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Io e te = amore
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Io e te = amore

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About this ebook

Stelle Cadenti Series

2 milioni di lettori nel mondo

Oggi è il primo giorno della nuova vita di Quinton Carter. Il suo passato lo ha devastato, ma Nova Reed lo ha aiutato a rimettersi in piedi. Quinton ha ricominciato a vedere il mondo attraverso gli occhi di lei, così chiari e limpidi. Nova è l’unico motivo per cui il suo cuore batte ancora dietro la terribile cicatrice che ha sul petto. Gli piacerebbe averla tra le braccia ogni minuto della giornata… ma non è ancora pronto. Nova, nel frattempo, suona la batteria in una band e passa il tempo con i suoi migliori amici, ma la verità è che le manca qualcosa. O forse qualcuno. Con Quinton parla al telefono ogni notte. Vorrebbe toccarlo, baciarlo, anche se lei per prima sa di avere bisogno di altro tempo per guarire. Una notizia improvvisa e scioccante, arrivata come un fulmine a ciel sereno, però, le fa capire di aver bisogno di Quinton come lui una volta ha avuto bisogno di lei. Quinton sarà in grado di rompere per sempre con il passato e aprirsi al cuore di Nova?

Dall’autrice N°1 nella classifica del New York Times

Esprimi un desiderio: le stelle cadenti di Jessica Sorensen sono tornate

«Wow. Questa serie è una delle mie preferite in assoluto. Bella e triste, da amare.» 

«Con i libri della Sorensen posso vivere le passioni più estreme, fare tutte le pazzie che mai avrei neppure pensato… Tanto poi chiudo il libro e mi sono presa solo le emozioni senza dover pagare le conseguenze.»

«Quinton, non mi lasciare così! Sono pazza di te!»
Jessica Sorensen
È autrice di romanzi che, originariamente autopubblicati, sono diventati casi editoriali e hanno scalato le classifiche internazionali. La Newton Compton ha già pubblicato The Secret Series e La Serie delle coincidenze conquistando centinaia di migliaia di lettori anche in Italia. Io e te = amore è il terzo episodio della Serie delle Stelle Cadenti, di cui la Newton Compton ha già pubblicato i primi due L’amore verrà e C’è chi dice amore. L’autrice vive con il marito e i tre figli tra le montagne innevate del Wyoming.
LanguageItaliano
Release dateSep 28, 2016
ISBN9788854199422
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    Io e te = amore - Jessica Sorensen

    en

    1382

    Questo romanzo è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in modo fittizio. Qualunque somiglianza con fatti, luoghi o persone reali, esistenti o esistite, è casuale.

    Titolo originale: Nova and Quinton: No Regrets

    Copyright 2014 © by Jessica Sorensen

    All rights reserved

    Traduzione dall’inglese di Alice Crocella

    Prima edizione ebook: novembre 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9942-2

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Jessica Sorensen

    Io e te = AMORE

    Stelle Cadenti Series

    omino

    Newton Compton editori

    Per tutti quelli che hanno lottato

    e sono sopravvissuti.

    Ringraziamenti

    Un grazie immenso alla mia agente, Erica Silverman, e alla mia editor, Amy Peierpont. Vi sarò eternamente grata per tutto l’aiuto e i suggerimenti.

    Alla mia famiglia, grazie di aver sostenuto me e i miei sogni. Siete stati fantastici.

    E infiniti grazie a tutti coloro che leggeranno questo libro.

    Prologo

    Nova

    28 dicembre, il giorno del funerale

    Che strana sensazione prepararsi a guardare qualcuno che viene messo sottoterra, nel luogo del suo ultimo riposo. Di funerali ne ho visti abbastanza da sapere che sempre, in queste occasioni, i miei sensi si affinano, e la percezione di tutto quello che mi accade intorno si fa più intensa: il tocco del vento sulla pelle sembra più forte, il sole più accecante, l’odore delle foglie, dell’erba e della terra fresca penetrante. Come se la mia mente si protendesse nel tentativo di afferrare ogni singolo dettaglio di quegli attimi, mentre una parte di me vorrebbe solo dimenticare.

    Sono davanti alla chiesa, in anticipo sull’orario stabilito, e non so davvero come spiegarmelo, se non per il fatto che non sarei riuscita a restarmene seduta in casa nemmeno un secondo di più. È per questo che sono uscita senza dire nulla a nessuno, mi sono infilata nella mia Chevy Nova rosso ciliegia, l’auto che mi ha lasciato mio padre quand’è morto, e l’ho guidata fino alla chiesa. La stessa che ha già visto svolgersi il funerale di mio padre prima e quello di Landon poi. E tra poco dovrò di nuovo dire addio a una persona che un tempo ha fatto parte della mia vita e che adesso non rivedrò mai più.

    Ora che sono qui, a fissare l’edificio in pietra con la sua torre bianca puntata come un dito contro il cielo, non so bene cosa fare. Sono arrivata a un funerale con tre ore di anticipo, il che, forse, dice molto della persona che sono. La maggior parte della gente, di solito, preferisce arrivare in ritardo, per evitare il più a lungo possibile il confronto con la morte, ma è preoccupante rendersi conto di quanto per me essa sia ormai divenuta familiare.

    Sono dieci minuti che me ne sto seduta in macchina, a guardare i fiocchi di neve che cadono dal cielo e ricoprono l’erba e il parabrezza di un sudario di ghiaccio, e allora decido che tanto vale girare un video. Non ho con me la telecamera sofisticata che mi ha regalato mia madre, ma anche quella del telefono funziona bene, e a essere sincera la uso molto di più, perché è più comoda per le registrazioni occasionali, che a quanto pare sono la mia specialità.

    Faccio un sospiro profondo, mi appoggio allo schienale, mi punto contro la telecamera e inizio a registrare. Lo schermo è rivolto verso di me, ed ecco che subito appare la mia immagine. Ho il viso stanco. Le borse sotto gli occhi sono ben evidenti, anche se ho cercato di coprirle con il trucco, e i capelli, che non hanno voluto saperne di collaborare, sono radunati in una coda di cavallo. Indosso un vestito nero e un paio di orecchini, e il contrasto con la pelle chiara mi fa sembrare ancora più pallida.

    «È incredibile come tutto può sembrare perfetto e poi, all’improvviso, non esserlo più. Quanto può dissolversi in fretta la perfezione… quant’è rara». Mi fermo, radunando i pensieri. «Ho visto moltissima morte. Probabilmente più di quanta ne abbia vista la maggior parte delle persone. Ho guardato la vita di mio padre svanire davanti ai miei occhi nel giro di pochi minuti. Ho trovato il corpo senza vita del mio ragazzo subito dopo che si era suicidato. Troppo presto. Troppo inaspettato. Entrambi. Non ho mai avuto il tempo di prepararmi, e ho pensato che fosse la sensazione più brutta del mondo. Mi sono sempre chiesta se sarebbe stato diverso se fosse successo ancora. Se, forse, dopo la terza o quarta volta non avrebbe fatto così male. Se, essendone divenuta tanto pratica, sarebbe stato più facile dire addio a qualcuno per sempre». Mi infilo dietro all’orecchio una ciocca di capelli sfuggita alla coda e mando giù il nodo che mi si è formato in gola. «E forse è davvero più facile… ma fa ancora male. Piango ancora… È sempre triste… straziante…». La voce mi viene meno, mentre le lacrime mi sgorgano dagli occhi e mi rotolano lungo le guance. «Anche ora, il solo pensiero delle cose che ho visto… avrei dovuto impedirlo, avrei dovuto fare qualcosa…». Mi si affievolisce la voce, mentre guardo il finestrino. «Ma non l’ho fatto… e ora se ne sono andati per sempre».

    Capitolo 1

    Due mesi prima

    30 ottobre, primo giorno nel mondo reale

    Quinton

    Scrivo finché non mi fanno male le mani. Fino a stordirmi. È l’unico sfogo che mi resta. Il mio tentativo di rimpiazzare la droga che ho assunto per anni. Ma la maggior parte delle volte non riesco che in minima parte a riempire il vuoto che ho dentro da quando ho smesso di uccidermi lentamente, iniettando nel corpo quel veleno. Alle volte, però, scrivendo mi sembra, anche solo per un attimo, di riuscire a creare dentro di me un po’ di silenzio, e allora affrontare il prossimo respiro, il prossimo passo, il prossimo battito del cuore diventa un poco più sopportabile. Solo un poco. E così scrivo, solo per cercare quei pochi e rari momenti di pace.

    A volte mi sento come se fossi nato una seconda volta. Una rinascita, la mia, che non ha nulla di religioso. È solo la sensazione che una parte di me sia morta e che ora io debba reimparare a vivere con le parti di me che sono nuove e con quelle che sono sopravvissute. Alcune proprio non riesco a farmele piacere. Parti oscure, spezzate, deformi, alle quali fatico a trovare una collocazione dentro di me. Ma lo psicologo e l’operatore di sostegno che mi seguono nella disintossicazione stanno entrambi cercando di aiutarmi a ricostruirmi come una persona intera, che integri tutte queste diverse parti.

    Ancora non so se sia davvero possibile. Se riuscirò mai a vivere a mente lucida, a sopportare di dover percepire con tanta chiarezza tutte le emozioni che mi bruciano dentro, il peso del senso di colpa, l’insostenibilità di ogni respiro, il battito ostinato del cuore dentro al petto. Ci sto provando, però, e immagino sia pur sempre un inizio. Spero solo che questo inizio riesca a trasformarsi in qualcosa di più, ma ancora non ne sono troppo sicuro.

    «Quinton, sei pronto?». Dopo aver tamburellato piano sullo stipite della porta già aperta, il supervisore della clinica di riabilitazione Belvue, Davis Mason, entra nella stanza.

    Alzo lo sguardo dal quaderno e annuisco, liberando con un sospiro il nervosismo intrappolato nel petto. Oggi è il gran giorno. Torno a vivere nel mondo reale, insieme a mio padre, senza più muri intorno, senza restrizioni. Sono terrorizzato all’idea di uscire di qui, di essere libero di fare ciò che voglio, senza nessuno a guardarmi, a guidarmi. Prenderò le mie decisioni da solo, e non sono sicuro di essere pronto a farlo.

    «Non potrei essere più pronto di così, immagino», rispondo, chiudendo il quaderno e ficcandolo nel borsone ai miei piedi sul pavimento. Esteriormente cerco di dare l’impressione di avere tutto sotto controllo, ma dentro ho il cuore che martella a un ritmo forsennato, e così i miei pensieri. Non riesco a crederci. Sta succedendo. Sto per tornare nel mondo reale. Merda, non ce la posso fare. Non posso. Voglio rimanere qui.

    «Andrà tutto alla grande», mi rassicura Davis. «E sai che se hai bisogno di parlare con qualcuno io sarò sempre qui. Poi ti abbiamo messo in contatto con il gruppo di supporto, e tuo padre ha trovato un ottimo psicologo per sostituire Charles».

    La prima volta che ho incontrato Davis ho pensato che fosse un paziente della clinica, per quel suo modo di fare alla mano e l’abitudine di andarsene sempre in giro in jeans e camicia di flanella. Poi ho scoperto che invece era l’operatore che mi avrebbe seguito nei miei due mesi di ricovero. È un tipo abbastanza fico, ed è un ex tossicodipendente perciò è in grado di capire alcune delle mie battaglie interiori. Non tutte, però.

    Mi alzo e prendo il borsone. «Spero che non ti sbagli».

    «Non sbaglio mai su queste cose», scherza lui, rifilandomi una pacca d’incoraggiamento sulla schiena quando gli passo davanti per imboccare la porta. «Riesco sempre a capire quelli che ce la faranno». Porta due dita alla tempia. «Ho un sesto senso per queste cose».

    Non capisco il suo ottimismo. Avevo pensato che fosse così con tutti, ma non è vero. Una volta l’ho sentito parlare con una delle infermiere, diceva di essere preoccupato per un ragazzo che stava per uscire. Ma ora sembra sicuro che con me andrà tutto bene, e continua a ripeterlo a tutti. Io, invece, non ne sono affatto certo. Fallirò. Lo so. Lo riesco a sentire. A vedere. Sono terrorizzato. Non ho idea di quello che mi succederà. Il prossimo minuto. Il prossimo passo. Il prossimo momento. Provo così tante sensazioni, tutte insieme, che è difficile anche solo pensare lucidamente.

    Passo la cinghia del borsone sulla spalla e mi avvio lungo il corridoio, con Davis che mi segue a qualche metro di distanza. Saluto quel paio di persone che ho conosciuto mentre ero qui e con le quali è nata una vera amicizia. Non sono tante, è difficile farsi degli amici quando si è obbligati a concentrarsi così tanto su se stessi.

    Dopo i veloci saluti, proseguo verso l’ufficio di Charles, che è proprio accanto alla sezione centrale della clinica. Ogni volta che passo in quest’ala dell’edificio, lancio uno sguardo al mondo là fuori, le auto che corrono sulla statale, i pini, l’erba, il cielo, le nuvole. E sempre mi viene voglia di chiudere la porta e rimanere per il resto della mia vita là dietro, perché dietro a quella porta mi sento al sicuro. Protetto da me stesso e da tutte le cose spaventose di fuori. Come negli ultimi due mesi. E ora sto per ritrovarmi da solo nella giungla.

    «Quinton, entra». Vedendomi indugiare sulla porta, mentre fisso l’uscita alla mia destra, Charles m’incoraggia con un cenno della mano.

    Distolgo lo sguardo ed entro nell’ufficio, una stanza stretta con un paio di sedie in legno, una scrivania e quadri di paesaggi appesi alle pareti. È semplice, nessun elemento di distrazione, forse allo scopo di costringere chiunque vi entri a concentrarsi solo su se stesso. Ho avuto diversi crolli, qui dentro, quasi tutti scaturiti dall’insistenza di Charles a farmi aprire, anima e cuore, sull’incidente e sui sentimenti connessi alla morte di Lexi e di Ryder. Non ho ancora tirato fuori tutto, ma sono sicuro che ci arriverò. Un giorno. Per ora mi limito a fare un passo alla volta. Giorno dopo giorno.

    «Quindi, oggi è il gran giorno», dice, alzandosi dalla poltrona dietro alla scrivania. È un ometto basso, con un orribile riporto, che indossa giacche con le toppe sui gomiti. Ma è gentile, e capisce le cose come riescono in pochi. Non so se per via della laurea che tiene appesa al muro o perché ha vissuto anche lui esperienze difficili. Se è così, non me ne ha mai parlato. «Siamo qui per parlare di te e di quello che hai passato tu», diceva sempre, ogni volta che cercavo di spostare la conversazione su di lui. L’ho odiato per questo. E ancora un po’ lo odio, perché ha aperto parecchie maledette porte che credevo di aver chiuso per sempre. Ne sono uscite cose che ancora continuano a uscire, come da un rubinetto che perde e che non riesco a chiudere, anche se ora non sono più così sicuro di volerlo fare.

    «Già, immagino di sì». Avanzo al centro della stanza e rimango fermo lì, in piedi, alle spalle di una delle sedie, aggrappato allo schienale per tenermi su perché ho le gambe molli come due spaghetti.

    Lui mi rivolge un sorriso. «So che sei un po’ preoccupato di come potrebbe andare là fuori, ma ti assicuro che se rimani fedele a quello che ci siamo detti andrà tutto bene. Continua a frequentare gli incontri e a scrivere». Fa il giro della scrivania e mi si ferma davanti. «E continua a lavorare sul dialogo con tuo padre».

    «Proverò», dico preoccupato. «Ma è una strada a due sensi, perciò…». Mio padre è venuto a trovarmi un paio di volte, e Charles ci ha fatto da intermediario. Faticoso è uno degli aggettivi che utilizzerei per descrivere il tempo che abbiamo trascorso a parlare. E poi scomodo e imbarazzante. Ma è servito a rompere il ghiaccio, almeno quel tanto che basta perché l’idea che sto per tornare a vivere di nuovo con lui, sotto lo stesso tetto, non sembri assolutamente terrificante. È solo terrificante, e basta.

    Charles mi posa una mano sulla spalla e mi guarda dritto negli occhi. «Non devi provarci. Fallo e basta». Lo dice sempre, quando qualcuno si mostra dubbioso. Fallo, fallo, fallo.

    «Va bene, gli parlerò», gli concedo, ma solo perché lo farò non significa che anche lui sarà disposto a parlare con me. Ormai lo conosco a malapena. No, senza ormai. Non l’ho mai conosciuto sul serio, ed è come se mi stessi trasferendo a vivere da un estraneo. Ma posso farcela. Sono forte. Continuo a ripetermi queste parole.

    «Bene». Charles mi stringe per un attimo lo spalla e poi mi lascia andare. «E ricordati che se hai bisogno di parlare con qualcuno io sono sempre qui». Fa un passo verso la scrivania. «Hai il biglietto da visita col mio numero, giusto?».

    Mi batto la mano sulla tasca. «Certo».

    «Bene. Chiamami se hai bisogno di qualcosa». Sorride. «E abbi cura di te, Quinton».

    «Grazie. Anche tu». Mi volto verso la porta, col petto che mi si stringe a ogni passo un po’ di più. Quando esco nel corridoio sto per andare in iperventilazione. Ma continuo ad andare. A respirare. A camminare. Finché raggiungo la sala vicino all’uscita, dove seduto su una sedia in un angolo mi aspetta mio padre. La testa china e gli occhiali sul naso, legge il giornale che tiene sulle ginocchia. Indossa pantaloni e camicia, probabilmente il vestito che mette tutti i giorni per andare in ufficio. Oggi dev’essere uscito prima, per venirmi a prendere, e mi domando come questo lo faccia sentire: se sia irritato con me, come un tempo, o felice di vedermi finalmente uscire. Immagino che forse potremmo parlare di questo, nel viaggio in auto che ci aspetta.

    Senza dire una parola, attraverso la stanza per raggiungerlo. Avvertendo la mia presenza, alza lo sguardo proprio mentre mi sto fermando davanti a lui.

    Sbatte gli occhi un paio di volte, come sorpreso dalla mia apparizione. «Oh, non ti ho nemmeno visto arrivare», dice, riponendo il giornale sul tavolo accanto alla sedia. Dà un’occhiata all’orologio sul muro e si alza in piedi. «Pronto ad andare?».

    Faccio un cenno col pollice alzato, nonostante la cinghia del borsone. «Sì, credo di sì».

    «Perfetto, allora». Si batte le mani sulle gambe in un gesto goffo, guardandosi attorno nella stanza come se si aspettasse di veder arrivare qualcuno a togliermi dalle sue mani. Quando realizza che non succederà nulla, che siamo solo io e lui, mi rivolge un piccolo sorriso forzato. Poi si avvia alla porta, e io lo seguo riluttante. Dieci passi dopo, sono libero. È tutto qui. Mi sembra accaduto tutto così in fretta. Troppo in fretta. Un attimo prima sto facendo i miei saluti e l’attimo dopo eccomi a varcare la porta, e sono fuori, nell’aria fresca. Niente più muri a proteggermi, persone che possano capire quello che sto passando.

    Esisto, e basta.

    La prima cosa che noto è come sia abbagliante. Non caldo, ma abbagliante. Anche l’erba è dorata, come le foglie sugli alberi. Il mondo è passato dall’estate all’autunno, nei due mesi del mio soggiorno qui, e non me ne sono nemmeno accorto. Eppure sono stato all’aperto e tutto il resto, ma non ero libero. La libertà fa sembrare le cose diverse. Io mi sento diverso. Nervoso. Precario. Come se stessi per cadere.

    «Quinton, stai bene?», chiede mio padre, scrutandomi mentre si toglie gli occhiali, come se con quel gesto sperasse di riuscire a vedere quello che succede nella mia testa. «Sembri sul punto di sentirti male».

    «Sto bene». Strizzo gli occhi davanti alla lucentezza assoluta di essere fuori. «È solo che essere fuori mi sembra un po’ strano».

    Mi rivolge un altro sorriso tirato, poi distoglie lo sguardo e si dirige al parcheggio accanto all’edificio. Io mi trascino dietro di lui, afferrando la cinghia del borsone che porto a tracolla, il vento mi sfiora le guance, provocandomi una sensazione di innaturalezza. Proprio come le auto che viaggiano avanti e indietro lungo la statale con un rumore che sembra troppo, troppo forte. Ho l’impressione che tutto sia più intenso, perfino l’aria fresca che mi riempie i polmoni.

    Finalmente, dopo quella che pare un’eternità, mi ritrovo nell’auto, la cintura di sicurezza ben salda sulla spalla. Tutto si fa silenzioso, mentre mio padre gira la chiave nell’accensione e il motore si sveglia rombando. E poi, eccoci che percorriamo il vialetto in ghiaia diretti alla statale, lasciandoci alle spalle, nella distanza, il centro di riabilitazione, il posto che negli ultimi due mesi mi ha protetto dal mondo e dal dolore che gli è legato.

    Per quasi tutto il tragitto verso casa rimango in silenzio, e mio padre all’inizio sembra contento così, ma poi all’improvviso inizia a tartassarmi di domande banali come se il livello del riscaldamento mi sembra giusto o troppo alto, e se ho fame, perché se voglio può fermarsi e prendermi qualcosa da mangiare.

    Scuoto la testa, tormentando un buco dei miei jeans sul ginocchio. «Papà, sto bene, te l’assicuro. Non c’è bisogno che continui a cercare conferme».

    «Sì, ma…». Fatica a trovare le parole, mentre stringe il volante, le nocche bianche per lo sforzo. «Ma hai sempre detto di star bene, anche in passato. Solo che poi, dopo aver parlato con te insieme a Charles… mi è sembrato di capire che avessi bisogno di parlare con me, ma non l’hai fatto».

    Probabilmente sta pensando a quando, in uno dei nostri incontri, gli ho detto che mi sentivo in un certo modo responsabile per la morte di mia madre, perché mi sembrava che lui non volesse avere nulla a che fare con me. La mia rivelazione l’aveva scioccato, ed ero rimasto scioccato anch’io nel constatare che non si era mai reso conto di come mi sentissi e quanto il nostro modo di vedere le cose fosse distante.

    «Ma adesso ti assicuro che sto bene». Man mano che ci avviciniamo a casa serro sempre più forte le mani chiuse a pugno. Respiri profondi. Respiri profondi. Posso farcela. La parte più difficile è finita, giusto? Ora sono pulito. «Ho mangiato poco prima di uscire e la temperatura è quella giusta, né troppo calda né troppo fredda. Va tutto bene. Sto bene». Il che è vero, in gran parte.

    Annuisce, rassicurato, e si concentra sulla strada. «Bene, se hai bisogno di qualcosa dimmelo».

    «Lo farò». Dirigo la mia attenzione al finestrino e guardo i contorni confusi del paesaggio che sfreccia là fuori, passando gradatamente dagli alberi alla campagna e alla fine alle case, mentre attraversiamo la periferia della città. Prima che me ne renda conto, stiamo entrando nel quartiere della mia infanzia, fatto di strade senza uscita e abitazioni modeste. È qui che tutto ha avuto inizio, che tutto è cambiato, che sono cresciuto e ho deciso che mi sarei ucciso lentamente, imbottendomi il corpo di droga. Sono passato davanti a ognuna di queste case almeno un migliaio di volte, a piedi, in bici, in macchina, eppure mi sembra tutto così estraneo, e mi sento stordito. Quando oltrepassiamo una delle case dove andavo a comprare la droga la sensazione non fa che intensificarsi. Comincio a chiedermi se spacciano ancora, là dentro, o se le cose sono cambiate. E se lo fanno? Se mi ritrovo con la droga a portata di mano? Proprio là? Ad appena qualche isolato da casa? Riuscirò a resistere? Non sono sicuro. Al momento non sono sicuro di niente, perché non riesco a immaginare il mio futuro nemmeno tra cinque minuti.

    L’adrenalina mi pompa senza sosta nelle vene e non importa con quanto impegno cerchi di calmare il mio cuore, non ci riesco. E quando ci accostiamo al vialetto della nostra casa a due piani, con le sue persiane blu e i muri bianchi, i battiti non fanno che aumentare. Sono stato in questa casa più volte che in qualsiasi altro posto del mondo, eppure mi sembra di non esserci mai stato prima. Non so nemmeno se sia mai stata davvero casa mia oppure soltanto un tetto sulla mia testa. Non sono più sicuro di nulla. A quale luogo appartengo. Cosa dovrei provare. Chi sono.

    Nasco una seconda volta.

    Ma a cosa rinasco?

    «Benvenuto a casa», dice mio padre, che ha di nuovo il suo sorriso tirato. Parcheggia l’auto davanti al garage e spegne il motore.

    «Grazie». Gli restituisco il sorriso forzato, augurandomi che non finiremo a far sempre finta che vada tutto bene l’uno con l’altro perché impazzirei.

    Lui sfila le chiavi dall’accensione mentre io prendo la borsa dal sedile posteriore, poi usciamo dall’auto e ci incamminiamo lungo il vialetto fino al portone, che lui apre, e siamo dentro. Mi colpisce come una valanga di mattoni che mi prende in pieno petto, levandomi il fiato. Fa male. Troppo male. Dovevo essere più preparato. I ricordi, un vortice dentro di me. Quelli belli. Quelli brutti. Quelli legati alla mia infanzia. A Lexi. È troppo. Voglio fuggire da quella porta, rintracciare uno dei miei vecchi amici tossici e scoprire se si fa ancora e se può rimediarmi qualcosa – qualsiasi cosa – pur di non sentire le emozioni che mi turbinano dentro.

    Bisogno.

    Astinenza.

    Bisogno.

    Ora.

    Inghiotto l’aria in un respiro sbigottito e mi volto verso le scale, ripetendomi che devo essere più forte. «Vado a disfare il bagaglio», dico salendo.

    «Va bene». Mio padre lascia cadere le chiavi sul tavolo accanto alla porta, sotto una foto che pende dal muro e che ritrae lui e mia madre il giorno delle nozze. Sembra felice in quella foto, un’emozione che gli ho visto raramente. «Vuoi qualcosa in particolare per cena?»

    «Va bene tutto». Ricordo tutti i giorni che sono andato avanti senza cenare, quando nutrivo il mio corpo di eroina e metamfetamine. Ritrovare la salute è stato, effettivamente, parte del mio programma di recupero negli ultimi due mesi. Esercizio fisico. Alimentazione sana. Pensieri sani. Avevo scelto di fare alcuni esami, tanto per vedere fino a che punto ero malridotto, se bucandomi avessi procurato al mio corpo danni permanenti. Come l’hiv o l’epatite. Era risultato tutto negativo, e ora credo di esserne grato, ma all’epoca non ne ero stato felice, perché una malattia mi sembrava il biglietto di

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