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Mistero siciliano
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Mistero siciliano

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Le indagini della zia Poldi

Tra Miss Marple e Jessica Fletcher
Zia Poldi è la nuova signora del giallo

Vista mare. Sole. Riposo. E buon vino con cui stordirsi fino allo svenimento definitivo. Questo cerca la zia Poldi quando si trasferisce da Monaco di Baviera a Torre Archirafi, in Sicilia. Ma non ha fatto i conti con la famiglia del suo defunto marito, che non ha alcuna intenzione di lasciarla alla propria solitudine, né con un evento imprevisto che accende inaspettatamente il suo interesse: Valentino, un ragazzo che spesso la aiuta in casa, sparisce all’improvviso. Figlia di un commissario di polizia, Poldi capisce, grazie al suo infallibile intuito, che Valentino non si è semplicemente allontanato. Deve essergli successo qualcosa. Da sola, Poldi decide di intraprendere una vera e propria indagine. Seguendo tracce e indizi e guidata dal suo eccezionale istinto, si mette alla ricerca del ragazzo, ed è proprio lei a scoprirne, sulla spiaggia, il corpo senza vita. Ma a quel punto il caso si complica, perché sulla scena compare il commissario Vito Montana, poco propenso ad avere tra i piedi una Miss Marple tedesca, per giunta affascinante. Eppure dovrà ben presto ricredersi: perché Poldi diventerà un personaggio chiave per l’evolversi delle indagini. 

Un autore tradotto in 7 Paesi
70.000 copie vendute in Germania

«Un giallo ricco d’atmosfera, ironico e con una protagonista incredibile.»

«Non si tratta del classico romanzo giallo. Questo libro trae la sua forza dagli eccentrici personaggi principali, dalle loro bizzarre azioni e da uno stile brillante.»
Main-Post

«Il romanzo perfetto per l’estate, nel quale si respira il modo di vivere degli italiani e con una investigatrice grandiosa.»
Donna

«Lo sguardo di Mario Giordano sulla Sicilia è sia entusiasta che critico, perché riflette il punto di vista tedesco sulle cose.»
Madame

«Una delle riflessioni più argute sul rapporto tra italiani e tedeschi che la narrativa contemporanea possa offrire.»
Deutschlandradio

«Mario Giordano ha dato vita a un personaggio straordinario, una deliziosa detective, e a un vivace ritratto della società siciliana.»
The Times – Libro del mese

«Un libro vivo, con profumi e sapori che accendono i sensi.» 
The Spectator

«Giordano è un abile romanziere. L’originalità della trama, i personaggi eccentrici e lo stile vivace rendono la lettura di questo libro un autentico piacere.»
Times Literary Supplement
Mario Giordano
è nato nel 1963 a Monaco di Baviera e vive a Colonia. Scrive romanzi, libri per ragazzi e sceneggiature.
LanguageItaliano
Release dateApr 5, 2017
ISBN9788822705860
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    Mistero siciliano - Mario Giordano

    1611

    Titolo originale: Tante Poldi und die sizilianischen Löwen

    © 2015 by Bastei Lübbe AG, Köln

    Traduzione di Lucia Ferrantini

    Prima edizione ebook: maggio 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0586-0

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Art Direction: Sebastiano Barcaroli

    Copertina: © Mikel Casal

    Mario Giordano

    Mistero siciliano

    Le indagini della zia Poldi

    Indice

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Intermezzo storico-culturale

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Ringraziamenti

    Capitolo 1

    Dove si racconta di come e perché la Poldi arrivi in Sicilia e cosa ne pensino le cognate. Senza parrucca e una bottiglia di brandy non si combina niente. La Poldi invita i parenti a casa per un arrosto di maiale, fa al nipote una proposta che non può rifiutare e conosce i suoi vicini di via Baronessa. Poco dopo, però, all’appello già ne manca uno.

    Nel giorno del suo sessantesimo compleanno, mia zia Poldi si trasferì in Sicilia, per ubriacarsi come si deve fino allo svenimento definitivo, ma vista mare. Un gesto estremo che tutti noi temevamo da parecchio, ma qualcosa si mise di mezzo. La Sicilia, si sa, è un posto complicato, perfino morire non è facile, c’è sempre qualcosa che si mette di mezzo. E poi invece accade tutto in un baleno e uno muore ammazzato e nessuno ha visto né sentito niente. Ovvio che mia zia Poldi, testarda e bavarese com’era, dovesse prendere in mano la situazione e fare un po’ di ordine. Ed è lì che sono iniziati i problemi.

    Ah, zia Poldi. Un tipo appariscente, quando entrava in scena non passava inosservata. D’accordo, negli ultimi anni aveva messo su qualche chilo e sì, l’alcol e l’amarezza le avevano lasciato addosso qualche segno, ma con la testa ci stava ancora, sempre… o quasi. Sensibile alla moda, quando era uscito Music di Madonna la Poldi era stata la prima ad andare in giro per Monaco con un cappello da cowboy. In uno dei miei primi ricordi c’è lei ancora insieme allo zio Peppe in un completo giacca-pantalone color arancio quasi fosforescente sulla terrazza dei miei genitori a Neufahrn, con la birra in una mano e nell’altra una sigaretta Roth-Händle, e quella risata a scossoni che le scuoteva tutto il corpo e faceva tremare il mondo, interrotta solo da battute sconce e parolacce, che a ripeterle il giorno successivo fecero di me la star indiscussa del cortile di scuola.

    Isolde e Giuseppe si erano conosciuti a Monaco, in televisione, lei faceva la costumista e lui il sarto, un lavoro che in mancanza di altri talenti e idee aveva ereditato dal padre, cioè mio nonno, un tiranno ipocondriaco cui davvero erano mancati altri talenti e idee, al contrario di suo padre, cioè il mio bisnonno Barnaba, emigrato negli anni Venti a Monaco senza spiccicare una parola di tedesco per mettere su un’attività di commercio di frutta esotica – cioè mediterranea – che lo aveva reso milionario. Accidenti, sto già rischiando di perdermi in chiacchiere.

    Tra la Poldi e lo zio Peppe fu grande amore. Poi, purtroppo alcune cose non andarono per il verso giusto. Due aborti, l’alcol, le tresche di mio zio, il divorzio da mio zio, la malattia di mio zio, la morte di mio zio, la storia del terreno in Tanzania e altri spiacevoli cambiamenti, deviazioni e smottamenti della vita hanno velato di amarezza l’esistenza della zia. Eppure lei ha continuato a ridere, amare e bere, e a farsi scivolare addosso le cose che non le andavano a genio. In pratica tutte.

    La Poldi aveva amato molto il suo lavoro di costumista, ma negli ultimi anni aveva perso sempre più commesse per colpa di colleghe più giovani. Il mondo della televisione aveva iniziato a navigare in cattive acque, e con il tempo lei aveva perso pure la voglia di lavorare; sfortunatamente quella maledetta storia della Tanzania le aveva prosciugato il conto, o quasi. Poi però i suoi genitori erano morti e le avevano lasciato la casa alla periferia di Augusta. Mia zia odiava quell’abitazione e tutto ciò che era legato a essa, quindi perché non investire i risparmi e la modesta rendita per realizzare il suo più grande desiderio? Svenimento definitivo con vista mare, appunto. E con la famiglia.

    In Sicilia, a causa di questa sua tendenza alla malinconia, la suddetta famiglia intuì subito le intenzioni della Poldi di anticipare la propria dipartita a suon di bicchieri, e decise di impedirglielo a tutti i costi. Quando parlo di famiglia mi riferisco soprattutto alle altre tre zie – Teresa, Caterina e Luisa – e a mio zio Martino, il marito di Teresa. Zia Teresa, che è sempre stata quella che fa la voce grossa, cercò di convincere la Poldi ad andare a vivere con loro a Catania, per tenerla d’occhio.

    «Mei… mio Dio, Poldi, ma cosa vai a stare così lontano tutta sola?», disse, facendo rispuntare gli intercalari del dialetto bavarese. «Vieni a stare vicino a noi, così hai sempre qualcuno con cui chiacchierare e giocare a carte, arrivi a piedi ovunque, teatro, cinema, supermercato, ospedale… tutto dietro l’angolo, e halt, sai, abbiamo anche un paio di poliziotti mica male».

    Ma niente. L’accordo che la Poldi aveva preso con la sua amarezza era svenimento definitivo vista mare, e la vista mare comportava un panorama mozzafiato dalla terrazza sul tetto. Anzi, davanti il mare – prego girarsi – e dietro l’Etna. Cosa si poteva desiderare di più? Peccato solo che per la Poldi e il suo ginocchio malandato riuscire a salire i gradini fino alla terrazza sul tetto fosse una mezza impresa.

    Torre Archirafi è un minuscolo e pacifico paesino sulla costa orientale della Sicilia tra Catania e Taormina, che a causa del lungo litorale costituito da una impervia e puntuta scogliera di roccia lavica risulta praticamente inadeguato per qualunque tipo di sfruttamento turistico, gentrificazione o deturpamento. Almeno in teoria. In pratica, i suddetti spunzoni non impediscono agli abitanti di scaricare sulla riva immondizie di ogni genere, di rendersi la vita difficile a vicenda e, d’estate, di piazzare tra i massi schiere di piattaforme di legno e chioschi che nel fine settimana vengono presi d’assalto dalle famiglie e dai giovani di Catania, i quali se ne stanno lì ammassati a prendere il sole, mangiare, leggere il giornale, litigare, mangiare, ascoltare la radio, flirtare e mangiare non-stop, con un ronzio di sottofondo non meglio identificato e un senso di stordimento per le esalazioni di olio di cocco, grasso di frittura e fatalismo. In mezzo a tutto questo, zia Poldi. Non ho mai capito perché, ma lei lo adorava.

    Di contro, ecco l’inverno a Torre: freddo, umido, un mare plumbeo che si avventa sui frangionde come se volesse portarsi via tutto il paese e alitare sale e fiori di muffa sul soffitto di ogni camera da letto. Di fronte a questo gigante della natura, i condizionatori e i riscaldamenti, deboli di polmoni, hanno zero chance. Nell’aprile successivo al trasloco in via Baronessa, la Poldi dovette far imbiancare tutta la casa. Dovette farlo ogni aprile, ogni anno. Gli inverni di Torre non sono uno scherzo. In compenso, sono brevi.

    Per la spesa si va al paese vicino, Riposto, o meglio direttamente al supermercato Ipersimply, dove si rimedia tutto. A Torre ormai è rimasto solo il piccolo Tabacchi del signor Busacca per i beni di prima necessità, il bar pasticceria Cocuzza con la signora triste, e un ristorante davanti al quale perfino i gatti fanno il giro largo. Però c’è una sorgente di acqua minerale, e sebbene l’impianto di imbottigliamento del porto abbia chiuso i battenti negli anni Settanta, per le mie zie il marchio Acqua di Torre resta un mito. E su uno dei muri laterali della ex fabbrica sono rimasti perfino i rubinetti di ottone da cui gli abitanti di Torre possono ancora spillare la loro acqua minerale gratis.

    «E di sapore… com’è?», chiesi alla Poldi quando mi raccontò di questo fantastico distributore di acqua minerale alla spina, manco fosse una fontanella di cioccolata.

    «Ach, terribile… ein Scheiss Wasser! Ma bisogna berla, e anche dire che è buonissima».

    Per quattro lunghissime settimane lo zio Martino, che aveva lavorato come rappresentante di casseforti e caveau per banche – attività molto redditizia – e che come esperto della Sicilia non è secondo a nessuno, aveva scarrozzato la Poldi tra Siracusa e Taormina alla ricerca di una casa adeguata. Le zie erano riuscite a convincerla a stabilirsi nel raggio di un’ora di macchina al massimo da Catania, almeno questo. Ma nessuna casa sembrava soddisfare la zia Poldi: ogni volta aveva qualcosa da ridire, anche se in realtà il criterio da soddisfare era solo uno, alquanto esoterico.

    «Sai», mi disse una volta, «è semplice, e io lo sento subito. Ci sono posti buoni, che emettono vibrazioni positive, e posti cattivi, con vibrazioni negative. La felicità ha una struttura binaria, digitale…».

    «Eh? Struttura… bi-cosa?»

    «Smettila di interrompermi in continuazione! Te l’ho detto, io lo capisco subito se un posto è buono o cattivo. Che sia una città, un palazzo, un appartamento… è lo stesso. L’energia, il karma… Se il ghiaccio reggerà, capisci? Lo sento, è facile».

    Purtroppo, però, non successe in nessuna delle case scelte dalle zie. Il ghiaccio non reggeva mai, e questo finì per sfiancare perfino lo zio Martino, uno che di solito al volante ringiovanisce. Pur odiando l’aria condizionata, rifiutandosi di bere acqua per principio anche ad agosto e fumando più sigarette di quanta aria respiri.

    Ancora me le ricordo, le gite estive con lo zio. Quando dovevo prendermi una pausa dal sole a causa della prima scottatura. Che poi… altro che gite! Erano peregrinazioni in macchina di dodici ore attraverso un inferno dantesco, l’aria incandescente come vetro fuso, senz’acqua né aria condizionata, a bordo di una Fiat Regata piena di fumo. Abbassavo il finestrino, e lo scirocco mi smerigliava la faccia, preferivo la cappa di fumo. E, per tutto il tempo, zio Martino che mi riempiva di ciance. Sulla storia della Sicilia, i pistacchi migliori, l’ammiraglio Nelson e le sorelle Brontë, la quotidianità del Medioevo, Federico II, la Vucciria, le rotte dei tonni e il sovrasfruttamento ittico per colpa dei giapponesi, i mosaici di Monreale. Ogni tanto, un commento sulle dirette di Radio Radicale dal Parlamento. E conferenze infinite sui ciclopi, i greci, i normanni, il generale Patton, Lucky Luciano e i fazzoletti di seta gialla. Sulla vera ricetta della granita, l’unica possibile. Gli angeli e i demoni, la Trinacria, la verità su Kafka e il comunismo, il rapporto tra la statura e la propensione a delinquere nelle varie popolazioni della Sicilia. Regola numero uno: più un uomo è basso, più è pericoloso… e probabilmente mafioso. Il fatto che capissi poco o nulla non lo disturbava. Il mio italiano era pessimo, in pratica conoscevo solo alcune parole ed espressioni come che schifo, allucinante, birra, con panna, boh, be’ e mah… ovvero il lessico da spiaggia dei ragazzini. A lui non importava un fico secco, continuava a macchinetta, anche quando io tacevo ormai da ore. Guidava, fumava, blaterava, più fresco e più giovane di ora in ora, come una specie di Dorian Gray siciliano. Nei rari momenti in cui stava zitto per accendersi l’ennesima MS, sussurrava il nome della moglie.

    «Teresa!».

    Così, di punto in bianco. Come se lei fosse appena spuntata dal portabagagli o da sotto il sedile e lui le dovesse dire subito una cosa importantissima.

    «Teresa!».

    A queste curiose conferme d’amore non bisognava rispondere, e una volta la zia Teresa mi spiegò che lei lo sentiva, il marito che la chiamava, sempre, a prescindere da quanto fossero lontani.

    Poi ci fermavamo di fronte a una qualche banca di provincia, un piccolo antro di freschezza, io finalmente beccavo la mia Coca-Cola e lo zio beveva un caffè con il direttore, concludeva un affare o rimetteva a posto la serratura di una cassaforte, che puntualmente dopo essere stata toccata dalle sue mani magiche si riapriva. Conosceva i trucchi del mestiere, lo zio Martino, tra cui a suo dire rientrava perfino l’andar per funghi. A ogni modo, durante quelle gite capitava anche che mi mostrasse affreschi di templari in una chiesa romanica a pianta ottagonale, gelidi passaggi segreti in fortezze arabo-normanne o stucchi osceni in palazzi barocchi. Tutte cose che aveva scoperto nelle sue traversate della Sicilia.

    Nessuno, ripeto, la conosce meglio di lui, eppure trovare una casa adatta alla Poldi mise a durissima prova il suo prezioso bagaglio di esperienze.

    «Nei primi giorni la mia tattica», mi confessò in un secondo momento, «era sfiancarla, in modo che si ammorbidisse e decidesse in fretta, magari prendendo una casa vicino alla nostra. Il caldo, tutte quelle ore in macchina, la frustrazione: era un piano di logorio perfetto. Ma niente, tua zia Poldi è indistruttibile, quella non la pieghi… un bulldozer. Sospira, impreca, con il sudore che le gocciola da sotto la parrucca come da una botte che perde, ma non molla… Madonna, io ce l’ho messa tutta, ma quella è più testarda di un mulo».

    «E quindi alla fine come l’avete trovata, la casa?»

    «Per caso».

    Silenzio, tiro di sigaretta… tiro di sigaretta, silenzio. Io muto. Anche il mio era un piano di logorio, che con lo zio Martino funziona sempre, perché lui vuole parlare, non ce la fa a stare zitto, ha sempre bisogno di comunicare qualcosa.

    «Be’, allora ascolta… Ultimo giorno, pomeriggio… cinque case appena scartate, io sull’orlo della disperazione, non sapevo più dove andare a sbattere la testa, avevo urgente bisogno di un caffè… Così al primo incrocio sono uscito dalla provinciale».

    «A Torre Archirafi».

    «Te l’ho detto, è stato un caso. Lì non dovevamo vedere nessuna casa, ma ci siamo presi questo caffè al bar, hai presente, no? Quello minuscolo con la signora triste alla cassa, e io ho iniziato a parlare con un tizio. E la Poldi? La Poldi ha cominciato ad agitarsi, voleva proseguire. Ma io non mi sono lasciato stressare, avevo bisogno di una pausa, così ho ordinato un altro caffè e ho continuato a chiacchierare con il tizio, era pure simpatico… La Poldi si è scocciata ed è uscita dal bar… ed è svanita nel nulla».

    «Svanita? La Poldi? Com’è possibile?»

    «Madonna, in senso figurato, ovvio. Insomma, non tornava, così dopo un po’ ho iniziato a preoccuparmi e sono andato a cercarla».

    Sigaretta spenta, scuotimento del pacchetto per farne uscire una nuova, accensione.

    «Ma non l’hai trovata, giusto?», chiesi per farlo tornare in carreggiata.

    «Già… davvero come svanita nel nulla, inghiottita dal paesino. Poi per strada ho incontrato il parroco e ho chiesto a lui, gli ho descritto la Poldi. Il reverendo si è subito esaltato, ovviamente. Ah, sì, la signora Poldina di Monaco di Baviera… che simpatica!. Mi conosceva per alcuni affari di famiglia, sapeva del trasloco e mi ha indicato una ex casa di pescatori proprio lì a due passi. Un rudere, lasciatelo dire, completamente diroccata, solo gatti, lucertole, spine di ginestre e fantasmi. Mi sono avvicinato, e l’ho vista… la Poldi era dentro, tutta pimpante in mezzo a quelle vecchie pareti di pietra lavica, batteva i piedi e correva da una parte all’altra come una pazza. Appena mi ha visto ha detto: Ci siamo! È questa! Questo è un posto buono! Hai visto come si chiama la via? E che vibrazioni! Solo energia positiva purissima!. Sì, mi ha detto proprio così. È questa, la mia casa è questa!. Qualunque protesta sarebbe stata vana… la conosci, no?»

    «Sì, ma la casa… era in vendita?»

    «Stai scherzando? Non hai sentito cosa ho detto?». Lo zio unì le mani a mo’ di preghiera e scosse la testa. «Era un rudere, una ro-vi-na! Certo che c’era un cartello dell’anteguerra con la scritta VENDESI, con tanto di numero di telefono, ma il proprietario quasi non ci poteva credere, quando la Poldi ha chiamato. Vabbe’, il resto della storia già lo conosci. E se vuoi sapere il mio parere, ha pagato troppo, per quella catapecchia avrebbe potuto contrattare di più e far costruire di sopra un bagno decente».

    Io non lo so se zia Poldi abbia pagato troppo per la casa di via Baronessa, ma in tutta sincerità mi è indifferente. Le persone generose non le freghi mai, e la Poldi è la persona più generosa che conosco. Non si fece regalare nulla, né tirò troppo su un prezzo. Pagò profumatamente tutte le persone che le diedero una mano: gli operai, lo Spazzi­no – come mia zia chiamava l’uomo della nettezza urbana che arrivava con l’ape a portare via i rifiuti –, Valentino… e al ristorante lasciò sempre mance consistenti. Non era una che buttava via i soldi, anche perché non è che navigasse nell’oro, diciamo che per lei il denaro non era così importante.

    Fatto sta che con quella casa ci aveva visto lungo… fece centro. Lo disse anche mio cugino Ciro, che è architetto e queste cose le sa. L’anno successivo Ciro restaurò la casa di via Baronessa secondo i desideri e i modesti mezzi finanziari della Poldi, arredandola come voleva lei. Sì, era proprio una bella casa, slanciata. Affacciata sul mare, anche se in seconda fila, non troppo piccola, non troppo grande, tre piani, balcone barocco, un piccolo cortile interno e in cima la famosa terrazza con la vista spettacolare sul mare e sul vulcano. Incassata in una via all’ombra, brillava azzurrina come i nontiscordardimé e gialla come il sole, le imposte verdi e un’enorme targa grazie alla quale i passanti già da lontano potevano sapere chi abitava in via Baronessa 29: Isolde Oberreiter, cioè mia zia Poldi. E ogni due settimane il suo nipote tedesco, cioè io. Sì, perché fin dall’inizio ho fatto in un certo senso parte degli arredi, come le statuine africane in legno d’ebano e i due barboncini di porcellana a grandezza naturale.

    Poi, quando la casa di via Baronessa fu pronta, quella di Monaco fu svuotata di ogni cosa, compresi i fantasmi del passato, e il camion si mise in viaggio verso le Alpi, gli Appennini e l’Etna, mentre la vecchia Alfa Romeo della Poldi, carica di bagagli e di benzina in Westermühlstraße, aspettava di fare la sua ultima, grande traversata. Visto che zia Poldi aveva una paura matta di volare ed era impensabile che facesse un viaggio in macchina così lungo da sola (e da sobria), le zie mi costrinsero ad accompagnarla.

    «Tanto tu il tempo te lo gestisci da solo, e di legami non ne hai», mi spiegò al telefono zia Caterina, la voce della ragione. «E scrivere puoi scrivere anche qui da noi, anzi forse anche meglio».

    Leggasi: visto che non hai uno straccio di lavoro, e nemmeno voglia di cercarlo, e neanche una fidanzata, quando gli uomini alla tua età hanno già famiglia da un pezzo, cosa cambia se ti giri i pollici lassù o qui da noi? Anzi, magari ti fa bene.

    In fondo aveva ragione.

    Prima però dovevo sopravvivere a trentaquattro ore di macchina da Monaco a Torre Archirafi con la vecchia Alfa anni Ottanta modificata, con tanto di roll-bar. Non aveva voluto sostituirla neanche morta con una Panda, ben più pratica, ma del resto la utilizzava pochissimo, visto che per farlo avrebbe dovuto essere sobria.

    «Potremmo arrivare a Genova e prendere un comodo traghetto per Palermo», provai a buttare lì esitante, attirandomi uno sguardo compassionevole. Errore mio. Avrei dovuto immaginarlo. Se c’è una parola, infatti, che la Poldi odia dal profondo del cuore, quella è comodo. Nel senso di «agevole», «da tutti».

    «Se ti sto chiedendo troppo…».

    «Ma no, zia, figurati!», risposi con un sospiro… e via, partimmo. Mai oltre i cento all’ora, ci infilammo nel tunnel del Brennero, giù lungo lo stivale, Milano, Firenze, Roma e Napoli, fino a Reggio Calabria; divorammo i primi arancini di riso a colazione sul traghetto tra Scilla e Cariddi, ovviamente a Messina ci perdemmo, e poi la Poldi insisté per guidare lei l’ultimo pezzo fino a Torre. Fece rombare la sua Alfa asmatica e diede gas. Quando arrivammo baciai la terra e ringraziai il buon Dio di avermi salvato. Come se fossi appena rinato.

    «Buon compleanno», dissi. Perché proprio quel giorno, appunto, la Poldi compiva sessant’anni.

    Ogni tanto lo zio Martino e le zie passavano a vedere come se la cavava. Come ho già detto, infatti, la famiglia aveva un piano: mantenere la Poldi in vita il più a lungo possibile, o perlomeno infonderle un po’ di voglia a dispetto della sua amarezza. E per i siciliani i pilastri della gioia di vivere sono: mangiar bene e parlare, o meglio discutere, del mangiar bene. Zio Martino, per esempio, ogni giorno se ne andava religiosamente al suo tempio, ovvero il mercato del pesce di Catania. Non proprio un posto tranquillo, piuttosto una specie di borsa che brulica di uomini nervosi e concentratissimi nel sondare la qualità e il prezzo delle merci, speculare sui filetti di tonno o lamentarsi del fatto che un pescatore sia arrivato tardi con lo spada, quando gli altri si sono già tutti sistemati, e qualcuno se lo porterà a casa a un prezzo più conveniente, e ancora più fresco delle merci fresche. Si va avanti così per ore, il che insomma proprio divertente non è. Oppure se ne andava sull’Etna con la zia Teresa in cerca di funghi. Una volta, per comprare del pane, aveva addirittura fatto il giro del vulcano, e un’altra, per delle uova, era arrivato fino a Lentini, dove c’era un’autorimessa con galline che, si diceva, facevano uova con due tuorli. La granita si poteva mangiare solo da Cipriani, ad Acireale, e i cannoli alla crema di ricotta solo da Savia, in via Etna, a Catania. Il giorno che osai esprimere apprezzamento per il marzapane della pasticceria Russo di Santa Venerina, mio zio rispose con un grugnito di disprezzo… poi però volle andare subito sul posto a verificare, per lodare infine la mia intelligenza. Le ciliegie dovevano venire da Sant’Alfio, i pistacchi da Bronte, le patate da Giarre, il finocchietto selvatico da un terreno vulcanico segretissimo dove con un po’ di fortuna si trovavano anche funghi ostrica grandi come il palmo di una mano, se prima non erano già passati i Terranova. Gli arancini di riso per forza da Urna, a San Giovanni La Punta, e la pizza dal Tocco, sotto la provinciale, dietro la Esso. Quanto ai mandarini, quelli buoni si trovavano solo a Siracusa e i fichi solo per strada, a San Gregorio, anche se chissà da dove arrivavano. Se proprio era necessario mangiare pesce al di fuori delle mura domestiche, allora si andava da Don Carmelo, a Santa Maria della Scala, che offriva, in assoluto, anche la miglior pasta al nero di seppia. La vita era complicata, il Paese stretto nella morsa della crisi e della corruzione, gli uomini vivevano dai genitori fin oltre quarant’anni, o fino al matrimonio, perché non trovavano lavoro… ma dal punto di vista culinario, non erano ammessi compromessi. Cosa che alla Poldi, godereccia e curiosa com’era, era sempre piaciuta. Aveva da ridire solo riguardo ai vini, poiché né lo zio né le zie bevevano volentieri. In generale in Sicilia non si beve molto, al massimo un goccetto durante i pasti, nient’altro. All’inizio per la nuova arrivata fu un problema, poi scoprì il reparto vini dell’Ipersimply e conobbe Gae­tano Torrisi, con la sua vigna a Zafferana. Ma forse sto andando un po’ troppo in fretta.

    La giornata della Poldi iniziava con un bel bicchiere di prosecco, per svegliarsi. A seguire, un espresso corretto, poi un bel cicchetto senza espresso. A volte, con le ondate di piena dell’amarezza, faceva una passeggiata a Praiola, una spiaggetta di ghiaia un po’ isolata. Un posto da sogno, l’acqua trasparente come il cobalto liquido e costellata di frammenti di lava lisciati dalla marea fino ad assomigliare a uova di dinosauro nere e color ruggine. Qui spesso la Poldi si ritrovava sola. Le famiglie con le radio, le ceste da picnic, le borse frigo, i salsicciotti per fare il bagno e gli occhiali da sole arrivano solo in alta stagione, lasciando in giro così tanti rifiuti che a ottobre il paradiso sembra una discarica, prima di essere ripulito dal vento invernale. Ogni tanto la Poldi metteva un piede nell’acqua, gettava in mare un uovo di dinosauro particolarmente bello per lo zio Peppe, univa le mani davanti al petto e diceva: «Namasté, vita». E poi: «Fottetevitutti».

    Verso le undici, la prima Weissbier e Gloria di Umberto Tozzi

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