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I 50 delitti che hanno cambiato l'Italia
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I 50 delitti che hanno cambiato l'Italia

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La storia dell’Italia è stata più volte segnata da delitti che non sono rimasti semplici fatti di cronaca ma hanno scosso tutta l’opinione pubblica e in alcuni casi hanno rappresentato svolte cruciali. Luca Steffenoni, esperto di criminologia, descrive un secolo e mezzo di delitti famosi, risolti, finiti in clamorosi errori giudiziari o tuttora avvolti nel mistero. Dal primo grande processo penale ad Antonio Boggia, a pochi mesi dall’Unità, conclusosi con l’ultima condanna a morte, all’attentato a re Umberto I nel 1900; dal delitto Matteotti nell’epoca fascista agli “incidenti” mortali di Enrico Mattei e Giangiacomo Feltrinelli; dagli attentati mafiosi a Peppino Impastato, Falcone, Borsellino, ai casi di cronaca nera più legati alla sfera familiare: nel lontano passato, ad esempio, il caso della contessa Lara o lo scandalo del secolo legato al nome di Wilma Montesi; ai giorni nostri Erica e Omar, Cogne, Erba. Nella società poi si è andato sempre più affermando il principio per il quale non è la morte in sé a fare notizia, ma l’ambiente nel quale essa matura, e la sua successiva ricostruzione mediatica.

Cinquanta delitti che aiutano a conoscere meglio il nostro Paese.

Il sangue che ha segnato la storia italiana

Non ricordare sarebbe un altro delitto

Tra i 50 delitti raccontati nel libro:

• 1861 - Antonio Boggia, il mostro di Milano
• 1909 - La morte di Giuseppe Joe Petrosino
• 1939 - La vera storia della strega di Correggio
• 1950 - La morte del bandito Giuliano
• 1953 - Il caso Wilma Montesi
• 1971 - Il tragico rapimento Sutter
• 1975 - La morte di Pasolini
• 1990 - Il giallo di via Poma
• 1992 - La strage infinita: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino
• 1994 - La dark lady di via Montenapoleone
• 1997 - L’omicidio della Sapienza
• 2001 - La strage di Erika e Omar
• 2002 - Il delitto di Cogne
• 2011 - Il delitto nel bosco: l’omicidio di Melania
Luca Steffenoni
Criminologo e scrittore, svolge la sua attività di studioso e consulente in collaborazione con enti e istituzioni nazionali e comunitarie. È stato redattore della rivista «Delitti & Misteri» e presidente della società di counseling Psicologia & Benessere. Ha pubblicato Cronache Vere. Artisti, scrittori e musicisti invischiati nel mondo del crimine; Presunto colpevole; Nera. Come la cronaca cambia i delitti; Melania Rea. L’assassino alle spalle; Psyco Mappe. Due viandanti persi tra arte e delitti milanesi. È ospite di trasmissioni televisive e radiofoniche.
LanguageItaliano
Release dateNov 22, 2016
ISBN9788854187122
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    I 50 delitti che hanno cambiato l'Italia - Luca Steffenoni

    349

    In questa ricostruzione si fa riferimento a varie inchieste giudiziarie,

    alcune delle quali sono ancora in corso. Il volume ricostruisce vicende

    di cronaca nel massimo rispetto dei principi di verità, continenza

    e pertinenza. Tutte le persone coinvolte o citate a vario titolo,

    anche se condannate nei primi gradi di giudizio, sono da ritenersi

    penalmente innocenti fino a sentenza definitiva.

    Prima edizione ebook: novembre 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-8712-2

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Luca Steffenoni

    I 50 delitti che hanno

    cambiato l’Italia

    1

    1861. Antonio Boggia,

    il mostro di Milano

    Il 18 novembre 1861 si apre il processo al mostro che ha ucciso quattro persone occultandone i resti in cantina. È il primo grande processo penale a pochi mesi dall’Unità d’Italia e sarà l’ultima condanna a morte fino alla reintroduzione sancita da Mussolini nel 1926.

    Ogni biografia, anche quella di coloro che si disinteresserebbero volentieri dei rivolgimenti storici e politici, è profondamente legata agli episodi che, giorno dopo giorno, granello dopo granello, edificano la cornice dell’agire. Pochi anni in più o in meno in una vita possono fare una bella differenza. Figuriamoci nel delitto.

    I misfatti di Antonio Boggia, più comunemente chiamato il mostro di Milano e la sentenza che l’ha condannato all’ultima pena capitale comminata in Italia fino al 1926, sono la prova di quanto spesso la cronaca nera comune e i fatti più squisitamente storici vadano a braccetto, influenzandosi vicendevolmente.

    Nato a Urio sul lago di Como, nel 1799, il Boggia non si può certo definire un galantuomo. Non era ancora giunto al ventesimo compleanno quando aveva abbandonato il Lombardo-Veneto governato dagli Asburgo per scappare nel vicino regno di Sardegna, inseguito da numerose denunce per truffa e da una corposa risma di cambiali non onorate.

    Spostare la residenza in un piccolo comune vicino a Novara non aveva tuttavia portato un gran giovamento al carattere del giovane Antonio e nemmeno alla sua posizione giudiziaria. All’età di venticinque anni, i guai si erano ripresentati sotto forma di una condanna per rissa e di una, ben più grave, per tentato omicidio, reati che avevano fruttato una pena di quattro anni di reclusione nelle carceri savoiarde. Ne sconterà di meno, riuscendo a evadere, per riparare nuovamente nel Lombardo-Veneto, attratto questa volta dall’anonimato della grande città.

    Milano, ignara dei suoi trascorsi, lo accoglie a braccia aperte, anche perché l’uomo è di un’intelligenza vivace. Durante il soggiorno in terra piemontese non è stato con le mani in mano e, oltre ad aver imparato il mestiere di muratore, ha approfittato dell’amicizia carceraria con un militare austriaco per acquisire qualche rudimento della lingua tedesca. Grazie a queste conoscenze riuscirà a farsi assumere a palazzo Cusani, sede del governo austriaco, in qualità di fochista, divenendo presto lo stimato responsabile del complesso sistema di riscaldamento, dal quale dipendeva gran parte del comfort della guarnigione durante i freddi mesi invernali.

    Quando non lavora a palazzo, il Boggia si occupa dello stabile di via Nerino 2 nel quale abita. Gli errori di gioventù sembrano superati, sepolti sotto migliaia di carte vergate dallo stemma dei Savoia, custoditi da tribunali che non hanno alcun interesse a collaborare con quelli lombardi. Il Boggia trovò anche il tempo per sposarsi e per restare presto vedovo, con un bel gruzzoletto di rendita proveniente da alcuni boschi appartenuti alla moglie.

    Ma ancora una volta il destino sembrava voler sconvolgere la sua apparente tranquillità. Mentre si avviava serenamente ai cinquant’anni, le monarchie europee rimescolarono le carte geografiche, annettendo Milano e tutta la Lombardia al Piemonte. In sostanza era scappato da una parte per ritrovarsi i persecutori sotto casa.

    C’è un’altra data significativa nel suo percorso: il 17 giugno 1859 a palazzo Cattaneo, viene istituita l’Arma dei Carabinieri che avrà tra le altre incombenze quella di reprimere il crimine comune.

    Il 26 febbraio 1860, negli austeri uffici di via della Moscova, si presenta un certo Giovanni Mourier, decoratore e artista di poca fama, figlio della proprietaria dello stabile di via Nerino nel quale abita Antonio Boggia, per denunciare la scomparsa della madre, Ester Maria Perrocchio di settantasei anni che, da mesi, non dà più notizie di sé.

    Come se ciò non bastasse, portavoce e amministratore dei molti beni della signora si è autonominato Antonio Boggia che, da factotum, si è trasformato in despota degli affittuari, ai quali ha indebitamente raddoppiato il prezzo dell’affitto.

    Il fochista, ormai in pensione, viene immediatamente convocato in caserma dove spiega che la Perrocchio, prima di ritirarsi nel Comasco, gli aveva lasciato regolare procura, controfirmata da un notaio locale, insieme alla richiesta di non rivelare il luogo del proprio soggiorno.

    I carabinieri si ritennero soddisfatti delle spiegazioni. Non altrettanto un certo giudice Crivelli, il quale volle vederci un po’ più chiaro sobbarcandosi un supplemento d’indagine.

    Non ci volle molto per scoprire i trascorsi piemontesi del Boggia. Non solo. Si scoprì anche un ulteriore tentativo di omicidio, risalente al 1851, ai danni di un tale Comi al quale l’amministratore di via Nerino, in preda a un raptus apparentemente inspiegabile, aveva tirato addosso un cuneo di legno normalmente utilizzato per spaccare la legna, prima di brandire una scure e cercare di farlo a pezzi.

    Un altro precedente, dunque, rimasto sommerso tra le carte della ormai disciolta Guardia di Pubblica Sicurezza, che aveva causato al Boggia un periodo di internamento alla Senavra, una sorta di manicomio per soggetti ritenuti violenti o alcolizzati.

    Il giudice Crivelli ascoltò per primo il notaio Bolza, garante della procura, con ufficio a Como. Questi, con molto imbarazzo, confessò di aver chiuso un occhio sulla capacità di intendere e di volere della signora presentatasi nel suo studio insieme al beneficiario.

    Qualche cosa non quadrava. Iniziò a quadrare quando il giudice scoprì che il sospettato aveva un’anziana cugina ricoverata per demenza senile in un ospizio e che questi, proprio il giorno della firma sulla famosa procura, l’aveva prelevata e accompagnata a fare una bella gita sul lago.

    A tutto ciò andava aggiunto che alcuni inquilini di via Nerino avevano visto il Boggia armeggiare in un magazzino dell’adiacente via Bagnera con sacchi da muratore, mattoni e sabbia. Non restava che dare un’occhiata al polveroso locale.

    Una nicchia murata di fresco risuonava stranamente vuota. Il corpo dell’anziana donna apparve all’improvviso: un tronco privo di gambe, che reggeva in braccio la propria testa orrendamente mutilata. Mentre la folla si radunava davanti allo stabile nel quale l’assassino attendeva la sua sorte, i carabinieri diedero un’occhiata nell’appartamento. Le sorprese non erano finite. Da una scrivania emersero altre due procure sospette.

    La prima, datata marzo 1849, riguardava un certo Angelo Serafino Ribbone, manovale e compaesano di Urio che, come risultò da alcune testimonianze, aveva per un certo periodo lavorato con il Boggia e del quale, naturalmente, si erano perse le tracce.

    Il foglio di carta bollata autorizzava il Boggia a prelevarne gli averi custoditi da un’anziana parente sotto il fatidico materasso.

    Bisognava, dunque, aprire una nuova inchiesta e sobbarcarsi un altro viaggio, questa volta fino a Urio, dove l’anziana donna viveva.

    Al giudice Crivelli la contadina spiegò che il Boggia si era effettivamente presentato a casa sua munito di una carta scritta, ma che lei non era certo caduta nel tranello. Intanto, perché non sapeva leggere e dunque della procura non sapeva che farsene; in secondo luogo, perché la logica le diceva che, se il legittimo proprietario avesse desiderato riavere i propri soldi, sarebbe venuto lui stesso a reclamarli e non avrebbe mandato quello sconosciuto signore di città. Tanta arguzia tuttavia era servita a poco, giacché il delegato si era presentato davanti all’uscio, scortato da due carabinieri della locale caserma, che le avevano intimato di consegnare tutto il denaro richiesto.

    Nella casa del Boggia c’era un’altra procura. Riguardava Pietro Meazza, capostipite di una celebre famiglia milanese, che aveva una bottega di viti, chiodi, bulloni e attrezzi vari, in via San Sisto. Si trattava di una procura a vendere l’attività commerciale e i muri del negozio.

    Tra l’acquisto di una cazzuola e l’altra, il funambolico fochista l’aveva convinto che, grazie alle sue conoscenze, non avrebbe avuto difficoltà a trovare chi rilevasse tutto il pacchetto. Per esempio conosceva un certo Angelo Serafino Ribbone che sicuramente si sarebbe procurato il contante per acquistarlo a buon prezzo.

    Messi insieme tutti i tasselli dell’inchiesta, al giudice non restava che l’ingrato compito di restituire i cadaveri alle loro famiglie. Dagli abitanti del quartiere si venne a sapere che il Meazza possedeva anche una cantina, ubicata nell’ormai famosa via Bagnera, nella quale teneva il carbone. Naturalmente aveva dato le chiavi all’improvvisato agente immobiliare, affinché la facesse visionare a ipotetici clienti. Era la traccia che il giudice attendeva.

    Con un nutrito gruppo di carabinieri, improvvisatisi operai, aprì l’antro dell’orco, sicuro che quei muri nascondessero la tomba dei due sventurati. Le sorprese non erano ancora finite.

    Il Boggia questa volta aveva tralasciato i muri per concentrarsi sul pavimento, sotto il quale aveva ricavato uno spazio sufficiente per nascondere i corpi delle sue vittime, ricoprendo il tutto con assi e sabbia compressa. Il risultato del sopralluogo fu la scoperta che al posto dei due cadaveri ve n’erano tre. Un morto misterioso si aggiungeva al Ribbone e al Meazza e dargli un nome non appariva così semplice.

    Nemmeno si poteva confidare sull’aiuto del Boggia che, rinchiuso a San Vittore, interpretava benissimo il ruolo del pazzo, unico modo per risparmiarsi la corda del boia. Girava nudo per la cella, alternava salmi biblici a parole senza senso, si diceva posseduto dal demonio, parlava di una voce interiore che gli aveva intimato di uccidere. Insomma, le provava tutte, ma senza un gran successo.

    Ormai il dottor Jekyll milanese era sulla bocca di tutti e i cittadini che avevano un parente o conoscente che risultasse irreperibile, facevano la coda davanti a palazzo Cattaneo per fornire elementi utili a identificare il cadavere misterioso.

    Tra le tante segnalazioni ne arrivò una interessante. Un uomo, che conosceva bene il Boggia, era sicuro di averlo visto al Monte di Pietà in occasione di un’asta giudiziaria in compagnia di un altro conoscente, tale Giuseppe Marchesotti, commerciante di granaglie all’ingrosso.

    Guarda caso, il 15 gennaio 1860, la madre di quest’ultimo aveva sporto denuncia per la sua scomparsa. Prima di svanire nel nulla l’uomo aveva però prelevato i suoi beni dalla banca e aveva confidato alla donna di avere un buon affare in testa. Testa che, sospettavano gli inquirenti, era poi rotolata in via Bagnera. Tutti i tasselli finalmente erano al loro posto.

    Date le premesse, il processo, iniziato il 18 novembre 1861, fu solo una formalità e un vero spettacolo per i pochi che, messisi in coda fin dalla notte precedente, erano riusciti a conquistare un posto in prima fila nell’aula giudiziaria.

    Dopo soli cinque giorni di dibattimento la Corte lesse il fatidico verdetto: pena di morte mediante impiccagione.

    Prima di mettere la parola fine alla vicenda del mostro della Bagnera, come ormai tutti chiamavano Antonio Boggia, c’era però un ultimo problema da risolvere: in città mancava un boia. Per la verità, la legge ne richiedeva ben due, nel caso uno, per scrupolo o per malessere, si fosse trovato sul più bello nell’impossibilità di aprire la fatidica botola. Dopo varie ricerche si trovarono due professionisti, uno di Torino e uno di Parma e fu possibile procedere all’esecuzione.

    All’alba dell’8 aprile 1862 una folla di curiosi, sfaccendati e fieri giustizialisti fecero da corteo al carro che usciva dal portone del carcere di San Vittore per portare il condannato al patibolo, posto in un terreno pubblico adiacente i Bastioni tra porta Ludovica e porta Vigentina. La stampa e, in particolare, il quotidiano «Lombardia», deprecò per lungo tempo quello spettacolo pubblico ritenuto ormai obsoleto e distante dalla sensibilità postilluminista che faticosamente stava facendosi strada nel Paese. Forse anche questo contribuì all’abolizione della pena di morte, decretata il mese successivo. Ormai però era fatta. Corpo e testa del Boggia presero due strade diverse. Il primo fu sepolto, il cranio invece fu affidato agli studi di Cesare Lombroso che, dopo averlo messo in formalina, si dedicò con cura ai suoi studi frenologici dai quali trasse la conferma delle teorie circa il delinquente nato.

    2

    1896. La contessa Lara

    La morte di Evelina Cattermole, nobildonna romana, poetessa, scrittrice e firma del «Corriere della Sera». Lo scontro tra la Roma umbertina e quella trasteverina in un caso giudiziario che ha appassionato milioni di italiani.

    Non tutti i delitti diventano cronaca nera. Solo una minima parte delle violenze che inevitabilmente accadono in ogni periodo storico si trasforma in narrazione e resta impressa nella memoria collettiva.

    Perché questo processo avvenga sono necessari vari ingredienti, assai mutevoli nel tempo.

    Spesso l’appeal di un crimine è determinato più che dal fatto in sé, dalla sua collocazione sociale. Il delitto è tutt’altro che asettico, non avviene in una bolla di irrazionalità e raptus come spesso tendono a farci credere, ma è strettamente connesso con ciò che lo circonda e a volte è la cornice, più che il quadro, a stimolare curiosità e fantasticherie. È ciò che è successo nel primo decennio del XX secolo, quando un mondo fatto di ville, grandi alberghi, casinò, salotti letterari, vacanze spensierate tra città d’arte e località alla moda, si pone improvvisamente al centro dell’interesse popolare, proprio grazie al delitto.

    Complici gli afflati neoromantici, il regno si riempie di belle contesse e di baronesse dal grilletto facile, di aristocratici inclini all’assassinio del rivale, di marchesi con molti grilli per la testa, di torbide e complesse vicende, nelle quali amore e passione nascondono intrighi politico-finanziari degni dei nostri giorni. Sono gli anni dell’omicidio del conte Francesco Bonmartini a Bologna, dell’affaire veneziano della contessa Tarnowska, del tragico assassinio della contessina Giulia Trigona, per mano del suo amante, barone Vincenzo Paternò.

    Per ritagliarsi un posto nella storia del delitto, la nobiltà certamente aiuta, ma non è sufficiente.

    Uno degli elementi al quale i nostri bisnonni non potevano rinunciare era il pathos di un fatto criminale. Amore e morte, melodramma e tragedia, dovevano fondersi in un magico rituale per scatenare la partecipazione emotiva del pubblico, trasformando il fatto di sangue in scontro tra innocentisti e colpevolisti, in infiniti dibattiti in punta di penna tra i giornalisti dell’epoca e magari in qualche shock alla lettura dei quotidiani.

    Il primo caso urlato a pieni polmoni dagli strilloni è l’assassinio di Evelina Cattermole, poetessa e scrittrice quarantasettenne di una certa fama e di ampie ricchezze, meglio conosciuta con il nome d’arte di contessa Lara. Il 30 novembre 1896 in un appartamento romano di via Sistina 27, viene ferita da un colpo di arma da fuoco all’addome. Morirà due giorni dopo, non prima di aver fatto una deposizione nella quale accusava Giuseppe Pierantoni, pittore dalle scarse fortune ma di rara bellezza, nonché suo giovane amante, di averla colpita a morte, non per gelosia come insisterà lui, ma per il timore di essere abbandonato perdendo così un mucchio di quattrini.

    Se poi si aggiunge che la donna denunciò anche un tentativo di violenza carnale da parte del Pierantoni, si può capire come il caso fosse destinato a entrare di gran carriera nel gossip di fine secolo. Sesso, differenza d’età, soldi, melodramma (durante il processo il Pierantoni cercò, come ultima difesa disperata, di attribuire la sua azione al grande turbamento provocato nella coppia da una rappresentazione della Carmen di Bizet), c’erano tutti gli elementi per far sopravvivere il caso ben oltre la condanna a 11 anni e 8 mesi inflitta all’assassino.

    Era stata una giovane di ottime speranze, Evelina. Era nata a Firenze nel 1849 da un padre esule scozzese, che le aveva subito imposto un’educazione internazionale, e da una madre, Elisa Sandusch, che le aveva trasmesso l’arte della musica e la passione per lo scrivere. La famiglia di origine era borghese e in verità poco benestante, ma la fresca bellezza della ragazza le aveva aperto ogni porta nel bel mondo aristocratico. Bionda con grandi occhi blu e carnagione diafana, alta e sottile secondo i dettami estetici del tempo, non lasciava certo indifferenti gli uomini, più sensibili al suo fascino che alle sue prime fatiche letterarie.

    Inevitabile che prima o poi incontrasse il suo principe azzurro, nelle vesti del bel tenente, conte dei marchesi di Fusignano, Francesco Eugenio Mancini, che la sposò il 5 marzo 1871 donandole, in un colpo solo, titolo nobiliare, notevole rendita e accesso illimitato a ogni circolo letterario nella Milano che aveva scelto come dimora.

    Frequentando il celebre salotto della contessa Maffei, Evelina incontrò Boito, Fontana e Cameroni, esponenti della Scapigliatura milanese, che la sollecitarono a proseguire nella sua attività di poetessa e scrittrice. Iniziò a pubblicare le sue opere, giudicate per la verità un po’ zuccherine dai critici, a scrivere romanzi d’amore e a collaborare con il «Corriere della Sera» in una rubrica fissa che si occupava di moda e del bel mondo.

    Il temperamento romantico della contessina era però destinato a giocarle brutti scherzi. Il 26 maggio 1875, il conte Mancini, svegliatosi improvvisamente dalla pennichella pomeridiana, chiese della moglie, uscita di casa senza preavviso, cosa assai rara per l’epoca. Sospettoso e adirato mise alle strette la servitù, fino a quando la cameriera personale della contessa, tale Giuseppina Dones, iniziò a balbettare di una garçonnière in via dell’Unione, a pochi passi da palazzo Mancini. Il conte, armato di spada d’ordinanza, corse sul luogo in tempo per sorprendere la moglie avvinghiata al suo caro amico d’infanzia Giuseppe Bennati di Baylon. Uno scandalo del quale si parlerà per decenni.

    L’indomani all’alba, come da tradizione, in un bosco nei pressi di Bollate, marito e amante di Evelina si sfidarono a regolare duello. La rabbia non fermò il conte Mancini, ottimo spadaccino, che ebbe la meglio, colpendo a morte l’avversario. La tragedia non era ancora finita. Mentre il giorno dei funerali di Giuseppe Bennati, la povera cameriera, in preda al rimorso, si suicidava ingerendo del veleno per topi, a Evelina Cattermole giunse l’atto di separazione firmato dal notaio di casa Mancini.

    Reietta dalla società meneghina, senza più soldi e senza lavoro, la ventiseienne si trasferì a Firenze.

    Paradossalmente, la tragedia e il bisogno avevano migliorato il suo stile letterario. Scelse lo pseudonimo di contessa Lara, vezzosamente ancorata a quel titolo nobiliare che aveva ormai perso e si mise a scrivere con più intensità, ricevendone in cambio qualche soddisfazione economica. Lentamente la situazione migliorò. La fama del suo passato le aprì di nuovo le porte dei salotti e l’editore Angelo Sommaruga le firmò un buon contratto per l’esclusiva dei suoi romanzi avventurosi e romantici. Trasferitasi a Roma trovò un nuovo compagno, questa volta estraneo alla nobiltà, che le permise di vivere agiatamente, dedicandosi in modo esclusivo all’arte.

    Il destino di Evelina Cattermole non era evidentemente la stabilità. Dopo dieci anni di vita insieme, ritenne di averne abbastanza e dal novembre del 1894 dedicò le sue attenzioni, prontamente corrisposte, a un giovane illustratore della «Rivista Italiana», con la quale lei collaborava. La differenza d’età non la spaventava. Aveva ormai quarantacinque anni, la contessa Lara, il suo fascino, per i canoni dell’epoca, era forse un po’ appannato, ma questo non le impedì di intessere una relazione turbinosa, fatta di sensualità, ma anche di frequenti liti e di forsennate gelosie, con l’allora ventinovenne Giuseppe Pierantoni, da tutti ritenuto tanto bello quanto squattrinato.

    Nell’estate del 1896 una nuova svolta amorosa. Evelina Cattermole, sempre più inquieta, abbandona Giuseppe per un viaggio in apparente solitudine. Si reca in Liguria, a Santa Margherita, ma qui avviene un nuovo incontro. Sul treno che la conduce in vacanza, inesorabilmente attratta dalle divise e dalla gioventù, incontra un ufficiale di marina, Ferruccio Battali, di soli ventiquattro anni. È un nuovo colpo di fulmine. Alla fine di un’estate infuocata dalla passione, Ferruccio le regala, come pegno d’amore, una piccola pistola da taschino con calcio in madreperla. Tornata nella capitale con l’intenzione di chiudere la relazione con il Pierantoni e di preparare la propria abitazione per l’arrivo del nuovo amante, il 30 novembre, nel palazzo di via Sistina 27, la contessa Lara affronta il fatidico chiarimento.

    Inevitabilmente, le versioni da questo punto divergono e a nulla varrà il tentativo fatto dalla Corte d’Assise per stabilire cosa sia accaduto in quella lontana sera di un autunno romano.

    Ecco il racconto del Pierantoni: «Ho sparato alla contessa, è vero, ma l’ho fatto perché accecato dalla gelosia, umiliato nel grande amore che provavo per lei. È stato un incidente. La pistola era sul comodino, io la brandii per minacciare, più che per colpire. Ma Evelina mi si è aggrappata al braccio, forse pensando che volessi farla finita. Il colpo è partito accidentalmente»¹.

    E quello del medico legale: «Il colpo esploso dal Pierantoni ha perforato l’addome della Cattermole, senza tuttavia provocarne la morte. L’evento luttuoso si è verificato solo in seguito a peritonite sopraggiunta durante il ricovero»².

    Diversa la versione della principale testimone, la cameriera Luisa Medici: «Sentii le urla della contessa, accorsi e vidi la signora che premendosi una mano sul ventre gridava Assassino, assassino, l’hai fatto solo per interesse… per interesse»³.

    Così come quella di un’altra testimone, amica del cuore di Evelina, la giornalista di moda Olga Ossani, che avrebbe raccolto le ultime confidenze della moribonda nel letto d’ospedale: «Non l’ha fatto per gelosia, l’ha fatto solo per denaro. Volevo rompere questa relazione già da tempo, ma ogni volta erano ingiurie, minacce, violenze»⁴.

    Infine la versione del Tribunale di Roma che il 3 novembre 1897, davanti a un’enorme folla di cronisti, giunti anche dalla Francia e dall’Austria, condanna definitivamente il Pierantoni per omicidio preterintenzionale alla pena di 11 anni e 8 mesi di reclusione.

    Pena mite, dovuta all’abilità dell’avvocato Salvatore Barzilai, principe del foro capitolino, nel coinvolgere i cronisti, prima che i giudici, con una campagna di stampa che faceva intuire i prodromi di una lotta di classe in salsa romana: la frivola e immorale aristocratica, amante ingrata e dispotica, fedifraga come si scriveva pudicamente sui giornali dell’epoca, con un’insana passione per corpi freschi di gioventù, contro quella del proletario «povero figliolo che Evelina aveva illuso strappandolo dal suo ambiente naturale con immonde quanto illusorie blandizie».

    I palazzi della Roma umbertina contro la città trasteverina, i giornali colti, «Il Mattino» e «La Tribuna» dai quali Matilde Serao e Giovanni Verga, amici giovanili della poetessa, chiedevano il massimo della pena, che incrociavano la penna con il più popolare «Vita italiana» e con il socialista «Avanti!» che, illuminato dal sol dell’avvenire, prendeva le parti del pittore squattrinato, in uno scontro destinato a giungere al più classico dei compromessi.

    Un intervento decisivo in difesa del giovane venne da una delle firme più illustri tra i collaboratori di quest’ultimo, nel quale, accanto a Filippo Turati, Claudio Treves e Edmondo De Amicis, scriveva il solito Cesare Lombroso che, misurato il cranio dell’imputato, aveva dedotto che l’uomo fosse troppo caruccio per essere un vero assassino, salvandolo così dall’ergastolo.

    ¹ S. Barzilai, Arringhe penali, Curcio Editore, Milano 1925, p. 72.

    ² F. Liuzzi, Il processo della contessa Lara, Corbaccio, Milano 1938, p. 40.

    ³ S. Barzilai, Arringhe penali, cit., p. 72.

    Ibidem.

    3

    1900. L’attentato a re Umberto I

    Preceduto nel 1879 dal primo tentativo di regicidio a opera dell’anarchico Giovanni Passannante, l’attentato di Monza segna l’ingresso nel nuovo secolo e modifica profondamente gli assetti politici italiani.

    Tre proiettili che partono da lontano quelli esplosi, il 29 luglio 1900, dalla Harrington & Richardson calibro 32 dell’anarchico Gaetano Bresci all’indirizzo del re d’Italia Umberto I. Con tutta probabilità, il regicidio più famoso nella storia della Penisola, ha le sue radici molto distanti dalla Villa Reale di Monza, teatro dell’omicidio.

    È il 6 marzo 1879 quando, di fronte ai giudici dell’Alta Corte, sfila un uomo già prostrato nel fisico e nell’animo: Giovanni Passannante, cuoco di Salvia di Lucano, poverissimo paese in provincia di Potenza. Ha solo trent’anni, ma dopo quattro mesi di cella e di violenza sembra un vecchio. L’accusa è terribile: tentato regicidio.

    È lui l’uomo che, pochi mesi prima, per la precisione il 17 novembre 1878, è salito sul predellino della carrozza reale mentre Umberto I e la moglie, regina Margherita, sfilavano per le vie di Napoli, e ha sferrato un colpo di lama al re in persona.

    L’esito di quella coltellata era stato ben poca cosa, limitandosi a una ferita superficiale sul braccio destro, ma le conseguenze per colui che inneggiava ai principi libertari e alla lotta di classe erano state tremende. Mentre il Paese sprofondava in una sorta di furore verso gli anarchici, bastarono dieci minuti di un processo farsa per condannare a morte l’attentatore. L’anarchico, però, non verrà impiccato e nemmeno fucilato. Purtroppo, viene da dire, era intervenuta la grazia del re in persona che aveva tramutato la pena capitale in una orrenda agonia che durerà tre decenni. Il regicida verrà gettato in una cella del carcere di Portoferraio, in realtà una buca sotto il livello del mare, buia e umida, senza alcun servizio igienico, legato a una catena di diciotto chili. Per due anni i suoi carcerieri si limitano a gettargli un tozzo di pane e a calargli la brocca dell’acqua da un’inferriata, senza mai accertarsi delle sue condizioni. Nessuna pietà umana. Non c’è da stupirsi che la tortura abbia fiaccato in breve tempo l’animo ribelle del malcapitato destinandolo alla pazzia. La vendetta dei Savoia non si placherà di fronte alle innumerevoli prese di posizione di politici, intellettuali e giornalisti, pur lontani da qualsiasi simpatia per l’internazionalismo anarchico. Dopo pochi anni Passannante diverrà cieco, le sue condizioni fisiche e psichiche incurabili. Come se tutto ciò non bastasse, la furia della monarchia sabauda non risparmiò i familiari e chiunque avesse avuto anche un minimo contatto col regicida. Il sindaco di Salvia di Lucano dovette andare a implorare la clemenza reale per il paesino che rischiava di essere raso al suolo; le milizie lo risparmiarono, ma in segno di penitenza dovette cambiare nome in Savoia di Lucania, nome che conserva tristemente ancora oggi. Il fratello di Giovanni, Giuseppe Passannante, e i due anziani genitori vennero prelevati dai carabinieri e portati nel manicomio criminale di Aversa, gli amici e i semplici conoscenti furono arrestati e tra loro alcuni vennero trattenuti in carcere per più di un anno.

    Nessuno, viceversa, indagò sulle cause che avevano spinto l’anarchico individualista al gesto. L’immensa povertà e arretratezza del Mezzogiorno, depredato dai nuovi conquistatori mediante la tassa sul macinato, sul sale e sui prodotti agricoli, unica fonte di sostentamento per molte zone del Sud, rimase nell’ombra, mentre i dibattiti pubblici si concentravano su aspetti ideologici e filosofici ben poco concreti.

    Non c’è da stupirsi se, negli ambienti anarchici di tutto il mondo, la figura di Umberto I non godesse di molta simpatia e fosse diventata l’obiettivo principale di una campagna tesa a denunciarne la crudeltà.

    Negli Stati Uniti, in particolare, tra i tanti emigrati in cerca di fortuna o in fuga dalla repressione, gli ideali anarchici si coagularono con le lotte sindacali, dando vita a numerosi circoli sia clandestini che ufficiali.

    Uno dei luoghi più attivi per la propaganda delle ideologie libertarie era la piccola cittadina di Paterson situata nel New Jersey. Lo sfruttamento delle acque del vicino fiume Pendraic, tramite la costruzione di una delle prime centrali a energia idrica degli Stati Uniti, aveva accelerato lo sviluppo industriale e l’insediamento di numerose fabbriche tessili che a loro volta avevano richiamato un gran numero di operai. Tra questi gli italiani, e in particolare coloro, come i toscani, che avevano già una discreta conoscenza della telatura e della filatura della seta, erano molto richiesti. Ciò non significa che fossero anche rispettati. Paghe da fame, diritti inesistenti, condizioni di vita drammatiche, avevano favorito la radicalizzazione delle idee rivoluzionarie di Bakunin.

    Tra gli operai che si ritrovavano la sera a discutere degli scritti di Errico Malatesta e di Pierre-Joseph Proudhon, in una taverna gestita da un oste calabrese emigrato, c’era, intorno al voltare del secolo, un giovane proveniente da Prato. Si chiama Gaetano Bresci e non ha ancora trent’anni, ma già una vita fatta di sacrifici alle spalle. Schedato dal governo italiano come anarchico pericoloso ha già assaggiato la galera per aver diffuso le proprie idee attraverso un libello giudicato facinoroso dal regime. È dovuto fuggire trovando un’apparente libertà sul suolo americano.

    Il gruppo della taverna è di matrice anarchica non violenta o è una cellula eversiva che fa dell’attentato una pratica politica? La risposta non è univoca. Secondo alcuni storici di formazione marxista, si sarebbe trattato di uno schieramento piuttosto improvvisato e romantico, slegato dalle lotte sindacali e incapace di compiere atti politicamente rilevanti. Secondo altri, gli anarchici di Paterson aderivano a loro volta alla Mano nera (nome solo più tardi acquisito dalla mafia siciliana) e avrebbero avuto la responsabilità di alcuni attentati nel New Jersey. Di questa tesi era convinto sostenitore Joe Petrosino, il famoso detective italo-americano che si dichiarò sicuro che il gruppo di Bresci avesse approntato già dal 1889 un piano ben più grande nel quale si prevedeva addirittura l’omicidio di Francesco Giuseppe, di Guglielmo II e del presidente degli Stati Uniti William McKinley. Difficile dire se questa ipotesi sia corretta, certo è che il 6 dicembre 1901, McKinley, che non aveva voluto prestare ascolto alla segnalazione dei servizi segreti, venne assassinato a Buffalo, durante l’esposizione pan-americana, da un anarchico polacco di nome Leon Czolgosz, appartenente anch’esso alla medesima organizzazione.

    Nella taverna ai bordi del fiume Pendraic si discute con preoccupazione anche della situazione italiana, dove la durissima repressione dei fasci siciliani e delle lotte popolari nel settentrione, fa ormai della monarchia sabauda l’avversaria di ogni aspirazione progressista.

    La goccia che fa traboccare il vaso è la strage voluta da Umberto I a Milano tra il 6 e il 9 maggio 1989. Su ordine del re, il generale Bava Beccaris, durante una sommossa popolare per chiedere l’abolizione della tassa sul pane, non ha esitato a prendere a cannonate il proprio popolo, provocando la morte di centinaia di manifestanti. Come ulteriore sfregio, il re piemontese ha insignito il suo generale della più alta onorificenza portandolo in Senato.

    Gaetano Bresci, sconvolto da queste notizie, decide di passare all’azione. Il suo è un progetto disperato: tornare in Italia e vendicare l’eccidio con il sangue reale. È una missione suicida, la sua, sa bene che qualunque sia l’esito per lui sarà la fine. Che venga linciato, che muoia durante l’azione, che venga ucciso dalla scorta di Umberto I, che finisca i suoi giorni in carcere o che venga immediatamente giustiziato, non c’è ipotesi che non preveda una fine immediata per il setaiolo di Prato. Bresci non è uno sprovveduto e lo sa perfettamente. Eppure deve agire.

    Fece tutto da solo? Anche su questo particolare gli storici si dividono e sono molti quelli che giudicano l’azione di Bresci come ben pianificata e perfino sostenuta economicamente. Certo è che la regina Maria Sofia di Baviera, moglie del deposto re delle Due Sicilie Francesco II di Borbone, dal suo esilio parigino ebbe relazioni con il mondo anarchico, primo tra tutti Errico Malaparte, e finanziò attentati tesi a colpire gli odiati nemici piemontesi. Nella scarsità di fonti storiche certe, ci fu chi ipotizzò un suo coinvolgimento diretto, per tramite dei servizi segreti americani e chi pensò addirittura a un sostegno fornito dall’allora presidente del Consiglio Giovanni Giolitti.

    Bresci dispone di una buona somma di denaro, di un passaporto ben falsificato e di una grande determinazione, e il 17 maggio 1900 si imbarca su un piroscafo diretto a Le Havre. Parigi, Genova, Prato, Milano, questo il suo percorso di avvicinamento a Monza, dove sa che il re passa sempre le vacanze estive. Soggiorna a Prato per alcuni mesi frequentando il locale poligono di tiro. In breve, il revolver che porta con sé non ha più segreti. Si sposta a Milano abitando sotto falso nome in via dell’Orto. Bresci non è un disperato come Passannante. È un bell’uomo, alto e ben vestito, si porta sempre appresso la macchina fotografica, la sua grande passione. Parla inglese correttamente, intercalando l’italiano a qualche parola straniera. L’accento e il portamento fanno pensare a un italo-americano che ce l’ha fatta, uno dei pochi per il quale il sogno americano si è tradotto in benessere e ora può tornare in patria nelle vesti di turista. Dal centro della città prende spesso il tram che proprio da quell’anno ha iniziato il collegamento Milano-Monza. Gira per il parco, fa molte fotografie che poi stamperà nella sua camera in affitto con un piccolo laboratorio chimico portatile acquistato a New York.

    Il 29 luglio è pronto.

    A Monza sono appesi grandi manifesti che invitano la popolazione a partecipare alla sfilata reale, nei pressi della villa omonima. Umberto I presenzia a un saggio ginnico della società sportiva Liberi e forti, poi la carrozza e il corteo di dignitari al seguito passano per il parco per raggiungere la dimora estiva. Umberto, dopo l’episodio napoletano e dopo un ulteriore attentato, questa volta mancato, a Roma nel 1897 a opera dell’anarchico Pietro Acciarito, normalmente indossa una pettorina di cuoio protettiva sotto la divisa, ma quel giorno a causa del gran caldo aveva deciso di soprassedere alle normali regole di sicurezza. Bresci esce presto di casa, è rilassato e sicuro di sé, si ferma presso un gelataio e gusta una coppa di crema. Poi prende il tram.

    Quando la carrozza fa il suo ingresso nello spiazzo davanti alla villa, è appostato in prima fila. La folla grida: «Viva il re, viva Umberto» e pochi si accorgono di quell’uomo che, lasciata la macchina fotografica, ha imbracciato una pistola. Una mira perfetta. Tre colpi di arma da fuoco, sparati dalla distanza di circa trenta metri raggiungono il re d’Italia: quello mortale centra il cuore del sovrano, uno perfora un polmone e un terzo si conficca nella spalla destra. Umberto spira in pochi secondi, mentre Bresci tenta una disperata fuga tra la folla. Approfittando del trambusto, stava quasi per riuscire, quando un semplice maresciallo dei carabinieri, Andrea Braggio, gli fu addosso.

    Si dice che a una signora la quale tentava di dare il via al linciaggio urlando: «Assassino, hai ucciso Umberto», con tutta calma abbia risposto: «Non ho ucciso Umberto, ho ucciso un re», a significare che fosse l’istituzione monarchica, e non la persona, il suo obiettivo¹.

    Bresci, portato al carcere di San Vittore, venne gravemente percosso, subendo la rottura dei denti e numerose fratture alle costole.

    Il 29 agosto 1900, a un mese esatto dall’omicidio, l’anarchico comparve davanti a un tribunale, più attento a impedirgli di parlare per non rischiare di diffondere ulteriormente le idee rivoluzionarie, che a una seria istruttoria. Fu richiesta anche una perizia al solito Cesare Lombroso, che questa volta escluse ogni tipo di patologia psichica, riconoscendo come unica causa «le gravissime condizioni politiche del nostro Paese».

    Il giudizio della corte, di fronte a un imputato sereno e per nulla pentito, fu unanime: ergastolo ai lavori forzati da scontarsi nel penitenziario di massima sicurezza di Ventotene.

    Memori del clamore suscitato dal trattamento riservato a Passannante, le autorità carcerarie preferirono optare per una segregazione pesantissima, ma leggermente più umana rispetto a quella dell’attentatore di Salvia che, nel frattempo, ridotto a una larva umana, era stato rinchiuso nel manicomio criminale di Montelupo Fiorentino.

    I tanti dubbi sull’azione di Bresci non potevano che seguirlo nella tomba. Il 22 maggio dell’anno seguente, secondo la versione ufficiale, i carcerieri, entrati nella cella, lo trovarono impiccato alle inferiate «suicidatosi per il gran rimorso della propria azione», come scrisse l’«Avanti!»².

    Secondo le testimonianze degli altri ergastolani, Bresci non era affatto pentito, anzi, si manteneva bene sia nel fisico che nella mente, certo che gli amici anarchici stessero organizzando un attacco al carcere di Santo Stefano, teso a liberarlo. Il suicidio fu anche messo in dubbio dai medici legali che poterono vedere il corpo. Segni di lesioni, tumefazioni e mancanza delle tipiche ipostasi dell’impiccato, uniti a uno stato putrefattivo incompatibile con una morte avvenuta da poche ore, diffusero la convinzione in gran parte dell’opinione pubblica circa l’uccisione dell’anarchico da parte di Alessandro Doria, un funzionario e membro della polizia segreta, su ordine del ministero degli Interni, allarmato dalle notizie su una possibile fuga del regicida.

    ¹ Cento anni dal Corriere della Sera, supplemento speciale, Rcs, Milano 1976, p. 63.

    ² «Avanti!», 24 maggio 1901.

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    1902. Il caso Murri

    Nell’agosto del 1902, in un’assolata Bologna, viene trovato morto il conte Francesco Bonmartini, vittima di quattordici coltellate. Ne nascerà un giallo giudiziario venato di gossip che dividerà profondamente l’opinione pubblica tra bonmartiniani e murriani.

    Il nuovo secolo si apre con incredulità per le continue invenzioni della tecnica, con molte speranze in campo medico e scientifico, con aspettative per un miglioramento della situazione economica, con lotte disperate per l’affermazione dei diritti elementari e con l’eterna preoccupazione per l’instabilità politica italiana, da poco un Paese unito geograficamente, ma ancora diviso tra ideologie e interessi in conflitto tra loro.

    La Belle Époque irradia i suoi raggi su chi ne può godere: nobili, industriali, professionisti e anche una timidissima borghesia che a fatica riesce a imporsi soprattutto nelle città del Nord e del Centro. Il modello estetico e culturale al quale aspirare è quello abbagliante della Ville Lumière, la Parigi della moda, del lusso e del piacere.

    Anche la cronaca nera sta cambiando. Iniziano a diffondersi dei libelli, quelli che oggi definiremmo instant book, scritti poco dopo i delitti che più colpiscono l’immaginario popolare. Sono pagine a basso costo, spesso vendute nelle stazioni o nelle edicole, grazie alle quali oltre alla ricostruzione spesso un po’ romanzata, si possono finalmente osservare foto e disegni che danno un volto ai personaggi coinvolti.

    Nuova linfa arrivò nell’agosto del 1902, quando il conte Francesco Bonmartini di trentaquattro anni fu trovato morto nel suo appartamento di Bologna per le ferite provocate da ben quattordici coltellate.

    Un giallo estivo, che sarà ricordato come uno dei più dibattuti casi giudiziari del secolo: il processo Murri.

    Tutto parte dal cadavere di un uomo, che non dovrebbe trovarsi a casa propria, giacché aveva avvisato amici, conoscenti e portiera che si sarebbe trattenuto al Grand Hotel di Venezia insieme alla moglie fino a che la calura estiva non fosse cessata.

    La moglie, Teodolinda Bonmartini, più conosciuta con il nome da nubile di Linda Murri, raggiunta sul Canal Grande dalla notizia del ritrovamento, non sa spiegare quale motivo abbia spinto il marito ad abbandonare in fretta i piaceri della laguna, nel suo momento di massimo splendore mondano, per tornare nella desolante afa cittadina.

    A completare l’enigma ci sono quelle quattordici ferite, segno di accanimento prolungato e di precisa volontà omicida, che mal si addicono a un eventuale ladro sorpreso dal ritorno inaspettato del padrone di casa.

    Di indizi, viceversa, ce ne sono tanti, perfino troppi. Sul taccuino dei carabinieri vengono annotate parecchie stravaganze: il letto è sfatto e sul guanciale sono in bella vista tre lunghi capelli femminili, sul pavimento si trovano delle mutande da donna. L’attenzione degli investigatori si posa anche su due bicchieri e su una bottiglia di spumante della premiata azienda Gancia di Canelli, se non altro perché la ghiacciaia è vuota e dunque sarebbe stato bevuto a una temperatura di trentaquattro gradi. Vi sono poi segni di forzatura degli armadi e all’appello mancano alcuni collier della signora.

    Un incontro galante finito in tragedia a causa dell’arrivo del legittimo consorte? E chi sarebbe la donna, fondamentale testimone dell’omicidio? Se fosse la donna ad aver ucciso? E quel furto come si spiega? Potrebbe, ovviamente, trattarsi di una messa in scena ben organizzata. Tante sono le domande che girano sotto i portici di piazza Maggiore, ma soprattutto tra via Zamboni e via dell’Unione, vicoli che delimitano l’area della prestigiosa e antichissima università di Bologna.

    All’ombra della torre degli Asinelli il nome della vittima è così famoso che è assai facile per gli inquirenti delinearne in breve tempo la personalità, premessa indispensabile da cui parte ogni buona indagine. Per la verità, il trentaquattrenne Francesco Bonmartini, nato a Padova, non godeva in città di buona fama.

    «Il Resto del Carlino» lo dipinge con note fosche: svogliato negli studi, sfaccendato e annoiato come si confaceva ai giovani rampolli dei tempi andati, ramo secco di un albero genealogico un po’ avvizzito, la cui rendita finanziaria si assottiglia sempre più, viveur in privato quanto severo moralista in pubblico. I giudizi non risparmiano nemmeno la famiglia di origine, rigidamente cattolica e conservatrice, ritenuta assai vicina all’ultranovantenne papa Leone XIII¹.

    Il capitolo più corposo degli inevitabili pettegolezzi riguarda il suo matrimonio con Linda Murri.

    La consorte è figlia di Augusto Murri, luminare di medicina dell’ateneo cittadino, stimatissimo professore che tra i suoi pazienti può annoverare i membri della famiglia reale, per la precisione la regina madre Margherita e la regina Elena. Il fratello di Linda, Tullio, a sua volta occupa posizioni rilevanti nella scala sociale bolognese. A soli ventotto anni è avvocato, giornalista de «La Squilla», ma soprattutto influente consigliere comunale nelle fila del Partito socialista.

    Tutta la famiglia Murri, dal capostipite all’ultimo dei cugini, è schierata con il riformismo di sinistra e in campo scientifico il professor Augusto è noto per le sue teorie positiviste, già da allora fieramente osteggiate dagli ambienti clericali. Tutta la famiglia Bonmartini, viceversa, è clerico-conservatrice, se non dichiaratamente papista. Differenze che oggi potrebbero far sorridere, ma che nel 1902 avevano grande importanza.

    Inevitabile che proprio sui rapporti della coppia si coagulasse l’interesse del procuratore reale, incaricato di dare un volto all’assassino. Bastano pochi interrogatori per accreditare la tesi, già sostenuta dal gossip popolare, circa un amore inesistente, un matrimonio sull’onda di un’infantile infatuazione, già da tempo sfociato in una separazione di fatto.

    Al di là di tante ipotesi, tra le quali inizia a farsi strada quella della faida familiare comandata dai Murri per far fuori il fastidioso intruso, la raccolta di prove concrete langue, rischiando di indirizzare il caso verso il classico binario morto.

    A smuovere le acque ci pensa, nel novembre del 1902, la nomina a titolare dell’inchiesta del procuratore reale Stanzani, da più parti ritenuto un giudice di ferro, politicamente avverso ai socialisti, che, senza andare troppo per il sottile, mette da parte le scarne regole procedurali di garanzia per condurre in carcere chiunque gli fosse sembrato minimamente reticente o sospetto.

    Il primo a ritrovarsi con le manette ai polsi fu un certo Pio Naldi, medico coetaneo e amico di Tullio Murri, che, dopo pochi giorni di detenzione, chiederà di parlare con il giudice, per dare la sua versione dei fatti.

    Secondo l’uomo, Tullio Murri, che nutriva una grande antipatia per il cognato, l’avrebbe incaricato dell’omicidio da compiersi mediante un’iniezione di curaro a Venezia, con l’aiuto di una infermiera, tale Rosa Bonetti, e gli avrebbe anche fornito la materia prima, ovvero il veleno stesso.

    Il fatto che i due si fossero prestati a fare da sicari senza pretendere nulla in cambio, vittime unicamente di sudditanza psicologica verso l’avvocato, e che il tentativo di omicidio fosse andato a vuoto senza un valido motivo, non convinse il procuratore reale sulla bontà di questa confessione.

    Gli arresti non finiscono qui.

    Il carcere accoglie anche Linda Murri, colpevole di aver affittato un appartamento nel vicolo retrostante al palazzo di famiglia, nel quale viene trovata una piccola infermeria con disinfettanti, lacci emostatici, pinze da chirurgo e diversi tipi di veleni, nonché della corrispondenza affettuosa destinata a un altro medico, Carlo Secchi, noto laringoiatra e docente universitario. Particolare molto importante: tra i veleni non c’è il curaro, sostanza che, anche allora, trovava scarso utilizzo in medicina.

    Le manette scattano anche ai polsi del professore, il quale confesserà una relazione adulterina con la contessa, nonché di essere il proprietario di quei veleni, cosa più che normale per la farmacopea del periodo.

    La pista, in verità, è assai labile e il giudice stesso lo sa bene. In sostanza, con un metodo deduttivo, l’accusa utilizza la mancanza di una prova per stabilire un principio di colpevolezza. Organizzata una piccola conferenza stampa il giudice spiega la sua teoria.

    C’è la confessione di un tentativo di omicidio mediante iniezione di curaro, l’amante di Linda Murri non ha il curaro tra i propri medicinali, dunque questo è stato usato per altro scopo. Da qui a chiudere il cerchio di una possibile incriminazione di Linda come mandante del delitto effettivamente realizzatosi, il passo è breve.

    Mentre alcuni giornalisti iniziano ad avanzare qualche riserva sul metodo d’indagine, facendo notare che, mentre si parla di veleni, l’autore delle quattordici coltellate resta del tutto sconosciuto, il procuratore di ferro va avanti per la sua strada. Tullio Murri, il fratello di Linda, rischiando l’arresto, si rende irreperibile.

    La latitanza non dura molto. Preceduto da una lettera nella quale si dichiara colpevole dell’assassinio, frutto di una lite con il conte dovuta alla sua intenzione di abbandonare Bologna e portare con sé la consorte nella triste e inospitale Padova, si presenta ai carabinieri di Ala per farsi arrestare.

    Per il giudice la fase istruttoria è chiusa. Il rinvio a giudizio riguarda Tullio, che avrebbe affondato più volte il coltello nel corpo del cognato, e Linda quale mandante e ispiratrice. Ma ce n’è anche per la parte bis dell’inchiesta, quella riguardante il tentativo di avvelenamento con l’incriminazione del professore Secchi, del dottor Naldi e dell’infermiera Bonetti.

    È il detonatore che fa scoppiare la bomba della polemica e che trasformerà il caso Murri in un aspro scontro tra due schieramenti, bonmartiniani e murriani e che arriverà, in breve tempo, a lambire i palazzi del potere.

    I primi a scendere in campo sono colleghi cattedratici e insigni studiosi di tutta Italia, corporativamente posizionati in difesa dei Murri, i quali, nella quasi totalità, ritengono la confessione falsa, un espediente per difendere la sorella ingiustamente accusata. Il pettegolezzo e la malignità si concretizzano in migliaia di lettere anonime che inondano il tavolo degli inquirenti e dei cronisti. Si parla di incesto, di un patto di sangue che legherebbe sorella e fratello.

    C’è chi dipinge Linda come una femme fatale, una divoratrice di uomini capace di manovrare tutta la facoltà di Medicina e chirurgia, e chi la descrive donna fredda e anaffettiva, offesa e tradita dal marito, per la sua inconsistenza amatoria.

    A un certo punto girò la voce che Linda fosse incinta del fratello e questo avrebbe spiegato lo scontro nel quale il Bonmartini aveva avuto la peggio. Il magistrato ordinò una perizia ginecologica che però diede esito negativo.

    Naturalmente i giornali soffiano sul fuoco. «L’Avvenire d’Italia», quotidiano cattolico pubblicato a Bologna, scrive che «la campagna contro gli assassini di Bonmartini è una campagna santa», l’«Avanti!» risponde dichiarando che «incriminando i Murri si è voluto colpire gli esponenti della corrente laica in Italia»².

    Ada Negri, scrittrice, poetessa e suffragetta del movimento delle donne, aggiunge un’ulteriore chiave di lettura di natura sessista, difendendo l’innocenza di Linda Murri, «donna vittima dello scontro tra due uomini violenti e bellicosi»³.

    Dai banchi del Parlamento fioccano le accuse al fronte cattolico per aver montato un caso contro degli innocenti e in direzione opposta partono le invettive contro chi non lascia fare alla giustizia il proprio corso.

    In un’accalorata seduta, nella quale si chiede che il caso sia tolto al magistrato, alcuni senatori sventolano le copie de «L’Aurore», il quotidiano parigino che aveva anni addietro pubblicato il famoso J’accuse di émile Zola in difesa di Alfred Dreyfus, il capitano dello stato maggiore accusato ingiustamente di alto tradimento.

    In questo caravanserraglio la famiglia reale non prende posizioni ufficiali, ma da più parti si vocifera di un crescente fastidio della regina madre che, con un curioso ribaltamento di fronte, parteggia con gli innocentisti socialisti, più per stima del proprio medico di fiducia, che per convinzioni criminologiche.

    Il processo si aprì a Torino il 21 febbraio 1905, con numeri impressionanti: 18 avvocati tra accusa e difesa, 420 testimoni portati in aula, 104 udienze per un totale di 172 giorni impegnati, perfino un plastico in scala 1:20 che, precursore dei tempi, venne mostrato ai giurati.

    Tra accuse reciproche, malori, parziali ammissioni e immediate ritrattazioni, soporifere arringhe e piccanti frammenti di vita intima, svenimenti, crisi isteriche, amnesie, perizie e controperizie sull’infermità mentale, nessuno dei dubbi che affollavano la mente dei giurati verrà chiarito.

    Il movente innanzitutto. Troppo fragile l’antipatia tra Tullio e il cognato, troppo debole l’idea di quel paventato trasferimento a Padova come causa scatenante. La difesa si concentrò sull’incongruenza di un depistaggio così ben orchestrato con un’aggressione tanto rozza e sui complessi rapporti tra i fratelli Murri, mai chiariti fino in fondo. Ci si affidò alle prime nozioni di psicopatologia, ai luminari del positivismo e della certezza della prova scientifica, ma l’atteggiamento incostante e indecifrabile di Tullio non fu di grande aiuto.

    La sentenza fu uno shock per molti, primi fra tutti gli imputati. Trent’anni di reclusione per Tullio e per Pio Naldi, dieci anni per concorso in omicidio a Linda e a Carlo Secchi, sette anni all’infermiera Bonetti.

    Murriani e bonmartiniani accorsi davanti al Palazzo di giustizia per ascoltare il verdetto rimasero della propria opinione, non prima di essersele date di santa ragione in una gigantesca rissa sedata da una carica di carabinieri a cavallo.

    «Sentenza macello» titolerà l’«Avanti!», convinto che si sia trattato di una decisione di natura politica; «Nessuna indulgenza verso gli assassini», commenterà con scarsa pietas cristiana «L’Osservatore Romano»⁴.

    La vicenda non era ancora finita. L’anno successivo il sovrano Vittorio Emanuele III, su insistenza della regina Margherita, concesse la grazia a Linda Murri, suscitando l’ira del Vaticano e il risentimento della magistratura.

    Tullio Murri dal carcere non smetterà di produrre memoriali nei quali si professerà innocente, pur scontando appieno la condanna. Carlo Secchi, abbandonato anche dall’amante, morirà pochi anni dopo.

    ¹ L. Cecchini, Dieci grandi processi d’amore e di morte, De Vecchi, Milano 1965, p. 51.

    ² Ibidem.

    ³ AA.VV., Cinquant’anni del nostro secolo 1900-1950, Arnoldo Mondadori, Milano 1972, p. 17.

    ⁴ K. Federn, La verità sul processo contro la contessa Linda Murri-Bonmartini, Laterza, Bari 1908, p. 104.

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    1903. Alberto Olivo

    Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde milanese. Un insospettabile cittadino che si trasforma nell’assassino con la valigia sull’asse Milano-Genova. Una vicenda giudiziaria piena di colpi di scena, definita dagli annuari giudiziari come il processo più pazzo del secolo.

    Ci sono delitti che passano alla storia per la loro efferatezza, altri per i dubbi processuali che li accompagnano, altri ancora per il verificarsi di eccezionali casi fortuiti o per la stravaganza nell’agire del colpevole.

    Il caso della primavera del 1903, che ha reso celebre il milanese Alberto Olivo, racchiude in sé, con modalità che si possono ben definire incredibili, tutte queste caratteristiche.

    La vicenda inizia a qualche centinaio di chilometri di distanza dalla sua abitazione nel capoluogo lombardo, precisamente nel porto di Genova.

    Qui il 24 maggio, in mezzo agli sbuffi dei transatlantici, fu avvistata una valigia galleggiante con un macabro contenuto: un corpo di donna d’età compresa tra i trenta e i quarant’anni, fatto a pezzi, con il cranio deturpato nel presumibile tentativo di renderlo irriconoscibile e con delle tavolette di naftalina inserite negli orifizi, per limitarne la decomposizione e l’inevitabile olezzo.

    Un omicidio così crudele e anomalo da suscitare tanti interrogativi e perfino un certo sdegno nella smaliziata polizia portuale.

    Tra i moli prospicienti la famosa Lanterna, un simile trattamento non si era mai visto. Quasi quotidianamente venivano pescati manichini gonfi d’acqua salmastra, vittime di risse notturne, di regolamenti di conti, di ubriacature letali, di affari risolti a coltellate, eppure tanta ferocia, su una donna per giunta, era una novità a suo modo sconvolgente.

    L’impegno degli investigatori fu dunque massimo. In pochi giorni sfilarono negli uffici di polizia tutti gli informatori, i protettori, i ricettatori, le tenutarie di case chiuse e i capi quartiere che si contendevano i mercati del contrabbando marittimo, per giurare che quel bauletto in fibra compressa, modello Paris, prodotto da una fabbrica del varesotto e venduto in tutta Italia, non fosse cosa loro. Per un mese sul tavolo degli inquirenti si accumularono testimonianze, lettere anonime, referti anatomopatologici, ricerche merceologiche sull’improvvisata bara, rapporti sul ritrovamento, senza che nulla portasse a dare un nome a quei miseri resti.

    Poi, finalmente, una flebile traccia. Un pescatore di poche parole si presentò di malavoglia ai carabinieri per raccontare di un ometto di bassa statura vestito di scuro, sicuramente un forestiero a giudicare dall’accento, che aveva insistito per fare un giro in barca e aveva voluto portarsi appresso una grossa valigia, sistemata alla bell’e meglio a poppa. Sfortunatamente, per distrazione o ingenuità, nello sbracciarsi a salutare i passeggeri di un piroscafo, lo strano turista aveva colpito il carico, facendolo cadere in acqua. La cosa curiosa era che avesse ritenuto superfluo il suo recupero, preferendo lasciarlo a mollo.

    Gli inquirenti non daranno grande importanza alla testimonianza, scegliendo di seguire un’altra pista. Era loro convinzione che l’abilità nell’amputare un cadavere in quella cruenta maniera necessitasse di un sangue freddo e di una perizia tipici della scienza medico-chirurgica. È dunque nel mondo delle cliniche e degli ospedali genovesi che si concentra la ricerca, senza tuttavia fare grandi passi avanti.

    Mentre le indagini proseguono, arriva l’estate e i primi bagni al mare. Chi se lo può permettere frequenta gli hotel della Riviera o passa mesi nelle lussuose residenze affacciate sul mare, ma c’è anche chi si accontenta di un fugace viaggetto dalla città. Tra questi, un certo Gervaso Severgnini, questurino milanese frequentatore della spiaggia di Boccadasse.

    Per deformazione professionale

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