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About this ebook

Dall'autrice bestseller del New York Times

Suo padre è sempre stato un eroe per Alexa, finché non ha scoperto che lei e la madre non erano la sua unica famiglia. Da allora, Alexa si è impegnata a voltare pagina ma un uomo che è stato danneggiato quanto lei da suo padre entra nella sua vita. Caine sa che non potrà mai essere il suo principe azzurro e tenta di allontanarla. Quando si troveranno sull’orlo del baratro, capirà di essere disposto a tutto per proteggerla. 

«Incredibilmente sensuale.»
Publisher Weekly

«Conturbante.»
USA Today

«Samantha Young è un’autrice da non perdere.»
Fresh Fiction

Un'autrice bestseller del New York Times, di USA Today e del Wall Street Journal 
Samantha Youngè autrice bestseller di «New York Times», «USA Today» e «Wall Street Journal». Per Hero è stata nominata ai Goodreads Choice Awards come migliore autrice e nel 2015 come miglior rosa.
LanguageItaliano
Release dateJul 11, 2017
ISBN9788822712608
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Author

Samantha Young

Samantha Young is a New York Times bestselling author who resides in Scotland. Her novels have been published in thirty countries. When Samantha's not writing books she's reading them. Or she's shoe shopping.

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    Book preview

    Hero - Samantha Young

    Capitolo 1

    Boston, Massachusetts

    Non era possibile.

    Non stava succedendo davvero.

    Strinsi le mani a pugno per farle smettere di tremare e percorsi il corridoio fino a raggiungere la parte open space dell’attico. Aveva soffitti alti come quelli di una cattedrale e una parete completamente occupata da finestre che davano su un terrazzo enorme. Giù al porto l’acqua luccicava sotto i raggi del sole. Era un bel palazzo in uno scenario stupendo, ma io non potevo godermi la vista, impegnata com’ero a cercare lui.

    Il cuore smise di battere quando lo vidi fuori in terrazzo.

    Caine Carraway.

    «Alexa!».

    Mi voltai di scatto verso la zona cucina, dove il mio capo, Benito, era circondato da due laptop e altri strumenti per lo shooting fotografico. Quello doveva essere il momento in cui salutavo sorridendo e gli chiedevo di spiegarmi cosa dovessi fare.

    E invece mi voltai di nuovo verso Caine.

    Il succo d’arancia bevuto quella mattina mi gorgogliava in modo spiacevole nello stomaco.

    «Alexa!».

    Improvvisamente mi ritrovai Benito davanti, cupo in volto, che mi fissava.

    «Ciao», dissi con una voce piatta. «Dove mi vuoi?».

    Piegò la testa di lato, guardandomi in un modo quasi comico. Io alta un metro e ottanta, lui dieci centimetri di meno. Ma compensava decisamente bene quel che gli mancava in altezza con la personalità. «Per favore», fece elargendomi un sospiro lungo e sofferente, «dimmi che sei di nuovo la mia Alexa. La donna del disastro della festa della mamma non riesco a gestirla. Oggi devo fotografare Caine Carraway per Mogul, nella rubrica sui migliori quarantenni che si sono fatti da soli. Caine ci farà l’onore di essere in copertina». Lanciò un’occhiata al modello. «Una scelta scontata». Tornò a guardarmi con un sopracciglio alzato. «Quello di oggi è uno shooting importante. In caso non lo sapessi, Caine Carraway è uno degli scapoli più appetibili di Boston. È l’amministratore delegato della Carraway…».

    «Financial Holdings», dissi piano. «Lo so».

    «Bene. Saprai anche che è schifosamente ricco e incredibilmente influente. È anche un uomo molto impegnato e difficile da accontentare, perciò questo servizio va fatto bene e presto».

    Spostai l’attenzione da Benito all’uomo che aveva fondato una banca di successo subito dopo essere uscito dal college. Partendo da lì aveva poi espanso la compagnia, costruendo un portafoglio di affari diversificati, passando dai servizi bancari per le imprese a mutui immobiliari, compagnie di assicurazione, fondi di investimento, compravendita titoli di borsa, gestioni patrimoniali e via dicendo. Adesso era l’amministratore delegato di un’azienda che aveva nel suo consiglio una schiera di imprenditori ricchi e potenti.

    Secondo i giornali Caine era riuscito in tutto questo grazie a una determinazione di ferro, una cura meticolosa dell’organizzazione e una grande ambizione per il potere.

    In quel momento stava parlando al telefono, mentre Marie, consulente per l’immagine, gli lisciava le pieghe dell’abito di sartoria. La stoffa blu confezionata su misura gli stava a pennello. Caine era alto, uno e novanta, forse anche di più, con le spalle larghe e in perfetta forma fisica. Aveva un profilo deciso, gli zigomi prominenti e il naso aquilino, e i capelli, da cui adesso scacciava continuamente la mano di Marie spazientito, erano folti e scuri come i miei. Anche se in quel momento aveva le labbra serrate, sapevo dalle fotografie che possedeva anche una bocca sensuale e imbronciata.

    Era decisamente materiale da copertina.

    E altrettanto decisamente uno a cui non dovevi pestare i piedi.

    Mandai giù il groppo che mi si era formato in gola.

    Che ironia che dovessi ritrovarmelo davanti, dopo tutte le brutture che la morte recente e improvvisa di mia madre aveva portato in superficie… essendo lui parte di quelle brutture.

    Era da sei anni che lavoravo come assistente personale di Benito, uno dei fotografi più apprezzati e lunatici della città. Ovviamente non faceva mai il melodrammatico davanti ai clienti, lo era solo con i suoi collaboratori. Eppure avendo lavorato per lui per tanto tempo avrei dovuto sentirmi tranquilla. Invece no.

    A dirla tutta, prima pensavo che il mio lavoro fosse in una botte di ferro.

    Ma la perdita di mia madre, tre mesi fa, aveva fatto sì che i miei problemi familiari tornassero ad affacciarsi, rivelando alcune spiacevoli verità che avrei voluto non sapere. Misi su la mia faccia intrepida e andai avanti col mio lavoro. Ma è impossibile essere davvero così forti quando ti muore un genitore, e malauguratamente ebbi un esaurimento nervoso proprio durante un servizio fotografico per una delle più importanti riviste femminili. Era un articolo per la festa della mamma.

    Benito aveva provato a essere comprensivo, ma si capiva che era arrabbiato. Comunque invece di licenziarmi mi disse di prendermi una vacanza, che ne avevo parecchio bisogno.

    Così qualche settimana dopo avevo un’abbronzatura perfetta, omaggio del sole hawaiano, e quella mattina ero arrivata lì senza sapere nulla sul servizio fotografico, né per chi fosse né su chi.

    Avevo ricevuto un’email da Benito tornata dalla vacanza, con l’indirizzo del luogo dello shooting ma senza altre informazioni. Ero la sua assistente personale eppure non sapevo nulla del suo ultimo lavoro, e questo non mi piaceva.

    Quindi avevo messo su una bella abbronzatura ma non avevo ancora fatto davvero i conti con la morte di mia madre, ed ero anche seriamente preoccupata che il lavoro per cui mi ero spaccata la schiena negli ultimi sei anni ora potesse essere a un passo dal finire giù per il lussuoso cesso di un attico. Quel giorno era necessario che tutto andasse per il verso giusto.

    La mia ansia si era decuplicata quando, uscita dall’ascensore, avevo visto la gente indaffarata nel corridoio e sulla soglia della porta aperta dell’appartamento. C’erano molte più persone del solito, il che suggeriva che avremmo fotografato qualche pezzo da novanta. L’ansia poi si trasformò in panico quando la nostra stagista, Sofie, mi riferì che si trattava nientemeno che di Caine Carraway.

    Nel sentire quel nome il mio corpo si era irrigidito e aveva cominciato a tremare.

    Tremavo ancora adesso.

    Improvvisamente Caine mi piantò gli occhi addosso, come se avesse sentito il mio sguardo su di sé. Restammo a fissarci, mentre faticavo per controllare le mie emozioni, poi finalmente sganciò gli occhi dai miei per passare in rassegna il mio corpo.

    Benito era dell’idea che vestirsi casual quando si aveva a che fare con le celebrità facesse colpo su di loro, mostrando che né lui né i suoi collaboratori fossero intimiditi al loro cospetto perché eravamo allo stesso livello. Riteneva che quell’atteggiamento gli facesse ottenere maggiore rispetto dai suoi clienti. Io pensavo che fossero cazzate superficiali, ma dato che mi dava la possibilità di vestirmi come volevo, non espressi mai quell’opinione. Sul set spesso optavo per qualsiasi cosa ritenessi al momento la più comoda. Quel giorno la scelta era ricaduta su pantaloncini e maglietta.

    Il modo in cui Caine Carraway mi stava guardando in quel momento… era come se fossi nuda.

    Sentii la pelle d’oca sulle braccia, e un brivido che mi scendeva lungo la spina dorsale.

    «Alexa», scattò Benito.

    «Scusami», risposi cercando di non pensare allo sguardo rovente di Caine, o al bruciore che mi stava sbocciando in petto.

    Il mio capo scosse la testa spazientito. «Va bene, non fa niente. Basta che… ecco, riprenditi il BlackBerry». Mi sbatté il telefono in mano. Glielo avevo dato prima di partire per le ferie, in modo che lo desse al mio sostituto. Dentro quel BlackBerry c’era tutto il mondo di Benito. Conteneva ogni suo contatto di lavoro, le email, gli appuntamenti… era tutto là. Notai che l’icona della posta segnalava già quindici email non lette, quella mattina. «Prima di cominciare a lavorare organizza la troupe. Lo shooting si farà sul balcone, col porto a fare da sfondo. Poi andremo dentro, nel soggiorno. Lì c’è un po’ meno luce, quindi fa’ sistemare il set di conseguenza».

    Da lì in poi andai avanti col pilota automatico. Conoscevo il mio lavoro alla perfezione, e l’unica ragione per cui riuscivo a cavarmela sempre con competenza era perché i miei pensieri personali restavano fuori dall’ambito professionale. Adesso, però, erano tutti per l’uomo che riuscivo a malapena a guardare, mentre a uno dei nostri ragazzi davo istruzioni di allestire la macchina fotografica e il laptop di Benito in terrazzo, e a quelli dell’illuminazione di preparare il soggiorno per dopo.

    Caine Carraway.

    Su di lui sapevo più di quanto avrei dovuto perché negli ultimi mesi, se udivo il suo nome o lo leggevo sui giornali, ci facevo attenzione. Chiamatela curiosità morbosa.

    Rimasto orfano a tredici anni e affidato allo Stato, Caine aveva sbaragliato ogni pronostico diventando il miglior diplomato del suo liceo, per poi proseguire a testa bassa gli studi alla Wharton Business School. Si era appena laureato che già aveva messo su la banca che lo avrebbe condotto fino alla Carraway Financial Holdings. A ventinove anni era uno degli uomini d’affari più affermati di Boston. Ora, a trentatré, i suoi pari lo temevano e rispettavano, era di casa nei salotti più importanti dell’alta società e uno degli uomini non sposati più desiderati della città. Benché tenesse immensamente alla propria privacy, i rotocalchi di costume lo immortalavano tutte le volte che potevano, quasi sempre durante gli eventi mondani. Lo si vedeva sempre accanto a belle donne, ma raramente le stesse tornavano a comparire nelle foto a distanza di mesi.

    Tutto ciò mi faceva pensare a parole come solo, solitario e chiuso.

    La fitta nel petto divenne più intensa.

    «Alexa, vieni, ti presento il signor Carraway».

    Sentii il respiro farsi molto più rapido, distolsi lo sguardo da Scott, il nostro tecnico luci, e mi voltai a guardare Benito accanto a Caine.

    Cercando di controllare le mie emozioni mi avvicinai lentamente ai due, le guance in fiamme per via del calore emanato dallo sguardo cupo di Caine. Osservandolo più da vicino vidi che i suoi occhi erano in realtà di un marrone intenso e scuro. Il viso era una maschera completamente vacua, ma gli occhi erano più espressivi.

    Mentre mi squadrava rabbrividii nuovamente.

    «Signor Carraway, lei è la mia assistente personale, Alexa…».

    «Piacere di conoscerla», mi intromisi prima che potesse dire il mio cognome. «Se le serve qualcosa, basta chiamarmi». E prima che il mio capo o Caine potessero replicare mi allontanai in tutta fretta.

    Scott stava guardando dietro di me, e quando i suoi occhi tornarono sui miei compresi che il mio comportamento non era stato apprezzato da Benito. «Che cosa ti succede?», mi domandò Scott.

    Mi strinsi nelle spalle, incerta su come spiegargli il mio atteggiamento da adolescente. Sarebbe stata una spiegazione lunga. Troppo lunga. Perché la verità era che non erano passati neppure tre mesi da quando avevo scoperto che mio padre era responsabile per l’infanzia devastata di Caine.

    E ora ce l’avevo proprio davanti.

    Quando sentii Benito fare il mio nome mi voltai e lo vidi che mi fulminava con lo sguardo, facendomi segno di seguirlo in terrazzo. Lo shooting stava cominciando.

    In piedi alle spalle del mio capo, a guardare le foto sul computer per confrontarle con l’uomo in carne e ossa davanti a me, potei studiare Caine in tutta tranquillità. Non sorrideva mai. Guardava l’obiettivo con aria meditabonda, e Benito non ebbe l’ardire di chiedergli un cambio d’espressione. Gli diceva di girare la testa e il corpo così e così, ma quello fu il massimo del coraggio che tirò fuori, con lui.

    «Che faccia seria», mi sussurrò Sofie nell’orecchio porgendomi il caffè. «Se non fossi felicemente fidanzata proverei a far sbocciare un sorriso su quel bel viso. Tu sei single. Dovresti provarci. Io dico che riusciresti a farlo sorridere».

    Dissimulai le mie vere emozioni con un sorrisetto. «Mi sa che ci vorrebbero una campionessa di atletica e sua sorella gemella per quello, dolcezza».

    Ci guardammo e scoppiammo a ridere, incapaci di trattenerci. Fu un sollievo riuscire a ridere in un momento così teso.

    Sfortunatamente la nostra risata attirò l’attenzione di Caine. Ce ne accorgemmo perché tutto si fece silenzioso e quando ci voltammo lo trovammo che mi guardava incuriosito mentre Benito… be’, sembrava volesse friggere il culo di entrambe col suo sguardo infuocato.

    Sofie si dileguò.

    «Facciamo una pausa», fece Benito sospirando e si avvicinò al laptop. «È tutta la mattina che ti comporti in modo strano», mi disse sottovoce. «Mi sono perso qualcosa?»

    «No». Lo guardai cercando di far finta di niente. «Caffè?».

    Annuì; non era più arrabbiato, solo vagamente deluso. Il che era peggio.

    Tornai saggiamente dentro e mi diressi al bagno. Pensavo che un po’ di acqua fredda in faccia mi avrebbe fatto bene. Misi le mani sotto il rubinetto e mi resi conto che tremavano. «Merda», sospirai.

    Stavo da schifo.

    Di nuovo.

    Ora era troppo. Il mio lavoro non avrebbe resistito a un’altra scenata in pubblico. Certo, era una situazione del cavolo ma dovevo riprendermi e comportarmi da professionista. Uscii dal bagno decisa a farlo, le spalle ben dritte, e per poco non inciampai in una tazza di caffè.

    La tazza era stretta in una mano grande, e quella mano apparteneva a Caine.

    Alzai lo sguardo e restai muta. Più che altro perché il cuore mi batteva così forte che era difficile concentrarmi su qualcos’altro, men che meno sulle parole.

    Caine alzò un sopracciglio e mi porse il caffè.

    Lo presi, del tutto incapace di togliermi dalla faccia quell’espressione sgomenta.

    «Un’offerta di pace», disse, e io rabbrividii ancora al suono della sua voce profonda ed elegante. «Sembrerebbe che io le metta paura, per qualche assurda ragione».

    Restammo a fissarci, e adesso il cuore galoppava per una ragione completamente differente.

    «Che cosa si dice di me in questi giorni?».

    Per un momento dimenticai ogni cosa eccetto la sensazione di perdermi nei suoi occhi bellissimi. «Parecchie cose», risposi suadente. «Si dicono parecchie cose su di lei, in questi giorni».

    Sorrise, dimostrando che avevo torto: non servivano una ginnasta e la sua gemella per far sbocciare un sorriso sul suo volto. «Be’, mi sento in posizione di svantaggio. Lei conosce me, ma io non conosco lei». Fece un passo avanti e subito mi sentii deliziosamente, perdutamente circondata da lui.

    Oh Dio, oh Dio, oh Dio. «Non c’è molto da dire».

    Caine abbassò la testa, gli occhi scuri mi infondevano un calore liquido che sentivo fin tra le gambe. «Per qualche motivo ne dubito». Lanciò uno sguardo fugace alle mie labbra e subito tornò sugli occhi. «Voglio sapere di più, Alexa».

    «Uhm…». Il vecchio luogo comune, attento a quel che desideri, mi attraversò la mente.

    Sembrava che stesse scambiando il mio stato di totale panico per un deliberato atteggiamento enigmatico, perché mi avvertì: «Non finirò questo shooting finché non mi avrà detto di più di sé. Il tempo è denaro». Sorrise. «E il capo va fatto felice».

    Si riferiva a se stesso o a Benito?

    Lo guardai, avvertendo i palmi delle mani che si facevano umidi di sudore, e il cuore che accelerava ogni secondo che passavamo senza dirci nulla. E fu allora che accadde. Sopraffatta e sconcertata dalla sua improvvisa apparizione nella mia vita, appena dopo aver scoperto che era stato lui ad avere il ruolo della piccola vittima, e mio padre quello del malvagio, mi sciolsi completamente. «Io la conosco», sbottai. «No, voglio dire…». Feci un passo avanti, costringendolo a spostarsi verso il fondo del corridoio, dove potevamo parlare più liberamente. La tazza di caffè mi tremava nelle mani. «Mi chiamo Alexa Holland».

    Fu come vederlo percorso da una scarica elettrica.

    Una cosa terribile a cui assistere. Tremava tutto, quasi lo avessi colpito; il potente uomo d’affari che impallidiva visibilmente davanti a me.

    Continuai imperterrita. «Mio padre è Alistair Holland. So che ha avuto una storia con sua madre e so come è andata a finire. Sono davvero…».

    La sua mano saettò nell’aria tra di noi, un gesto per mettermi a tacere. Lo sgomento era stato sostituito dalla rabbia, che sembrava esalare dalle narici. «Mi fermerei qui se fossi in lei». La voce era arrochita da un tono minaccioso.

    Ma io non potevo.

    «L’ho appena scoperto. Non avevo idea fino a pochi mesi fa che fosse lei. Io nemmeno…».

    «Ho detto basta». Avanzò di un passo, costringendomi a indietreggiare con le spalle al muro. «Non voglio saperlo».

    «La prego, ascolti…».

    «Mi prendi in giro, cazzo?». Sbatté una mano sul muro sopra la mia testa, e in quel momento vidi oltre la figura del gentiluomo colto e spietato che tutti conoscevano, vidi qualcuno molto meno raffinato e molto più pericoloso di quanto chiunque avesse mai pensato. «Tuo padre ha sedotto mia madre e dopo averla fatta drogare l’ha lasciata a morire di overdose in una stanza d’albergo, perché salvarla avrebbe voluto dire mandare in fumo la sua preziosa eredità». Ora la sua faccia era così vicina alla mia che riuscivo a sentire gli sbuffi caldi del suo fiato sulle labbra. «Ha distrutto la mia famiglia. Non voglio niente da lui o da te. E certamente non voglio respirare la stessa aria sua o tua».

    Si allontanò con uno scatto e mi lasciò sola in corridoio.

    La maggior parte delle donne probabilmente sarebbe scoppiata in lacrime dopo un’aggressione verbale del genere. Io no. Crescendo avevo visto mia madre arrendersi alle lacrime a ogni litigio, una cosa che odiavo. Quando era in preda alla rabbia piangeva, anche se quel che avrebbe voluto veramente fare era dare sfogo alla sua ira.

    Per questo non piangevo mai quando ero arrabbiata.

    Ed ero furibonda con un padre che era diventato un estraneo, per avermi messa nelle condizioni di essere dipinta con gli stessi suoi disgustosi colori.

    Mi tornarono in mente le ultime parole dette da Caine.

    «Oh, merda», dissi muovendomi dal corridoio.

    Caine stava parlando con Benito in cucina.

    Il mio stomaco sussultò quando vidi Benito trasalire per qualcosa che lui gli stava dicendo. Mi guardò spaesato e poi si voltò per rispondergli.

    Poi Caine, l’espressione furente, si guardò intorno in cerca di qualcuno. Un giovane con un abito elegante. «Ethan», gli disse, «voglio un altro fotografo». Parlò ad alta voce per farsi sentire, e infatti tutti smisero all’istante di fare quel che stavano facendo. «Altrimenti niente copertina».

    Ethan annuì con piglio militaresco. «Ci penso io, signore».

    Ero inorridita; guardai Benito, la cui bocca spalancata significava il medesimo orrore. Caine non rimase abbastanza a lungo per rendersene conto. Già mi stava passando accanto diretto alla porta, da cui uscì senza neppure guardarmi.

    Avevo la nausea.

    La voce di Benito era tranquilla, sorprendentemente calma. Ma non le sue parole. «Ma che cazzo hai combinato?».

    La mia amica Rachel spostò la bimba irrequieta da un braccio all’altro. «Sono passate cinque ore. Calmati. Il tuo capo ti chiamerà e tutto questo malinteso verrà chiarito».

    Guardai sua figlia, Maisy, con preoccupazione crescente. «È normale che la faccia di Maisy sia così viola?».

    A quel cambio di argomento Rachel aggrottò le sopracciglia, poi abbassò gli occhi sulla figlia. «Maisy, smettila di trattenere il respiro».

    Maisy la guardava con un’espressione ostinata.

    «Ah… continua come se niente fosse». Non capivo perché Rachel non fosse preoccupata quanto me.

    Poi fece la faccia arrabbiata. «Se continui a trattenere il respiro niente giocattolo».

    Maisy inalò un respiro comicamente lungo e poi mi sorrise.

    «È un diavolo», sussurrai guardandola non del tutto tranquillizzata.

    «Non me lo dire». Rachel si strinse nelle spalle. «Pare che anche io abbia cominciato a usare il vecchio ricatto non respiro finché non ottengo quel che voglio proprio a quest’età».

    Posai lo sguardo sul mio pranzo mezzo consumato. «Se la bambina si è stufata possiamo andare a fare una passeggiata ai giardini».

    «Devi ancora calmarti». Con un gesto Rachel agganciò una cameriera che passava. «Altre due bibite dietetiche e un succo d’arancia, per favore».

    Non dissi niente. Di tutte le mie amiche, Rachel era quella più tenace e autoritaria. Probabilmente era per quello che era l’unica che ancora frequentavo regolarmente.

    Al college eravamo quattro amiche del cuore: io, Rachel, Viv e Maggie. Io ero l’unica che non si era sposata e non aveva figli. Loro tre in tutto avevano quattro bambini. Avevo perso i contatti con Viv e Maggie nel corso degli anni, e vedevo solo Rachel, qualcosa come una volta ogni mese o due. Ero stata così impegnata col lavoro e a socializzare con i colleghi che non mi ero data mai la pena di fare nuove amicizie o conoscenze fuori dall’ambito professionale.

    Se quella terribile sensazione di pancia che avevo si fosse rivelata veritiera, se Benito mi avesse licenziata, mi sarei trovata davanti un futuro davvero fosco, senza soldi, bella casa e vita sociale.

    «Forse per me dovresti ordinare una vodka», borbottai.

    Rachel esalò un sospiro. «Benito non ti licenzierà. Non dopo tutto il duro lavoro che hai fatto. Vero, tesorino?». Fece trotterellare la figlia sul suo ginocchio.

    Maisy ridacchiò guardandomi e scosse la testa, coi riccioli scuri che finivano sul viso della madre.

    «Grandioso, anche una bambina di tre anni ha capito che sono fottuta».

    Rachel fece una smorfia. «Non puoi dire fottuta davanti a un bambino, Lex». Arrivarono i drink e lei mi porse il mio. «Ora datti una calmata, cazzo, così possiamo parlare di me per cinque minuti».

    Fu il primo sorriso vero che tirai fuori da una settimana a quella parte. «Solo se mi dici un’altra volta che non sto per essere licenziata».

    «Lex, non stai per essere licenziata».

    «Alexa, sei licenziata!».

    L’esordio iroso del messaggio vocale di Benito mi fece rivoltare lo stomaco.

    «Non ho idea di cosa cazzo sia successo stamattina, ma tu hai chiuso. E mica solo con me. Oh, no! Sai quanto mi sei costata oggi? Hai fatto incazzare Caine Carraway così tanto che ho perso Mogul e altre due riviste dello stesso gruppo editoriale! Qui c’è in gioco la mia reputazione. Dopo tutto il lavoro che ho fatto! Ti dico una cosa…». Abbassò la voce, e ciò mi fece più paura delle urla. «Considerati fottuta, perché farò in modo che tu non possa mai più lavorare in questo settore».

    Mi pizzicai la punta del naso e inspirai a fondo, tremante.

    Questo non ci voleva.

    Non ci voleva proprio.

    Capitolo 2

    Fissavo ostinatamente il telefono bevendo vino rosso da un enorme calice. «No».

    Mio nonno sospirò rumorosamente facendo crepitare l’altoparlante. «Per una volta metti da parte il tuo orgoglio e permettimi di aiutarti. O preferisci andartene da quell’appartamento che ami tanto?».

    No, non lo volevo. Mi ero fatta il culo per potermi permettere un posto come quello, un bilocale a Back Bay. Era bellissimo, coi suoi soffitti alti e le ampie finestre che davano sul viale alberato. Adoravo la zona. Ero a venti minuti a piedi dalla parte della città che preferivo: il parco pubblico, Newbury Street, Charles Street… la posizione era tutto, ma il fatto che casa mia fosse graziosa e accogliente era solo la ciliegina su una torta davvero appetitosa. Era il tipo di abitazione che avevo sempre desiderato, nella speranza che un giorno avrei avuto abbastanza soldi da dare un anticipo per quell’appartamento, o un altro nello stesso quartiere.

    I beni materiali non significano un accidenti, e io lo sapevo. Ma in quel momento avevo davvero bisogno del mio bel bilocale. Era un rifugio.

    Ne avevo bisogno al punto da svendere i miei principi?

    Sfortunatamente no.

    «Non accetterò i tuoi soldi, nonno». Sapevo che non era colpa di Edward Holland, ma era stata proprio la ricchezza enorme che aveva ereditato e poi accresciuto con accorti investimenti e diversificazioni a rovinare mio padre. Non volevo avere nulla a che fare con qualcosa di tanto tossico.

    «Allora dovrò dire due parole a Benito».

    Pensai al fatto che mio nonno aveva mantenuto segreta la sua parentela con me. Nessuno al di fuori della cerchia familiare sapeva che Alexa Holland fosse una Holland. Mio padre era riuscito a tenere la sua famiglia all’oscuro dell’avventura con la donna da cui ero nata io, a eccezione di suo padre, e certo mio nonno non era andato a rivelare loro che mi era venuto a cercare quando avevo ventun’anni ed ero a Boston tutta sola.

    Compresi che gli avrebbe causato problemi e irritazione confessare la verità, e non posso dire che ciò non mi fece soffrire. A volte avevo l’impressione che si vergognasse di me. Nel bene e nel male, però, lui era tutto ciò che avevo, e gli volevo un gran bene.

    Mandai giù il mio risentimento. «Non puoi», dissi. «Benito è un chiacchierone. Direbbe a tutti chi sono».

    «E allora che farai? Ti troverai un altro lavoro… in quale campo?».

    Qualsiasi altra occupazione avrebbe voluto dire una drastica riduzione di stipendio. In quanto assistente personale esecutiva di un famoso fotografo, portavo a casa una discreta somma. Più del doppio della paga standard. Sorseggiai il vino e mi guardai attorno, passando in rassegna tutte le cose carine che adornavano la mia casa carina.

    «Non sono neppure riuscita a scusarmi», mormorai.

    «Cosa?»

    «Non sono neppure riuscita a scusarmi», ripetei. «Mi è saltato al collo e poi mi ha rovinato la vita», gemetti. «Non dirlo, l’ironia della cosa non mi sfugge. La mia famiglia ha rovinato lui… pan per focaccia, insomma».

    Si schiarì la voce. «Non sei stata tu a rovinargli la vita. Però lo hai preso alla sprovvista».

    Il senso di colpa s’impadronì di me. «Vero».

    «E ti ho già detto che in passato ogni mio tentativo è fallito. Non spetta a noi scusarci».

    «Questo lo so». Era vero. Non ero delusa perché non avevo potuto scusarmi, dopotutto era stata colpa di mio padre. Ero delusa perché in quel momento, quando Caine aveva compreso chi fossi, avevo visto nei suoi occhi una sofferenza che mi era molto familiare. Nel vedere un dolore che era chiaramente ancora vivo in lui avevo sentito un soverchiante senso di affinità con quell’uomo. Eravamo entrambi parti di una tragica eredità. Non avevo mai potuto parlarne con nessuno per via della segretezza, per anni avevo dovuto sopportare il peso della verità tutta sola. Poi, tre mesi prima, mia madre era morta e tutta quella robaccia era affiorata in superficie; durante una litigata telefonica con mio nonno lui alla fine si era fatto sfuggire il nome del bambino che aveva subito il torto.

    Caine Carraway. L’unico oltre ai miei genitori e a mio nonno che sapesse la verità. L’unico che potesse capire.

    Non potevo spiegare la connessione che sentivo con lui. Sapevo solo che era possibile che fossi l’unica persona capace di comprendere la sua sofferenza e… scoprii che volevo stargli vicino in qualche modo. Non aveva senso. A malapena lo conoscevo. Lo sapevo bene. Eppure non potevo fare a meno di sentirmi così.

    Era stato straziante essere considerata da lui come parte del problema. Come se… fossi colpevole. Detestavo l’idea che potesse pensarlo e non volevo che quella restasse l’unica volta in cui avevamo parlato. Non volevo far parte di un ricordo così brutto. «Dovrei andare da lui e scusarmi per averlo colto di sorpresa. E già che ci sono potrei chiedergli di risolvere la situazione. Gli basterebbe fare una telefonata a Benito e tutto andrebbe a posto».

    «Alexa, non credo che sia una mossa saggia».

    Forse no. Ma rivolevo disperatamente il mio lavoro, e che Caine cambiasse opinione su di me. «Da quando è successa la cosa di mamma… è che io… ho bisogno che mi stia a sentire, e non ci vedo nulla di male a chiedergli di parlare a Benito quando lo vedrò».

    «Sembrano un sacco di cose di cui hai bisogno tu, ma non lui».

    Misi da parte quella verità e tentai di razionalizzare. «Hai mai conosciuto Caine Carraway? A me non sembra uno che sa quello di cui ha bisogno».

    L’addetta alla reception mi guardò come se le avessi raccontato una barzelletta.

    «Vuole vedere il signor Carraway della Carraway Financial Holdings senza appuntamento?».

    Sapevo che non sarebbe stato facile mettere piede nel maestoso edificio di granito rosa di International Place e pretendere di essere accompagnata direttamente nell’ufficio di Caine. Ma quella donna si comportava come se gli avessi chiesto di vedere il presidente. «Sì». Tenni a bada il mio istinto di rispondergli con sarcasmo. Non sembrava tipo da prenderla bene.

    Emise un sospiro. «Un momento, prego».

    Lanciai un’occhiata alla guardia giurata che operava ai metal detector situati prima degli ascensori. La Carraway Financial Holdings divideva quel palazzo con un’altra compagnia, il che voleva dire che c’erano telecamere di sicurezza ovunque. Qualsiasi cosa avessi provato a fare sarei stata beccata. Era solo questione di tempo. Non era un problema per me… bastava che fosse dopo esser riuscita a vedere Caine.

    Mi allontanai di soppiatto dalla reception mentre la segretaria si controllava le unghie indignata. Facendo la vaga cominciai a camminare verso i metal detector.

    «Documenti», fece l’uomo della sicurezza stoppandomi con una mano alzata.

    Guardai il suo volto barbuto e lessi l’allarme nei suoi occhi. La mia solita sfortuna. Non mi poteva capitare il classico vigilante distratto?

    Esibii un sorriso innocente. «La signora alla reception mi ha detto che hanno finito i badge per i visitatori e di salire senza problemi».

    Socchiuse gli occhi con aria sospettosa.

    Indicai il bancone. «Glielo chieda».

    Guardò la reception sbuffando. Compresi in quel momento che stava per gridare, in modo da poterle rivolgere la domanda senza muoversi dal suo posto.

    Era la mia unica chance.

    Gli sgusciai accanto e corsi sotto i detector, sentendolo gridare, nell’istante in cui mi lanciavo nell’ascensore, che mi avrebbe portato all’ufficio di Caine. Le porte si chiusero proprio mentre spuntava il piede della guardia giurata.

    «Sei pazza», mormorai tra me mentre l’ascensore saliva. «Sei davvero fuori di testa. Dovevi andare in terapia quando ne avevi la possibilità».

    Alla mia destra qualcuno sbuffò. Nella cabina c’era un tipo che mi guardava come se avessi detto qualcosa di comico. «Non per tutti funziona», disse.

    «Cosa?», domandai confusa.

    «La terapia. Per qualcuno funziona, per altri no».

    Contemplai il vestito elegante, l’orologio costoso. Aveva un bell’aspetto, capelli castano chiaro perfettamente pettinati e occhi di un azzurro brillante, e capii al primo sguardo che sotto quell’abito confezionato su misura c’era anche una sicurezza di sé altrettanto su misura. Aveva un’aria vagamente familiare. «Per lei ha funzionato?».

    Lui fece spallucce e sorrise malizioso. «Per me è stata la mia terapista a funzionare».

    Risi. «Be’, almeno ci ha ricavato qualcosa».

    Il suo sorriso si ampliò e indicò la pulsantiera. «Carraway Financial Holdings?».

    Annuii e sentii lo stomaco che mi si annodava all’idea di rivederlo. «Devo parlare con l’amministratore delegato».

    «Caine?». Alzò le sopracciglia e mi squadrò da capo a piedi. «Devo forse immobilizzarla e consegnarla alla sicurezza?»

    «Probabilmente è quello che il signor Carraway preferirebbe, ma lui ha bisogno di sentire quello che ho da dirgli».

    «Ah… e lei chi è?».

    Lo guardai diffidente. «Uhm, chi è lei

    «Un amico. Dovrei pranzare con lui».

    Le porte si aprirono. «Una volta che lo avrò, le offrirò in dono il mio primogenito se mi permetterà di intromettermi per i primi cinque minuti di quel pranzo».

    Uscì dalla cabina e lo seguii. Mi fissava cercando di capire chi avesse davanti.

    Attesi lanciando nervose occhiate al receptionist al piano, chiaramente scandalizzato dalla mia apparizione improvvisa.

    «Facciamo così», disse il tipo dell’ascensore catturando nuovamente la mia attenzione. C’era divertimento nelle sue parole. «I metal detector non hanno suonato, quindi è

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