Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

La Sardegna dei sequestri
La Sardegna dei sequestri
La Sardegna dei sequestri
Ebook1,042 pages14 hours

La Sardegna dei sequestri

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Dalle gesta di Graziano Mesina al rapimento del piccolo Farouk Kassam, dal sequestro di Fabrizio De André e Dori Ghezzi al caso Soffiantini

Che sia stato dettato da motivi politici o da volgare sete di denaro, il rapimento ha tristemente accompagnato la storia criminale della Sardegna fino ad assurgere al rango di “specialità isolana”. Con passione e competenza, Giovanni Ricci passa in rassegna la lunga lista dei sequestri di persona perpetrati in Sardegna dal 1875 fino ai giorni nostri, seguendo l’esportazione del modus operandi dei rapitori sardi in continente e dando corpo a una narrazione in cui la cronaca giudiziaria si fa storia vissuta e analisi sociale. Dall’emersione del fenomeno nell’Ottocento fino al caso Soffiantini, passando per i sequestri celebri di Farouk Kassam, Fabrizio De André e Dori Ghezzi, il libro di Ricci rende attuali gli anni che videro protagonisti banditi del calibro di Pasquale Tandeddu e Graziano Mesina scavando nei meandri dell’Anonima sequestri, forse la più fiorente di tutte le industrie mai nate sul territorio sardo. 

Dall’autore del bestseller Sardegna criminale

La storia di tutti i sequestri di persona avvenuti in Sardegna o di matrice sarda dal 1875 fino ai giorni nostri

Gli anni di Pasquale Tandeddu: dai micro-sequestri ai primi sequestri classici
Graziano Mesina, big del banditismo sardo, e l’Anonima sequestri
Il sequestro di Fabrizio De André e Dori Ghezzi
I rapitori di Tonino Caggiari e il tragico conflitto a fuoco di Osposidda
I rapimenti di Farouk Kassam e Silvia Melis
I sequestri “lampo” degli anni Duemila e il rapimento di Titti Pinna
I rapimenti di matrice sarda perpetrati nella penisola: dalla scomparsa di Claudio Chiacchierini al sequestro del piccolo Augusto De Megni
Il caso Soffiantini
Giovanni Ricci
È nato ad Aggius, nel cuore della Gallura, in Sardegna. Capitano dei carabinieri, è attualmente comandante della Compagnia di Nuoro, dove dal 1998 al 2002 ha guidato il Nucleo Operativo del Comando Provinciale. Laureato in Giurisprudenza, è cultore di Storia del diritto italiano nella facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Sassari, presso la quale svolge delle specifiche lezioni sulla storia criminale della Sardegna. Ha pubblicato i volumi Banditi, Laìcu Roglia e, per la Newton Compton, i bestseller La Sardegna dei sequestri, Sardegna criminale e Fuorilegge, banditi e ribelli di Sardegna.
LanguageItaliano
Release dateJun 7, 2016
ISBN9788854196551
La Sardegna dei sequestri

Related to La Sardegna dei sequestri

Titles in the series (100)

View More

Related ebooks

True Crime For You

View More

Related articles

Reviews for La Sardegna dei sequestri

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    La Sardegna dei sequestri - Giovanni Ricci

    1

    L’Ottocento

    I primi rapiti

    Risalgono agli anni Settanta dell’Ottocento i primi sequestri classici della lunga e travagliata storia criminale sarda. Il fenomeno, tuttavia, in questo periodo, sembra manifestarsi a livello sperimentale, con rapitori (o aspiranti tali) maldestri che operano con superficialità e senza la necessaria determinazione.

    Dal 1875 al 1900, un arco temporale di 25 anni, la casistica (tra l’altro non del tutto documentata) è ancora scarsamente sviluppata: 18 sequestri, con una media di 1,38 all’anno (tre nel 1875, uno – per la prima volta in danno di un cittadino straniero – nel 1890, due nell’anno successivo, cinque nel 1892, uno nel 1893, tre nel 1894, uno nel 1896 e due nel 1899).

    Questa nuova forma di reato (il ricatto), tra l’altro, non suscita ancora alcun allarme sociale, e non impensierisce più di tanto le autorità di pubblica sicurezza, anche se in taluni ambienti dell’alta borghesia e tra le persone colte qualcuno scorge sinistri presagi. Nessuno poteva prevedere, tuttavia, che i sequestri di persona, col tempo, avrebbero costituito una vera piaga sociale, con una serie interminabile di effetti devastanti per l’intera comunità isolana.

    Si è parlato di apprendisti rapitori, ma non si può negare che furono proprio loro, inconsapevolmente, a spianare la strada ai colleghi delle generazioni future.

    La gestione delle trattative per la liberazione dell’ostaggio, per esempio, è rimasta praticamente immutata: l’impiego degli emissari, per facilitare i rapporti tra sequestratori e familiari della vittima; l’imposizione di itinerari particolareggiati ed estremamente lunghi (i cosiddetti giri) e la collocazione di determinati oggetti lungo il tragitto per richiamare l’attenzione degli stessi emissari.

    In questo scorcio di fine Ottocento si registra una novità assoluta: il rapimento, nel 1890, di Charles Vood, un facoltoso imprenditore britannico che si era stabilito temporaneamente in Sardegna per motivi di lavoro. Vood è dunque il primo straniero a essere sequestrato in Sardegna, ma, come vedremo, non sarà l’unico.

    Antonio Meloni Gaia

    Antonio Meloni Gaia è un agiato possidente di Mamoiada di origini aristocratiche che nel maggio del 1875 viene aggredito e rapito da quattro individui armati. I malviventi hanno i volti resi irriconoscibili da una patina di carbone e sorprendono Meloni Gaia nel suo vigneto, poco distante dal centro abitato. Dopo essere stato costretto a scrivere su un foglio di carta la richiesta del riscatto, il prigioniero viene legato e condotto al rifugio dei banditi, una grotta del monte Gonare.

    A questo punto i rapitori commettono un errore imperdonabile: si mettono attorno a un falò e lasciano l’ostaggio da solo all’interno della spelonca, ritenendo sufficienti i lacci che gli stringevano le mani e i piedi. Senonché Meloni Gaia riesce a liberarsi e a mettersi in salvo. I malfattori tentano di inseguirlo, sparando pure alcuni colpi di arma da fuoco, ma è troppo tardi, perché l’aitante aristocratico mamoiadino, correndo come una lepre, ha già raggiunto una zona frequentata da pastori e contadini che potrebbero riconoscerli e addirittura reagire in difesa del loro compaesano. Qualcuno, in paese, pensa a una simulazione di reato, ma i carabinieri del posto accertano ben presto la veridicità dell’episodio delittuoso, che suscita incredulità e sconcerto in tutta l’isola. Ne «Il Giornale di Sardegna» del 1° ottobre 1876 si legge un articolo che stigmatizza l’accaduto e denuncia questa nuova piaga: «Se la sperimentata onestà del cav. Meloni non fosse stata superiore ad ogni calunnia, pure queste indicazioni date prima e a puntino verificate poi, non lasciano dubbio alcuno perché l’uomo amante del pubblico bene non potesse esclamare: Ahi, sventurata Sardegna se all’antica piaga di furti e di grassazioni, si aggiunge quella dei ricatti, sei certamente sospinta all’abisso della sventura».

    Antonio Siotto Pintor

    L’avvocato Antonio Siotto Pintor, di Orani, viene aggredito da tre sconosciuti il 21 agosto 1875, mentre si accinge ad aprire il cancello della sua tenuta, nelle campagne di Nuoro, in località Sa Crapa. I malviventi gli chiedono con fare minaccioso il portafoglio, che in quel momento non ha, e poi iniziano a colpirlo violentemente con pugni e calci, perché lui, avendo intuito il vero scopo dell’aggressione, non vuole seguirli. Siotto cade sul terreno privo di sensi, e i banditi, credendolo morto, si allontanano dal podere. Il povero professionista morirà dopo dieci giorni a causa delle ferite riportate in quel tragico giorno.

    Pasquale Corbu

    L’avvocato Pasquale Corbu è una delle persone più in vista di Nuoro. Oltre a essere uno stimato penalista è anche un agiato proprietario terriero che partecipa attivamente alla vita sociale, culturale e politica della sua città.

    La mattina del 10 novembre 1875 si reca al suo podere modello di Locula, distante pochi chilometri dal capoluogo barbaricino, dove possiede una vigna, un orto e un frutteto.

    I familiari, non vedendolo rientrare a una certa ora, si preoccupano seriamente e inviano sul posto un nipote del professionista, che trova il cavallo dello zio legato al cancello. Sulla sella c’è un fazzoletto del Corbu che avvolge una lettera: «Se volete sano e salvo l’avvocato preparate duemilacinquecento lire in contanti». Nella missiva sono indicate anche le modalità del pagamento e l’itinerario che dovrà seguire l’emissario della famiglia: la strada che da Nuoro conduce a Siniscola.

    La famiglia del rapito decide di assecondare la richiesta dei banditi e il giorno dopo preleva dalla Banca dell’agricoltura la somma necessaria che consegna a Giovanni Basigheddu, la persona di fiducia dei Corbu. L’emissario percorre l’itinerario indicato ma all’appuntamento non si presenta nessuno.

    La strada, però, è molto affollata, e i rapitori, temendo di imbattersi in qualche carabiniere in borghese, hanno rinunciato all’abboccamento. Si tratta, in realtà, di parenti e amici di alcuni imputati siniscolesi, che al termine di un processo celebratosi a Nuoro rientrano a casa. Tutti pensarono, allora, che i malviventi si sarebbero vendicati uccidendo l’ostaggio, ma in quella stessa notte, invece, Pasquale Corbu venne liberato.

    Charles Vood

    L’inglese Charles Vood, rappresentante a Lanusei della ditta Boera di Londra, proprietaria della miniera Oridda, viene rapito il 13 maggio 1890 nelle campagne di Villagrande Strisaili. Nove individui armati fermano la carrozza sulla quale viaggiano lo straniero e un suo servo, un certo Contu.

    I due vengono condotti in un bosco e qui Vood, sotto la minaccia delle armi, scrive la lettera del riscatto: 100.000 lire, poi dimezzate e infine scese a 12.000. Il servo viene rilasciato per recapitare la missiva alla signora Vood, mentre i rapitori si allontanano con l’ostaggio raggiungendo la parte più alta di monte Idolo. Il giorno dopo, all’alba, i malviventi scorgono a valle il Contu che è scortato dai carabinieri. Si infuriano e fanno scrivere al sequestrato una seconda lettera con la quale raccomandano alla moglie di lasciar fuori dalla vicenda le forze dell’ordine. La donna consegna al Contu 1270 lire ma questi non riesce a stabilire un contatto con i rapitori, che nel frattempo si sono spostati.

    Al terzo giorno Charles Vood viene liberato senza pagamento di riscatto.

    I ricatti degli anni Novanta

    Nell’ultimo decennio dell’Ottocento, in Sardegna, si verificano quattordici sequestri a scopo di estorsione. Nel 1891 non si registrano rapimenti, mentre nell’anno successivo finiscono nelle mani dei banditi sette persone: Mario Calamida, Augusto Marignani, Giacomo Lombroso, Mario Rosazza, Antonio Mazzella, Nino Dalu e Giovanni Monne. Un solo rapimento, invece, viene denunciato nel 1893: quello di un certo Matteo Sechi.

    Nel 1894 si registra il sequestro più famoso dell’epoca: Regis Pral, un agiato e intraprendente commerciante francese, viene prelevato insieme al suo factotum Jules Paty nelle campagne tra Seulo e Gadoni da un nugolo di malviventi.

    Questo rapimento causò una protesta ufficiale da parte del governo transalpino, che pretendeva l’immediata liberazione del proprio cittadino. E per risolvere il caso in tempi brevi le autorità italiane dovettero ricorrere alla collaborazione di un celebre bandito di Oliena.

    Nello stesso anno si verificano altri due ricatti: quello dell’imprenditore Domizio Scartabellis, avvenuto vicino a Siniscola, e quello dei fratelli Antonio e Nicola Pischedda, prelevati nella campagne di Nughedu San Nicolò.

    Dopo due anni si sente parlare del sequestro di un certo Antonio Meloni, ma della vicenda non conosciamo altri particolari.

    Il caso Pral

    Regis Pral è figlio di un ricco imprenditore di Valence¹, in Francia, la cui principale attività è quella di acquistare e rivendere legname pregiato in tutto il mondo. Nell’estate del 1894 il giovane imprenditore francese giunge in Sardegna per motivi di lavoro insieme a sua moglie e a Jules Paty, uomo di fiducia della ditta Pral. La mattina del 25 luglio, poco prima dell’alba, Regis e Jules si mettono in viaggio verso le foreste tra Seulo e Gadoni per selezionare e contrassegnare gli alberi di noce destinati al taglio e alla spedizione in Francia. I due stranieri sono in compagnia di una guida esperta, Elia Pirisi, un maestro elementare di Gadoni. A un certo punto, verso le sette di sera, spuntano alcuni individui armati e mascherati, che li bendano e li costringono a imboccare un sentiero tortuoso e scosceso.

    Al termine di un viaggio lungo e faticoso i prigionieri vengono introdotti in una caverna e guardati a vista da quattro malviventi. Il capo è un uomo dal fisico possente che parla discretamente l’italiano e che si rivolge agli ostaggi ripetendo in continuazione la stessa frase: «Pagate il riscatto e non vi succederà niente».

    Il 2 agosto, intanto, Pirisi e Paty vengono fatti uscire dalla caverna e costretti a camminare, bendati, per circa sei ore in mezzo alla boscaglia.

    A Correboi, finalmente, i due prigionieri vengono liberati, per riferire ai parenti di Regis che il riscatto da pagare ammonta a 15.000 lire (qualche giorno prima pretendevano un milione!). Rientrati a Villagrande Pirisi e Paty si recano alla locale stazione ferroviaria per prendere il treno che li porterà a Mandas. Improvvisamente il giovane francese vede un individuo che riconosce come uno dei suoi rapitori e lo fa arrestare dai carabinieri. Accompagnato in caserma l’uomo nega ogni addebito e dà false generalità, ma i militari, che nelle sue tasche hanno trovato una barba finta, lo mettono alle strette e scoprono che si chiama Antonio Murgia, un contadino incensurato di Seulo. Più tardi arriva la confessione: ha partecipato al sequestro solo perché costretto dai malviventi.

    Nel corso delle indagini, frattanto, viene arrestato anche il maestro Pirisi, in quanto fortemente sospettato di aver anch’esso preso parte al rapimento dei due francesi. Nell’intero circondario vengono eseguiti rastrellamenti, battute, perquisizioni, ma è tutto inutile: di Regis nessuna traccia.

    I familiari del rapito si rivolgono al governo italiano per una rapida soluzione del caso, ma la situazione non si sblocca nonostante le massicce operazioni di polizia. L’insuccesso delle forze dell’ordine, però, viene attribuito all’incapacità del governo, che viene criticato soprattutto dai giornali stranieri.

    Il prefetto non ha altra scelta e decide di rivolgersi al decano dei latitanti sardi: Giovanni Corbeddu Salis, di Oliena, al quale, per muoversi liberamente, viene concesso un salvacondotto. Il bandito promette di far liberare l’uomo d’affari francese. La notizia è confermata, seppur con qualche inesattezza, da un articolo apparso su «La Nuova Sardegna» del 2 settembre 1894, in cui tra l’altro vengono sottolineati i commenti che davano del fatto alcuni giornali transalpini: «A conferma della lettera di Lanusei di ieri, rileviamo nel Journal de Valence che uno dei ricattati ebbe per mezzo del parroco di Nuoro un abboccamento con un bandito che da 20 anni batte la campagna. Mediante un salvacondotto che gli permetteva di circolare liberamente, questi accettò di entrare in trattative coi ricattatori mediante un compenso di 500 lire. Egli partì con 5000 lire che doveva consegnare loro, ma dopo 12 ore di inutili ricerche rientrò nel villaggio e onestamente restituita la somma squagliandosi quindi dopo aver intascato le sue 500 lire. Il suo insuccesso aveva una ragione d’essere! I due ricattati erano stati rilasciati!».

    In realtà non fu uno dei ricattati a incontrare Corbeddu, ma il delegato di pubblica sicurezza Lanero, che naturalmente agiva su delega del prefetto. Il bandito olianese riuscirà ben presto a far liberare l’ostaggio, rinunciando al compenso che inizialmente gli era stato promesso.

    Regis Pral, interrogato dagli inquirenti subito dopo la liberazione, scagionerà subito Elia Pirisi ed elogerà addirittura il capo della banda che lo aveva rapito, come si può evincere da alcuni articoli apparsi in quei giorni sul giornale sassarese:

    Il capo della gloriosa spedizione mancava già da parecchi giorni dal luogo ove trovavasi il grosso della banda, quando ritornato d’improvviso nella sera del 7 annunziò al Pral che poteva ritenersi libero e verso l’imbrunire si sarebbero messi in viaggio.

    Quest’ultimo dichiarò di ignorare se le 15.000 lire richieste siano state sborsate, ma lo desunse dal contegno ilare, direi quasi manieroso dimostrato anche dal resto della banda, che fino a quel momento non aveva dato alcun saggio di politesse e quel che più importa di umanità. Il capo banda dopo aver guidato per un lungo tratto si accomiatò, ricordandogli che poteva contare su un amico, anzi su un fratello. (Cfr. Interessanti particolari del ricatto raccontati dal signor Pral, in «La Nuova Sardegna», 13 agosto 1894).

    Sempre secondo il racconto del Pral, i carabinieri passarono a breve distanza dal luogo di prigionia dei rapiti, che furono costretti a gettarsi per terra e a non fiatare. Durante gli spostamenti Regis era costretto a camminare col cappello calato sugli occhi e con lo sguardo rivolto a terra, per non riconoscere i carcerieri. L’ostaggio aveva cercato inutilmente di lasciare tracce del suo passaggio utilizzando dei pezzettini di carta numerati progressivamente con una matita trovata occasionalmente in un sacco.

    Si ha adesso qualche altro particolare sulla situazione affidata al delegato Lanero, quando si recò coll’ispettore Cervis nella via che conduce da Nuoro a Orosei, portando a quanto si disse, 15.000 lire del signor Pral, colla speranza di incontrare coloro cui consegnare la somma. Si vuole invece che il delegato Lanero si recò nel villaggio di Oliena, dove abboccatosi col latitante Corbeddu, prese col medesimo degli accordi, stabilì che il Corbeddu si recasse nella strada che conduce da Nuoro a Orosei non con lire 15.000 ma con lire 5000. I denari non furono consegnati perché poco prima vennero rilasciati i ricattati. (Cfr. Le indagini sul ricatto di Lanusei, in «La Nuova Sardegna», 1° settembre 1894).

    L’eco di questo fatto drammatico si ripercosse in tutta l’Italia e sull’Europa e nonostante si desse pubblicità alle lettere che il Pral scriveva al padre, nelle quali si affermava che la sua liberazione era dovuta unicamente all’incredibile attività del prefetto di Cagliari, e che il governo italiano aveva fatto in questa circostanza più di quanto esigesse il dovere, tuttavia l’incapacità del governo a risolvere questa situazione fu messa in evidenza dallo stesso quotidiano sassarese in un articolo intitolato Il fatto di Barbagia. In esso si afferma che il modo di agire della forza pubblica è assolutamente inadeguato e la reazione del governo ai fatti criminosi consiste solamente in un aumento di carabinieri. Quindi così continua il quotidiano:

    I signori Paty e Pral, col precettore comunale Pirisi, vennero sequestrati il 25 alle 19. La signora del Paty, che si trovava poco lungi, sulle rive del Flumendosa, fu fatta allontanare poco dopo, verosimilmente prima che cadesse la notte, da persone che avevano indovinato o non sappiamo come, appreso la scena, cui da lontano, spettatore indifferente aveva assistito il sindaco di Gadoni (padre del Pirisi), come egli stesso non esitò a dichiarare.

    Quindi possiamo fondamentalmente affermare che alle 22, al più tardi, ad Aritzo c’è un grosso comune, vi è un sindaco, un pretore, un ufficiale telegrafico. Non sappiamo se il sindaco come ufficiale del governo, abbia subito telegrafato al prefetto di Cagliari; dobbiamo però presumere che il pretore abbia telegrafato al procuratore generale. Ma se si è pensato al telegrafo, interrompendo magari per un giorno un orario ordinario, è incomprensibile come il prefetto di Cagliari abbia preso disposizioni solo la mattina del 27, partendo per Aritzo con un drappello di carabinieri, seguito il giorno dopo da 40 allievi... (Cfr. Il fatto di Barbagia, in «La Nuova Sardegna», 1° agosto 1894).

    Lo stesso articolo conclude con un’aspra critica verso la polizia che si era dimostrata abbastanza inefficiente e contro il governo che vorrebbe rimuovere l’effetto non occupandosi delle cause.

    L’organizzazione della polizia è difettosa e si mostra insufficiente anche per un’altra considerazione, e cioè che si pretende lottare con i malfattori con parate militari. A questo modo la Forza inseguitrice rappresenta la parte del gatto con la sonagliera e i topi sono prevenuti che il nemico si avanza e fuggono e si nascondono. La parata non dura che un giorno mentre le bande dei malfattori operano tutto l’anno.

    La Stazione di Aritzo e Seui dovrebbero essere rinforzate permanentemente... è un’onta del governo non garantire la sicurezza in quelle regioni che potrebbero diventare una piccola Svizzera. Si trovano sempre i milioni per consolidare la civiltà in Africa. (Cfr. Il fatto di Barbagia, in «La Nuova Sardegna», 1° agosto 1894).

    È evidente in questo articolo l’opposizione da parte di certa classe colta sarda alla politica crispina che, anziché volgersi a risolvere le tensioni interne del paese, cercò di trovare uno sbocco in politica estera con l’avventura delle conquiste africane ignorando o meglio non dando il peso giusto alla triste condizione in cui si trovava una parte dell’Italia.

    Ecco invece come venne commentato l’episodio da un giornale francese coevo:

    Cattura di due viaggiatori francesi da parte dei briganti in Sardegna. Due francesi sono stati fermati i giorni scorsi dai briganti in Sardegna, dove viaggiavano per i loro affari. Sono i signori Regis Pral e Paty, incaricati dell’acquisto di boschi da cui ricavare legname da costruzione per la Casa Pral di Valenza. M. Paty aveva condotto nel suo viaggio la moglie e il figliolo. Erano partiti tutti e quattro a cavallo verso una foresta nei pressi di Aritzo, dove dovevano acquistare dei noci. Una guida, detta Pirisi, li accompagnava. Ma questa guida non era che un complice incaricato di favorire la cattura dei due commercianti e di condurli in un determinato luogo. Questo Pirisi è, in effetti, il genero d’un bandito assai noto, chiamato Torracorte. Mme Paty restò col figlio e con un operaio in una località della foresta, mentre Pirisi e il proprietario dei boschi da vendere conducevano i due commercianti in un luogo distante circa un’ora.

    Ma la notte giunse senza che essi fossero tornati; Mme Paty ha dovuto improvvisare un letto per suo figlio e l’indomani ha avvisato i gendarmi che si sono messi alla ricerca degli assenti. Non fu che al terzo giorno che M. Paty fu rimesso in libertà. Allo stesso tempo i briganti richiedevano per la liberazione di M. Pral la somma di 15.000 lire.

    Il governo francese ha rimostrato energicamente con Roma presso il governo italiano. L’indomani fu arrestato Pirisi e furono trattenuti come ostaggi il padre di Pirisi, il sindaco e il segretario comunale, ugualmente sospettati di complicità. Fu stabilito che li avrebbero fucilati in caso di attentato contro M. Pral. Infine, chiusi da tutti i lati dalle forze armate, sotto gli ordini del prefetto, i briganti hanno rilasciato M. Pral senza pagamento d’alcun riscatto. Singolare paese questo, dove i briganti trovano dei collaboratori tra le autorità incaricate di vigilare sulla protezione dei cittadini².

    Il caso Scartabellis

    La sera dell’8 marzo 1894, nelle campagne di Siniscola, lungo la strada per La Caletta, alcuni malviventi rapiscono Domizio Scartabellis, un commerciante continentale di carbone proprietario di un’azienda situata in territorio di Bitti.

    Dopo due giorni allo zio dello Scartabellis perviene una lettera con la quale i rapitori chiedono il pagamento di 15.000 lire per la liberazione dell’ostaggio.

    I familiari denunciano il fatto ai carabinieri, che iniziano a setacciare la zona tra la Baronia e i centri abitati di Orune e Bitti.

    La sera del 14 marzo successivo il rapito viene rilasciato nelle campagne di Monte Pizzinnu senza pagamento di riscatto. Gli autori del sequestro vengono scoperti e arrestati nelle ore successive.

    Il sequestro dei fratelli Pischedda

    Il 27 gennaio 1899 vengono rapiti i fratelli Antonio e Nicola Pischedda, due anziani e ricchi possidenti di Nughedu San Nicolò che «vestono entrambi in brache al costume antico, e quindi sono distinti dagli altri, non essendoci in paese due individui di quell’età e di quel vestiario che si occupino nel lavoro».

    Un gruppo di malviventi armati fa irruzione nella loro azienda e li porta via sotto lo sguardo sbigottito di tre braccianti, che assistono impotenti all’aggressione e che subito dopo riferiscono l’episodio ai carabinieri.

    Nel frattempo i rapitori hanno rilasciato Antonio, con il compito di recarsi in paese per raccogliere il denaro del riscatto: 5000 lire in contanti.

    In casa del Pischedda ci sono già tutti i parenti, il capitano dei carabinieri Balduino Caprini e il delegato di pubblica sicurezza Giuseppe Torregrossa. Dopo un po’ arriva anche Antonio, malconcio e disperato, che racconta agli inquirenti i particolari del sequestro.

    I banditi erano cinque. Lui e il fratello sono stati colpiti con i calci dei fucili. Antonio si era messo a gridare invocando aiuto, «epperciò fu barbaramente maltrattato dai malfattori i quali gli avevano messo persino una cordicella di canapa al collo per trascinarlo». Era riuscito a sfilarsi la corda dal collo ma uno dei malviventi gli aveva puntato un coltello alla gola, e «resistendo egli ancora a muoversi, lo avevano afferrato in peso e buttato dal muro».

    Salvatore Cau Fenu, il genero di Antonio, d’accordo con gli altri parenti, decide di pagare il riscatto, e affida a due persone di fiducia, i fratelli Salvatore e Antonio Mundula, il compito di consegnare il denaro.

    Saranno accompagnati da uno dei tre braccianti, Giuseppe Bacciu, che, avendo assistito al rapimento, è in grado di riconoscere i banditi e di evitare eventuali episodi di sciacallaggio.

    Cau Fenu suggerisce ai Mundula di far credere ai malviventi che la somma racimolata ammonta soltanto a 4500 lire, e che suo suocero non la potrà consegnare personalmente, come era stato concordato prima del rilascio, perché costretto a letto dalle percosse ricevute.

    L’ufficiale dell’Arma consiglia di segnare le banconote, delle quali ha già annotato i numeri di serie: due biglietti da 1000 lire e due da 500 del Banco di Napoli, due da 500 della Banca nazionale, diversi biglietti di Stato da 25, 10 e 5.

    Dirà in seguito Salvatore Cau Fenu: «Il contrassegno da me apposto consisteva in una croce per tutta la lunghezza e larghezza dei biglietti fatta coll’estremità del manico d’un porta penna assottigliata da un lapis e bagnata in sugo di limone».

    La mattina successiva gli emissari entrano in azione seguendo alla lettera le istruzioni ricevute.

    «Cavalcando una cavalla grigia» e con «in testa un fazzoletto bianco», imboccano la strada per Pattada. All’altezza del bivio per Buddusò incontrano due banditi che li guidano verso la boscaglia, «e quando giunsimo quasi alla cresta della montagna, scorgemmo un altro malfattore, che stava in vedetta dietro un macigno, e del quale si vedevano appena scorgere la testa e le estremità delle canne del fucile». Il più alto dei due malviventi chiede il denaro, e quando scopre che mancano 500 lire inizia a gridare come un forsennato, minacciando «che avrebbe mandato la testa entro un sacco, se prima non riceveva la somma totale».

    Il secondo fuorilegge, invece, esaminando i biglietti, disse pure rivolto all’altro in dialetto nuorese: «Che ne fatte di queste denari, il fuoco ve ne accendete, tanto non li potete esitare perché i numeri che portano sono tutti segnati dalla giustizia prima di spedirveli».

    Salvatore Mundula tenta di placare gli animi dei banditi e assicura che tutto è stato fatto in gran segreto e in perfetta buona fede. Un fuorilegge prende in consegna il denaro, ma vuole far allontanare l’emissario, che insiste, invece, affinché l’ostaggio sia rilasciato immediatamente. Un terzo malvivente si insospettisce e perde la pazienza, perché teme l’intervento di qualche «agente della forza pubblica travestito». Si discute animatamente ancora per qualche minuto, ma alla fine i banditi accettano le 4500 lire.

    Nicola Pischedda verrà rilasciato dopo un’ora alla stazione ferroviaria di Pattada.

    «Arrivarono in casa verso le due per le tre del pomeriggio», racconterà ai giudici Cau Fenu, «perché mio zio, sentendo vergogna di entrare in paese di giorno, si era trattenuto col Mundula Antonio nel suo vigneto e venne sull’imbrunire».

    Salvatore Cau Fenu sospetta che a Nughedu ci sia stato un basista, perché i fratelli Pischedda, che «non s’immischiano in affari di amministrazioni pubbliche», pur essendo molto ricchi, conducono una vita appartata, e non sono conosciuti fuori dal paese. I due possidenti non hanno nemici. Il genero di Antonio Pischedda, invece, ammette di averne uno: Gaspare Leoni, il conciliatore di Nughedu, vedovo di una sua defunta zia. Da costei ha ereditato i suoi beni, ma i rapporti con il Leoni, che lo minaccia in continuazione, si sono deteriorati in modo irreversibile. Cau Fenu non esclude che il vedovo possa aver ideato il sequestro del suocero per colpire indirettamente lui, dato che sua moglie è l’unica figlia di Antonio, e lo zio Nicola vive a casa con loro. Ma si tratta di semplici illazioni, e Salvatore Cau Fenu si impegna a indagare per conto proprio.

    I carabinieri ritengono che il rapimento sia stato compiuto materialmente da tre latitanti che bazzicano da tempo le campagne di Nule, Nughedu e Pattada: Campesi, Budroni e Giovanni Maria Astara. Si cerca intanto di ricostruire i connotati dei rapitori attraverso la descrizione che ne danno i fratelli Mundula e i tre braccianti. Così, in base alle testimonianze, il primo «era di faccia allungata, dell’età dai 30 ai 35 anni, vestiva uose e brache d’albagio, mutande bianche allacciate alle uose con una zimarra di pelle d’agnello ben lavorata a fiorami specialmente nella tasca interna, ove mise i denari. Parlava talvolta in italiano corrotto ed anche in dialetto nuorese [...] Ha il corsetto di velluto torradu cottu, cioè rossastro oscuro, come sogliono usare nei paesi di Benetutti, Nule, Bultei ed Anela, imitava il dialetto nuorese». Il secondo «parlava il vero dialetto nuorese, indossava una zimarra di montone alquanto sudicia; nella salita camminava rapidamente senza stancarsi, mentre gli altri erano tutti sudati [...] Parlava puramente il dialetto di Nuoro, Orani e paesi limitrofi». Il terzo «veste pantaloni e panciotto di frustagno e due giacche, l’una sopra l’altra, era di mediana statura, anzi piuttosto basso, macilento ed a quanto appariva doveva essere sofferente al fegato o alla milza sembrando che affannasse [...] Parlava il dialetto di Nughedu e paesi vicini d’Ozieri [...] Indossava un cappotto d’albagio, come si usa nei paesi d’Ozieri e parlava il dialetto dei paesi del Goceano». Del quarto nessuno degli emissari ha potuto fornire alcuna descrizione perché era nascosto dagli alberi. Il quinto «vestiva in pantaloni di fustagno, corpetto di velluto nero, a bottoncini di vetro neri, allacciati con filo di ferro o meglio d’ottone, cappotto d’albagio e sopra il cappotto una mastruca di pelle di pecora. Era pallido e con poca barba bionda, aveva la testa incassata sul collo ed era curvo e gobboso».

    Ai primi di aprile Giovanni Antonio Astara, fratello del latitante Giovanni Maria, acquista un paio di buoi da Giuseppe Dore, pagando con una banconota da 500 lire, senonché il venditore non ha cambio e non può dargli il resto. Si reca allora all’ufficio postale di Nule, dove l’impiegato trattiene la banconota, ma intanto gli anticipa la somma di 250 lire, impegnandosi a dargli la rimanenza quando riuscirà a cambiarla.

    Dopo alcuni giorni il biglietto viene versato nelle casse dell’esattoria di Benetutti dall’ex esattore Giommaria Manca Mocco e dall’impiegato postale di Nule, che ne chiedono, a titolo di favore, il cambio in banconote di piccolo taglio. L’esattore Unali provvede immediatamente, ma pretende che Mocco apponga la sua firma sul biglietto appena incassato. L’operazione si conclude felicemente, o almeno così sembra.

    Informati dallo zelante funzionario, i carabinieri del posto esaminano la banconota e accertano, tramite il numero di serie, che proviene dal riscatto pagato per la liberazione del Pischedda.

    Dopo poche ore una pattuglia di militari piomba in casa dell’ignaro ex esattore che così racconterà dell’inattesa visita: «Chiestomi se tenessi del fuoco acceso in casa e rispostogli in senso affermativo, vollero recarsi meco nella stanza ove era il fuoco. Quivi avvicinarono il biglietto all’azione del calore ed apparve nel medesimo una croce formata da due strisce, una in senso longitudinale e l’altra trasversale di colore giallognolo».

    Le indagini portano ben presto a Giovanni Antonio Astara, che si era recato a comprare i buoi in compagnia del cognato Nanni Ledda. Astara è un semplice contadino che vive alla giornata e che possiede già due coppie di buoi, ma nessuno pensa che possa essere coinvolto nei loschi giri di suo fratello, alla macchia da diverso tempo. «È certo», sostiene Mocco, «che la famiglia Astara aveva continua relazione col latitante Gio Maria, però non mi consta che fra loro vi fosse accordo per partecipare al prodotto dei furti e delle estorsioni, che verrebbero commessi dai latitanti».

    A Benetutti i numerosi testimoni interrogati escludono che Giovanni Antonio abbia partecipato al sequestro, ma i carabinieri arrestano sia lui che i suoi due figli: Giuseppe e Felicino. In carcere finisce anche il padre di Giovanni Antonio, con l’accusa, per tutti, di concorso nel rapimento dei due fratelli.

    Ben presto però, ai parenti dei rapiti arrivano cattive notizie: i latitanti Astara, Campesi e Budroni si sono presentati a Paolo Fresu Spano, zio di Salvatore Cau Fenu, e lo hanno incaricato di riferire ai Pischedda di recarsi a Sassari, presso gli avvocati Mossa e Berlinguer, per caldeggiare l’immediata scarcerazione della famiglia Astara, che non ha nulla a che vedere con il sequestro. In caso contrario, «sarebbero capitati guai più grossi». E non solo: se non avessero pagato con banconote pulite (questa volta si accontentano della metà dell’importo), si sarebbero fatti risentire.

    Nel frattempo Salvatore Cau Fenu riferisce al pretore di Ozieri l’esito parziale delle sue indagini private: i ricercati Campesi, Catte e Marongiu sono stati visti gironzolare nella zona del rapimento, e sono in molti a credere nella loro colpevolezza. Gli Astara non vengono nemmeno menzionati, ma i carabinieri continuano a ritenerli fortemente indiziati.

    Salvatorangelo Catte, il latitante barbaricino che proprio in quel periodo si era invaghito della giovane Maria Rosa Mundula (l’aveva vista e corteggiata per la prima volta a Benetutti, presso i bagni termali), verrà intercettato e ucciso da una squadriglia dell’Arma nell’estate del 1899, in località Sa Pramma di Nughedu.

    1. La cittadina di Valence, nella regione del Rodano-Alpi, 90 chilometri a sud da Lione, ha oggi poco più di 66.000 abitanti.

    2. Cfr. «Le Petit Journale», 20 agosto 1894, citato in Dolores Turchi – Alkis Raftis, Episodi di brigantaggio ottocentesco, in «Sardegna Mediterranea», n. 8, ottobre 2000.

    2

    Dal periodo giolittiano

    alla caduta del fascismo

    I sequestri dal 1901 al 1922

    Sono soltanto due, nei primi ventidue anni del Novecento, i sequestri di persona a scopo di estorsione certi e documentati: quello (tentato) in danno del commerciante toscano Ulisse Gualandi, e quello (consumato e finito tragicamente) perpetrato nei confronti del giovane Luigi Polo.

    Ulisse Gualandi

    Il 30 giugno 1914, verso le 11,30, nelle campagne di Siniscola (NU), in località Sa Sedda, due malviventi aggrediscono il commerciante toscano Ulisse Gualandi e gli strappano il portafoglio che contiene 100 lire in banconote e diversi documenti. Subito dopo sopraggiunge un terzo malfattore che si avvicina al derubato e gli ordina di seguirlo. È un tentativo di sequestro a scopo di estorsione, ma l’uomo d’affari si oppone con tutte le sue forze e subito dopo riesce a fuggire. Per questa vicenda delittuosa, il 1° luglio successivo, viene arrestato il contadino di Lodè Matteo Sanna, mentre il presunto mandante, Giovanni Maria Bomboi, quarantaseienne, di Siniscola, finisce in carcere il 26 marzo 1915. Le indagini dei carabinieri portano ben presto all’individuazione di altri due complici, entrambi di Siniscola: Giovanni Maria Dalu, di 35 anni, detenuto perché nel frattempo accusato dell’omicidio di un certo Antonio Succu, e Michele Pau, anch’esso trentacinquenne, che si dà alla latitanza.

    Al termine dell’istruttoria il procuratore generale del re chiede il rinvio a giudizio di tutti e quattro gli imputati, ma la Sezione d’accusa della Corte di appello di Cagliari, il 19 agosto 1915, dichiara non doversi procedere per insufficienza di prove e ne ordina la scarcerazione «se non detenuti per altra causa». Ecco come i giudici cagliaritani hanno ricostruito la vicenda:

    L’industriale Gualandi Ulisse, nativo di Villa di Boggio in quel di Pistoia, nella regione Itteresi, territorio di Siniscola, aveva acquistato un taglio di piante per carbonizzare. La mattina del 30 giugno 1914 si recò nella regione suddetta per verificare a che punto erano i relativi lavori.

    Egli partì da Siniscola verso le ore 6 per lo più cavalcando una mula di sua proprietà, e nel viaggio di andata passò dalla regione Ghiramonte ove trovò certo Bomboi Giovanni Maria che ivi teneva al pascolo i porci, il quale gli domandò dove era diretto.

    Arrivato indi il Gualandi in Itteresi ed ivi sbrigate le proprie faccende verso le ore 11 si avviò di nuovo verso Siniscola seguendo questa volta via diversa ed opposta a quella percorsa nell’andata.

    A circa le ore 11 e mezzo attraversata la località Sa Sedda, mentre a piedi percorreva una discesa tirando la predetta mula per la cavezza, gli si pararono avanti due giovinotti, l’uno dell’età apparente di anni 20, l’altro di anni 25, vestiti entrambi come suol dirsi alla civile, con abiti logori e con gli altri connotati di cui nel verbale dell’Arma i quali chiesero ad esso Gualandi un sigaro.

    Avendo egli risposto che non fumava i due gli si fecero addosso, lo afferrarono per il petto e gli tolsero dalle tasche il portafoglio contenente alcune carte e lire 100 circa in biglietti monetati.

    Il Gualandi pregò che almeno gli si restituissero le carte, ma i due malfattori, scontenti forse dallo scarso bottino, gli imposero di seguirlo, facendogli comprendere che avevano intenzione di sequestrarlo e tenerlo in ostaggio per poter chiedere alla di lui famiglia una somma a titolo di riscatto.

    Il Gualandi però si ribellò a tale ingiunzione reagendo vivamente ed emettendo delle grida, ed allora i due malfattori presolo per le gambe lo fecero stramazzare per terra percuotendolo a pugni ed a colpi di sassi. In questo mentre sopravvenne un terzo manigoldo dell’apparente età dai 35 ai 40 anni, il quale portava seco tre fucili. Tale individuo, sempre al dire del Gualandi, aveva baffi e barbetta chiari, ma non gli fu possibile distinguerne il modo di vestire perché lo stesso afferratolo per una gamba ebbe cura di tenersi nascosto dietro un cespuglio di lentischio.

    A farla breve i tre sconosciuti, visto ch’esso Gualandi si ostinava a non volerli seguire gli legarono attorno al collo la cavezza della mula obbligando l’animale stesso a camminare per trascinarlo. Fu allora che il Gualandi sentendosi soffocare si tolse cautamente dalla tasca un coltello a serramanico e tagliata con esso la fune che gli cingeva il collo, si buttò rotoloni nel sottostante pendio e non solo poté essere salvo, imperocché i malfattori piuttosto che seguirlo preferirono dileguarsi.

    La detta mula poi nello stesso giorno fu trovata e tenturata dal procaccia postale di Lodè Nanu Gregorio, il quale sul cocuzzolo di una montagna poco distante notò tre individui, due vestiti alla civile, e un terzo in costume che, a quanto gli parve, erano diretti verso il territorio di Lula.

    I carabinieri di Siniscola, appena avuta la notizia del grave fatto, ricevettero la denunzia del Gualandi nei sensi predetti e nel giorno 1° luglio 1914 si recarono sul luogo dell’aggressione ove constatarono vero il fatto stesso, avendo ritrovato sul terreno tracce di lotta, nonché il cappello di esso Gualandi e stille di sangue colategli facilmente dal naso per le percosse riportate. Sul cocuzzolo poi del monte soprastante la località stessa rinvennero le tracce di pedate di tre persone, due calzanti scarpe chiodate e il terzo liscie.

    Dopo ciò due dei predetti carabinieri si recarono nella regione Ghiramonte, già sopra nominata, ove appunto il Gualandi si era dopo la partenza da Siniscola imbattuto col Bomboi Giovanni Maria. Ivi appunto i militari in parola trovarono certo Sanna Matteo servo porcaro di esso Bomboi e lo trassero in arresto sia perché il di lui contegno parve sospetto sia perché egli presentava delle graffiature ed escoriazioni all’orecchio sinistro, sia infine perché certo Bellu Giovanni Maria avrebbe detto ch’esso Sanna dopo essersi verso le ore 8 e mezzo del 30 giugno abboccato col suo padrone Bomboi erasi allontanato per ignota direzione, facendo ritorno soltanto verso le ore 13 del giorno stesso.

    Mostrato il Sanna medesimo, in caserma, senza le debite formalità di legge, al Gualandi, costui disse di rassomigliarlo per uno dei malfattori e precisamente per quello dell’apparente età di anni 25. Domandato il Sanna stesso sulla causale delle escoriazioni o graffiature riscontratesi come già si è detto all’orecchio sinistro, egli affermò di aversele prodotte uno o due giorni prima urtando casualmente in uno sterpo di rovo, ciò che fu in certo qual modo smentito dalla perizia eseguita dal dottor Conteddu il quale giudicò bensì che una delle lesioni posta al lato esterno di detto orecchio poteva essere stata causata da corpo strisciante e spinoso mentre le altre erano state con la maggior probabilità prodotte da unghiate.

    I reali carabinieri poi vennero a sapere che il predetto Bomboi dopo essersi la mattina del 30 giugno recato da Siniscola a Ghiramonte e dopo di essersi ivi imbattuto col Gualandi era di nuovo tornato in Siniscola, dal che arguirono che il Bomboi stesso fosse un complice e che il suo ritorno in paese avesse avuto lo scopo di reclutare gli altri due individui che col proprio servo avevano poscia commessa la rapina ed il tentativo di riscatto a danno del Gualandi. Il Bomboi invece domandato in proposito affermò di essere ritornato in Siniscola per mangiare e prendere provviste per il servo Sanna.

    Interpellato il Gualandi dal magistrato inquirente in data 4 luglio 1914 egli disse di essergli sembrato di riconoscere nel detenuto Sanna uno dei suoi aggressori [...] ma sentita con manifesta incongruenza soggiunse: «Se mi venissero addimostrati potrei riconoscere quei malfattori, tranne quello più anziano di età che mi riuscì di scorgere solo di sbercio».

    Ed in altra interpellanza del 29 agosto detto anno parlando del suo ritorno in Siniscola dopo la patita aggressione disse: «Non vidi quell’individuo arrestato (il Sanna, cioè) e da me poi indicato, sebbene non in modo certo, come uno dei miei aggressori». Soltanto in una ultima dichiarazione resa al giudice istruttore il 19 aprile 1915, rimangiandosi di botto le precedenti affermazioni disse di aver riconosciuto il Sanna per uno degli autori della rapina e lo disse in modo così strano da far dubitare se egli abbia inteso continuare a parlare di semplice rassomiglianza oppure di vero e proprio riconoscimento.

    Egli difatti così si esprime: «Debbo però confermare che il Sanna Matteo fu già da me riconosciuto come uno degli autori materiali della rapina». Riconosciuto, ma non in modo certo, così almeno egli aveva sempre detto in precedenza. Arrestato il Bomboi in seguito a mandato di cattura egli persistette nel dichiararsi innocente di qualsiasi concorso nei reati ascritti al proprio servo Sanna, soggiungendo che mesi prima nelle carceri di Nuoro, ove era stato detenuto per altra imputazione, il condetenuto Dalu Giovanni Maria aveagli confidato che autore della rapina e tentato ricatto a danno del Gualandi era stato appunto lui unitamente a Pau Michele e a certi Biancu Salvatore, il quale ultimo in seguito era stato ucciso in conflitto. In seguito a ciò fu spiccato mandato di cattura contro il detto Pau che a quanto si dice è latitante per altra imputazione e fu interrogato il Dalu con mandato di comparizione. Costui negò recisamente le asserite confidenze di cui parla il Bomboi dichiarandosi quindi innocente dei reati ascrittigli.

    Atteso che ciò posto si osserva che genericamente non può elevarsi alcun dubbio sulla verità dei fatti denunziati dal Gualandi risultando essi dalle contestazioni immediate fatte sul posto dai reali carabinieri e dalla circostanza ch’esso Gualandi ritornò in Siniscola tutto pesto e malconcio, tanto che, appunto, per le lesioni riportate, soffrì malattia per la durata di 80 giorni.

    Purtroppo però la specifica allo stato delle cose non offre elementi tali da poter con sicurezza far ritenere che i prevenuti rubricati abbiano in qualsiasi modo preso parte ai gravi delitti di cui fu vittima il Gualandi.

    Nei riguardi del Sanna Matteo difatti e del di lui preteso riconoscimento per parte del Gualandi si è già sopra ampiamente discusso in modo da potere ora conchiudere che il riconoscimento stesso non ha serio valore. Né alcun lume del pari fornisce la circostanza delle graffiature ed escoriazioni riscontrate sull’orecchio sinistro di esso Sanna in primo luogo perché la perizia eseguita in proposito non appaga, fondandosi essa su semplici dati di probabilità ed in secondo luogo poi perhé il Gualandi non è stato al caso di dire se durante la colluttazione sostenuta con gli aggressori abbia ad alcuno di essi prodotte graffiature od altre lesioni di sorta.

    D’altra parte il teste Bellu Giovanni Maria nei suoi esami resi all’autorità giudiziaria ha smentito ciò che si diceva nel primo verbale dell’Arma di essersi cioè il Sanna allontanato dall’ovile dopo di essersi segretamente abboccato col Bomboi, e quindi non è punto invero simile, come esso Sanna sostiene che siasi recato alla custodia dei porci o alla ricerca di scrofe smarrite.

    Nei rapporti poi del Bomboi la circostanza precipua dell’accusa a suo carico si è quella d’esser ritornato in Siniscola dopo il passaggio del Gualandi da Ghiromonte, ma d’altra parte però non ha il benché minimo appiglio per poter dire che tale ritorno in paese abbia avuto scopo delittuoso.

    Nei riguardi infine del Dalu e Pau stanno soltanto le pretese confidenze che il Bomboi dice essergli state fatte in carcere da esso Dalu. Ma a prescindere che quest’ultimo nega recisamente le confidenze stesse, vi ha poi dippiù che il Dalu medesimo essendo stato mostrato nei modi di legge al Gualandi, questi ha escluso che lo stesso fosse uno di quelli che lo aggredirono.

    Atteso che da tutto ciò promana che l’istruttoria allo stato deve essere chiusa con dichiarazione di non esser luogo a procedere a carico di tutti i prevenuti per insufficienza di prove, per questi motivi, in difformità delle requisitorie del procuratore generale dichiara chiusa l’istruttoria ed ordina non doversi procedere contro Sanna Matteo, Bomboi Giovanni Maria, Dalu Giovanni Maria e Pau Michele per insufficienza di prove quanto ai reati loro rispettivamente ascritti nella rubrica della presente. Ordina quindi che essi Sanna e Bomboi siano posti immediatamente in libertà se non detenuti per altra causa.

    Nel corso dell’istruttoria Gualandi inviò una lettera alla Sezione d’accusa con la quale scagionava completamente Giovanni Maria Dalu. La missiva, datata 24 agosto, arrivò a Cagliari dopo quattro giorni, quando i giudici, tuttavia, avevano già prosciolto i quattro imputati. Così scriveva il commerciante toscano:

    Lo scrivente ha potuto apprendere che da codesta Regia Procura Generale sia stato chiesto il rinvio a giudizio degli accusati di aggressione e rapina dal medesimo patita nel giugno 1914 in queste campagne, coinvolgendovi certo Dalu Giov. Maria, fu Luigi, da Siniscola, attualmente detenuto sotto altra imputazione di compicità in assassinio verso Succu Antonio.

    Per debito di coscienza e lealtà, tanto negl’interrogatori presso il Pretore ed il Giudice istruttore, quanto nella identificazione avvenuta nelle carceri di Nuoro, lo scrivente ha escluso sempre la partecipazione del suddetto Dalu al reato di cui trattasi, osservando anzi trattarsi di una mistificazione e deviazione della giustizia tramata da qualcuno che vi aveva interesse, e forsanco avea partecipato all’azione criminosa.

    Né lo scrivente poteva contenersi diversamente per le seguenti ragioni di fatto:

    – per essere amico personale, sempre in buoni rapporti, del Dalu, dal quale in varie epoche acquistò dei maiali grassi per la fornitura ai propri operai addetti alla carbonizzazione;

    – perché data tale conoscenza e relazione non poteva sfuggire allo scrivente il riconoscimento e l’identificazione del Dalu sia al momento del delitto sia nel confronto in carcere;

    – perché ha sempre avuto e tiene ancora in concetto di probità ed arresta il Dalu quantunque per ragioni locali, che qui non è ovvio rilevare, sia stato il medesimo travolto in altra più grave imputazione.

    Ecco perché lo scrivente esclude ed escluderà in qualsiasi evento la responsabilità e ripete e ripeterà sempre che la sua complicità, voluta da qualche tristo su cui si sono effettivamente affissate le direttive del sottoscritto, non è altro che un artifizio per mandare in fumo il processo. E con qualcuno che non dovrebbe e tuttavia gode in Siniscola della propria impunità e libertà, potrà restare soddisfatto dell’opera propria.

    Lo scrivente non ha partiti e non vuole suscitare odiosità né calunnie per alcuno, non può prestarsi ad affermazioni contrarie a quanto depose col magistrato inquirente ed a quanto con piena consapevolezza e coscienza ha esposto di sopra, pronto a ratificarlo col vincolo del giuramento. Tutto il resto è raggiro e mala fede. Con particolare ossequio. Siniscola, 24 agosto 1915. Ulisse Gualandi, industriale in carbone.

    Luigi Polo

    Luigi Polo è poco più di un ragazzo, figlio di un agiato possidente di Ozieri (SS). La mattina del 15 marzo 1922 viene rapito nella tenuta di suo padre, a pochi chilometri dal centro abitato, da alcuni banditi che prima di allontanarsi consegnano una lettera manoscritta al servo della famiglia Polo. La missiva contiene la richiesta del riscatto: 60.000 lire in contanti. Il padre del ragazzo organizza subito un’imponente battuta alla quale partecipano più di cento persone tra amici e conoscenti, ma è tutto inutile perché dopo pochi giorni due pastori trovano sotto un cespuglio il cadavere del giovane sequestrato. I responsabili vengono identificati e arrestati a tempo di record. Si tratta di cinque uomini: tre di Ozieri, uno di Sarule e uno di Osidda.

    I rapimenti del Ventennio

    Nel Ventennio si moltiplicano i rapimenti. Si tratta per lo più di brevi sequestri ai danni di pastori, come quello di Vincenzo Sirca, sedicenne, rapito da alcuni malviventi a Sarule (NU) il 24 gennaio 1945 e rilasciato dopo circa dieci giorni di prigionia; o quello di Giovanni Maria Soru, sequestrato il 10 aprile 1945 a Gavoi (NU) e successivamente liberato dai carabinieri.

    Di questi e molti altri casi non conosciamo molto a parte il nome della vittima e la data e il luogo del fatto, ma di alcuni ci sono giunti maggiori particolari.

    Giovanni Battista Cocco

    La notte tra il 9 e il 10 settembre 1924, in località Singraris di Sedilo (OR), sei banditi armati irrompono in un ovile e si portano via Giovanni Battista Cocco, 20 anni, figlio ultimogenito di un agiato possidente locale. Dopo tre giorni arriva la richiesta scritta del riscatto: 120.000 lire, da consegnare secondo modalità ben precise indicate dagli stessi rapitori. I familiari del rapito affidano l’incarico a tale Francesco Mulas, che monta a cavallo con la somma di 5000 lire, più altre 1500 di riserva, e inizia a percorrere l’itinerario alla volta di Ponte Luguaia, fra Ottana, Orotelli e Orani. A un certo punto sente una voce che gli intima di fermarsi, e subito dopo vede alcuni individui distesi bocconi per terra. Sono i rapitori, che ritirano le 5000 lire e raccomandano al Mulas di dire alla famiglia che attendono la rimanenza della somma richiesta. Il 17 settembre, intanto, due pastori segnalano la presenza di una piccola colonna di fumo nel preciso punto dove prima sorgeva una capanna. Ma c’è di più: fra un cumulo di cenere hanno fatto la macabra scoperta di pochi miseri resti di un corpo umano quasi del tutto carbonizzato.

    Il cadavere, grazie alle scarpe e ai frammenti di tessuto dell’abito, viene identificato in quello di Giovanni Battista Cocco. Le prime indagini portano all’arresto di Salvatore Piredda Brundu, di Orani, Antonio Meloni, di Sarule, e Antonio Stara, di Orani, ma vengono rimessi in libertà poco tempo dopo. Successivamente vengono incriminati: Giovanni Daniele Salvai, datosi alla macchia per una tentata rapina, che viene arrestato il 25 settembre; Andrea Cuccu, originario di Orani e residente a Benetutti, che finisce in prigione il 12 ottobre; Antonio Tidda, di Orani, residente a Sarule, che viene ammanettato il 30 ottobre; Andrea Nieddu, di Orani, che viene catturato nello stesso giorno; il padre del Salvai, Salvatore, resosi irreperibile subito dopo il sequestro, che muore in uno scontro a fuoco con i carabinieri; Giuseppe Ladu, di Sarule, che si dà alla latitanza. Sono tre le persone denunciate a piede libero: Stara, Piredda e tale Salvatore Angelo Pirisi, tutti di Orani.

    Wanda Serra

    Il 7 gennaio 1925 viene rapita una bambina di appena 10 anni: Wanda Serra, figlia del podestà di Aidomaggiore (OR). I malviventi chiedono un riscatto di 40.000 lire, poi ridotte a 30.000. La bambina viene ritrovata priva di vita. Sarebbe stata uccisa da un sacerdote e da una donna.

    Maria Molotzu

    Sono le 21,30 del 7 luglio 1933, e la Balilla guidata da Adolfo Pala sta percorrendo lentamente la statale Ozieri-Cantoniera del Tirso. A bordo ci sono altre cinque persone: il notaio Nicolò Ena, sua cognata Pietrina Marongiu, il possidente Pietrino Molotzu, podestà di Bono, sua moglie Maria Carta e la loro figlia Maria, una bambina di appena 6 anni. Sono tutti di Bono, e stanno rientrando in paese da Sedilo, dove hanno partecipato alla tradizionale festa di San Costantino.

    Prima di una curva a gomito, in località Giuncarzu, nelle campagne di Illorai (SS), l’autista è costretto a fermarsi, perché la carreggiata è sbarrata da alcune pietre. Improvvisamente, dal lato destro della strada, sbucano quattro individui armati e mascherati che sparano quattro fucilate a scopo intimidatorio.

    I sei viaggiatori sono terrorizzati e non osano nemmeno fiatare, anche perché qualche proiettile ha colpito il cofano e il parafango.

    Un quinto malvivente che ha l’aria di essere il capo, a volto scoperto ma anche lui armato di fucile, si avvicina al veicolo e ordina agli occupanti di scendere e di collocarsi di fronte alla luce dei fari consegnando tutti gli oggetti di valore.

    Le donne, le quali dichiararono di nulla avere da consegnare, non vennero molestate, sebbene le medesime tenessero in evidenza diversi oggetti d’oro di non trascurabile valore: fermagli, bottoni ecc., per l’acconciatura del costume sardo che indossavano.

    Gli uomini, invece, furono sottoposti a sommaria perquisizione, e dovettero consegnare i sottonotati oggetti e somme di denaro: il Pala, numero quattro biglietti della Banca d’Italia da lire 100, un orologio piccolo d’argento marca Omega, una penna stilografica e una matita rossa del valore complessivo di lire 60; il Molotzu, una penna stilografica d’oro marca Vulcan del valore di lire 150 circa, lire 20 in spezzati d’argento (non gli fu trovato il portafogli che con atto di prontezza aveva nascosto nell’interno della vettura appena resosi conto di quanto stava per accadere); il notaio Ena, una penna stilografica d’oro del valore di lire 100 ed un borsellino contenente circa lire 20 in monete d’argento.

    I banditi rovistarono poi nell’interno della macchina, da dove tolsero una bisaccia di lana tessuta alla bonorvese, contenente torrone, frutta ed alcuni giocattoli acquistati per la piccola Maria. La bisaccia era di proprietà del Molotzu.

    Compiuta quest’ultima pirateria i malfattori obbligarono le vittime ad abbandonare la macchina ed a camminare in gruppo, sempre sotto la minaccia delle loro armi, in direzione del fiume Tirso, percorrendo un declivio senza sentieri per un tratto di circa due chilometri fino al sito denominato Funtana Pedru, dove furono fatte fermare e lasciate le due donne, la bambina e l’autista sotto la sorveglianza di tre di essi, gli altri due obbligarono il Molotzu e l’Ena a camminare ancora per circa duecento metri fin sopra ad un cocuzzolo coperto da alta vegetazione, dove fattili fermare ancora chiesero chi loro fossero e se avessero carta d’identità.

    L’Ena la esibì subito, mentre il Molotzu, che l’aveva lasciata nel portafogli nascosto nella macchina, disse di non averne.

    I due malviventi sono indecisi, ma solo in apparenza. Subito dopo, infatti, uno di loro si reca presso il gruppo delle donne e toglie dalle braccia della madre la piccola Maria, promettendole di condurla dal padre. L’obiettivo dei banditi è ormai evidente: rapire la bambina e chiedere un riscatto. Per la sua liberazione vogliono 150.000 lire in monete d’argento, che dovranno essere consegnate il successivo 12 luglio da una persona di fiducia.

    L’itinerario che dovrà seguire l’emissario, alla guida di una motocarrozzetta, viene dettato al notaio Ena, che lo scrive su un foglio di carta sotto la luce debole e incerta di una torcia tascabile tirata fuori da un bandito mascherato: «Bono – Cantoniera del Tirso – Oniferi – Sarule – Gavoi – Fonni – Mamoiada – Nuoro – Orosei – Siniscola – Terranova Pausania».

    Subito dopo i rapitori si allontanano dalla zona portandosi via il piccolo ostaggio. Pietro Molotzu è sconvolto: riesce a raggiungere il punto dove era stata fermata l’auto soltanto grazie al sostegno dell’amico, che cerca di confortarlo in tutti i modi. Finalmente possono riprendere il viaggio alla volta di Bono, dove arrivano intorno alla mezzanotte e denunciano l’accaduto ai carabinieri.

    All’alba del giorno successivo centinaia di militari iniziano a setacciare le campagne di Illorai e dei centri limitrofi. Le prime indagini ipotizzano che il sequestro sia opera di una banda guidata dai latitanti Antonio Congiu, di Bottida, e Antonio Luigi Mele, di Burgos, «profondi conoscitori della vasta zona e protetti da parenti e amici e temuti dai conoscenti».

    Gli inquirenti prendono atto del sequestro a scopo di estorsione, e quindi della sua finalità di lucro, ma non escludono che dietro l’episodio possa celarsi una vendetta contro Pietro Molotzu. Infatti, per quanto egli escluda l’esistenza di personali nemici, «non può non tenersi presente la sua posizione di ex segretario politico del Fascio bonese e la sua attuale carica di Podestà di quel Comune, in cui non è mancata in forma larvata o palese la lotta tra partiti, nonché la sua compartecipazione in una società per l’industria casearia locale».

    Nel corso delle indagini, intanto, emerge una serie di particolari che consentono agli inquirenti di imboccare una pista precisa.

    La mattina di quel 7 luglio, nei pressi della chiesa campestre di San Costantino, a Sedilo, Pietro Molotzu e il notaio Ena avevano incontrato e salutato due pastori di Orotelli, tali Giovanni Antonio Congiu Nieddu e Agostino Congiu Cusino. Subito dopo, Congiu Nieddu, con il pretesto di dover rientrare urgentemente al proprio podere, situato in località Monte di Bono, si era allontanato da Sedilo e non era stato più visto.

    Giovanni Antonio Congiu Nieddu era un cugino del latitante Antonio Congiu, e pertanto poteva essere un suo complice, con il compito di riferire le notizie necessarie su chi accompagnava Molotzu e l’ora della sua partenza da Sedilo.

    La sera del rapimento Salvatore Congiu Nieddu, fratello e socio di Giovanni Antonio, si era presentato ad Agostino Falchi, di Orotelli, padrino del latitante Antonio Congiu, e gli aveva riferito che qualche giorno prima erano passati nel suo ovile il figlioccio e altri ricercati, i fratelli Pintore di Bitti e un tizio di Lula. Antonio Congiu lo aveva incaricato di porgergli i saluti e di comunicargli che lo avrebbe atteso, la settimana successiva, nell’ovile dei Congiu Nieddu.

    La visita all’ovile dei Congiu Nieddu, fatta un paio di giorni prima del sequestro dai banditi Pintore e dal latitante di Bottida, e l’incarico di Salvatore Congiu Nieddu di invitare Falchi a recarsi a quell’appuntamento avevano lo scopo, secondo gli inquirenti, di individuare un intermediario affidabile per le trattative per il pagamento del riscatto. Falchi, tuttavia, non avrà mai l’opportunità di incontrarsi con Antonio Congiu, perché quando questi, il 12 agosto, gli invia un telegramma che reca la firma apocrifa di Matteo Murgia, chiedendogli un abboccamento in località Pira ’e Onni, il pastore di Orotelli non capisce il significato e pensa a un errore di persona.

    Sin dall’8 luglio, inoltre, Agostino Falchi era stato incaricato dalla famiglia Molotzu di interessarsi della vicenda, diventando quindi l’emissario ufficiale. Ben presto egli era entrato in azione, ma «agì troppo apertamente ed in concorso con la forza pubblica, per cui non ispirò più fiducia presso i malfattori».

    Giovanni Antonio Congiu Nieddu decide allora di rivolgersi al cognato di Falchi, Giovanni Lostia, con il quale si reca all’ovile di Daniele Rocca, in agro di Orani. Lostia viene incaricato di custodire alcuni cavalli, mentre Rocca e Congiu Nieddu si allontanano di qualche centinaio di metri.

    Poco dopo, richiamati da una serie di fischi convenzionali, sbucano i latitanti Congiu e i fratelli Pintore. La discussione dura più di un’ora, e quando arriva Giovanni Lostia, stanco di attendere, i ricercati si allontanano dalla zona perché non si fidano di lui.

    Il giorno dopo Giovanni Antonio Congiu Nieddu fa sapere alla famiglia Molotzu che i rapitori chiedono un riscatto di 30.000 lire. «Se non pagate uccidono la bambina». Il riscatto, però, non viene pagato, e le trattative si interrompono.

    Passano i mesi e comincia a circolare sempre più frequente la voce che la piccola Maria sia stata uccisa. Daniele Rocca e Congiu Nieddu, intanto, finiscono in galera con l’accusa di aver partecipato al sequestro.

    Il 18 febbraio 1934, nelle campagne tra Burgos ed Esporlatu, al termine di un conflitto a fuoco con i carabinieri, rimane ucciso Antonio Congiu, uno dei presunti rapitori.

    L’8 settembre dello stesso anno, in località Mele di Benetutti, muore in conflitto con una squadriglia dell’Arma Giovanni Pintore, uno dei due latitanti bittesi anch’essi fortemente indiziati del sequestro.

    La notte del 25 ottobre successivo, nelle campagne di Bortigali, le forze dell’ordine danno l’assalto a un casolare dove si sono rifugiati Antonio Pintore e Cristoforo Marras, gli ultimi due componenti della banda. Dopo un’intensa sparatoria Marras stramazza al suolo privo di vita. Pintore, nonostante le ferite riportate alla gamba sinistra e al piede destro, tenta di scappare verso la boscaglia ma viene raggiunto e immobilizzato da un carabiniere.

    Interrogato qualche giorno dopo, il bandito di Bitti respinge tutte le accuse, compreso il rapimento di Maria Molotzu, che attribuisce al fuorilegge Antonio Chironi Pradicheddu, ucciso dai carabinieri il 13 novembre 1935 al termine di uno scontro a fuoco.

    Il 5 giugno 1935 Antonio Pintore viene condannato anche per altri delitti alla pena capitale e fucilato qualche mese più tardi.

    Poche ore dopo la lettura della sentenza, nelle campagne di Ollolai, in località Finuè, vengono trovate le ossa della bimba. Il riconoscimento avviene grazie ad alcuni oggetti: un orecchino, una catenina con medaglietta, uno spillo di sicurezza e un bottone.

    Silverio Mazzella

    Il 25 luglio 1945, in territorio di Dorgali (NU), sei individui armati e mascherati fermano una Fiat 1100 sulla quale viaggiano l’industriale Silverio Mazzella, un amico e il suo servo pastore. Questi ultimi vengono tenuti come ostaggi, mentre Mazzella viene mandato in paese a prendere il denaro. Senonché l’uomo avvisa i carabinieri che intervengono dopo poche ore e liberano gli ostaggi. Due dei malviventi vengono arrestati.

    Gavino Tidu Daddi

    La sera dell’8 agosto 1945, un pastore di Gavoi, Gavino Tidu, viene sequestrato nelle campagne tra Ollolai e Gavoi (NU) insieme ad altri due pastori. All’alba questi vengono rilasciati e si recano in paese per portare la richiesta di un riscatto di un milione di lire (è la prima volta, nella storia della Sardegna, che si arriva a una somma a sette cifre). La popolazione di Gavoi si mobilita, vuole liberare il compaesano. Vengono costituite diverse squadre di volontari, capeggiate dal dottor Giovanni Marcello, dal dottor Paolo Marchi e da alcuni studenti universitari, che la sera dopo riescono a liberare il rapito e ad acciuffare due dei malviventi e un ragazzo che faceva da palo. I delinquenti sono di Olzai, e a stento vengono salvati dal furore popolare che voleva linciarli. «Va segnalato il comportamento dei gavoesi», si legge in un articolo de «Il Solco», «che per la seconda volta, nel giro di poco tempo, si sono prodigati nel sottrarre a sicura morte due ottimi concittadini. E va segnalato perché serva di esempio alle nostre popolazioni, vittime troppo spesso di misfatti del genere».

    Bonaventura Secchi

    Nel settembre del 1945, Bonaventura Secchi, un pastorello di appena 14 anni, viene rapito a Nuovo da alcuni malviventi che chiedono un riscatto di 2 milioni di lire. All’appuntamento fissato per la consegna del denaro si presentano i carabinieri, che ingaggiano un conflitto a fuoco con i banditi e ne uccidono due. Un terzo malfattore rimane ferito in modo non grave.

    Egidio Podda

    Uno dei protagonisti della grande disamistade orgolese scompare misteriosamente da un suo podere nel 1945. Non ritornerà più a casa. I sospetti cadono sul suo ex servo pastore Giovanni Battista Liandru, che poco tempo dopo diventerà uno dei più celebri banditi sardi del secondo dopoguerra.

    3

    Dal secondo dopoguerra agli anni Cinquanta

    I sequestri dal 1946 al 1960

    Tra il 1946 e il 1947 i rapimenti di cui

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1