BAIA DELLA MOLLARELLA ATTIRÒ SIA I CARTAGINESI CHE GLI AMERICANI?

    Uno splendido spicchio di sabbia, aperto e chiuso da due bassi promontori impreziositi dal verde della macchia mediterranea. Una virgola di spiaggia nel discorso limpidissimo di un mare che guarda l’Africa. Gli abitanti del luogo la chiamano ‘a Rocca di Muddrareddra. Ed è considerata, assieme alla adiacente Poliscia, la gemma più preziosa della costa di Licata.

    Ombrelloni e stabilimenti punteggiano oggi il suggestivo palcoscenico di eventi decisivi per la storia del mondo, in un curioso collegamento bellico tra antico e moderno. Davanti a questo arenile, nell’estate del 256 a. C., si combatté, infatti, la prima vera battaglia navale tra romani e cartaginesi, descritta come una delle più imponenti dell’antichità. Conosciuta anche come battaglia di Capo Ecnomo, vide contrapporsi 160 navi romane e 150 puniche. Decisiva fu la strategia degli ammiragli Lucio Manlio Valsone Longo e Marco Attilio Regolo che costrinsero i cartaginesi alla ritirata e in parte alla resa. Siamo nel tratto compreso tra la foce del fiume Salso (un suo ramo taglia la Mollarella a metà) e l’isolotto della Rocca San Nicola. Un lembo di costa che agli amanti di un mare un po’ più intimo e nascosto riserva altre spiaggette imperdibili, tipo Cala Paradiso o Cala del Re.

    Ma torniamo alla prima guerra punica. Secondo Polibio, la flotta romana e quella cartaginese disponevano entrambe di una tipologia di imbarcazione chiamata quinquereme. Però adottavano due diverse tecniche di combattimento. I punici preferivano lo speronamento (i romani presto copiarono il rostro alle navi cartaginesi), mentre i romani prediligevano l’abbordaggio.

    Le navi di Roma, ci racconta Polibio , erano inadatte al movimento veloce, ma costruite meglio e con equipaggi più addestrati. L’abbordaggio avveniva attraverso il corvo, una specie di ponte levatoio che ancorava la nave romana a quella nemica lungo il fianco, tenendola a una breve distanza. Ciò consentiva ai fanti di Roma, più preparati dei cartaginesi, di assaltarla e prenderne il controllo.

    La battaglia di Capo Ecnomo segnò un passaggio importante nel progressivo arretramento dei dominatori punici in Sicilia, che perdevano via via terreno sotto la pressione di Roma. Dopo i primi scontri via terra, le due potenze si erano rese conto che il controllo del mare sarebbe stato decisivo per l’esito finale. I cartaginesi, però, erano in difficoltà e Roma comprese che poteva portare la guerra direttamente in Africa, costringendo così il nemico punico ad abbandonare ogni pretesa di controllo della Sicilia. In seguito ad alcune scaramucce navali a Lipari, a Milazzo e di fronte a Tindari, l’imponente battaglia della Mollarella fu, dunque, decisiva nello sbilanciare i rapporti di forza in favore di Roma.

    Ma Mollarella e Poliscia, nome in codice spiagge verdi – settore 71 e 72, furono uno dei quattro tratti di costa nel territorio di Licata attraverso cui, tra il 10 e il 16 luglio 1943 (in pratica pochi giorni prima della caduta di Mussolini), gli americani sbarcarono in Sicilia durante la seconda guerra mondiale.

    Siamo sempre in estate, proprio come ai tempi di Roma e Cartagine. Il primo obiettivo è la conquista del porto. L’Operazione Husky parte alle 2:45 di sabato 10 luglio, appunto. I mezzi da sbarco degli alleati si avvicinano alle spiagge, protetti dal fuoco dell’artiglieria navale. E approfittano di fitte cortine di fumo che si addensano sulla costa, fumo provocato dalle stesse navi e dai caccia Bristol e Edison.

    La colonna della Joss Force, destinata a Licata, è composta dal terzo battaglione Rangers, dalla terza divisione del generale Truscott e da unità della seconda divisione di armata. Essa a un certo punto si ramifica in quattro contingenti d’attacco per gli sbarchi in altrettanti settori individuati.

    Contro l’artiglieria navale americana che fa fuoco in funzione protettiva, la risposta delle batterie costiere italiane non può nulla a causa della sua minore gittata. Dunque, esse vengono rapidamente distrutte. Il 139esimo reggimento costiero della 207esima divisione prova a resistere. I fanti e gli artiglieri italiani fanno il possibile. Ma a un certo punto l’addetto al Posto di Osservazione e Allarme, che si rende conto dello smisurato schieramento di navi alleate, chiede l’intervento dell’aeronautica italiana. Di fronte alla risposta negativa e all’ordine di rimanere al suo posto, egli richiama il comando e spiega che senza sostegno se ne sarebbe andato pure lui. Dopodiché distrugge gli impianti e si ritira con i suoi uomini sotto il fuoco nemico.

    Morale? A Licata lo sbarco incontrerà una resistenza modesta, risultando molto più facile e ordinato che nella vicina Gela. E già alle 9:18 della mattina la flotta statunitense potrà annunciare la mission accomplished.

    Il 10 luglio 2011 una stele marmorea è stata posta in memoria dell’evento in piazza Venere, antistante la spiaggia di Mollarella.

    Oggi questa baia, ricchissima di storia e tesori archeologici, deve sopportare un unico, implacabile esercito: orde di bagnanti che con racchettoni, pattini e canotti si godono il magnifico sole d’Africa.

    3

    PERCHÉ L’ANTICHISSIMO PARLAMENTO SICILIANO FU PER MOLTO TEMPO ITINERANTE?

    Sono i normanni a portare in Sicilia la loro abitudine di convocare stabilmente consessi, assemblee di natura più che altro consultiva e raramente deliberativa (a differenza di quanto frequentemente si ritiene) su materie di interesse generale, spesso legate al settore militare o fiscale. Per la verità, già con gli arabi, quindi tra l’831 e il 1091, si ha notizia della giamā’ah, che però risultava essere un organismo oligarchico con la mera funzione di esprimere pareri e con poteri decisionali pressoché nulli.

    I normanni, invece, si trascinano dal Nord Europa una robusta tradizione di governance partecipata, si direbbe oggi, e fondano in Sicilia uno dei parlamenti più antichi del mondo, non a caso in competizione su questo primato con le assemblee dell’Islanda, delle Isole Far Oer, dell’Isola di Man (abbiamo già visto il suo legame con la Sicilia sul simbolo della Triscele). Senza però dimenticare le cortes spagnole che fiorirono già a partire dall’XI secolo quali prime vere assemblee di natura rappresentativa e deliberativa d’Europa.

    Dunque, il Parlamento siciliano, con i suoi tre rami (feudale, ecclesiastico e demaniale), non fu il più antico del mondo, come spesso si crede. Esso vide realmente la luce con Ruggero II nel 1130, in pratica quarant’anni dopo la conquista dell’isola a scapito degli arabi, e la sua fondazione coincise con la solenne nascita del regno degli Altavilla. Eravamo, in sostanza, al momento della convocazione costituente delle Curiae generales, insediatesi a Palermo con la partecipazione di religiosi, baroni e civili per acclamare Ruggero sovrano. Da quel voto, come racconta Salvo Di Matteo nella sua particolareggiata Storia dell’Antico Parlamento di Sicilia (1130-1849), scaturì l’incoronazione del primo monarca di Sicilia nel duomo di Palermo, il giorno di Natale del 1130. Un vero e proprio corpus costituzionale del Regno, però, arriverà soltanto dieci anni dopo con le Assise di Ariano, in Irpinia.

    Una certa vulgata fa anche riferimento a un’adunanza parlamentare convocata oltre trent’anni prima, nel 1097, a Mazara del Vallo dal granconte Ruggero D’Altavilla, padre di Ruggero II. Ma essa, in realtà, non aveva una natura realmente rappresentativa ed era più che altro una riunione di baroni e vescovi allo scopo di sciogliere una lite sorta circa la tassazione imposta dai prelati ai feudatari.

    Oggi, passando davanti allo splendore architettonico di Palazzo dei Normanni, magnifica sede dell’attuale Assemblea regionale siciliana, magari si riflette amaramente sul fatto che una cornice del genere avrebbe bisogno di politici di un altro livello. Ma poi ci si potrebbe chiedere: perché Palermo non fu da subito la sede esclusiva del Parlamento siciliano? Dalle fonti storiche risulta, infatti, che il centro panormita fosse la capitale del regno già negli anni intorno al 1111-1112 (proprio quando Ruggero II diventava maggiorenne). Peraltro, forse in pochi sanno che quel ruolo era toccato prima alla piccola Troina e addirittura a Mileto di Calabria.

    In ogni caso, bisognerà aspettare la dominazione spagnola, e quindi l’ultimo scorcio del Seicento, perché le sessioni dell’assemblea si stabilizzino a Palermo. Soprattutto durante l’età sveva, invece, il Parlamento si spostava di città in città come fosse una specie Circo Barnum dalla composizione mutevole ed estemporanea: così abbiamo adunanze a Catania, Siracusa, Messina, Lentini, Piazza Armerina, Randazzo, Caltagirone, Castronovo o Nicosia. E persino fuori dalla Sicilia, per esempio a Melfi o a Capua, come ci testimonia lo stesso Di Matteo.

    Lo studioso poi spiega:

    Ciò dipendeva dalle contingenze del momento, dagli impegni del re, spesso lontano dalla capitale del Regno, persino da arte di governo, in dipendenza dall’interesse del sovrano di allontanare il Parlamento dai luoghi meno favorevoli ai suoi disegni per via delle dissidenze baronali. In ogni caso, in età normanna il Parlamento ebbe – con qualche rara eccezione – stabile sede a Palermo; fu più tardi, con Federico II di Svevia, che invalse l’usanza di spostarlo, quando occorrente, dalla capitale, e tale pratica ebbe seguito coi successivi sovrani svevi. Del resto, anche la famosa Scuola poetica siciliana, putativamente insediata presso la Corte di Palermo, fu organo itinerante, avendo dovuto spostarsi ripetute volte per l’Italia al seguito del regale solium, nel corso delle infinite guerre dell’imperatore lungo la penisola.

    Sarà sempre Federico II, stupor mundi, ad aprire maggiormente l’assemblea alla società civile, convocando anche i rappresentanti locali delle città demaniali. Quasi ottocento anni dopo, i siciliani si interrogano su quale sia il senso reale di un’autonomia istituzionale che ha tradito molte promesse. E che va quantomeno rivitalizzata sin dalle radici.

    4

    PERCHÉ IL 13 DICEMBRE I SICILIANI SI TENGONO ALLA LARGA (O FANNO FINTA)... DA PASTA E PANE?

    Il 13 dicembre è il giorno di Santa Lucia, patrona di Siracusa, la città che, secondo la tradizione, le ha dato i natali nel III secolo d. C., ai tempi di Diocleziano. Fioriscono mille leggende e racconti sulla sua vita di ragazza in una famiglia ricca e disgraziata al tempo stesso, ma i costumi gastronomici dei siciliani, e dei palermitani in particolare, legati a questo speciale giorno, lasciano intuire quanto sia sottile il confine tra la penitenza devozionale e il godimento pantagruelico. In altre parole, il digiuno pseudo-religioso sbraca spesso nella lascivia della gola più sfrenata.

    Per capirlo, però, bisogna partire da una storia. Nelle Memorie di Santa Lucia l’annalista siracusano Giuseppe Capodieci racconta di una grave carestia che colpì il capoluogo aretuseo nell’inverno del 1763, durante la dominazione borbonica. Un predicatore rassicurò un giorno che santa Lucia avrebbe potuto sfamare il suo popolo inviando un qualche bastimento carico di grano. Proprio la giornata seguente giunsero dall’Oriente una nave carica di frumento, poi una seconda imbarcazione, quindi ancora un «vascello raguseo» e infine altri tre bastimenti. Si pensò subito a un fatto miracoloso, senonché il padrone di una di queste navi mise in chiaro che non aveva alcuna intenzione di entrare in porto. Suo malgrado, però, a un tratto fu costretto dai venti a cambiare idea e, dopo aver gettato l’ancora, comprese che si trovava a Siracusa. Ma soprattutto, non appena ebbe varcato l’ingresso dell’insenatura protetta, si accorse di essere improvvisamente guarito da una malattia agli occhi.

    Fin qui il racconto di Capodieci, su cui si innesta la leggenda, fatta propria pure da altre città siciliane, a partire da Palermo. La tradizione popolare vuole, infatti, che le navi furono assaltate dalla popolazione affamata che razziò il grano e scelse, in quel 13 dicembre, di cucinarlo nel modo più rapido possibile a causa della fretta di mettere qualcosa sotto i denti e della carenza di ingredienti. Il grano, quindi, fu semplicemente bollito e consumato. Senza essere trasformato in farina per farne pane o pasta. Di fronte a quel prodigio che aveva salvato la città di Siracusa (e per proprietà transitiva Palermo e le altre in cui si racconta questa storia), i siciliani decisero che ogni anno, il 13 dicembre, avrebbero consumato solo grano, legumi, verdure e riso, evitando pane, pasta e farinacei, in onore di santa Lucia.

    Il porto di Siracusa, in un’incisione settecentesca da Voyage pittoresque ou description des royaumes de Naples et de Sicile.

    Nasce così, tanto per dire, la cuccìa. Una pietanza che in molte parti dell’isola è fatta semplicemente di grano cotto e legumi, ma che a Palermo si trasforma in una leccornia dolce preparata sempre con grano bollito, ricotta e zucchero. Magari con l’aggiunta di scaglie di cioccolato, pistacchio e, per chi ama i sapori più esotici, un po’ di cannella. Poi, siccome i palermitani devono compensare l’assenza, anche per un sol giorno, di pane e pasta (dovessero avere qualche mancamento per colpa della dibulizza), allora sono usi ingozzarsi di panelle (frittelle piatte di farina di ceci), crocchè, fritti vari e soprattutto tonnellate di arancine, perché «tanto il riso è concesso. Mica è pasta, eh!».

    D’altronde l’antico adagio recita: Santa Lucia, pani vurria, pani nunn’haiu, accussi mi staju (Santa Lucia, pane vorrei, pane non ho, così me ne sto). E mentre i panifici restano mestamente chiusi e le friggitorie lavorano all’impazzata, santa Lucia assiste alquanto perplessa a questa interpretazione decisamente alternativa del digiuno.

    Insomma, di norma il 13 dicembre si trasforma in una festa. E pensare che già in epoca paleo-cristiana, la cuccìa era utilizzata in Grecia come cibo rituale legato alle commemorazioni dei defunti. Non a caso il termine deriva dall’ellenico ta ko(u)kkía, ossia i grani. Il siciliano Joseph Vinci, nell’Etymologicum siculum del 1759, vi rintraccia ancora il termine greco cóccos, equivalente del latino granum.

    La sua funzione di pietanza funebre, comunque, è rilevata in tempi molto antichi persino nelle aree del Sud peninsulare, in provincia di Potenza, ad esempio. Non per niente, nella seconda metà dell’Ottocento, il sacerdote e massone Raffaele Riviello in Costumanze, vita e pregiudizi del popolo potentino racconta: «In tutte le famiglie agiate sul fuoco stava il caldaio pieno di cuccìa (o concia), cioè miscela di grano, granone e legumi cotti, per darla in limosina a quanti si presentavano a chiedere la carità innanzi all’uscio».

    Un vecchio proverbio contadino spiega, invece, che quello di Santa Lucia è ù juornù chiù curtu cà c’è in tuttu l’annu. Sarà, ma le tenebre e il freddo (si fa per dire) non paiono spaventare i siciliani che sanno come mantenersi in forze e ingannare il tempo in attesa che passi la nottata.

    5

    PERCHÉ A CATANIA REGNA UN ELEFANTE?

    Non è chiaro quando sia nato questo rapporto viscerale tra i catanesi e il loro Liotru. Una leggenda vuole che proprio un elefante avrebbe salvato gli abitanti della nascente Kατάvη dall’attacco di animali feroci. Se questa storia avesse un qualche fondamento, allora ci troveremmo verso la fine dell’VIII secolo a. C., quando coloni greci provenienti da Naxos diedero i natali alla città etnea. Secondo altri racconti, invece, gli elefanti avrebbero salvato i catanesi addirittura da un terremoto. Mentre per il geografo arabo Idrisi, il pachiderma rappresentava un amuleto protettivo contro le eruzioni dell’Etna.

    Tuttavia, la presenza di queste bestie sul territorio pare essere confermata dal rinvenimento di resti ossei di elefanti nani, il cui foro centrale all’altezza della proboscide, scambiato per la sede di un unico, grande occhio, avrebbe tra l’altro generato la leggenda dei ciclopi, i mostruosi giganti che, stando all’Odissea, abitavano proprio in quest’area della Sicilia orientale. Sotto la dominazione araba, in ogni caso, Catania era nota come Balad-el-fil o Medinat-el-fil, cioè città dell’elefante. E il Liotru divenne simbolo ufficiale del capoluogo etneo nel 1239, sostituendo l’immagine di san Giorgio.

    Ma perché chiamarlo Liotru e non liofante, secondo la più comune dicitura dialettale? Sembra che il termine sia la storpiatura di Eliodoro, strana e sinistra figura di nobile, studioso e forse mago o

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