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Tre indagini per l'ispettore Santoni
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Tre indagini per l'ispettore Santoni

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L’ispettore più amato dagli italiani

Il suicidio perfetto - La mossa del cartomante - Tre cadaveri sotto la neve

Un autore finalista al Premio Strega

3 romanzi in 1

Marzio Santoni, ispettore di polizia a Valdiluce, ha un grande fiuto. Affascinante ma schivo, è anche uno sciatore provetto che preferisce trascorrere il tempo libero in mezzo ai boschi piuttosto che al caldo dei rifugi.
Lupo bianco, così lo chiamano tutti per via di un olfatto fuori dal comune, ha un passato di indagini da prima pagina, ma da quando è tornato in provincia è costretto a occuparsi di insignificanti inchieste locali. Meglio non abbassare mai la guardia, però, perché il delitto perfetto potrebbe essere dietro l’angolo… In questi tre romanzi, riuniti in un unico volume per la prima volta, l’ispettore Santoni dovrà capire come e perché una donna attraente ed enigmatica come Elisabetta, venuta a Valdiluce con le amiche per rilassarsi, sia stata uccisa nella sua stanza d’albergo; se l’incendio che ha provocato la morte della sarta Marietta Lack sia il primo di un efferato serial killer; se la valanga che lo ha travolto e da cui è scampato per miracolo sia stata provocata da qualcuno intenzionato a farlo fuori…

Hanno scritto di Franco Matteucci:

«Un romanzo che cattura, che squarcia un velo sui vizi e sui segreti di una piccola comunità di provincia, che appassiona e intriga, che si nutre di indizi che il disgelo potrebbe cancellare.»
Mauro Castelli, Il Sole 24 ore

«È nel saper cogliere il valore non superficiale dei dettagli, che Matteucci, giovandosi della concretezza imposta dal giallo, trova la sua cifra narrativa più convincente.»
Giorgio Montefoschi, Corriere della Sera

Le indagini dell’ispettore più amato dagli italiani
Franco Matteucci
Autore e regista televisivo, vive e lavora a Roma. Ha scritto i romanzi La neve rossa (premio Crotone opera prima), Il visionario (finalista al premio Strega, premio Cesare Pavese e premio Scanno), Festa al blu di Prussia (premio Procida Isola di Arturo – Elsa Morante), Il profumo della neve (finalista al premio Strega), Lo show della farfalla (finalista al Premio Viareggio – Rèpaci). È autore di una serie di gialli di grande successo che hanno per protagonista l’ispettore Marzio Santoni: Il suicidio perfetto, La mossa del cartomante, Tre cadaveri sotto la neve, Lo strano caso dell'orso ucciso nel bosco e Delitto con inganno. I suoi libri sono stati tradotti in diversi Paesi.
LanguageItaliano
Release dateJul 1, 2016
ISBN9788854196698
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    Tre indagini per l'ispettore Santoni - Franco Matteucci

    1334

    Questo libro è un’opera di fantasia.

    Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto

    dell’immaginazione dell’autore o sono usati in maniera fittizia.

    Qualunque somiglianza con fatti, luoghi o persone,

    reali, viventi o defunte è del tutto casuale.

    Prima edizione ebook: luglio 2016

    © 2013, 2014, 2015, 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9669-8

    www.newtoncompton.com

    Franco Matteucci

    Tre indagini

    per l’ispettore Santoni

    Il suicidio perfetto

    La mossa del cartomante

    Tre cadaveri sotto la neve

    Newton Compton editori

    Il suicidio perfetto

    RINGRAZIAMENTI

    Un ringraziamento speciale a Giusi Sorvillo e Claudio Giustini.

    1

    Lupo bianco scalò il pendio con la sua Vespa. Scarburò gas inquinanti, smarmittò fumi alcolici, cambiò sul manubrio grasso di grasso la quarta in terza, la terza in seconda. Si sparò in faccia il vento freddo. Di schiaffi ne aveva presi fin da piccolo, ma quelli erano i più belli. Manate di ghiaccio a ritmo di rock.

    Lupo bianco, nato in un cesto di tramontana, con la brina nel sangue, ne aveva mangiata di neve. Sverginata anche, rispettata sempre, quando da bambino infilava gli scarponi nelle orme già fatte, per non sciuparla. Adesso gli mancava. Da almeno cento anni non si era visto a Valdiluce un febbraio così strambo. Di notte meno tre, di giorno più venti. Sulla strada era adagiata una sfoglia di galaverna che dava l’illusione della neve.

    Lanciò al massimo la Vespa. Attraversò il ponte. La nebbia era ingabbiata come una balla di cotone. Su quei tornanti aveva trascorso la vita, a piedi spesso, con dei fogli di giornale infilati sotto la camicia per proteggersi dal vento. Occhi azzurri, capelli biondi sciolti, fazzoletto rosso al collo, maglione grezzo, pantaloni di velluto. Lupo bianco guidava a mani nude. Forti, sicure, educate. Chiunque ci si sarebbe affidato: un bambino, una donna, un vecchio. Quelle stesse mani potevano anche diventare arma pericolosa, abituate com’erano a lavorar d’ascia, scalare le pareti, sciare, smuovere le montagne. Atletico, con quell’aria ecologica, aveva avuto molte donne, tutte volanti, relazioni provvisorie.

    Ma da pochi giorni aveva conosciuto lei, Elisabetta, e c’era stato un principio d’amore. Intimità insolita per Lupo bianco, abituato com’era fin da bambino a trattenere i sentimenti. Elisa, la madre d’indole mesta, aveva trascorso una vita in pantofole, attaccata alla stufa e alla chiesa. Alfonso, il padre, sempre a spaccare il bosco. Uomo solitario, il toscano tra i baffi. In quella esistenza prussiana, dalle regole ferree, non c’era mai stato un rilassamento, un colpo di calore.

    Elisabetta lo aveva sciolto come cioccolato caldo. Con lei poteva immergersi, spargersi, offrirsi. Mentre andava in Vespa, ripassò i frammenti di qualche ora prima. Elisabetta nuda, bianca come l’assoluto. Le sue cosce, il bacino, le labbra in voli appiccicati. I capelli spalmati sulle mani o sulle gote o sul cuscino. A spiare gli occhi socchiusi. Un ricordo che ciondolava come un ninnolo sul manubrio della Vespa. Elisabetta sarebbe partita tra poco con l’autobus, per tornare al suo paese, Vissone sul mare. Finita la settimana bianca. Un soffio di tristezza, ma non sarebbe stato un bacio d’addio, si erano impegnati di vedersi ancora.

    Lupo bianco si chinò spericolato; terza, seconda, prima, il motore ruggiva, spaccava il silenzio di quelle curve solitarie, lastricate da antiche circonferenze. Il sole si era tolto il passamontagna. Spicchi di luce entravano nel bosco come da una tapparella socchiusa. Dik, il setter irlandese di Osvaldo, sbucò dalle frasche. Per un lungo tratto costeggiò la strada, con il suo manto fulvo, nel vento, a fare a gara con lo scooter. Spavaldo, s’infilò nel bosco e scomparve. Lupo bianco rasentò la chiesetta. Sulla porta illuminata dalle candele, don Sergio si stagliava come un santino. Grosso prete, barba lunghissima fino a toccar terra. Accoglieva gli albergatori devoti alla prima messa, per raccomandarsi al Signore.

    «Fai cadere la neve, ti prego, o Dio».

    Sulla strada verso la piazza, un gruppo di sciatori smaniava nel fango con scarponi gialli, rossi, bianchi. Cinghiali infuriati, in attesa del bollettino meteo. Sole, sole, sole. Avrebbe sciolto la neve sparata nella notte con i cannoni. Le uniche felici erano quattro giovani donne, tutte ammogliate, Elisabetta, il principio d’amore di Lupo bianco, e le amiche Flaminia, Angela e Stefania. Avevano vinto un soggiorno premio al residence Il bucaneve di Valdiluce. Una settimana spesa ad abbronzarsi in bikini sui terrazzi dei rifugi, tra corteggiamenti e sciroppi di lampone. Meglio che una vacanza a Miami.

    Terza, seconda, prima, colpetto di freno, gas. Lupo bianco sfiorò l’ambulatorio. Il medico condotto Ugo Lanzetti aveva steso ad asciugare i suoi ultimi dipinti, una sequenza di panorami innevati che dondolavano come diapositive. Sulla piazza, il pullman sembrava un bruco azzurro. Mentina, l’autista, stava succhiando una caramella, forse per mascherare il Ginpin, il liquore tipico del posto. Il motore acceso. Dal tubo di scappamento esalava una nuvola grigia. Mancavano pochi minuti alla partenza. Dentro l’autobus, incorniciati dai finestrini come quadri, i volti di Marietta, la maestra che insegnava a Rocalta, frazione a sei chilometri, Francesca, bidella dell’istituto tecnico di Valstura, Giuseppe, pendolare in fabbrica, la terribile Morena, capelli irrequieti e sguardo di falce, infermiera all’ospedale di Vicosauro. Sornioni come gatti in gabbia, soppesavano i fatti, per ingegnare qualche pettegolezzo.

    «Che ci faceva Lupo bianco a quell’ora, con la Vespa, alla partenza del bus?».

    Lui panoramicò lentamente sulla piazza, analizzò con lo sguardo ogni millimetro di spazio, sui muri, sulle insegne dei locali, sull’abete spruzzato di neve artificiale come una beffa. Inquadrò ogni angolo, sviluppò, ingrandì i pixel, dilatò le narici, inspirò: nessun segnale del corpo di Elisabetta. In quei giorni aveva percepito un’unica fragranza, un po’ contadina, agreste, la sua nudità odorava di frumento. Ma dov’era Elisabetta? E le sue amiche? Mancavano tutte all’appello.

    «Mentina, non sono arrivate quattro ragazze che stamani dovevano prendere la corriera?»

    «Vedi quello che vedi, abbiamo sempre la stessa merce».

    «Saranno in ritardo…».

    «Ormai è l’ora. Parto».

    «Aspetta un minuto».

    «Un minuto e vado. Peggio per loro».

    In quell’attimo, mentre tutto sembrava sciogliersi al sole, nel profumo di resina che affiorava dagli abeti, squillò il telefonino di Lupo bianco. Fu come se una collana di perle si spezzasse e ogni piccola sfera precipitasse in giro. Una voce concitata gli urlò la tragedia, lo implorò di far presto, di correre al Bucaneve. Lupo bianco tornò a essere quello che era: l’ispettore Marzio Santoni, responsabile del posto di Pubblica sicurezza di Valdiluce.

    2

    Lo scooter strepitava imballato. Troppo lento per la fretta che aveva in corpo. L’ispettore Marzio Santoni detto Lupo Bianco si vedeva congelato nel panorama, quasi immobile. Per raggiungere il residence avrebbe fatto prima a piedi, per le scorciatoie. Appoggiò la Vespa a un muretto e corse feroce. Le suole delle scarpe alzavano terra e foglie. I capelli biondi cavalcavano il cielo che si stava facendo più azzurro. Un animale. Calcolava il percorso più veloce, le distanze, la pendenza, il terreno scivoloso, le fratte, l’abetina bassa: ostacoli che evitava. Le immagini gli luccicavano disegnate, quasi che un navigatore gli segnasse la via. Frecce, angoli, curve, diritture. Rimbalzavano in testa le parole concitate di Agostino Uberti, il custode del residence.

    «Corri, corri, è una tragedia!».

    Elisabetta occupava un appartamento con le tre amiche. Considerando che gli ospiti, con quella penuria di neve, erano pochissimi, era tutto prevedibile. Inutile illudersi. La troppa felicità di quei giorni, il principio d’amore, dovevano per forza essere castigati?

    Sotto il sole dilagavano le esalazioni di resina, avvolte da una leggera nebbia. Un odore che avrebbe potuto uccidere, dicevano i vecchi. Si erano trovate delle volpi morte, senza un apparente motivo.

    Marzio Santoni riusciva a percepire i profumi in qualsiasi condizione, a separarli, distinguerli. Marcio dalle foglie, terra muschiata. Una dote. Sbucò dalla foresta di faggi. Il residence sembrava un castello maledetto, le pietre grigie, il tetto verde rame, la torretta. Nella pupilla azzurra di Lupo bianco s’installò il frammento di un moscerino che ronzava nel cielo. Lontanissimo. Un punto e virgola. Il falco Trogolo, il vascello fantasma, la maledizione di Valdiluce. Ciottolava con la catena appesa alla zampa. Una storia arcaica.

    Leopoldo, il macellaio, aveva esposto come attrazione davanti al suo negozio un falco. Fu un grande successo. La gente di città veniva a vedere il rapace, si divertiva a incitarlo. Trogolo trascorreva il giorno a lacerarsi la zampa per cercare di fuggire; la notte, nel silenzio, recuperava le forze, poi dall’alba riprendeva il supplizio. E con le ali aperte, nel breve spazio che la catena gli consentiva, sollevava polvere e sangue. Finché un giorno, il filo si spezzò. Da non crederci. Il falco volò nel cielo con quell’avanzo di prigione attaccato alla zampa. A ogni colpo d’ala risuonava come un carretto sgangherato. Il falco Trogolo. Un presagio infausto.

    Marzio aumentò il passo, in salita, inclinato contro la forza di gravità; sembrava fosse lui a imprimere il movimento di rotazione al pianeta terra. Dalla bocca sparava fiato appannato. Con il naso braccava gli odori. Uno, in particolare, più procedeva e più aumentava. Sopravanzava qualsiasi altro. Infido e sottile. Gas metano. Da stare male. Accese lo spavento. Agostino, occhi spiritati, tossiva le parole.

    «Ispettore, c’è stata una fuga di gas, è successo qualcosa di tremendo!».

    «Dove?»

    «Appartamento

    12

    ».

    «Chi c’è dentro?»

    «Le quattro ragazze».

    Marzio avvolse intorno alla bocca il fazzoletto rosso che teneva sempre al collo. Agostino lo seguiva completamente imbambolato, piangeva, singhiozzava, batteva i pugni contro il muro.

    «Sbrigati, stacca la luce».

    «Già fatto».

    L’appartamento 12 era chiuso. Agostino tentò di aprire la porta usando il suo passepartout, ma gli tremavano le mani, non riusciva a infilarlo nella serratura. Con una spallata Marzio scaraventò giù l’uscio. Buio. Navigò nel gas mischiato a un caldo soffocante. Avrebbe voluto sussurrare il nome di Elisabetta, sentire la sua voce, scoprirla ancora viva, ma non lo fece. Con un filo di speranza aprì la finestra, la luce si spappolò dentro la stanza e illuminò una scena spietata: su ciascun letto giacevano Stefania, Flaminia, Angela, composte, bambole addormentate. Elisabetta sbarrata su un fotogramma che non le rendeva giustizia. Una smorfia, occhi sgomenti, capelli imbrogliati da un disordine che lei non avrebbe tollerato. Marzio la fissò con strazio. Non restava nulla della sua bellezza. Volata via. Un fardello immoto.

    L’ispettore Santoni provò a guardarla con distacco professionale, come se dovesse cancellare d’un tratto l’emozione. Impossibile. Ferito a morte, in trappola. Braccato dai cani. Una freccia avvelenata percorse le vene, trafisse i muscoli impietriti e infine raggiunse l’inguine. Rabbia da farneticare. Marzio strinse nel pugno il film di quei giorni. Il volto dolce, sorridente di Elisabetta. I loro incontri. L’ultimo bacio melodioso. Sulle labbra raccoglieva l’incanto del suo corpo. Marzio stritolò il racconto tra le dita. Un delirio. Forse era colpa del gas che continuava a fuoriuscire. Stava perdendo i sensi. In ginocchio raggiunse la cucina. Controllò i pomelli, tutti aperti. Non li chiuse per paura di cancellare qualche impronta, la scena del crimine andava conservata intatta. Cercò il rubinetto centrale del gas. Era aperto. Da lì partiva il sibilo velenoso, la bocca del drago, il fiato della morte. Slacciò il fazzoletto rosso dalla bocca, lo arrotolò su una mano, per non lasciare tracce. Serrò con forza la manopola di ferro, quasi che con quel gesto si potessero far tornare in vita le quattro donne. Gli sfuggì una goccia di sudore, poteva essere una lacrima, volò nella luce, l’afferrò, l’asciugò sui pantaloni di velluto.

    «Ispettore. Si sente male?».

    Agostino lo fissava con gli occhi morbosi, come se cercasse di mettere a nudo il turbamento di Marzio. Lui tornò a essere l’ispettore. Brusco, lo allontanò dall’appartamento: «Esci immediatamente. Aspetta fuori».

    3

    Adesso che il gas defluiva dall’appartamento, Marzio capì di trovarsi di fronte a una sciagura. Si tolse dalla mano il fazzoletto rosso. Lo legò sulla fronte. Un apache dolente. Provò a osservare la realtà come se non gli appartenesse. Era indispensabile dissotterrare gli strumenti dell’indagine investigativa, arrugginiti dagli anni trascorsi a Valdiluce.

    Marzio aveva avuto un passato importante, come detective. Da ragazzo era entrato nel gruppo sportivo della polizia. Con successo. Vinti molti trofei, soprattutto in discesa libera e slalom, a ventitré anni aveva deciso di rimanere in Pubblica sicurezza. Alla scuola superiore si era applicato con profitto, un lungo tirocinio presso le squadre mobili di numerose città dove aveva seguito casi sempre più complessi.

    Il poliziotto Marzio Santoni praticava uno stile d’indagine inconsueto: usava al minimo gli strumenti di laboratorio, poco o niente

    dna

    e obitorio, molti passi fatti nella mente, camminate naturali, di scarpone, soppesate nel dettaglio. Lunghezza giusta, mai approssimativa, eseguita con perfezione matematica, un procedere che esprimeva la stessa potenza sia in pianura che in salita. Inesorabile sino alla vetta.

    Bio-detective, non devastava i campi, avanzava sottile, educato, arrivando sempre alla soluzione del caso. Percepiva gli odori con la sensibilità di un animale selvatico. Diffidente e misterioso, aveva più tane di una volpe. Nessuno sapeva della sua vita privata. Anche i colleghi lo chiamavano Lupo bianco, il soprannome che si era portato dietro fin da bambino.

    Ma un giorno, all’improvviso, l’orologio su cui regolava l’esistenza perse la bussola. Marzio capì che dentro la città era chiuso in un palmo di cielo, le nubi rintanate dietro i tetti apparivano a tradimento, il sole non sorgeva o calava in un luogo preciso. Fu allora che scattò il richiamo brado. Doveva tornare sulle sue vette, cogliere lo spazio infinito, riprendersi l’indole del lupo. Rinunciando anche a una brillante carriera. Grazie all’appoggio del supercapo della polizia Soprani, riuscì a farsi nominare ispettore responsabile del piccolo posto di Pubblica sicurezza di Valdiluce. Con Soprani aveva instaurato un rapporto di confidenza. Erano spesso andati a sciare insieme. Il supercapo aveva agevolato quel trasferimento per tenere sempre a portata di mano Marzio, il miglior maestro di sci della polizia.

    A trentatré anni ne aveva viste di porcherie, conosciuto il marcio, la violenza, il conflitto a fuoco, ma mai e poi mai avrebbe immaginato di potersi trovare di fronte a un caso così sconvolgente.

    Quattro donne decedute. Insieme. A Valdiluce. Nell’appartamento 12 del Bucaneve era caduto un silenzio assoluto, come se la morte avesse assorbito tutti i rumori. Avvolto nell’ovatta, intossicato dal gas e dall’emozione, Marzio riprese ad analizzare l’ambiente. Sembrava che Elisabetta durante la notte avesse smaniato per il caldo. Le coperte erano sottosopra, dalle lenzuola sbucava un seno nudo. Indossava i calzettoni che le aveva regalato Lupo bianco. Il suo maglione rosa giaceva abbandonato sul pavimento. Un’altra insufficienza.

    La morte non aveva rispettato la sua maniacale perfezione nei dettagli. Una piega fuori posto metteva a soqquadro la mente di Elisabetta. Casalinga irriducibile. Marzio aveva cercato di trattenerla, ma lei si era impadronita della sua casa. Aveva riordinato tutti i cassetti, lavato e stirato le camicie. E adesso se la ritrovava priva di vita, inerme, inutile, in quel letto piccolo di bambina. Le mani senza forza, spampanate, come fiori bianchi. Marzio si avvicinò, la toccò sul collo. Un gelo diverso, più di una malattia. Un’immaginazione interrotta. Per sempre.

    Le altre tre donne, Flaminia, Angela, Stefania, anch’esse morte. A prima vista un suicidio, se fosse capitato per qualche motivo accidentale non avrebbe trovato tutte e tre le ragazze allungate nel letto, adagiate come ad attendere una volontà. Solo Elisabetta appariva meno accondiscendente, forse aveva tentato una reazione. Per non morire. Un omicidio con il metano della cucina non era plausibile, l’odore troppo forte avrebbe spinto chiunque ad accorgersene, sicuramente qualcuna avrebbe chiuso il rubinetto o lanciato l’allarme.

    I passi delicati sul pavimento del residence annunciarono l’arrivo di Kristal, il collaboratore più stretto di Marzio. Vestito di tutto punto, con i suoi mocassini neri ricordava più un incaricato delle pompe funebri che un poliziotto.

    «Ispettore, che dobbiamo fare?».

    Era pallidissimo. Tremava impaurito. Sembrava fosse la prima volta che vedeva un morto.

    «Si contenga, Kristal. Si organizzi, invece, per ricevere i colleghi e per evitare che qualcuno entri».

    Da lì a poco sarebbe scoccato un caos insostenibile, le televisioni, i curiosi, altri investigatori, la scientifica, il supercapo Soprani.

    Il dottor Lanzetti, il medico condotto di Valdiluce, entrò titubante, odorava di vernice e acquaragia, per il suo hobby di pittore. Chi poteva non emozionarsi di fronte a quattro donne morte?

    «Non è possibile, così giovani e belle…».

    Si fece il segno della croce per lo sgomento, non riusciva a usare lo stetoscopio, si spostava da un corpo all’altro con irruenza.

    Sudava. Le mani pelose correvano a cercare qualche indizio, un respiro, un occhio ancora velato di vita. Fissò Marzio con uno sguardo ingrigito.

    «Ispettore, sono tutte morte. L’evidenza fa pensare che sia stato il gas metano. L’estremità cianotiche. Asfissia per mancata ossigenazione dei tessuti. Non ci sono tracce di violenza, se non sulla ragazza bionda».

    «Si chiamava Elisabetta».

    «Ha un ematoma sul polso sinistro».

    Cosa poteva essere successo? Nel pomeriggio avevano fatto l’amore con passione, ma senza trascendere. Alle diciotto e trenta, Elisabetta era uscita intatta da casa di Marzio, senza segni evidenti sul corpo. Le doveva essere accaduto qualcosa nel tragitto da casa sua fino al Pino rosso, il bar dove aveva appuntamento con le amiche per festeggiare l’addio alla settimana bianca. Quella striscia blu sul polso imbrogliava la situazione. Poteva essere la conseguenza di un alterco, una questione con Angela, Stefania, Flaminia. La serata si era complicata, come spesso accade, una parola tira l’altra, fino alla baruffa. Un’aggressione? Strano però, visto che erano così amiche. Angela, Stefania, Flaminia sorprese dalla morte nel sonno, mentre Elisabetta sembrava non essersi rassegnata, cosciente che le stava accadendo qualcosa di tragico. Gli occhi sbarrati, i capelli scomposti, il corpo disteso in una posizione contratta, il segno sul braccio. Lanzetti stava esaminando con cura il polso sinistro, abbandonato, inerme, come il ramo di un albero caduto sotto il peso della neve.

    «A prima vista sembra un livido provocato da una mano che ha stretto con violenza il polso di Elisabetta. È come un braccialetto blu. Una persona l’ha afferrata con forza, ma non ha rotto nulla, solo un ematoma».

    «Una mano di uomo o di donna?»

    « Probabilmente quella di un uomo. Comunque una mano grande».

    «Com’è possibile che tre donne siano morte tranquille ed Elisabetta mostri segnali di reazione? Cosa ne pensa dottore? Si sono suicidate?»

    «Non saprei darle una risposta. Forse Elisabetta ha lottato più delle altre contro il gas, si è svegliata, ha cercato di alzarsi, ma era troppo tardi. È ricaduta sul letto in questa posizione diversa».

    «E il livido sul polso?».

    Il dottor Lanzetti non era abituato a inseguire le orme di un indizio. Dispiaciuto di non sapersi rendere utile come aveva visto fare nei film gialli, non si sentiva a suo agio nei panni del medico legale.

    «Spero che riesca a chiarire tutti i dubbi, io non posso aiutarla di più. L’unica certezza è che tutte e quattro sono decedute, di questo garantisco. Come l’ematoma sul polso sinistro. È certo. Ante mortem».

    Nell’appartamento si era ormai dissolta l’esalazione di gas e avanzava un altro odore, altrettanto preciso e pungente. Marzio si avvicinò al corpo di Elisabetta. Con garbo aspirò l’aria che la circondava. Odorava di Ginpin mischiato a vino rosso. Vomito e sbornia.

    «Dottore, senta qua».

    Lanzetti si accostò al corpo della donna, poi fiutò Angela, Stefania, Flaminia.

    «Alcol! Ubriache fradice, come spugne».

    «Forse per questo hanno combinato qualche cazzata».

    «Probabile».

    Entrò trafelato Kristal.

    «Venga, venga dottore, Agostino Uberti si è sentito male!».

    Pallido, accasciato su una sedia, fiatava con affanno, i gesti sconclusionati, ripeteva ossessivo: «Che disastro, che sciagura». Vista la sua situazione psicologica, il trauma doveva essere fortissimo. Agostino non era mai stato normale, fin dalla nascita; a sedici anni, poi, aveva subito un gravissimo incidente di sci. Durante una discesa libera era andato fuori pista, piombando diretto su una roccia che spuntava dalla neve. Nonostante si fosse ferito alla testa, con una forza eccezionale era riuscito a rimettersi in piedi, a continuare la gara e a tagliare il traguardo. Dopo, crollò svenuto, e precipitò in un coma profondo per mesi e mesi. Ne uscì ulteriormente menomato nell’intelletto e con un’orrida cicatrice sulla testa. Era il mattarello di Valdiluce.

    «Portatelo a casa sua. Tra un po’ ci sarà una grande baraonda».

    Il dottor Lanzetti e Kristal si occuparono di Agostino. Marzio iniziò a fare una perquisizione sommaria in attesa che arrivassero i grandi cervelli dalla capitale. Tutto perfetto. Le valigie pronte per la partenza, i pacchetti e i pacchettini confezionati con carta da regalo, la stanza pronta e pulita, le stoviglie ordinate. Perlustrando a fondo il lavandino, trovò dei frammenti di spinacio. Lo considerò un fatto insolito. Elisabetta, assistente del grande cuoco Franz Binetti, era l’unica che cucinava. Bravissima, aveva preparato al volo in casa di Marzio tagliatelle ai funghi porcini, rollè di coniglio e crostata di visciole. In più era ossessionata dall’igiene. L’ispettore ci aveva scherzato sopra.

    «Saresti una moglie terribile, con te mi sembrerebbe di essere ospite in una clinica».

    «E tu vivi come un porcello, tieni la casa così sporca che ti dovresti vergognare».

    Aveva lindato ogni stoviglia, una cucina che era uno specchio.

    «Odio che qualcosa sia sporco. È come un segno che mi rimane nella coscienza».

    Curioso immaginare che Elisabetta avesse dimenticato questi pezzetti di spinacio. Doveva essere accaduto qualcosa. D’improvviso.

    Adesso che l’aria di fuori aveva preso il sopravvento, Lupo bianco iniziò a far lavorare il cervello. I pochi indizi portavano al suicidio, ma come era possibile che tutte e quattro le donne avessero deciso insieme di togliersi la vita? Nessuna che si fosse opposta. Elisabetta aveva mostrato segni di contrasto, solo il suo fotogramma conteneva imperfezioni e quei graffi da chiarire. Forse aveva ragione il medico: Elisabetta si era svegliata per le esalazioni, aveva reagito. Ma l’ematoma al polso? Si poteva immaginare anche che una delle ragazze avesse deciso di aprire il gas, erano tutte ubriache, nessuna si era accorta di quello che stava succedendo. Obnubilate, con i sensi persi, potevano aver pensato che l’effetto del Ginpin mischiato al cibo, alla stanchezza, creasse quello strano disorientamento, tanto da non allarmarsi. Così erano morte nel dormiveglia, stordite.

    Elisabetta invece aveva reagito, cercando di chiudere il rubinetto del gas. C’era stata una colluttazione, una delle tre donne le aveva stretto il polso fino a farle male, per impedire che chiudesse la maniglia centrale del gas. In quella stratosfera senza peso, dove il veleno stava prendendo il sopravvento, non c’era scampo. Ma come mai le altre tre donne erano composte a letto? Smentiva il fatto che una di loro avesse bloccato Elisabetta. Il dottor Lanzetti aveva confermato che la presa sul polso non poteva essere quella di una donna. Un uomo, allora? Che sarebbe penetrato nell’appartamento? Kristal rientrò all’improvviso, pallido, lo stress ne aveva divorato la magrezza. Tremolante. Con un ciuffo di capelli che lo rendeva molto Stan Laurel.

    «Ispettore, mi è venuto un dubbio. E se non fosse un suicidio, né un incidente o…?»

    «Ovvero… Kristal, la dica la parola che sembra quasi una bestemmia».

    «Non so, lei crede che sia possibile un…?»

    «…Omicidio! Finché non viene smentito dai fatti è sempre plausibile, soprattutto quando c’è di mezzo la morte di qualcuno».

    L’assistente Kristal si appoggiò al lavandino, in preda a conati di vomito. Marzio lo bloccò.

    «La prego, con le sue impronte scombina il territorio. Vada in un altro bagno del residence. Forza…».

    Kristal visto di spalle dava ancora meno affidamento, traballava come un ubriaco, si appoggiava al muro, pareva che da un momento all’altro potesse perdere i sensi.

    Marzio osservò l’appartamento 12, il sole aveva inondato l’ambiente, c’era qualcosa di religioso in quei raggi misti alla nebbiolina che si era formata sui corpi. L’energia luminosa scriveva un suo percorso, solida quasi, mentre sullo sfondo la finestra trasmetteva il bosco di faggi. Ingiusto che Angela, Stefania, Flaminia, Elisabetta avessero dovuto troncare così la loro bellissima vacanza a Valdiluce.

    I ricordi deviavano dal percorso. Non era facile dimenticare, Marzio riprese il bandolo della matassa, ma più procedeva, più si dipanava.

    Ammettendo che si fossero suicidate tutte e quattro, consenzienti, in un atto collettivo di follia, era strano che in quei giorni Lupo bianco non avesse notato negli occhi delle quattro ragazze l’infelicità di un profondo malessere esistenziale. La sua Elisabetta mordeva la vita, assorbiva la luce, gli odori, la passione. Viveva in sincrono con l’universo.

    «Luna calante, bisogna preparare le tagliatelle, vengono più docili».

    Elisabetta ondeggiando stese la pasta, il sedere si svestì magnifico.

    «Vedi com’è facile! L’impasto è meno arrogante. Il mattarello viaggia come una Ferrari».

    Marzio le si avvicinò. L’accarezzò con un bacio sulla guancia. Lei lo spolverò di farina bianca.

    «Un po’ di neve per far felice il mio bambino».

    Spianò una quantità impressionante di fettuccine, per un ristorante piuttosto che per due persone. Le stese ad asciugare sulla spalliera del letto, sulle sedie, sulla scala a chiocciola, sulle grucce dei vestiti. Quel suo muoversi danzante fece scattare una voglia vorace, insaziabile, fecero più volte l’amore, poi lei gli offrì l’altra faccia della luna, per la prima volta. Un’emozione indecente. Il letto agghindato dalle tagliatelle sembrava un albero della cuccagna. Prima di mangiare Elisabetta si fece il segno della croce.

    A Marzio restava poco tempo prima che arrivassero quelli del

    dna

    , con le valigette della polizia scientifica; doveva cercare di approfittarne per indossare la divisa. Quell’atto lo infastidiva, come se avesse dovuto recitare una parte, camuffato da sceriffo.

    «Le quattro donne si sono suicidate».

    «È presto per dirlo».

    «Non avrà mica qualche dubbio?».

    Il sindaco Tonioli era comparso subito, vestito con eskimo, i baffi che puzzavano di sigaro, gli occhi terrorizzati, finalmente un’espressione vera. Un fatto così gigantesco a Valdiluce avrebbe creato problemi al turismo. Ci sarebbero state pressioni da parte di qualche politico per minimizzare l’avvenimento.

    «Posso vedere la stanza del suicidio?»

    «Sindaco Tonioli, sta scherzando? Non può entrare», puntualizzò Marzio con fermezza. «La stanza è quella del crimine, non del suicidio o di qualsiasi altra cosa».

    Kristal si appoggiò alla porta, flebile, della consistenza di un bastoncino di pasta sfoglia.

    «La prego signor sindaco, non insista».

    «Ma sono anche io un pubblico ufficiale? Ne ho diritto!».

    Marzio incominciava a spazientirsi.

    «Faccia domanda al ministero, intanto io vado a casa a mettermi la divisa».

    Tonioli lo inseguì per qualche passo. Odorava di frittata di cipolle con vino rosso e crauti.

    «Pensi se lo scandalo si ingigantisse. Non ci sono misteri da scoprire, è stata solo una brutta disgrazia da dimenticare. Un incidente. Si ricordi che anche lei è di Valdiluce. Un suicidio si può accettare, un incidente anche, ma un omicidio spazzerebbe via per sempre la dignità del paese. Dovremmo chiudere una delle più importanti stazioni invernali della nazione. Mettere alla fame centinaia di persone, una vera tragedia».

    Marzio pensò che quattro donne morte in quelle circostanze misteriose avrebbero comunque suscitato tanta emotività che nessuno l’avrebbe potuta governare. Superiore a qualsiasi altro avvenimento. Più atroce che si fosse spezzato il filo della teleferica, o rotta la diga del fiume Lima, o che fossero precipitati a valle tutti i tronchi della falegnameria.

    Il sindaco, curvo sotto le sue responsabilità, odioso, cinico, pensava alla sopravvivenza dei suoi quattro hotel.

    «Si ricordi, un infortunio è la migliore soluzione, accontenterà tutti. In poco tempo la gente si dimenticherà delle quattro ragazze, ma se fosse qualcosa d’altro…».

    «Sindaco la prego, si allontani da qui».

    4

    Marzio si denudò completamente. Aveva bisogno di dare aria al corpo, togliersi di dosso la morte. Ghiacciato, lui che amava il freddo. Tremava, anche. Si ficcò sotto la doccia, strigliandosi come un animale, sperando che scomparissero almeno le molecole più ostili, i batteri di una mattinata assurda, di annacquare il ricordo di Elisabetta. Sfregò con il sapone e la spugna fino a farsi male, a graffiarsi. Era da tempo che non percepiva i dettagli del suo corpo. Potente e muscoloso. Invincibile. Anche Elisabetta, giovane come lui e nel pieno delle forze, sembrava invulnerabile. In un istante si era dispersa nel cielo come fumo da un comignolo.

    Passò davanti allo specchio. Lui era capace di non guardarsi mai, anche per mesi; solo se si feriva con la lametta da barba o per qualche foruncolo, allora scopriva di possedere una faccia. Nudo non si piaceva, era spaventosamente villoso, da sembrare una scimmia. Il pene ciondolava dormiente, inutile. Nonostante il terribile momento, l’espressione era pacata. Lo sguardo casto di un religioso, quello che aveva fulminato il cuore di Elisabetta. Quando lo coccolava, gli carezzava le orecchie, lo mordicchiava sul pene, Marzio diventava un bambino stupito. Gli occhi si aprivano inermi, anche perché tanta dolcezza nella sua vita non l’aveva mai ricevuta.

    Indossò la divisa. Fu come infilarsi in un’altra vita. Trafficò con la cravatta, era così poco abituato ad annodarla che ci impiegò del tempo. Doveva appigliarsi a quelle mostrine; solo con il suo lavoro e la testa del poliziotto, sarebbe sopravvissuto. Riprese tutto il vigore professionale, la voglia di indagare a fondo, di scoprire la verità. Di onorare la memoria di Elisabetta.

    La sua Vespa lo attendeva fedele. Una certezza, l’unica che gli rimaneva. L’accese, quel rumore fragoroso di marmitta e miscela, il tremolio metallico, tutte sensazioni di casa. Era l’amica che gli restava. Quasi per non deluderlo, il motore sembrava più aggressivo, un abbrivio nuovo, schioppettava nelle curve, slanciava le marce, un diavoletto indomabile. Il caldo che stava intorpidendo anche il bosco, nella velocità si tramutava in aria fresca. Marzio respirò a fondo, da riempire i polmoni. Una scorta che gli sarebbe servita nelle prossime ore. Torride.

    Al residence trovò una folla di paesani, tutti stretti intorno a Kristal. Sembrava un rametto su un’onda anomala. Magrissimo, temeva il freddo e non riusciva mai a vestirsi da montanaro. Era nato a Turpino, una città del settentrione, ma detestava la montagna. Marzio lo guardò mentre tratteneva la calca che si era formata intorno al residence. Faceva tenerezza, dov’erano i poliziotti che avrebbero dovuto mostrare la faccia dura?

    «Vada subito a mettersi in divisa, si sbrighi».

    Erano necessari dei rinforzi. Marzio sapeva che da lì a un’ora sarebbero arrivate centinaia di persone. Carabinieri, magistrati, investigatori, un po’ per esibirsi e un po’ per indagare. Soprani sarebbe atterrato con l’elicottero.

    Marzio attraversò a fatica l’assembramento. I più ostinati nel fare domande furono il solito gruppo di sciatori. Profumavano ancora di Nutella e Ovomaltina, e per la noia si erano concentrati su quell’avvenimento. Superò anche una schiera di paesani, annusò forti ondate di Ginpin, molti di loro erano già ubriachi, un modo per affrontare un avvenimento così sconvolgente. Di fronte alla porta dell’appartamento 12 trovò Dik, il setter irlandese di Osvaldo. Grattava sulla porta, come volesse entrare. Aveva, lui che era sempre tranquillo, gli occhi nervosi, mugolava. Marzio lo accarezzò e si accorse che tremava tutto, il manto fulvo percorso da un brivido. Dik percepiva qualcosa, un sentimento. Se non fosse stata una cosa strana avrebbe giurato che il cane stesse piangendo. Marzio portò Dik fuori dal residence. Il setter gli diede un’ultima occhiata d’intesa, poi corse veloce verso il bosco di faggi.

    Quando l’ispettore Santoni rientrò nell’appartamento 12, l’aria era pulita, la luce livida, come se i quattro corpi diffondessero intorno il colore della morte. Marzio riguardò Elisabetta: si era cristallizzata. Quella smorfia che non le apparteneva, quasi una maschera, l’aveva resa ancor più irriconoscibile. In parte lo confortò, sarebbe stato più semplice svolgere le indagini.

    I resti nella spazzatura confermarono la baldoria. Elisabetta aveva cucinato del pesce in gran quantità, gli avanzi ben disposti all’interno dei sacchetti differenziati: da una parte gli organici, poltiglia di pesce, spinaci al burro, bucce di mele e torsoli; dall’altra il vetro, tre bottiglie di vino rosso e una di Ginpin.

    Controllò con molta attenzione il cestino destinato alla carta; non c’era nessun messaggio, solo fogli gialli unti del salumiere, alcuni contenitori usa e getta, un giornale, gli skypass mai utilizzati, una grossa busta di carta grezza. Odorava di pesce. Fazzolettini, alcuni sembravano sporchi di vomito. Nel bagno c’era qualche segno, una delle ragazze si era sentita male. Molto strano che Elisabetta, così precisa, avesse dimenticato di pulire a fondo il lavandino. Quei frammenti di spinacio erano un rebus, come il bagno macchiato. Difficile pensare a una disattenzione. Elisabetta aveva sistemato con zelo la spazzatura, ma era così ubriaca da farsi sfuggire i pezzetti di spinacio? Un colpo di sonno, forse era sopravvenuto qualcosa. E la striscia blu sul polso? Aveva subito un’aggressione? E se qualcuna di loro avesse deciso di aprire il gas? Una sfida folle alla vita.

    Affogate nel mix micidiale di Ginpin e vino, probabilmente nessuna di loro aveva reagito all’odore pungente del metano. Si erano adagiate al sonno. Un mistero. Quattro donne. Un piccolo paese di provincia. Mogli represse. Erano riuscite con grandissima fatica a liberarsi dei loro mariti. Per una settimana da consumare quasi violenta, tra gioia e sesso. Ognuna si era fatta l’amante. Elisabetta, la cuoca, con Marzio, l’ispettore di polizia detto Lupo bianco. Flaminia, la più bella, generosa nelle forme, esuberante, non si capiva perché si fosse appassionata a Olinto. Un uomo sottile, vestito trasandato. Industrialotto, proprietario dell’azienda che produceva Ginpin. Anziano, con i capelli tinti di giallo. Probabilmente Flaminia, che faceva la fioraia, si era lasciata suggestionare dalla splendida Porsche e dallo chalet che si affacciava sulla valle dell’eco. Stefania invece era una giovane parrucchiera molto restia, un po’ selvatica, magra e nervosa, brutale e secca nelle risposte. Marzio ricordava, quando erano usciti tutti insieme, come lei fosse la più taciturna. Osvaldo, l’amante, gestiva il noleggio di sci sulla piazza di Valdiluce. Alto e rigido come un trampolino, indossava sempre la tuta blu, le mani rugose e tagliuzzate dalle lamine per aver messo a posto negli anni migliaia di paia di sci. Sapeva di sciolina, catrame, paraffina. Un uomo scorbutico che si era ben conciliato al carattere di Stefania. Stavano sempre in compagnia di Dik, in simbiosi quasi. Il setter irlandese aggiungeva un tocco di gioia e umanità alla coppia. Forse per questo Dik grattava sulla porta dell’appartamento 12, sicuramente il suo istinto aveva percepito che era accaduto qualcosa. Si era affezionato a quella donna. Infatuato come Osvaldo. Avrebbe voluto salvarle la vita.

    Delle quattro donne, Angela era l’intellettuale. Insegnava storia e letteratura, una donna interessante, slanciata, ben fatta, non indossava mai il reggipetto sotto i maglioni aderenti, si intuiva un seno piccolo e perfetto, con i capezzoli esuberanti, occhi truccatissimi, vivaci e un po’ perversi; parlava forbita, la più borghese, la meno bella, aveva accalappiato il playboy, Arturo il farmacista. Lui sembrava uscito da una serie televisiva, con la splendida giacca a vento bianca. Croce rossa sul petto, occhi a mandorla, alto e magro, una fugace esalazione di Vicks VapoRub.

    Impossibile immaginare che tutte e quattro, felici di amare per gioco o passione, avessero deciso di uccidersi, interrompere il futuro, così, senza un motivo.

    5

    Antonello Soprani, il supercapo, entrò sbattendo la porta nell’appartamento 12 del residence.

    Alto due metri, completo nero, cappello nero, cravatta nera, agitava la sua faccia irreale. Il naso era lungo e sottile, pochi capelli, un volto enigmatico da giocatore di poker, quasi mai esprimeva emozione. Sbiadito, cercava di confondere sempre l’interlocutore, abitudine presa dopo anni di investigazioni. Sulle parole assassinio o suicido era impassibile, su cucina caricava un movimento forte del volto, ad autopsia diventava arido terreno incolto, sulla parola finestra arricciava la bocca come un pomodoro. Era stato il capo di Marzio, che aveva ricambiato con molte lezioni di sci. Tra i due era nata una certa confidenza, anche se Santoni faceva in modo di non guardare mai la sua faccia di gomma perché disorientava. Con gli occhi gelati debuttò nella scena del crimine.

    «Caro Marzio Santoni, questa volta c’è un bel problema da risolvere, sarà difficile uscirne indenni».

    «Una brutta storia».

    «Omicidio, suicidio, incidente?».

    Marzio stava per esporre la sua idea, ma Soprani si appoggiò alla finestra. Prese colore dalla luce esterna, mimò un sorriso accennato, sembrava che un paio di forbici ne avesse tagliato la bocca.

    «Queste quattro ragazze hanno scelto il momento migliore per morire. Senza neve siamo tutti più tranquilli, non sentiamo il richiamo di andare a sciare».

    Marzio provò ad aggiungere qualche sillaba ma fu di nuovo bloccato da Soprani.

    «Appena arriva la neve mi deve insegnare il passo spinta, quest’anno voglio vincere i campionati della polizia».

    Camminò a lungo da un corpo all’altro delle ragazze, come giocasse ai quattro cantoni. Si fermò al centro. Parlò immobile, espressivo come una cassetta della posta. Odorava di cornetto mangiato in fretta e mal digerito, sulla schiuma di cappuccino.

    «Caro ispettore, non può che essere un suicidio o un incidente. Perché qualcuno dovrebbe uccidere quattro belle ragazze o perché quattro belle ragazze si sarebbero dovute far uccidere da qualcuno? Hanno scelto liberamente di fuggire alla vita, hanno giocato alla roulette russa, aperto il gas e si sono lasciate andare a una volontà che nessuno avrebbe mai potuto contrastare. Suicidio o tragico incidente. Comunque continuiamo a indagare con coscienza, ma il verdetto sarà confermato».

    Molti i simboli nel suo discorso, tensione e preoccupazione, ma si capiva che aveva in mente una sola idea: questo caso era da chiudere al più presto.

    Marzio avrebbe voluto fargli molte domande, ma scelse la più urgente.

    «Una delle ragazze, la bionda, Elisabetta, rispetto alle altre ha un’espressione stravolta e un ematoma al polso. Cosa ne pensa?».

    Soprani si era bloccato di fronte a un paio di sci appoggiati nell’appartamento 12 del residence, vicino alla finestra, mentre assaporava con il pollice le lamine per sentire quanto fossero affilate. Guardò a lungo Marzio e gli disse: «La morte fa paura. La bionda l’avrà vista in faccia».

    «E l’ematoma al polso?»

    «Indaghi, Marzio, non le devo insegnare niente».

    Soprani controllò che lo sci avesse una bella elasticità, fece scattare l’attacco.

    «Io so che lei era l’amante di Elisabetta. È la prima cosa di cui sono stato informato, ma ho troppa fiducia in lei, Santoni, una persona irreprensibile, che non si farà mai corrompere dai sentimenti. Uno dei nostri migliori detective. O forse lo era. Avrà un po’ di ruggine nella mente, ma il suo modo di svolgere le inchieste, da indiano metropolitano, ci tornerà d’aiuto. Se non avesse perso la sua ragazza, potrei dire che ha avuto una gran fortuna. Tornare sul palcoscenico con un caso così straordinario. Comunque, mi dica se vuole continuare le indagini o ritirarsi. Spetta a lei la decisione».

    Marzio rispose d’impulso.

    «Con coscienza penso di poter fare il mio lavoro, voglio andare a fondo, capire che cos’è successo e scoprire la verità».

    Il supercapo lo guardò con una certa ironia.

    «Caro Marzio, la verità non sta da nessuna parte, dobbiamo solo cercare di nascondere l’obbrobrio, le illusioni, i meccanismi perfidi che guidano la mente umana. Su questo caso non c’è nient’altro se non la mano sciocca di chi ha voluto togliere la vita a se stessa e alle altre».

    Lisciò la soletta dello sci. Ne uscì un odore di plastica e sciolina.

    «Vedrà, presto ci faremo una bella sciata sulla neve fresca. Comunque lavori bene, come al suo solito, e mi chiami per qualsiasi problema».

    «Vorrei la stessa autonomia che avevo in città. Preferirei essere indipendente».

    «Senza far danni, Lupo bianco. Darò gli ordini appropriati perché la lascino lavorare come meglio crede».

    «Grazie».

    «Ha bisogno di altri collaboratori?»

    «Mi basta Kristal».

    «Ma quello è un fuscello, vola via al primo colpo di vento».

    «Mi serve uno di fiducia».

    «Ok, Lupo bianco».

    Soprani fece per andare ma si fermò sulla porta, con uno sguardo lucente, pieno di fraintendimenti.

    «Da uomo a uomo: si è scopato Elisabetta con le manette? Quella striscia blu sul polso sinistro la dice lunga. Non c’è niente di male, anch’io l’ho fatto qualche volta. Sono perversioni di poliziotto».

    Soprani chiuse la porta e lasciò dietro di sé un profumo di vestito stropicciato nella notte.

    6

    «Piuttosto che tornare domani a Vissone, stanotte ci suicidiamo. Tutte e quattro insieme».

    Giordano, il barman del Pino rosso, dove le ragazze avevano deciso di prendere l’aperitivo d’addio alle vacanze, confermò all’ispettore Santoni che quelle parole erano state pronunciate più volte, anche durante i numerosi brindisi. «Stanotte faremo il botto. Stupiremo il mondo».

    «Ma non era un gioco, una frase tanto per sbalordire?»

    «Ispettore, questo non lo so. Certo erano completamente ubriache. Ma perché mai insistere tanto ad annunciare una cosa che avrebbero fatto veramente? Altrimenti oggi sarebbero tutte e quattro vive. Non le pare, ispettore?».

    Giordano puzzava di Ginpin. Sicuramente era scosso dall’emozione, ma anche dall’alcol.

    «Senti Giordano, concentrati, questa frase è fondamentale: sei sicuro di aver sentito dire che avrebbero voluto commettere qualcosa di eclatante? Hai capito bene la parola suicidio? Non è che hanno aggiunto qualche cosa d’altro? Magari tu stavi servendo al bar, hai frainteso, non erano presenti persone che potrebbero confermare?».

    Giordano, che aveva i capelli rossi, magro, vestito sempre da cameriere con la giacca bianca e il papillon nero, si irritò. Strinse una smorfia.

    «Venga con me, vedrà che non dico stronzate».

    Lo portò dietro il banco dove c’era una piccola postazione che regolava le varie attrezzature del locale, il pannello della luce, la consolle dell’audio, poi uno strumento che sembrava un decoder.

    «Lì dentro c’è tutto registrato, video e audio, ogni cosa di ieri sera, e vedrà che non sono né sordo né rincoglionito».

    «Avete un sistema di videosorveglianza a circuito chiuso?»

    «Sì, è in funzione da un anno, serve per la sicurezza. Sei telecamere riprendono il locale con angolazioni diverse. Spesso quando arrivano le orde di studenti nelle settimane bianche distruggono ogni cosa. Rubano. Lo abbiamo inserito anche per voi della polizia. Certo non avrei mai pensato che sarebbe servito per un caso così clamoroso».

    «Fammi vedere».

    «Non so se posso, per la privacy. Non ci vuole un mandato?»

    «Pigia il dito sul play. Muoviti».

    Giordano si sentì stupido. Aveva avuto tutto il tempo per cancellare il nastro, fingere che fosse rotto. I detective, studiando a fondo ogni fotogramma, avrebbero scoperto mille irregolarità sul suo locale. Sabato sera non aveva battuto gli scontrini, le ragazze erano uscite senza le ricevute. Rischiava di finire sotto inchiesta, evasione fiscale, l’igiene, il permesso di agibilità, la

    siae

    per la musica…

    «Avanti, play, play».

    Lo schermo era diviso in sei parti, ogni telecamera offriva prospettive diverse. Sulle prime immagini, Marzio provò disagio. Non gli piaceva entrare nella vita privata, scandagliare, analizzare, scoprire anche i piccoli imbrogli quotidiani. Un sopruso. Come osservare dal buco della serratura, una mancanza di rispetto alla memoria delle quattro ragazze, ma purtroppo era necessario.

    Il video era già posizionato sul momento dell’ingresso delle ragazze nel bar. Giordano aveva già verificato, se lo era controllato prima.

    «L’hai già visto tutto?».

    Giordano iniziò a sudare, quella era la prima domanda di un inquirente. Si sentiva colpevole comunque, come accade quando la polizia interroga. E ti guardano come se fossi nel torto, anche se non hai fatto niente.

    «Sì, un’occhiata, solo per vedere se c’era qualcosa di strano».

    «E che stranezze ci sarebbero dovute essere? Hai niente da aggiungere, da dichiarare?».

    Iniziava male la mattinata, Giordano, chiuso nell’angolo, tra la caffettiera e il videoregistratore.

    «Ispettore, non ho commesso alcun reato, ho posizionato il nastro e basta, perché volevo collaborare».

    Marzio trascurò il balbettare del barman, nel video c’era qualcosa di anomalo, le donne non erano quattro ma tre, mancava Elisabetta. Che fine aveva fatto? Flaminia, Angela, Stefania, erano entrate cariche di pacchi e pacchettini, probabilmente qualche regalo che avevano comprato nel pomeriggio; camminavano strampalate, come se non controllassero i gesti. La ripresa non era perfetta, ma sufficiente per capire e sentire, accentuava l’instabilità. Erano chiaramente ubriache. Marzio annotò l’ora d’inizio del filmato, le diciannove.

    «È preciso l’orologio?»

    «Penso di sì, mi faccia vedere ispettore, tre sono entrate alle diciannove, la bionda invece è arrivata alle venti, me lo ricordo perché speravo andassero via, normalmente a quell’ora non c’è mai un cliente e così faccio uno spuntino».

    Come mai Elisabetta aveva detto, uscendo alle diciotto e trenta da casa di Marzio, che alle diciannove avrebbe raggiunto le amiche e invece era entrata nel pub alle venti? Un’ora e mezzo di vuoto in cui non si capiva cosa potesse essere successo. Marzio ricordava perfettamente le parole di Elisabetta.

    «Devo correre, mi aspettano alle sette al Pino rosso, non voglio far tardi, è l’ultima sera, la nostra».

    Dalle diciannove alle venti, le tre donne nel video avevano riso molto, bevuto, ballato. Quasi barcollanti, alla fine si erano sdraiate sui divani. Alle diciannove e cinquantotto l’arrivo di Elisabetta. Scarmigliata, passo indeciso, come se avesse subito un trauma, si era buttata su una sedia. Aveva posato una busta piuttosto voluminosa accanto a una poltroncina.

    «Ferma il video della telecamera uno, puoi isolare e zoomare quella busta che sta accanto a Elisabetta?».

    Marzio era così concentrato che pensò di essere tornato ai tempi della squadra mobile. Non valutò che Giordano era solo un barista.

    «Ispettore, non sono mica un tecnico della polizia».

    «Riesci almeno a farmi vedere a schermo pieno la telecamera uno?»

    «Sì, ok, ma purtroppo niente zoom».

    «Ripeti più volte la registrazione».

    Marzio esaminò con attenzione la sequenza, la busta che aveva con sé Elisabetta era di carta grezza. Nessuna scritta che potesse identificarla. Non poteva essere un regalo comprato a Valdiluce. Quel tipo di carta non sembrava comune. Elisabetta era uscita da casa di Marzio a mani nude, adesso la ritrovava con quel fardello. Conteneva qualcosa di pericoloso, di anomalo, dove diavolo lo aveva preso? Era molto simile alla busta che Marzio aveva rinvenuto nell’appartamento 12, tra i rifiuti della carta. Odorava di pesce. Forse del cibo comprato prima di andare al Pino rosso. Ma dove? Alle diciotto e trenta tutti gli alimentari chiudevano.

    Dal video, Elisabetta appariva chiaramente spaventata. Anche i suoi lineamenti, sempre addolciti dal sorriso, avevano perso vigore. Scabra come un frutto pallido.

    «Ragazze fatemi bere, ne ho un gran bisogno».

    «Com’è andata?»

    «Uno schifo, una merda, non ce la faccio più».

    Tutte e quattro si erano messe a parlare ad alta voce, l’audio era diventato incomprensibile, poi Angela, la professoressa di lettere, magra, nervosa, con quel fascino perverso, maglioncino aderente che mostrava il petto piccolo, bocca grassa di rossetto, occhi affumicati dal trucco pesante, le gambe lunghe nei fuseaux neri, aveva zittito tutte e lanciato il proclama.

    «Piuttosto che tornare a casa, ci suicidiamo. Tutte e quattro insieme».

    «Stop, torna indietro, fammelo rivedere. Sulla telecamera tre».

    L’immagine era chiara, il labiale palese, senza sotterfugi, suono micidiale, nessuna imperfezione. Stentoreo il suicidiamo. Quella parola, pronunciata in un clima sconcio per l’alcol, acquisiva un effetto ingiustamente reale. Il video diventava un documento ineccepibile, storico, decisivo per le indagini. Difficile dimostrare il contrario. Si poteva chiuder bottega. Una sentenza inappellabile. In più, Elisabetta, Stefania e Flaminia avevano risposto alla provocazione, si erano aggregate con entusiasmo alla proposta epica di Angela.

    «Stanotte facciamo il botto!».

    «Dobbiamo svalvolare!».

    Angela aveva accentuato con piglio deciso il suo pensiero.

    «Basta con questo mondo di merda!».

    L’occhio di Marzio si focalizzò su Elisabetta. Era la più assente, a disagio, molto agitata, le occhiaie, mentre avevano unito i calici per il brindisi, il bicchiere di Ginpin le tremava nella mano.

    «Metti la telecamera quattro».

    Anche Elisabetta ripeteva effettivamente quella frase.

    «Suicidio. Suicidio. Suicidio collettivo!».

    Ossessivamente. Quasi fosse uno slogan politico. Solo l’autopsia avrebbe rivelato qualcosa di certo. Marzio si soffermò su quella parola: autopsia. Non l’aveva usata più da tempo, suonava estranea, ma gli suggerì il confine della situazione. Quattro donne morte per il gas, a cui fare l’autopsia.

    Il video continuava con Stefania, Elisabetta, Flaminia e Angela barcollanti, chiaramente sbronze, abbracciate tra loro, nel tentativo di mantenere l’equilibrio. Parole confuse. Un coro sguaiato, allusivo. «Agostino. Agostinooo. Stiamo arrivando. Tutte per te!».

    «Metti la telecamera cinque, quella sull’esterno del bar».

    Agostino Uberti, il custode del residence, le aspettava in piazza con il pulmino per riportarle al Bucaneve. Era vestito come sempre, trasandato, la tuta lisa da ex maestro di sci, le quattro ragazze lo abbracciavano come fosse un giocattolo. Era molto nervoso, tentava di liberarsi dalle loro effusioni. Reagì con qualche sgarbo e l’espressione inquieta, accentuando il suo stato di mattarello del paese. Giordano commentò: «Lo stuzzicano perché sanno che è inoffensivo, con me, un maschio vero, avrebbero trovato pane per i loro denti».

    «Ti prego, Giordano, queste scemenze tienile per te».

    Lupo bianco controllò i divani, le poltrone dove la sera precedente le donne avevano brindato. Sotto un cuscino avvertì qualcosa di piccolo, di metallico. Lo tirò fuori, era un orecchino d’oro, il suo, quello che aveva regalato a Elisabetta insieme ai calzettoni di lana.

    ****

    «Voglio vedere come ti sta. Mettiti l’orecchino».

    «Non posso, sono un poliziotto. È un ricordo di tanti anni fa».

    Elisabetta lo aveva appoggiato all’orecchio di Marzio. Scoccava, appena si sfioravano, una strana delicata corrente.

    «Ti dona, sei bello».

    Glielo infilò, quando lui mosse il volto per nascondersi, quel tocco di trasgressione amplificò gli occhi azzurri, la bocca tenue, l’aria timida. Esaltava la bellezza casta di Marzio.

    «Sembri un angelo, il mio angelo custode».

    Marzio la baciò, cercò di indirizzare l’interesse sul suo corpo, ma lei lo guardò a lungo, poi disse un’enormità.

    «Questo orecchino lo faremo restringere e sarà il mio anello quando ci sposeremo».

    ****

    Curioso che Elisabetta avesse perso, un ricordo così importante e simbolico per tutti e due. Anche questo particolare, considerato come Elisabetta fosse attenta ai dettagli, si aggiungeva ad altri piccoli enigmi: i frammenti di spinacio nel lavandino della cucina, il cerchio blu sul polso. Adesso l’orecchino. Forse era caduto inavvertitamente sul divano. E se fosse stato un segno, un messaggio per lui? Restava sempre quell’ora e mezzo nel nulla: dalle diciotto e trenta alle venti. Mancava all’appello.

    Marzio andò nel bagno del Pino rosso, sciacquò il viso nell’acqua fredda, si guardò per un attimo allo specchio. I suoi occhi erano inquieti, uno sguardo che era una richiesta d’aiuto, imploravano di trovare una soluzione, di uscire da quel terribile momento. Il ceffone di freddo lo scrollò, riprese in mano se stesso. Le scie visive del filmato bollivano come in un pentolone. Una flotta di domande.

    «Piuttosto che tornare a casa, ci suicidiamo. Tutte e quattro insieme».

    Era stato un gioco di quattro donne che volevano stupire e stupirsi? Suicidio collettivo, divorzio collettivo, fuga collettiva, gioco estremo collettivo, scopata collettiva, trasgressione collettiva. Una parentesi tonda, niente di più, un richiamo triste alla fine della vacanza. Sequestrò il filmato, sapeva che avrebbe prevalso sulle indagini, ma non poteva fare diversamente. Il video era una condanna certa, un verdetto inequivocabile. Di dubbi ne aveva e più procedeva, più si inquietava. Il filmato, tutti lo avrebbero analizzato a senso unico. Un documento ineccepibile. Che serviva di più per chiudere l’inchiesta? Avrebbe accontentato gli investigatori, e confermato quello che tutti volevano sentirsi dire: il suicidio di quattro donne ubriache. Le parole di Soprani lo convalidavano.

    «Bravo Lupo bianco. Perfetto, una bella base di partenza, il video chiude molte delle nostre appassionate fantasticherie. Adesso dobbiamo dimostrare se è stato suicidio o incidente. Niente di più, niente di meno».

    Suicidio o incidente. Marzio non riusciva a credere a quella dinamica. E se fosse stato un omicidio?. Un pensiero ribelle che nascose sotto le coperte della mente. Impossibile scoprirlo, neppure sotto tortura. Soprani imperterrito macinava i suoi progetti.

    «Comunque visto che siamo sotto i riflettori dei media, ispettore Santoni, nella conduzione delle indagini sia meticoloso. Anche eccessivo nella perfezione. Non trascuri nessun indizio. Si affidi al

    dna

    . Piace molto, riempie la coscienza. Passi al setaccio ogni spazio, le pareti della stanza, il locale, oggetti, il paese, la gente, vedere confrontare analizzare.

    dna

    . La parola magica. Affoghiamoci tutta Valdiluce dentro. Per appagare i giornalisti che ci metteranno a nudo, vagheggiando l’ipotesi di un omicidio. L’opinione pubblica deve sempre essere accontentata».

    7

    A Valdiluce si viveva un gran brutto momento.

    Soprani aveva dato il via alla pratica investigativa più temibile, che sempre metteva in atto quando era alle prese con un evento importante e drammatico. Il setaccio. Tutti dovevano rispondere su tutto. A un negoziante venivano controllate fatture, licenze, agibilità. Un modo per mettere a soqquadro il territorio. Il setaccio avrebbe posto l’uno contro l’altro, ciascuno a difendere i propri privilegi, così nascevano le delazioni, i tradimenti, e se c’era un nodo su qualcuno, un sospetto, sarebbe finito sicuramente nella trama ordita da Soprani.

    Nel paese si aggiravano molti detective, interrogavano, scandagliavano, controllavano ogni dettaglio, la vita privata, pubblica, fiscale, etica, ogni angolo buio era assoggettato alle analisi più scrupolose. I poliziotti avanzavano come caterpillar, schiacciavano ogni pudore, torchiavano le persone per capire se dietro la morte delle quattro ragazze si nascondesse qualcosa di insolito. Nel centro della piazza dominava il circo della polizia scientifica, un grande laboratorio mobile.

    Il

    dna

    divenne un rituale per tutti. Gli ispettori analizzavano, incrociavano, sovrapponevano le tracce genetiche degli abitanti del paese con le impronte rinvenute nella stanza della morte. A Valdiluce ognuno ne parlava ormai con dimestichezza. Un contagio che raggiunse molte famiglie. Se aleggiava qualche dubbio sulla paternità del figlio o sulla fedeltà della moglie, si ricorreva alla Genomax, una società privata di analisi. Le richieste erano diventate così numerose che il proprietario ne approfittò per mettere in piedi un bel business. Accanto al box della polizia scientifica, aveva collocato il suo camper, il più frequentato in quei giorni. «Genomax, analisi del

    dna

    . Risultati: in trentasei ore, centoventi euro; in ventiquattro ore, duecento euro». Si facevano gli esami come fossero donazioni di sangue. Quello che nessuno poteva sapere dalla polizia, lo avrebbe appreso dalla Genomax. Era già nata qualche leggenda paesana.

    «Mario, lo spazzino, ha scoperto che il figlio non è suo, ha chiesto il divorzio».

    Sembrava che tutti i misteri potessero essere risolti con il

    dna

    . La paura, la curiosità, la voglia di sapere. Le impurità raccolte nelle mutande del marito contenevano umori della moglie o di un’altra donna? Si era formata una linea d’investigazione che coinvolgeva un po’ tutti, parallela alla polizia, del tutto disgiunta da quella della morte delle quattro ragazze. Si rischiava di avere altri problemi nel paese. Soprani ordinò alla Genomax di ritirarsi da Valdiluce. Il camper abbandonò il paese, ma la Genomax fece sapere a tutti di essere sempre a disposizione per qualsiasi analisi a domicilio. Continuò così lo stillicidio tra moglie, marito, figli, amanti.

    L’ufficio del bio-detective Marzio Santoni assomigliava a un rifugio alpino. Sparpagliati qua e là, walkie-talkie, computer, ricetrasmittenti per collegarsi con le piste e con gli impianti delle funivie. A ogni angolo erano appoggiati degli sci, quelli che lui utilizzava in caso di emergenza. Poster del Monte Bianco e del Cervino, la foto di un elicottero della polizia, le pelli di foca da applicare sotto gli sci, gigantografia di due cervi con corna monumentali.

    Nell’ufficio iniziarono a precipitarsi molte persone di Valdiluce. Si formò una lunga fila, tutti volevano parlare con Marzio per comunicazioni importanti o importantissime. Il povero Kristal cercava di arginare questa marea vociante, la porta si apriva e si chiudeva come il sipario di un teatro.

    «Ispettore, la gente ha paura, vogliono parlare con lei, cercare di capire…».

    «Bastano i telegiornali. Dica loro di seguirli, così sapranno la verità».

    «Non è facile, sono preoccupati delle indagini, che i poliziotti scoprano qualcosa».

    «E che cosa?»

    «Che magari non hanno fatto tutte le cose a modo. Il fisco, le evasioni, le frodi…».

    «È il risultato del setaccio di Soprani, sta funzionando».

    «È come se la morte delle quattro donne avesse scoperchiato la pentola. Tutti questi poliziotti che interrogano… La gente ha fiducia in lei, sperano di essere compresi, è un amico per tutti».

    «Quanti casi di irregolarità ha individuato?»

    «Tanti. Troppi. Il barista ha confessato di aggiungere al Ginpin coloranti illegali, il macellaio di aver spacciato per fresca e italiana carne congelata rumena, il verduraio di vendere funghi porcini russi forse radioattivi, il ristoratore di non aver emesso le fatture alle comitive che venivano con i bus, il droghiere di aver rifilato il lampante per olio extravergine d’oliva, al supermarket di vendere roba scaduta…».

    «Ho capito, ho capito…».

    Marzio avrebbe dovuto sbattere in galera un paese intero. Il setaccio di Soprani, anche se non aveva fatto emergere niente di clamoroso per le indagini, radiografava un piccolo paese completamente fuorilegge. In quella confessione collettiva c’era anche un tentativo di pulirsi, la catarsi dall’orrore. Svelando le loro impudenze si sarebbero tutti sgravati da notti insonni; frodare il prossimo era un rovello che pungeva al buio, forse in futuro avrebbero rispettato di più la legge.

    «Segua tutto lei Kristal, ascolti ogni persona, non apriamo per ora pratiche, intimorisca con imminenti sanzioni, ma vigili, magari dietro una leggera mancanza si nasconde il peccato mortale. Soprattutto stimoli le confidenze».

    Kristal si avvicinò, anche lui, per comunicare un pensiero riservato. Odorava di Kinder, nonostante fosse così magro mangiava tantissima cioccolata, nel cassetto ne aveva una collezione. Bianca, amara, ripiena, al peperoncino.

    «Posso dirle quello che mi sembra strano? Non si arrabbi se sbaglio».

    «Prego».

    «C’è gente a Valdiluce che non mi piace».

    «Faccia l’elenco».

    «Il prete».

    «Perché è un ciccione con la barba lunga?»

    «Il benzinaio».

    «Perché è un guardone, un pettegolo, un nostro confidente?»

    «Il sindaco».

    «Perché è un sindaco?»

    «Ispettore, mi sta prendendo un po’ in giro?»

    «No, continui a indagare, sono tutte persone che potrebbero avere un legame con le quattro ragazze».

    Marzio si alzò, fuori dalla finestra si stavano formando nuvole gonfie come pance gravide, sicuramente di lì a poco sarebbe nevicato. Aprì la porta dell’ufficio: delle persone sostavano in fondo al corridoio. Capì subito chi fossero. Diradò la fila che aspettava di essere interrogata, fece spazio a quei quattro uomini, pallidi, confusi, inquieti.

    «Avanti, fate passare, vi prego spostatevi».

    Non potevano che essere i mariti di Elisabetta, Stefania, Flaminia, Angela. Entrarono insieme.

    «Ci hanno detto che dobbiamo essere interrogati anche da lei».

    Marzio fu molto gentile, una situazione difficile. Anche per il suo personale imbarazzo. Tra di loro c’era il marito di Elisabetta. Ciascuno aveva già esibito agli inquirenti il proprio alibi, nessuno si era mosso da Vissone sul mare, quindi non potevano essere minimamente coinvolti nell’indagine.

    «Vi porgo le mie più sentite condoglianze. Per adesso non mi pare che ci sia la necessità di raccogliere altre informazioni. Espletate le vostre urgenze con totale autonomia».

    Certamente il più elegante, giacca e cravatta, aria sottile e pulita di chi ha svolto sempre un lavoro intellettuale, era il marito di Angela, l’insegnante; mentre per gli altri tre, vestiti in modo ordinario, giacca a vento, pantaloni pesanti, cappello di lana, abbigliati come i cittadini quando vanno in montagna, odore di naftalina, era difficile trovare un riferimento che li collegasse a Elisabetta, o a Stefania, o Flaminia.

    «Sono a vostra totale disposizione…».

    Nessuno dei quattro fece delle domande sul procedere delle indagini, sul perché le loro quattro mogli si fossero suicidate, su che cosa potesse essere successo nell’appartamento 12 del Bucaneve. Osservavano Marzio, muti, con gli occhi quasi sganciati dalla tragedia. Rassegnati. Niente lacrime. Al di là di essere stati colpiti dall’orrore della vicenda, avevano un’aria quasi sollevata.

    Certamente le quattro donne non avevano amato i mariti. Né loro sembravano particolarmente commossi. Un cerchio senza cuore. Si odiavano reciprocamente. La morte li aveva liberati da responsabilità, separazioni, divorzi, litigi. Galleggiava un atroce senso di appagamento. Come se il destino avesse appianato, senza lasciare sensi di colpa, rancori e contrarietà. Tutti santi. Sante Elisabetta, Stefania, Flaminia, Angela, santi i coniugi. Marzio notò che, ironia della sorte, i quattro si erano raggruppati sotto il poster dei cervi con le corna. Un accostamento scortese, faceva un po’ sorridere.

    «Se non ci sono domande, ovviamente potete andare».

    Si fecero liquidare con molto piacere. Marzio continuò i suoi incontri, dopo i mariti fu la volta degli amanti. Anche loro pretesero di essere ricevuti per comunicazioni importantissime.

    Arturo il farmacista fu il primo. Bivaccava nel silenzio, armeggiando sulla scrivania. Marzio non lo aveva mai visto così teso.

    «Ispettore, ho dato ad Angela il Psicontral senza ricetta medica».

    «Cioè?»

    «Il Psicontral è uno dei più pericolosi e forti antidepressivi in commercio. Ci vuole la ricetta vidimata da un medico psichiatra e controfirmata da un presidio ospedaliero».

    «Perché lo hai fatto?»

    «Sabato sera, per gioco e incoscienza stavamo nella farmacia chiusa, eravamo alticci di Ginpin. Mi ha chiesto di far l’amore con indosso il mio camice bianco. Era un suo sogno. Ci siamo divertiti, è stato bello, poi Angela ha rovistato negli scaffali, passato in rassegna le medicine, sembrava una collega,

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