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La battaglia sulla montagna di Dio
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La battaglia sulla montagna di Dio

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Tra La caduta dei giganti di Ken Follett e Cacciatori di diamanti di Wilbur Smith
Un’avventura epica

Un grande romanzo storico

Avventuroso, eroico, epico e potente
Un romanzo senza precedenti

1898. Elio Dossi, in fuga da Milano dopo i moti repressi nel sangue dal generale Bava Beccaris, si lascia coinvolgere in una spedizione di occidentali alla volta dell’Armenia. Lo scopo del viaggio è recuperare l’Arca di Noè, che secondo le interpretazioni bibliche dovrebbe essere sepolta tra i ghiacciai del monte Ararat. Viaggiando tra i pericoli nei territori dell’Impero Ottomano, i nove membri della spedizione – tutti con qualche segreto da nascondere – si troveranno a fronteggiare memorabili personaggi: il freddo e crudele capitano Demir, che sogna un impero etnicamente “pulito”; il colosso Aganesian, pronto all’estremo sacrificio in difesa dei suoi compatrioti; il colto e generoso dottor Katurian e la sua seducente figlia Helena. Mentre la missione prosegue, il gruppo assisterà suo malgrado al massacro di migliaia e migliaia di armeni, ad opera di bande di musulmani protette da scherani del sultano Abdul Hamid… Un racconto avventuroso in cui le piccole storie personali si intrecciano splendidamente con la storia di un popolo ancora oggi perseguitato.

Un autore da 100.000 copie

All’ombra dell’Ararat, la tragedia di un popolo
Il genocidio degli armeni incominciò vent’anni prima

«Castelli ci mostra in dettaglio il disfacimento delle nostre radici.»
il Venerdì di Repubblica

«Solida documentazione storica, agile libertà creativa, riesce a incuriosire e appassiona il lettore.»
Il Sole 24 ore
Giulio Castelli
Narratore, saggista e giornalista professionista, è studioso di storia tardoantica e medievale. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo il romanzo Il fascistibile, il pamphlet Il Leviatano negligente, i saggi Potere e inefficienza in Italia e Il Piccolo dizionario 2005. Con la Newton Compton ha pubblicato Imperator; Gli ultimi fuochi dell’impero romano; 476 a.d. L’ultimo imperatore; Il diario segreto di Marco Aurelio, L’imperatore guerriero e La battaglia sulla montagna di Dio.
LanguageItaliano
Release dateOct 12, 2016
ISBN9788854198661
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    La battaglia sulla montagna di Dio - Giulio Castelli

    1353

    Prima edizione ebook: ottobre 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9866-1

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Art Direction: Sebastiano Barcaroli

    Immagine di copertina e progetto grafico: Davide Nadalin - Brain’s Graphic Studio

    Giulio Castelli

    La battaglia sulla montagna di Dio

    Premessa

    Questo romanzo è un collage dei racconti fatti da Elio Dossi, un cugino di mio nonno materno morto nel 1961. Quando ero ragazzo, tra l’ultima settimana di agosto e l’inizio delle scuole, trascorrevo alcuni giorni nella sua casa appollaiata tra filari di vite sulle pendici di una collina affacciata a mezzogiorno. Da là si dominava un’ansa del lago d’Iseo. Si trattava di una vecchia uccellanda alla quale erano stati aggiunti vari corpi e, nel corso dei decenni prima della seconda guerra mondiale, era stata trasformata in una vera e propria villetta. A ogni stagione il racconto riprendeva dall’inizio ed era sostanzialmente lo stesso del precedente tranne nuovi particolari che mi permettevano nuove domande. Credo, però, che a lui premesse soprattutto parlare con struggente nostalgia di sua moglie, morta prima della guerra. Una donna bellissima che a me sembrava nascondere un’ombra di misteriosa tristezza, almeno a giudicare dalle vecchie fotografie. La mia ricostruzione è sostanzialmente fedele tranne il finale perché sulla conclusione di quella drammatica avventura lo zio Elio era piuttosto reticente. Nel romanzo è lui, comunque, a parlare al lettore esattamente come faceva con me. Quindi mi scuso se troverà il linguaggio un po’ antiquato. Era quello dell’inizio del secolo scorso.

    1

    Milano, 1898

    Quel pomeriggio, uscito dalla casa di Carolina, mi resi conto di non sapere che cosa fare né dove andare. Ero stato seduto per più di un’ora sul divano foderato di cretonne, un viola pallido arabescato. Più che seduto avevo avuto la sensazione di starmene rannicchiato nell’angolo più lontano da quello dove si trovava la mia fidanzata. Lei aveva il viso affilato e le punte dei piedi unite. Davanti a noi era sua zia Bice. Una donna alta con il viso disegnato da un reticolo di rughe. Sembrava a disagio senza uno dei suoi grandi cappelli guarniti di fiori e nastrini di raso e senza la veletta. Era un po’ come se, così a volto scoperto e con i capelli tenuti uniti a crocchia dietro la nuca da spille di madreperla, si sentisse esposta a misteriose insidie.

    Il padre di Carolina era apparso soltanto dopo un bel po’ che mi trovavo lì. Mi aveva chiesto di seguirlo e io avevo notato lo sgomento sul viso di Carolina. Era impallidita e aveva rivolto uno sguardo alla zia. Come se implorasse conforto.

    In realtà quanto suo padre mi aveva detto non mi aveva completamente sorpreso anche se, come si dice, la speranza è l’ultima a morire. Semplicemente, mi aveva comunicato che il fidanzamento doveva considerarsi concluso. Anzi che neppure di fidanzamento si poteva parlare. Non c’era mai stato. Gli dispiaceva dirlo ma la mia richiesta della mano di sua figlia era respinta.

    Le ragioni? Non certo perché fossi un poco di buono o una persona indegna. Niente affatto. Sulla sua scrivania erano ancora aperti alcuni album per francobolli da collezione e io stavo a fissare i quadratini colorati mentre l’avvocato Radaelli me le elencava. Aveva esordito affermando che io ero senza dubbio un eccellente giovane ma altrettanto evidente era che la mia posizione mancava di alcuni requisiti. Il padre di Carolina appariva un po’ imbarazzato. Continuava a lisciarsi il ricciolo dei baffi tenuto in su dalla ceretta. Dopo un arzigogolato giro di parole aveva ammesso che, sì, io ero davvero una persona a modo ma che la mia futura carriera non prevedeva una sufficiente base economica per una famiglia che mantenesse il tenore di vita al quale Carolina era abituata. La mia laurea era dignitosa e i miei studi lodevoli ma orientati a qualche cosa di troppo teorico ora che i tempi stavano mutando così rapidamente.

    «Siamo alle soglie del ventesimo secolo, mio caro Dossi, e non sappiamo che cosa il futuro ci riserverà. Certo, però, sarà il secolo della tecnica e dell’industria. Pensate alle carrozze automobili, alle biciclette, ai palloni aerostatici e a macchine che di sicuro ci consentiranno di volare. Alle ferrovie che stanno raggiungendo luoghi remoti, ai selvaggi dell’Africa che siamo chiamati a civilizzare per sottrarli all’idolatria e al cannibalismo».

    Non so neppure quale fosse lo sguardo dell’avvocato Radaelli. Io comunque lo stavo sfuggendo. Sulla scrivania era una lampada di vetro colorato con il disegno di una divinità alata. Oggetti di peltro erano disposti un po’ ovunque in un ordine quasi geometrico. Ispiravo un odore misto di chiuso e di buon tabacco.

    Il padre di Carolina prese fiato. Era un uomo corpulento che si umettava in continuazione le labbra. La lingua passava anche sui baffi lasciando una scia di saliva la cui vista trovavo disgustosa.

    «L’Italia è ormai una grande potenza», continuò, «alla nazione serviranno ingegneri, ma anche uomini che sappiano investire i soldi dei risparmiatori. Vedete, ormai anch’io sono superato. Gli avvocati dei prossimi anni saranno quelli che potranno dirimere le cause tra le banche, non certo le liti tra gli eredi di un podere». Insomma, la conclusione era stata che con me sua figlia non avrebbe potuto rimanere benestante come meritava. Le mie rendite e i beni di famiglia che a me parevano cospicui erano poca cosa agli occhi del mio mancato suocero. Mentre parlava, consultava nervosamente l’orologio d’oro estraendolo dal taschino del panciotto come se avesse fretta di sbrigare la pratica, ovvero liquidarmi. Quando ebbe finito di parlare io rimasi per qualche istante perduto tra i ghirigori della carta da parati. Mi sembrava di scorgere figure mostruose ma era soltanto la mia disperazione.

    Eccomi, allora, a vagare per le strade di Milano in un bellissimo pomeriggio dell’inizio di maggio. Le strida delle rondini che in genere mi mettevano tanta allegria adesso mi parevano odiose. Come nugoli di furie che venivano a schernirmi. Per fortuna non dovevo evitare gli sguardi di troppi passanti. Le vie erano quasi vuote. Poche persone frettolose e rare carrozze. Il giorno prima c’erano stati tumulti. Almeno sarebbero stati in pochi a leggere l’umiliazione sul mio viso. Che Elio Dossi era stato scartato. Carolina, la dolce Carolina dalla vita di vespa, una vita naturale che non aveva bisogno di essere stretta tra cinture e stecche, non sarebbe mai stata sua moglie. Mentre mi ripetevo questa cruda verità mi sentivo venir meno. Non vedevo niente davanti a me perché avevo gli occhi velati dalle lacrime. Tenevo la mano in tasca e stringevo il minuscolo astuccio che Carolina, senza farsi vedere, mi aveva dato. Conteneva un cammeo, un anonimo amorino alato in avorio.

    Imboccai la via di San Gregorio dal lato dell’Osteria del Treno senza neppure sapere perché. Ero come attirato dal vuoto. Quella strada, in genere molto animata, era deserta. Le saracinesche dei negozi abbassate. Un cane randagio stava annusando qualche cosa lungo un muro. Mentre avanzavo incominciai a udire tonfi sordi come se qualcuno stesse facendo cadere sacchi di sabbia da una finestra. Poi colpi secchi simili a bastonate contro una porta. A un tratto, in fondo alla strada, dove è l’incrocio con via Torriani, vidi gruppi di persone correre. Alcuni urlavano, ma la maggior parte erano silenziosi al punto che sembrava si potesse sentirli ansimare.

    Tutto ciò non aveva alcun senso per me, se non quello di tentare di pensare ad altro. Se ci fosse stato un tumulto, per esempio, e io avessi sottratto Carolina a qualcuno che voleva farle del male. Avevo sempre immaginato, prima di addormentarmi, di essere un salvatore insperato. Con la fantasia creavo un’infinità di situazioni. Potevo trovarmi in Africa tra selvaggi che puntavano le loro lance contro un piccolo gruppo di esploratori e Carolina era lì in mezzo a loro. Oppure in qualche remota Thule dove i ghiacci stavano stritolando la sua nave rimasta incagliata. O ancora in una giungla dell’India dove ero io ad affrontare la tigre pronta ad avventarsi su di lei dopo essersi aggrappata con gli artigli alla groppa dell’elefante.

    Quando ricordo quei momenti mi pare che non solo temevo di non riuscire a sopravvivere alla perdita di Carolina, ma che volessi essere nel bel mezzo di un romanzo di Emilio Salgari o in un luogo remoto di quelli descritti da Verne. Quel mio fantasticare fu interrotto all’improvviso da un uomo che, al crocevia con via Torriani e via Settembrini, stava correndo verso di me. Quando fu a pochi passi vidi che aveva il volto coperto di sangue e venne proprio a cadermi davanti.

    Era la prima volta in vita mia che vedevo un simile spettacolo. L’uomo si comprimeva il giubbotto come se volesse impedire al sangue di abbandonarlo, ma senza risultato. Infatti, mentre giaceva sul marciapiede, vidi la chiazza rosso scuro espandersi e colare verso la strada. Mi chinai, gli sollevai la testa. Non sapevo che fare. Non avevo alcuna esperienza medica e l’unica cosa che mi venne in mente fu quella di estrarre un fazzoletto. Ben presto fu completamente zuppo di sangue e così cercai qualche cosa nelle sue tasche per tamponare la ferita.

    Proprio in quel momento mi accorsi di essere circondato da altre persone. Alzai il viso e vidi che si trattava di gendarmi. Così indicai la ferita nella speranza di essere aiutato: invece venni afferrato e trascinato via.

    «Che cosa state facendo? Quell’uomo muore!», gridai. Gli agenti continuarono a tirarmi sollevandomi da sotto le ascelle finché uno di loro mi affibbiò una manganellata sulla spalla.

    Provai un intenso dolore, ma in quel momento mi premeva soprattutto spiegare. Non ero stato io a colpire lo sventurato, provavo a ripetere, ma sembrava che nessuno desse peso alle mie parole. Infine fui messo in piedi e ammanettato. Due giganteschi poliziotti mi scaraventarono all’interno di un cellulare. Ero ancora stordito quando udii l’ordine: un «Vai, vai!», e il calpestio di due cavalli che partivano al trotto.

    Il cellulare era gremito di uomini ammanettati come me. Molti di loro erano feriti e si lamentavano. Altri imprecavano. In fondo al furgone ce n’erano tre che cantavano; una nenia di quelle che piacciono agli anarchici e ai socialisti. Non ricordo le parole, ma se le riascoltassi di nuovo probabilmente le riconoscerei.

    «Chi siete e perché siete stati arrestati?», domandai all’uomo che era accovacciato accanto a me.

    «Come sarebbe a dire chi siamo? E tu chi sei?».

    Nell’oscurità della gabbia scossa dai sobbalzi delle ruote sul selciato, mi parve di scorgere un’espressione ironica o forse incredula.

    «Che cosa è successo?», domandai di nuovo.

    Seguì qualche istante di silenzio. Poi ci furono mormorii. Qualcuno ebbe perfino la voglia di ridere.

    «Guardate un po’ questo damerino», fece una voce, «che si è votato alla rivoluzione senza neppure sapere perché».

    Io non sapevo davvero che cosa fosse successo. Certo, c’era stato un tumulto, questo era evidente. Mi chiedevo se fosse per la questione della nuova tassa sulla farina. Il giorno prima avevo visto la truppa muoversi per il centro della città dalle parti del duomo. Tuttavia evitai di chiederlo. Chiusi gli occhi e provai a concentrarmi su quello che avrei dovuto fare. Il mio pensiero principale non era di trovarmi rinchiuso in un cellulare insieme con un gruppo di sovversivi: quello era un intermezzo che in realtà non mi coinvolgeva granché. Piuttosto non mi capacitavo di non poter rivedere più il salotto dei genitori di Carolina, il sorriso della zia Bice mentre fingeva di essere intenta al suo ricamo che ora mi pareva beffardo e la falsa cortesia dell’avvocato Radaelli. Mi sentivo come un angelo scacciato dal paradiso, soltanto che io non ero un angelo ribelle. Per il momento mi trovavo tra veri ribelli, ma si trattava di un equivoco.

    Fu quanto provai a dire al commissario che mi interrogava. L’uomo aveva di fronte a sé, sulla scrivania, una catasta di fascicoli. Sudava copiosamente e ogni tanto si passava un fazzoletto sotto il colletto rigido, un tempo bianco ma ora di un colore indefinibile.

    «Così», fece dopo avere ascoltato le mie rimostranze, «voi non avreste niente a che fare con i facinorosi». Il suo tono era un po’ incredulo e un po’ frettoloso. «Allora mi dovete spiegare per quale motivo stavate soccorrendo uno di loro. Voi non siete un medico e non venitemi a dire che ignoravate che Milano è in stato d’assedio. La nostra caserma di via Torriani è stata presa d’assalto dalla feccia. Una moltitudine, almeno un migliaio. Ci sono morti e feriti».

    «Mi dispiace», fui solo capace di dire. Avrei potuto rivelare che a quell’ora ero appena uscito dalla casa dei Radaelli ma non avevo voglia di coinvolgere il mio mancato suocero. Non volevo confermargli che aveva avuto ragione ad avermi scartato. Un giovane sciocco che si cacciava nei guai.

    «Passavo di lì per caso», dissi.

    «Per caso?». Il commissario incominciò a guardarmi come se mi vedesse per la prima volta. «Ma dai documenti risulta che voi abitate da tutt’altre parti». I suoi occhi scorrevano sul mio abito che era di buon taglio; poi sui capelli tagliati corti a spazzola. Si aggirò anche sul mio viso ma non mi fissò negli occhi. Come un medico in cerca di qualche malattia della pelle sembrava stesse a considerare il mio pallore, le vene che mi pulsavano sul collo.

    «Vedete, giovane, sono le persone come voi quelle più pericolose. Che alcuni scalmanati ignoranti si ribellino all’autorità costituita non è affatto strano. È gente che ha passato la propria vita nell’infamia: promiscuità, sporcizia, ubriachezza e bestemmie. Da loro non ci si può attendere niente di buono, ma la loro malvagità è prevedibile. Sta tutto scritto. Invece ecco il signor Dossi, apparentemente un gentiluomo. Secondo me voi potreste essere uno di quei capi sovversivi che si nascondono tra le persone perbene. Lo sapete, per esempio, che dietro a questa insurrezione c’è probabilmente Turati, un onorevole deputato? Ma certo che lo sapete! Anzi, sarei proprio curioso di conoscere se per caso voi siete uno dei suoi seguaci. Magari uno stretto collaboratore, per quanto il vostro nome non risulti. Un complice occulto».

    «Non conosco affatto il signor Turati». Ero stanco e perfino, nonostante la situazione, un po’ annoiato. «E questo è tutto».

    «Nossignore. Questo è tutto sono io a poterlo dire. Perché voi non vi trovate in un caffè, a fare due chiacchiere o magari a ordire complotti, ma davanti a un funzionario regio. Ricordatevelo bene». Lo vidi scrivere qualche cosa sul foglio che un sottoposto gli aveva porto. Poi lo timbrò e lo firmò.

    «Eseguiremo accertamenti», disse il commissario. «Per il momento vi tratteniamo in stato di fermo. Domani vedremo».

    «Domani?». A un tratto mi resi conto di quanto mi stava accadendo. Una notte in cella.

    «Posso chiamare un avvocato?»

    «Domani. Sarà il giudice a decidere».

    «Almeno mandare un biglietto ai miei?».

    In realtà i miei genitori vivevano a Torino. Mi era venuto in mente di avvertire mio cugino: forse lui poteva intervenire. Aveva conoscenze altolocate.

    Il commissario rimase interdetto. Si passò le mani sugli occhi come per scacciare una profonda stanchezza. Poi, forse, pensò che potevo scrivere a un complice; rivelargli qualche connessione che per il momento gli sfuggiva.

    «Potete farlo. Ma naturalmente sarà sottoposto a censura».

    «Non è un problema». Chiesi carta e penna che il poliziotto di guardia mi dette insieme con il calamaio. Io scrissi poche parole pregando mio cugino di trarmi dall’impaccio. «Posso pagare un fattorino», aggiunsi mentre consegnavo il biglietto al commissario. Vidi l’uomo leggere il nome del destinatario. Mi sembrò sorpreso, vagamente sconcertato.

    «Conte Gandolfo Dossi di Mediglia», lesse a voce sommessa. «È un vostro conoscente?»

    «È mio cugino».

    Vidi il commissario sollevare la testa dal foglio. Ebbe una specie di scarto.

    «Vostro cugino?»

    «Certo. Mio cugino». Avevo risposto in modo secco e trovai il tono della mia voce perfino un po’ arrogante. Il commissario, però, si riprese presto dalla sorpresa.

    «Bene. Sarà convocato in questura e potrà fornirci indicazioni utili».

    Passai la notte in una cella collettiva nei sotterranei del palazzo. Eravamo in cinque. Uno dei miei compagni puzzava di vino: si mise subito a dormire e ben presto prese a russare in modo fragoroso. Altri due giocarono per un po’ a morra e poi rimasero appoggiati al muro senza neppure stendersi sulla panca. Il quarto stava fissando il vuoto quando io entrai nella cella e continuò a farlo per tutta la notte, o almeno per il periodo durante il quale io rimasi sveglio. Mi chiedevo che cosa ci facessi in mezzo a quella gente. Per un po’ ero stato a osservarli di sottecchi. Probabilmente, a giudicare dalle giubbe color topo che occultavano qua e là le macchie, erano operai. Giubbe o troppo larghe o troppo strette, calzoni di panno vile mai stirati e retti da bretelle logore. Uno di loro aveva uno spago come cintura. Avevano tenuto in testa i berretti a visiera. Tutti avevano barbe non rasate da giorni. Non riuscivo a vedere le loro mani ma probabilmente erano sporche di nerofumo.

    Non accadde nulla fino a mattina inoltrata. L’orologio da taschino mi era stato sottratto prima di essere rinchiuso e così mi limitai a ipotizzare che fossero le dieci quando un secondino venne a prelevarmi. Lo seguii lungo corridoi oscuri nonostante fosse una splendida mattina di maggio. Infine fui condotto in uno stanzone dominato da una grande fotografia – molto ritoccata – di re Umberto. Dopo pochi minuti, da una porta laterale fece il suo ingresso il commissario seguito da mio cugino.

    Gandolfo si fermò in piedi, mi squadrò senza salutarmi e lo vidi annuire, come se dovesse ammettere qualche cosa di spiacevole con se stesso.

    «Signor conte», fece il commissario, «il qui presente Dossi Elio sostiene di essere vostro cugino». Notai che non sembrava così sicuro di sé come la sera precedente.

    «È così infatti», scandì mio cugino.

    «Voi, quindi, siete disposto a garantire per lui?»

    «Sì, certo».

    Il commissario era un po’ ossequioso e un po’ deluso. Una delle prede stava per sfuggirgli.

    «Tenete presente, però, signor conte, che dovremo schedare il signor Dossi».

    «Schedarlo? E perché mai?». Gandolfo stava riprendendosi dal fastidio e stava mettendo in mostra tutta la sua superbia.

    «Lo prevede il regolamento, signor conte».

    «Non è sufficiente la mia presenza?»

    «Purtroppo no. Il signor Dossi, secondo i nostri agenti, era in combutta con sovversivi al centro dei moti di ieri. Come forse saprete, un gendarme è rimasto ucciso».

    «Si dice anche numerosi dimostranti», osservò Gandolfo. Intanto stava guardandosi intorno come se tutto ciò che vedeva lo ripugnasse profondamente. Lo stanzone, in realtà, non era propriamente un luogo elegante.

    «Probabile», tagliò corto il commissario, «quei rivoltosi hanno preso d’assalto una caserma».

    «Ah», fece mio cugino come se la cosa non lo riguardasse affatto. «Un’azione davvero riprovevole. Comunque, se non se ne può fare a meno, procedete pure con questa schedatura. Non voglio che proprio un amico del barone Winspeare possa essere agevolato. Qualche giornale scandalistico ne trarrebbe certamente spunto per commenti salaci».

    Intanto Gandolfo aveva fatto sapere al commissario che Winspeare, il prefetto, era un suo amico. Infatti vidi il funzionario deglutire. Poi disse: «Signor conte, sarà una questione di pochi minuti. Farò avvertire il vostro cocchiere che può entrare nel cortile».

    Fui accompagnato in un locale buio dove era installato un apparecchio fotografico. L’operatore era di buon umore e prese a spiegarmi che da qualche mese le persone arrestate venivano fotografate: in tal modo non si incorreva più negli equivoci di un tempo.

    «C’erano scambi di persona. Innocenti perseguitati e colpevoli che la facevano franca. Ma ora per fortuna il progresso ci aiuta. Voi di che cosa siete accusato?»

    «Si tratta di un equivoco». Non avevo alcuna voglia di fare una chiacchierata sulla mia disavventura.

    «Be’, naturale», fece l’uomo e prese a scattare fotografie tra lampi e fumi luminosi. Alla fine apparve soddisfatto. Così fui portato in un’altra stanza dove furono registrate le mie generalità. Tutto sarebbe stato inserito nello schedario.

    «Mi auguro per voi che questo non servirà mai», disse l’addetto. Anche lui sembrava amichevole. Credo che, nonostante fossi piuttosto male in arnese dopo una notte in gattabuia, il mio aspetto fosse ancora quello di una persona rispettabile. Quindi, pensai, tutti erano piuttosto cauti. Non si sapeva mai.

    Durante tutte quelle formalità, mentre seguivo come ipnotizzato la penna intinta nel calamaio e rispondevo automaticamente alle domande, io stavo pensando a Carolina. Ancora una volta vedevo la sua vita sottile e le reni inarcate; il seno morbido spinto in su verso il colletto ricamato; i minuscoli bottoni che chiudevano quella deliziosa serratura sulle dolcezze che mi sarebbero state precluse. Eppure io le avevo accarezzato un piede. Ero risalito da uno stivaletto oltre la caviglia fino al polpaccio. L’avevo vista chiudere gli occhi e l’avevo sentita sospirare. Quella volta, per placarmi, mi aveva regalato una ciocca dei suoi capelli castani. Un’altra volta, avevo ripetuto il tentativo di seduzione fino a quando ero stato fermato dalla sua mano. Per consolazione però, avevo ricevuto un fazzoletto: era intriso del suo profumo e lo avevo conservato a lungo nel taschino del giubbotto.

    Infine completai quel fastidioso iter e potei seguire mio cugino fuori del tetro edificio. Lungo la strada si incontravano soltanto soldati. In questura, Gandolfo si era fatto dare un lasciapassare perché la città era in stato d’assedio. Il generale Bava Beccaris aveva installato la propria tenda in piazza del Duomo dopo che i rivoltosi avevano rovesciato una vettura del nuovo tram elettrico che portava al corso Sempione. Non si udivano rumori se non lontani schiocchi come colpi di frusta a un cavallo riottoso.

    «Sono spari», fece il cocchiere e non sembrava affatto turbato. «Mi hanno detto che sono state innalzate barricate alle porte e lungo i bastioni».

    «Spari?», chiesi io.

    «Sì, certo». Gandolfo si accese un sottile sigarillo avana. «La camera del lavoro ha proclamato lo sciopero generale. Così gli scansafatiche avranno un giorno in più per ubriacarsi e picchiare le loro mogli».

    Presi a riflettere su quanto stava accadendo. Quindi il mondo continuava a muoversi a dispetto della mia immobilità, della spossatezza che mi aveva afferrato. Finora ero stato indifferente. Avevo soltanto tentato di soccorrere un ferito ed ero stato scambiato per un rivoluzionario.

    Gandolfo espirò una boccata di fumo poi si mise a scrutare le sue ghette.

    «Credo sia meglio che per un po’ tu stia lontano da Milano», disse.

    Forse aveva ragione. Meglio non rischiare che il desiderio di rivedere Carolina mi giocasse qualche tiro mancino.

    «Potrei tornare a Torino». Era in quella città che mi ero laureato. Il mio professore era stato Ernesto Schiaparelli, da quattro anni diventato direttore del museo egizio. Secondo lui avevo un brillante futuro come cultore delle antiche scienze orientali. Brillante, pensai, ma non tanto per il padre di Carolina.

    «No. Torino è una polveriera. Proprio come Milano. È l’Italia intera che deve essere placata. Spero che Pelloux riesca a spazzar via tutta la feccia. Mitraglia per la canaglia».

    «Ma ho letto che è stata aumentata la tassa sul pane», azzardai.

    «E allora?»

    «Allora credo che questo sia il motivo dei tumulti. Se il popolo ha fame, protesta».

    Mio cugino sollevò gli occhi dalle proprie scarpe. Mi squadrò come se improvvisamente mi fossi rivelato a lui. Come guardando un idiota.

    «Mi pare che una notte con quei delinquenti abbia trasformato anche te in un sovversivo. Il popolo deve avere fame. Se non avessero fame quei pelandroni se ne starebbero tutto il giorno sdraiati a spulciarsi e a fare figli. Sì, sì, Elio, credo proprio che sia necessario che tu cambi aria».

    «E dove dovrei andare?»

    «Suggerisco la Svizzera. Te ne vai a Lugano. Per fortuna non hai l’obbligo di passare ogni giorno al commissariato per firmare. Quindi nessuno ha idea di dove tu sia e nessuno ti cercherà».

    «Ma ho il divieto di espatrio», obiettai.

    Gandolfo scosse le spalle.

    «Divieto, divieto. Figuriamoci. Se si dovessero rispettare tutti i divieti non si riuscirebbe a fare niente in questa nazione. Hai presente quella mia proprietà sul lago? Da lì un barcaiolo ti traghetterà nottetempo in Svizzera. Il mio segretario si occuperà di tutto. Quando poi la bufera sarà passata te ne tornerai tranquillamente qui a Milano».

    2

    Lugano, 1899

    Ormai mi trovavo a Lugano da quasi un anno. Seduto su una poltroncina di vimini del caffè Biaggi avevo passato giornate intere a fissare il lago. Appena raggiunta la villa di Gandolfo, prima ancora di espatriare, avevo appreso che il giorno successivo al mio rilascio l’esercito aveva usato il cannone per abbattere le barricate a porta Ticinese e che un soldato era stato fucilato sul posto per essersi rifiutato di sparare sulla folla. Anche un convento di frati cappuccini in viale Piave era stato preso a cannonate mentre i bersaglieri avevano avuto la meglio sugli ultimi rivoltosi.

    A Lugano, fin dai primi giorni mi ero reso conto di non essere l’unico italiano che se ne stava lì a gustare i sorbetti e a bere assenzio. C’era un gruppo di giovani dall’aspetto di studenti scapestrati, con gli abiti sempre in disordine e i capelli poco curati, che occupava due o tre tavolini. Discutevano animatamente ma a bassa voce, come se temessero che qualcuno li vedesse litigare. D’inverno se ne stavano in fondo alla sala dove era sistemata una grande stufa di maiolica. Durante l’estate e ora che stava tornando la bella stagione, occupavano la veranda affacciata sul lago con le pagliette tirate indietro sulla nuca, sudati e irosi a sbracciarsi tra loro. Venni a sapere che erano anarchici. Ogni tanto alcuni agenti della polizia svizzera passavano in perlustrazione. Il gruppetto faceva silenzio e ognuno di loro fingeva di essere assorto nella lettura del «Corriere del Ticino». I poliziotti, per nulla convinti, stavano a guardarli a lungo per poi allontanarsi lentamente. Era una specie di gioco a nascondino. Infatti dopo un po’ gli agenti si voltavano di scatto per vedere che cosa gli italiani stessero facendo. Un comportamento, dal mio punto di vista, abbastanza buffo. Infatti non riuscivo a immaginare che cosa i poliziotti avrebbero potuto scoprire in quel modo.

    Ero anche venuto a sapere che proprio lì era stato arrestato qualche anno prima uno dei complici dell’assassino del presidente francese Carnot. Quindi pensai che era bene tenersi alla larga da gente come quella, anche se, lo confesso, trovavo alcune delle loro idee sulla giustizia sociale non prive di valore. Se il mondo fosse stato diverso, pensavo, persone come l’avvocato Radaelli non sarebbero state tanto presuntuose. Da quel ragionamento ne derivava sempre un altro. Le delizie della mia Carolina ormai destinate a qualcun altro. Perché ero certo che una ragazza così attraente e di famiglia facoltosa non sarebbe certo rimasta zitella. Lei stessa mi aveva parlato, per esempio, del figlio di un notaio destinato a ereditare l’attività del padre che la corteggiava. Carolina rideva quando mi descriveva la goffaggine del suo ammiratore, ma al tempo stesso provava a ingelosirmi e ci riusciva perfettamente.

    Ecco, il pensiero della mia ex fidanzata tra le braccia di qualcun altro mi era davvero insopportabile. Qualche volta – soprattutto lo scorso giugno quando il sole tramontava molto tardi – io provavo a stordirmi con l’assenzio al punto di recarmi a cena quasi brillo. Allora mi facevo servire, nella pensione dove avevo preso alloggio, un brodo caldo di faraona e questo espediente riusciva a placare un po’ della mia ebbrezza.

    Insomma, il mio soggiorno a Lugano era triste. Nei momenti migliori tutt’al più noioso. La sola distrazione era osservare le persone sedute al caffè. Il passeggio infatti era poco interessante e le ragazze avevano l’aria contrita e un po’ bigotta che si respira in quell’angolo di mondo. Il lago, però, era suggestivo. Il cono del monte San Salvatore mutava d’aspetto soltanto se si faceva qualche passo in una o nell’altra direzione. D’inverno si era imbiancato per la neve come un’enorme meringa uscita dalla forma. Durante l’estate mi ero concesso ogni tanto una gita in barca. C’erano pescatori alla ricerca di lucci e cavedani. Venivano prese anche anguille che ogni tanto erano preparate dalla cuoca della pensione e servite a cena, all’aperto, sotto un grande faggio che ombreggiava il giardino.

    Per fortuna la libreria cittadina era ben fornita di romanzi italiani. Avevo riletto De Amicis e letto per la prima volta il Daniele Cortis del Fogazzaro. Avevo anche affrontato D’Annunzio soprattutto dopo le sue proteste per le stragi di Milano. Di D’Annunzio mi incuriosiva anche quanto i giornali rivelavano sulla relazione con Eleonora Duse, molto più anziana di lui.

    Verso la fine dell’inverno vennero giornate particolarmente miti. Il sole scaldava Lugano dalla sponda opposta del lago e io avevo scelto di rimanere all’aperto. Il maître mi aveva portato una coperta per le ginocchia e stavo rileggendo per l’ennesima volta la lettera che Carolina mi aveva inviato dopo molte settimane di silenzio. Lei ripeteva che non mi avrebbe dimenticato. Che la dolcezza dell’amore è anche nell’essere struggente e infelice. Dava la sensazione di avere scritto piangendo. Da un lato si trattava di una sensazione confortante: Carolina mi amava e mi avrebbe sempre amato. Dall’altro era senza consolazione: avrei mai potuto fare qualche cosa perché l’avvocato Radaelli mutasse propositi nei miei confronti? E ora, confinato all’estero da mesi, forse segnalato come un sovversivo, quali possibilità mi rimanevano?

    Mi sembrava che le forze mi stessero abbandonando di nuovo come quando ero uscito dallo studio del padre di Carolina e avevo vagato per Milano. Allora mi ero imbattuto in un ferito ed era stata la mia disavventura. E ora? In quel momento anche la mano si aprì come se non sopportasse neppure il peso di un foglio. La lettera cadde a terra e poi fu trascinata via da uno di quei refoli di vento che rinfrescano l’ora del tramonto. La carta girovagò qua e là tra le gambe dei tavolini e delle sedie, finché non la vidi tra dita sottili che uscivano da una manica orlata di pizzo.

    Balzai in piedi. La ragazza che aveva raccolto la lettera era seduta a un tavolo accanto a due giovani uomini. Quando mi avvicinai me la porse come se fosse un fiore. La teneva tra il pollice e l’indice, delicatamente, e mentre la ringraziavo, mi sorrise in un modo allegro al punto che ebbi la sensazione che potesse averne intuito il contenuto. Una lettera d’amore.

    «Il vento gioca brutti scherzi», mi scusai.

    «Si dice che le parole più leggere siano appunto portate dal vento». La ragazza aveva un accento straniero, ma parlava in un perfetto italiano. Era una biondina, le efelidi sulle guance e teneva il viso rivolto all’ultimo sole. Due riccioli le scendevano lungo le tempie. In un attimo mi resi conto che avevo voglia di continuare la conversazione in qualche modo. Erano giorni che parlavo soltanto con camerieri, postini e impiegati di banca.

    «Già», feci. «Ogni tanto spero che il vento mi sussurri qualche parola lieta».

    «Perché? Non lo fa già?»

    «Non sempre». Sentii un’intonazione amara nella mia voce. I due uomini mi stavano osservando. Poi si scambiarono brevi battute. Parlavano in inglese con accento americano. La ragazza si rivolse a loro come per invitarli a smetterla.

    «Mio fratello è sempre impertinente», disse. «Come tutti i fratelli».

    «Non ho esperienza in materia. Non ho fratelli».

    «Bene. Allora la lettera sarà di qualcun altro. Se non sono indiscreta provo a indovinare».

    Rimasi sorpreso da tanta sfacciataggine ma anche divertito. Era la prima volta da molto tempo. Domandai: «Dove avete imparato così bene la mia lingua?»

    «All’università. Sono qui in Europa proprio perché voglio perfezionarla. Insieme con il latino e il francese».

    Una ragazza che aveva studiato all’università! Da noi era piuttosto raro. Intanto, quello che era stato indicato come il fratello mi invitò a sedermi con loro. Accettai e ci presentammo l’un l’altro. Lui si chiamava Christopher Warren junior e sua sorella Darlene. Il nome dell’altro giovanotto era Frank Adams. Provenivano tutti dalla Nuova Inghilterra e precisamente da Hartford nel Connecticut. Christopher era decisamente il più vecchio del gruppo. Era alto e robusto, già un po’ stempiato con il viso brunito dal sole. Il suo amico era più giovane ed esile. Proteggeva gli occhi con la visiera di un berretto a scacchi calato sulla fronte nonostante fosse ormai tardo pomeriggio.

    «Come mai a Lugano?», domandai.

    Fu Christopher a rispondere.

    «Perché qui mia sorella può esercitarsi con la vostra lingua nella quiete del lago e della Svizzera. E poi perché siamo diretti a Zermatt. Vogliamo salire sul Matterhorn, disgelo permettendo. Almeno fino a dove è consentito ai principianti».

    «Vi interessa l’alpinismo?»

    «Oh, sì! È uno sport magnifico. Ma sulla costa orientale non ci sono montagne adatte. Niente da paragonare alle vostre Alpi».

    La conversazione continuò piacevolmente su vari temi finché mi accorsi che era l’ora della cena nella mia pensione. Quando feci per accomiatarmi, i tre americani, quasi all’unisono, mi invitarono a rimanere con loro. Potevamo cenare tutti insieme nel loro albergo anche quando era già calata l’oscurità. Io accettai di buon grado. Per me si trattava di un diversivo insperato.

    Durante la cena appresi che Christopher (Chris, come lo chiamava la sorella) era un giovane avvocato dal brillante avvenire. Lavorava nel più importante studio legale di Hartford e presto si sarebbe trasferito a Nuova York. Non parlava a caso. Ogni sua parola, ogni ragionamento era logicamente collegato a quelli precedenti. Mi raccontò che appena laureato si era occupato di difendere i diritti dei pellirosse.

    «Avete mai sentito parlare di Wounded Knee?», mi domandò a un tratto.

    Dovetti confessare che quel nome non mi diceva nulla.

    «E di Toro Seduto?»

    «Il capo indiano?»

    «Sì, proprio lui».

    Dissi a Chris che anni prima – ero ancora un ragazzo – mi era stato raccontato del circo Barnum e di Toro Seduto che era una delle attrazioni insieme con Buffalo Bill.

    «Bene», fece l’americano. «Toro Seduto fu ucciso nella sua riserva e poco dopo ci fu un massacro di pellirosse che si erano ribellati. Accadde proprio a Wounded Knee. Un posto sperduto dell’Ovest non lontano dal

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