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La congiura delle tre pergamene
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La congiura delle tre pergamene
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La congiura delle tre pergamene

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About this ebook

Un grande thriller storico
Tra Ken Follett e Dan Brown

Un grande thriller

«Da leggere assolutamente.»
Matteo Strukul, autore del bestseller I Medici

Firenze, 1501. Il giovane Martino, erede della ricca famiglia dei Durante, torna a casa dopo un breve e sfortunato viaggio d’affari organizzato dal suo amico banchiere Dante Strozzi. Ma un’amara sorpresa lo attende: sua moglie Aurora e il figlio di due anni, Zaccaria, sono stati rapiti da una banda sanguinaria come testimoniano i pochi sopravvissuti all’assalto nella tenuta. Ricevuta la richiesta di riscatto, Martino si mette in marcia verso Milano, non prima di aver tentato inutilmente di mettersi in contatto con messer Strozzi. Che sia stato lui a tradirlo? Lungo l’itinerario Martino, dopo aver subito un feroce agguato, viene accolto nell’abbazia di Viboldone dove padre Ludovico, vicario della confraternita degli Umiliati, lo aiuta a ristabilirsi prima di ripartire. Non solo. Gli consegna anche un misterioso testo antico che dovrà recapitare a un frate a Milano. Da quel momento l’avventura del giovane Durante si complica sempre di più. Martino vuole solo salvare la sua famiglia, ma il nemico che deve affrontare – forse una setta? – cela un piano oscuro e si annida tra le ville di ricchi signori, all’interno della Chiesa e nelle stanze del potere. Perché Martino è un loro obiettivo? Qual è la sua colpa? E cosa c’entra lui con quella pergamena piena di simboli indecifrabili?

Strani simboli nascondono un oscuro segreto
Chi riuscirà a decifrarli avrà un potere immenso

Hanno scritto di Matteo Di Giulio:

«Di Giulio è tra gli eredi di Scerbanenco.»
Il Sole 24 Ore

«Un affascinante romanzo in grado di incollarti gli occhi alle pagine. Da leggere assolutamente.» 
Matteo Strukul, autore della trilogia bestseller I Medici
Matteo Di Giulio
Nato a Milano, è scrittore, saggista e traduttore. Come critico cinematografico ha collaborato con festival e riviste italiani e internazionali. È autore dei romanzi La Milano d’acqua e sabbia (2009), Quello che brucia non ritorna (2010), I delitti delle sette virtù (2013) e Figli della stessa rabbia (2016).
LanguageItaliano
Release dateApr 5, 2017
ISBN9788822706706
La congiura delle tre pergamene

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    La congiura delle tre pergamene - Matteo Di Giulio

    parte prima

    L’addio alle radici

    I

    Firenze, 1501

    «Uno spettacolo magnifico, vero?».

    Martino annuì.

    «Non mi stanco mai di guardarlo», ribadì l’altro.

    L’alba sopra Firenze. La luce pallida che incendiava i tetti e l’orizzonte. Una città già sveglia, nonostante non fosse ancora suonata la campana dell’ora prima. Dal balcone di Palazzo Strozzi, i due uomini potevano osservare i mercanti che disponevano le merci sui banchi, il traffico di carri e cavalli attorno alle mura, le donne che andavano a prendere l’acqua. Soltanto gli ubriachi e i bambini indugiavano ancora nel sonno.

    «Ti ho mandato a chiamare», disse il banchiere padrone di casa, «perché ho da proporti un buon investimento». Martino diede le spalle alla città e si voltò verso di lui. «Come sai», proseguì Dante Strozzi, «la situazione è delicata, ma è proprio in momenti come questi che chi ha un po’ di coraggio riesce a crearsi le migliori opportunità».

    I due si conoscevano da diverso tempo ormai, fin da quando Martino era rimasto orfano.

    «Savonarola era ancora vivo quando abbiamo cominciato a fare affari insieme», disse Strozzi. Aveva i capelli bianchi che andavano ritraendosi, lasciando scoperte la fronte e le rughe, al contrario della pancia che prendeva forma tirando il farsetto. «Ma credo di aver visto giusto, con te».

    «Sono passati tanti anni», ammise Martino a voce bassa. Era pensieroso.

    Il giovane aveva rilevato le terre di suo padre e le aveva fatte fruttare. Poi era riuscito a capitalizzare i guadagni ricorrendo a tutti gli insegnamenti del tutore greco che lo aveva cresciuto. Quando quest’ultimo era tornato nella sua patria aveva conosciuto Strozzi, che lo aveva preso sotto la sua ala protettrice. Raggiunti i ventun anni aveva trovato moglie e, due anni più tardi, era divenuto padre d’un maschietto. Aveva messo radici.

    «Le responsabilità faranno di te un uomo», gli aveva ripetuto durante l’infanzia suo padre.

    Strozzi lo strappò ai ricordi. Entrò nello studio, seguito da Martino. Il banchiere prese alcune carte e le porse all’altro.

    «Parliamo di denaro».

    Martino si sentiva spesso come uno straniero in città. Dopo che Niccolò aveva lasciato la loro casa e dopo la morte della madre aveva avvertito più che mai la solitudine. Il fratello rispondeva raramente alle sue lettere. Da diversi mesi non aveva più sue notizie. Era anche grazie all’aiuto di Dante Strozzi se le cose, dopo alcune difficoltà, iniziavano ad andar bene. Alcuni terreni che aveva acquistato per pochi denari s’erano rivalutati grazie all’espansione della città e la diatriba riguardante l’eredità del padre di sua moglie, un ricco nobile della famiglia Palmieri che non aveva lasciato testamento e i cui averi erano contesi da figli, fratelli e nipoti, stava per risolversi a loro favore. Lui e Aurora non erano ricchi, ma potevano permettersi una vita confortevole. Un servitore. Diversi braccianti. Una nutrice per il figlio.

    «Di che si tratta?».

    Martino prese i documenti, ma quella mattina la sua testa era altrove e, nonostante gli sforzi ripetuti, non riuscì a concentrarsi sulle parole.

    «Guarda qui». Con il dito Strozzi indicò un sigillo in ceralacca. «Come puoi vedere c’è l’avallo dei Medici. Mentre qui», individuò un secondo foglio con un altro stemma impresso nella cera fusa, «c’è il marchio degli Sforza».

    «Firenze e Milano».

    «Esatto».

    «Non mi avete ancora spiegato perché mi avete fatto chiamare».

    «È molto semplice. Al giorno d’oggi, in cui il progresso corre veloce, qual è la merce di scambio più importante?».

    Martino fissò Dante. Era una domanda retorica, ma capì che doveva provare lo stesso a rispondere.

    «I fiorini?»

    «Sbagliato», disse sorridendo Dante. Si servì un bicchiere di vino e ne offrì uno anche a Martino. «Cosa dicevamo?»

    «Che non è il denaro».

    «No, non lo è. Sono le informazioni».

    «Cosa?»

    «Hai sentito bene. Le informazioni, oggi, contano più del denaro».

    Martino storse la bocca. Portava i capelli corti, una camicia senza farsetto e un paio di braghe di fattura semplice.

    «Ricordi quell’armatore che abbiamo conosciuto diversi anni fa? Giannotto Berardi?»

    «Il fiorentino che si è spostato a Savona per investire nei viaggi nelle Indie?»

    «Sette anni fa mi propose di mettermi in società con lui. Io non avevo abbastanza informazioni, così ho mandato un valletto a indagare, ma è tornato da Savona troppo tardi, non ho fatto in tempo ad accettare. Se avessi avuto quelle informazioni prima, ora sarei ricco».

    «Ma voi siete già ricco», ribatté Martino.

    «Lo sarei mille volte di più. Berardi è morto sei anni fa, ma i suoi soci, che continuano a viaggiare su quelle rotte, hanno decuplicato i loro capitali. Come vedi, le informazioni sono più importanti del denaro».

    Martino, che non era dotato di grande pazienza, annuì. «Messer Strozzi, vi prego. Andate al punto».

    «Sempre ansiosi, voi giovani. Abbi fede e ascoltami. Bisogna tornare indietro, ai romani. Ai loro tempi avevano messo in piedi un sistema postale di prim’ordine. Oggi, invece, con la frammentazione in vari staterelli e ducati, le comunicazioni sono pericolose e irregolari, anche quelle a breve distanza. Alcune congregazioni di frati hanno provato a imitare quell’antico sistema… e hanno ottenuto dei discreti risultati. Quello che ti propongo è di implementare un servizio di corrieri postali che garantisca la velocità e la sicurezza dei messaggi. Un servizio completo, a pagamento, che copra un territorio vasto, da Milano alla Sicilia».

    «Perché dite che è un buon affare?»

    «Molte strade sono ancora insicure e serve coraggio per percorrerle. E io conosco la tua ambizione, figliolo».

    Nonostante Martino avesse ventisei anni, una moglie e un figlio, agli occhi del banchiere era lo stesso ragazzino timido e taciturno di quando si erano conosciuti.

    «Quali sono i possibili guadagni?»

    «Così mi piaci. Parliamo di numeri. I profitti sono elevati. Proprio in questo momento, alcuni miei emissari sono in viaggio verso il regno degli Aragona, a Napoli e in Sicilia, e stanno contrattando con un funzionario dello Stato Pontificio. Se oltre al benestare di Firenze e di Milano avremo anche i loro… cosa di cui non dubito», Strozzi strofinò pollice e indice, facendo riferimento ai fiorini con cui i suoi uomini avrebbero corrotto i funzionari locali, «allora finiremo per poter girare liberamente ovunque. E, se le cose andranno bene qui, chi può dire che non ci si possa espandere anche oltre? In Francia, nei regni germanici, o addirittura in Spagna?».

    Dopo queste parole mandò giù un gran sorso di vino. Martino non l’aveva ancora toccato. «Non ho ancora capito, però, cosa ci guadagniamo», disse quest’ultimo. «Io vedo solo un’impresa rischiosa».

    «Se ogni viaggio, diciamo uno al mese, porterà molti messaggi invece di uno solo, avremo un ottimo margine di profitto, a fronte di un costo unico. E non solo missive, ma anche casse colme di oggetti, di beni, purché i nostri clienti siano così generosi da accollarsi un sovrapprezzo. Insieme al corriere vero e proprio viaggeranno delle guardie armate. In questo modo non ci sarà nessun pericolo. Più oggetti e missive porteremo a destinazione, maggiore sarà il vantaggio. Ho già diversi clienti che desiderano stringere un accordo al più presto. È un affare che va preso al volo, credimi».

    «Sapete che mi fido di voi. Mi avete sempre consigliato bene».

    «Cosa non ti convince, allora?»

    «Le rendite della mia tenuta sono sufficienti per me e per la mia famiglia».

    «Proprio per questo motivo ti conviene entrare in società con me. Un’altra fonte di ricavi aiuterà le tue finanze a crescere. Vuoi davvero accontentarti?»

    «No, non è questo…».

    «Tua moglie è di stirpe nobile, abituata a ben altro lusso. Ora hai un figlio… molte spese. Non vuoi offrire alla tua famiglia ciò che si merita?».

    Martino si carezzò la barba rada, che non nascondeva del tutto i suoi lineamenti delicati. Si morse un labbro prima di rispondere. Con quell’ultima domanda Strozzi aveva colto nel segno; e il banchiere lo sapeva.

    «Ci penserò su», disse Martino prima di bere anche lui un sorso del vino offerto.

    «D’accordo. Ma non ti posso concedere molto tempo. Un paio di giorni al massimo. Quando torneranno gli emissari con le risposte dovrai dirmi se sei dei nostri. Altrimenti cercherò un altro socio».

    Strozzi, presa una matita, scribacchiò alcuni numeri su un foglio, che poi porse all’altro.

    «Questo è quanto ci servirà per iniziare. Come vedi, non è una grande cifra. C’è soltanto da guadagnare».

    Martino intascò il biglietto senza guardarlo. Ne avrebbe parlato con Aurora e avrebbero stabilito insieme se accettare.

    Salutò il banchiere con una stretta di mano e si congedò.

    Non poteva sapere, mentre camminava verso casa, che quella decisione avrebbe cambiato per sempre le loro vite.

    II

    Nel paiolo, l’acqua bolliva.

    «Signora, lasciate fare a me».

    «No, Benedetta. Ci penso io».

    Aurora Palmieri si alzò e si avvicinò al fuoco. Lo ravvivò con un piccolo mantice, quindi immerse nel brodo alcuni pezzi di carne.

    «Hai già controllato il piccolo Zaccaria?»

    «Sì, signora», rispose Benedetta. «Dorme sereno».

    Si avvicinò al paiolo, sfilò di mano il lungo mestolo di legno ad Aurora.

    «Riposatevi un po’, signora, dello stufato me ne occupo io».

    «Non mi piace starmene con le mani in mano, Benedetta».

    «Lo so, signora».

    «E basta con tutti questi signora, te l’ho ripetuto mille volte».

    «D’accordo, sign…».

    Le due donne scoppiarono a ridere.

    Aurora prese ago e filo e si sedette a ricamare. Era più alta di Benedetta, e più slanciata. I suoi capelli color rame e gli occhi verdi erano una rarità a Firenze. Colori che avevano colpito Martino fin dal loro primo incontro. Il marito non si stancava di ricordarglielo.

    «Siete nervosa?», le chiese la serva.

    La sua padrona non era la tipica dama fiorentina. Benedetta, che aveva diciassette anni, era stata a servizio presso i Cristofano prima di essere reclutata da Martino. Aurora Palmieri era di origini nobili, eppure dal suo modo di fare traspariva una spontaneità che riusciva a mettere chiunque a proprio agio. Compresa Benedetta. Nessuno, in una qualsiasi altra dimora altolocata, le avrebbe permesso di parlare con tanta libertà, né di rivolgersi alla propria padrona in tono informale.

    «Un po’».

    Aurora si confidava spesso con lei. Il recente trauma per la morte del padre e della madre, venuti a mancare a breve distanza l’uno dall’altra per una febbre intestinale che aveva colpito anche molti dei loro servitori, le aveva scrollato di dosso quel residuo di patina altezzosa tipica degli aristocratici.

    «Posso chiedervi il motivo?»

    «Mio marito è stato mandato a chiamare, questa mattina, dal banchiere Strozzi. Spero non ci siano problemi con la riscossione dell’eredità».

    «Non si era risolto tutto?»

    «Sulla carta, sì. I miei parenti milanesi, però, non sono avversari facili».

    «Non possono certo accampare pretese. E poi dovrebbero avere rispetto per la memoria dei vostri genit…».

    Benedetta si bloccò, mordendosi la lingua. Una lacrima rigò la guancia di Aurora. La mezzana si affrettò a porgerle un fazzoletto pulito.

    «Mi dispiace, signora».

    Aurora sospirò rumorosamente mentre si asciugava il viso: «Ti ho già detto di non chiamarmi più così». Le sorrise.

    «Non volevo…».

    «Non preoccuparti. Non è colpa tua. Ma la loro perdita… è qualcosa con cui dovrò abituarmi a convivere. Hai ragione tu, i miei zii non hanno nessun diritto a tirare per le lunghe la restituzione dell’eredità di cui si sono impossessati con l’inganno. Anche se ci stanno provando».

    «Ecco, prendete un po’ d’acqua».

    Aurora accettò il bicchiere. Bevve a piccoli sorsi.

    «Spero tanto che messer Strozzi metta la parola fine a questa storia. Così potrò dimenticare. Una volta per tutte».

    Era stata una battaglia dura. L’avevano spuntata grazie al banchiere e alle sue conoscenze tra i magistrati fiorentini. E dove non arrivava l’ombra di Strozzi ci pensavano i fiorini di Martino.

    «È corruzione», aveva detto Aurora al marito, quando lui le aveva spiegato la sua strategia.

    «Una specie, sì».

    «Non so se è la cosa giusta da fare».

    «Se tuo padre voleva donare i suoi averi ai tuoi zii, lo avrebbe scritto nel testamento. Invece non ve n’è traccia. Hanno falsificato le carte. La cosa giusta è riprendersi quel denaro e usarlo per far crescere Zaccaria nel migliore dei modi».

    Aurora aveva annuito. Si fidava ciecamente del giudizio di Martino.

    Lo scabino incaricato, un lontano parente dei Medici, non aveva mai nutrito dubbi sull’esito del giudizio.

    «Forse non riscuoteremo l’intera somma, ma non vedo come non ci si possa accordare perché vi sia resa la maggior parte delle proprietà e dei beni che vi appartengono di diritto».

    Così era stato. Strozzi si era offerto come testimone dell’intesa. A giorni la controparte avrebbe versato quanto dovuto presso il Banco mediceo di Firenze, con l’ordine di trasferire il credito a Martino Durante.

    «Signora?».

    Benedetta strappò Aurora ai ricordi. La domestica stava affettando un cavolo verde. Su un’asse c’erano cipolle, aglio, una grossa rapa e molte carote.

    «Dimmi, Benedetta».

    «Lo stufato sarà pronto tra un’ora. Pensate che il signore pranzerà con voi?»

    «Sì, ne sono certa», mormorò Aurora, ancora sovrappensiero.

    Lui torna sempre da me, rifletté.

    Qualcuno poco lontano, però, la pensava diversamente.

    III

    Erano trascorse poche ore dall’incontro con il suo protetto, quando Strozzi ricevette un messaggio. Lo lesse e subito si diresse all’Orsanmichele, la loggia delle corporazioni delle arti e dei mestieri vicino al mercato vecchio.

    «È vero che Martino Durante sta per partire?».

    L’uomo che gli aveva parlato si nascondeva dietro un ampio cappello di feltro, a coprirgli la fronte e gli occhi. Il banchiere annuì.

    «Non deve tornare a casa vivo».

    Nessuno avrebbe potuto identificare lo sconosciuto, perché una maschera di legno ne celava i lineamenti. Solo s’intuiva, dietro il costume, una faccia squadrata. Strozzi arretrò d’un passo e, senza volerlo, alzò il tono della voce.

    «State scherzando? Perché?»

    «Non è una domanda cui posso rispondere. Consideratelo un ordine».

    «Di chi?»

    «Non fate l’ingenuo con me. Lo sapete bene».

    Strozzi si passò una mano tra i capelli. Era impallidito. «Ho sempre fatto ciò che mi avete chiesto, ma…».

    «Ma?»

    «Stavolta pretendete molto».

    «E molto vi offriamo in cambio».

    «Io… non so se…».

    «Cosa vi turba?»

    «Quel ragazzo… ecco, io l’ho visto crescere».

    «E ora dovrete ucciderlo. Siete al corrente di chi rappresento».

    «Lo so, avete ragione. Non fraintendetemi. Io vi devo obbedienza. La più totale».

    «E allora?»

    «Mi sembrerebbe di ammazzare un figlio».

    «Siete così legato a quel giovane?»

    «Conoscevo bene il padre».

    «Il mio padrone sa di chiedervi tanto. In cambio della vostra fedeltà vi offre le Americhe».

    «Cosa?». Strozzi si ritrovò con la bocca impastata. «Cosa intendete?»

    «L’occasione che avete perduto. A volte si può tornare indietro e prendere la decisione giusta».

    «Come fate a saperlo?».

    Il banchiere fece un passo in avanti, ma lo sconosciuto si spostò per frapporre una colonna tra di loro. Il rubino che portava all’anulare sinistro brillò. Lo smalto a forma di foglia era fissato su un anello d’oro, la pietra preziosa incastonata come un blasone. Nemmeno stavolta Strozzi riuscì a intuire il colore degli occhi del suo interlocutore: la penombra li proteggeva da sguardi indiscreti. Poco distante, i pellai e i Laudesi affollavano l’ex mercato trasformatosi in chiesa decisi a intavolare trattative.

    «Noi sappiamo molte cose».

    «Non… non capisco».

    «Giannotto Berardi. Molto tempo fa avete stupidamente rifiutato di essergli socio».

    Strozzi giocò a carte scoperte. «Sì. E ancora rimpiango quel rifiuto».

    «Potete rifarvi. Rileverete le sue rotte commerciali. I suoi soci, che ora le detengono, sono disposti a cedervele».

    «Come?»

    «Lasciate a noi questi dettagli. Il mio padrone saprà accomodare le cose al meglio. Ne dubitate?»

    «No, nient’affatto. In passato ha sempre mantenuto la sua parola».

    «In cambio però vi chiede questo sacrificio. Dovrete consegnargli un oggetto che appartiene a Martino Durante, dopo che lo avrete ucciso. Cosa devo rispondergli?».

    Strozzi soppesò le opzioni. Mise per un momento da parte i sentimenti. Se avesse rifiutato, lo avrebbero fatto ammazzare entro quella sera; e Martino sarebbe morto lo stesso, per mano altrui.

    «Non ho grandi alternative».

    «Non parlate in questo modo. Sembra che io vi stia ricattando». La voce dell’uomo dissimulò il sorriso dietro la maschera. «Invece noi vogliamo favorirvi. Desideriamo che prosperiate».

    «Che cosa cerca il vostro padrone da Martino?».

    L’uomo mascherato guardò il banchiere: «Vi sarà detto a tempo debito».

    «Forse c’è una soluzione migliore. Come sapete, il ragazzo sta partendo per un viaggio…».

    «Ditemi».

    Strozzi espose quanto aveva in mente. L’altro ascoltò in silenzio.

    IV

    Camminando lungo la via che da Santa Maria Novella portava verso le mura, Martino ripensò alle parole di Strozzi.

    Un servizio di corrieri postali.

    L’idea lo attraeva.

    Avere più affari aiuta a guadagnare denaro.

    Era una delle prime cose che aveva imparato, durante gli studi: a contrattare. Incrementare i propri averi, cogliere le occasioni giuste. Senza paura di sporcarsi le mani. Nei primi anni della sua gestione, aveva voluto imparare sulla propria pelle cosa fosse la fatica. Voleva meritarsi il suo patrimonio. Era oculato. Non invidiava quei ricchi signori che potevano permettersi tutto e subito, forse perché suo padre gli aveva insegnato a pensare con umiltà fin da quando era un bambino. L’abilità con i numeri gli era valsa numerosi incarichi in città. Lo stesso Strozzi lo aveva voluto come revisore nella sua banca, per un certo periodo di tempo. Oggi riusciva a tenere in ordine la propria contabilità e gestiva senza difficoltà gli averi della famiglia.

    Credo che abbia ragione messer Strozzi, pensò, probabilmente la sua è una buona proposta.

    Continuava a rimuginare sulle parole del banchiere. Con la sinistra giocherellava con il lungo pugnale affusolato che, nonostante ore e ore di allenamento, non aveva mai padroneggiato con la dovuta abilità. Era suo fratello Niccolò quello che eccelleva nell’arte della guerra.

    Sfoderò il kopis, lo soppesò. Lo impugnò come se dovesse attaccare, infine passò un dito sulla lama. Era la riproduzione di un’arma d’origine macedone.

    Il suo tutore, resosi conto che Martino non sarebbe mai diventato uno spadaccino imbattibile, aveva scelto per lui, tra le armi appartenute al genitore, quel pugnale lungo tre piedi, ma più facile da maneggiare; e altrettanto letale rispetto a uno stocco o a una falcata.

    Ne ricordava ancora le parole: «Il gancio sull’impugnatura rende difficile a un avversario farti saltare di mano la spada, visto che ti ostini a non alzare la difesa come dovresti».

    Il giovane continuò a camminare lungo le vie di Firenze, i palazzi affacciati sugli stretti vicoli ricoperti di terra e ciottoli di fiume. Le tettoie in legno proiettavano il buio sulle strade. Evitò un carro che si muoveva in direzione opposta alla sua, ma non riuscì a scansare un mendicante insistente.

    «Una moneta, te ne prego. Ho freddo e fame».

    Lo accontentò, sicuro che l’uomo si sarebbe bevuto la sua generosità nella prima taverna disponibile. Non metteva piede in uno di quei buchi umidi e puzzolenti da molto tempo. Erano stati la sua seconda casa quando, nei momenti di difficoltà precedenti il matrimonio, aveva avuto bisogno di confondersi con la massa per alleviare il peso della solitudine. Era un orfano e non vedeva suo fratello da troppi anni. Ma ora la sola idea di un bicchiere di terracotta sbeccata colmo di Chianti scadente gli metteva addosso la nausea.

    «Vuoi divertirti un po’?», gli chiese una prostituta seduta sui gradini che portavano a una locanda. Aprì le gambe e abbassò la scollatura per mostrare la mercanzia. Il suo sorriso era rovinato dai molti denti che le mancavano.

    Martino la oltrepassò, scuotendo la testa.

    Non era ricco, non ancora. Ma poteva diventarlo.

    Ciò che aveva a cuore era più prezioso. Aurora. Zaccaria. La sua famiglia. La loro felicità. Ma voleva essere in grado di offrir loro ogni sicurezza. Ogni lusso.

    Credo proprio che accetterò, si disse e accelerò il passo.

    Riusciva a distinguere, poco lontano, il comignolo di casa.

    Prima ancora di Aurora, fu il suo cane ad accoglierlo festante. Era un meticcio raccolto dalla strada che si era rivelato un ottimo pastore, in grado di controllare il piccolo gruppo di mucche che Martino teneva al pascolo nella tenuta. Con il tempo era diventato parte della famiglia. Correva e scodinzolava, abbaiando. Il rumore dei guaiti attirò la moglie sull’uscio. Le mani sui fianchi, lo attese sotto il portico di legno.

    «Amore mio», le sussurrò in un orecchio e la strinse a sé.

    Rimasero abbracciati per qualche secondo.

    «Cosa voleva messer Strozzi?»

    «Affari».

    «L’eredità?»

    «No. Su quel fronte mi ha rassicurato».

    Lei sorrise, visibilmente sollevata.

    «Di cosa si tratta?»

    «Te ne parlo appena mi fai togliere di dosso questi vestiti impolverati», finse di rimproverarla Martino, spingendola in casa. Aurora si unì alla risata.

    «Come vanno le cose qui?», chiese lui, mentre si sfilava gli stivali e appoggiava il kopis sul tavolo.

    «Tutto sotto controllo, signore», s’intromise Benedetta. Le piaceva l’atmosfera serena di quella casa.

    «Non chiamarmi signore, mi fai sentire vecchio».

    Aurora e Martino risero. La servitrice arrossì leggermente prima di tornare al paiolo e al pranzo.

    Martino accompagnò il cane nella sua cuccia e ne approfittò per uscire dalla porta sul retro e controllare le terre, gli animali e i tre braccianti che faticavano per loro.

    «Signore», disse Fernando. Era il più taciturno, ma un gran lavoratore.

    Martino si portò la mano alla fronte per salutarlo.

    «La cena sarà pronta tra poco», gli disse. «Come andiamo con il raccolto?».

    Anche l’usanza di invitare i lavoratori a mangiare alla tavola dei padroni era insolita. Ma era così che Martino voleva la loro famiglia: unita e allargata. Serena.

    «Bene, signore. Mio figlio oggi ci ha dato una mano a riparare il pozzo».

    Martino diede una pacca a Lorenzo. Diciassette anni, due occhi furbi color del cielo. Il padre, rimasto vedovo al momento del parto, l’aveva chiamato così in onore del Magnifico. «L’unico vero signore che abbiamo avuto», ripeteva, pensando al passato. «Altro che quei buoni a nulla che sono venuti dopo».

    Nemmeno Martino nutriva grande stima per l’attuale governo repubblicano, nato da grandi promesse sulla scia di Girolamo Savonarola ma che, dopo pochi anni, aveva perso la sua natura ed era ormai basato soltanto sulla paura e sul potere dei banchieri. Si vociferava che Giuliano, duca di Nemours, figlio di Lorenzo, in esilio a Venezia, potesse tornare a reclamare la guida della città.

    «Fino a che non ci sarà un vero Medici, meglio tenerci quelli che sono su ora. Quello là non vale un decimo di suo padre», diceva sempre Fernando.

    Vennero anche Saverio e Rodolfo a salutarlo. Avevano le maniche delle camicie sporche di terra. Il primo poteva passare per il padre di Martino. Attempato, dal fisico robusto. Guance rosse e fronte sudata. Il secondo era più giovane, con le braccia muscolose e la pelle indurita dalle ore trascorse a zappare sotto il sole.

    «Siamo in anticipo sui tempi. Quest’anno ci darà un buon raccolto», disse Saverio.

    Martino strinse la mano a tutti e tre

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