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Senilità e Corto viaggio sentimentale
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Senilità e Corto viaggio sentimentale

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A cura di Mario Lunetta
Edizioni integrali

Senilità è il secondo romanzo di Svevo, che segue Una vita e precede La coscienza di Zeno. Pubblicato per la prima volta nel 1898 con scarso successo, fu salutato come un capolavoro nel 1927, dopo che Joyce ebbe dichiarato pubblicamente il suo grande apprezzamento per questo libro. È la storia, in una Trieste allietata dai clamori del Carnevale, di un “eroe esistenziale” la cui protesta sociale, il cui non ritenersi figlio dei tempi si arrendono all’amore per una donna, miscuglio irresistibile di sensualità e devozione, di grazia e sfacciata volgarità, di egoismo e pietà. Con Senilità Svevo entra nel pieno della sua maturità letteraria. Nell’opera si respira, ormai libera e naturale, quella che Montale definì «l’epica della grigia casualità della nostra vita di tutti i giorni».
Nel Corto viaggio sentimentale, protagonista l’anziano signor Aghios, tornano i temi che furono cari a Svevo: il bisogno di vivere e l’incapacità di aderire al reale senza dolorose scissioni; l’idea dell’eros come trasgressione al sano comportamento borghese; l’influenza delle teorie psicoanalitiche.
Italo Svevo
(pseudonimo di Ettore Schmitz) nacque a Trieste nel 1861. Fu il primo scrittore italiano a interessarsi alle teorie psicoanalitiche di Freud, che proprio allora cominciavano a diffondersi in Europa. Fu grande amico di Joyce, che lo fece conoscere a livello internazionale, e di Montale, che in Italia ne intuì per primo le eccezionali doti di narratore. Morì nel 1928. Di Svevo, la Newton Compton ha pubblicato La coscienza di Zeno, Senilità, Una vita, Corto viaggio sentimentale, I racconti e, nella collana “I Mammut” il volume unico Tutti i romanzi e i racconti.
LanguageItaliano
Release dateMar 15, 2016
ISBN9788854192430
Senilità e Corto viaggio sentimentale
Author

Italo Svevo

Italian writer, born in Trieste, then in the Austro-Hungarian Empire, in 1861, and most well known for the novel _La coscienza di Zeno_.

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    Book preview

    Senilità e Corto viaggio sentimentale - Italo Svevo

    556

    Prima edizione ebook: marzo 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9243-0

    www.newtoncompton.com

    ITALO SVEVO

    SENILITÀ

    E

    CORTO VIAGGIO SENTIMENTALE

    A cura di Mario Lunetta

    Edizioni integrali

    Newton Compton editori

    Introduzione a Italo Svevo

    È indispensabile, accostandosi a Italo Svevo, non dimenticare la sua condizione di italiano suddito imperialregio: una condizione che lo appa­renta ad autori come Schnitzler, Hofmannsthal, Kafka, Musil, sia nella co­scienza della dissoluzione del gran corpo incoeso dello Stato austroungari­co che nella necessità di rispondere a questa dissoluzione, sul piano lettera­rio, con l’adozione di un sistema aperto di moti peristaltici e di forme de­putate alla corrosione critica degli statuti della narrativa realistica ottocen­tesca (1. fisionomia accertata del personaggio rispetto alla consistenza del teatro dell’azione; 2. monoassialità del rapporto scrittura-referente).

    La molteplicità in qualche modo «pre-cubista» del punto di vista, la ra­refazione delle atmosfere che assumono la stessa centralità protagonistica dei personaggi, l’annullamento delle distanze di rispetto tra autore e mate­ria, infine le varie soluzioni tecniche legate al monologo interiore, al flusso di coscienza e alle associazioni di idee ritmate sul diagramma oscillante di psicologie che stanno scontando un’irrimediabile «perdita del centro»: so­no questi i caratteri che scandiscono i tempi di quella lunga veglia funebre truccata da fiera delle vanità che è la finis Austriae. L’italiano Italo Svevo ne è parte non solo in quanto Ettore Schmitz, ma in quanto intellettuale anche linguisticamente scisso, e individuo che aspira a un’unità spirituale sempre meno oggettivabile. Il diaframma tra animus e res si è assottigliato fin quasi a scomparire. Il quadro del mondo è il quadro della coscienza che ha smarrito le coordinate della totalità: è ormai un quadro schizofrenico, e non nutre illusioni palingenetiche o pretese di catarsi. L’ottimismo positi­vistico ha ceduto il passo alla percezione nevrotica della catastrofe.

    L’imago della Belle Époque asburgico-borghese è simile a quella di Dorian Gray: è un’immagine doppia. Dentro la sua specularità si annida il se­greto sociale e culturale della propria perdizione. Chi ha la forza di guar­darla, non può farlo ormai che da viaggiatore prossimo al naufragio o da naufrago sulla zattera: dalla labile piattaforma della nostalgia o dal deser­to del nihilismo. Non ci sono dubbi sull’assai più ricca produttività della seconda soluzione: bastino per tutti i nomi di Musil e di Kafka, i cui «uo­mini senza qualità» esprimono soltanto il doppio paròdico dell’azione, in tutta la spettralità dell’Essere Borghese.

    C’è chi sceglie come Schnitzler il sarcasmo irridente; e chi come Svevo la distanza elastica dell’ironia. Ma anche questa scelta (quanto si voglia obbligata) è il risultato di un tormentoso processo di autoappropria­zione: cioè, la conquista dell’unica forma di coscienza epocale, quella della scissione.

    Fin dalle prime prove letterarie, Schmitz-Svevo dà segno di aver intra­preso un cammino di avanzata obliqua, per così dire, tutt’altro che in linea con la marcia dell’armata naturalistica. Quanto l’ideologia del naturalismo è omologa all’assetto dell’universo borghese che si gioca (e si danna) sulla finzione della propria scientificità/ineluttabilità, tanto l’atteggiamento di Svevo risulta «dilettantesco». È questa la sua scelta trasgressiva e vincente, a partire dalla sua preistoria di narratore. Nota acutamente Romano Luperini nel suo Novecento (Loescher, 1981): «Chi avrà salvaguardato dentro di sé il desiderio, chi non avrà tradito del tutto il principio di piacere, chi avrà mantenuto una disponibilità sino a rifiutare qualunque determinazio­ne, qualunque forma cristallizzata, potrà avere un futuro. In costui appun­to si identifica Svevo: questo è il senso del suo dilettantismo, del suo pren­dere di sbieco la vita».

    Per capire dall’interno le ragioni di questo tracciato obliquo e il processo di sviluppo dell’arte sveviana fino ai suoi risultati più alti, è utile conside­rare certe prove minori e laterali, la cui relativa acerbità le assegna certa­mente alla preistoria della narrativa del triestino, ma che pure contengono in nuce tratti e componenti che si organizzeranno con una ricchezza e una profondità incomparabilmente più grandi nelle opere successive, e disegne­ranno la fisionomia inconfondibile dello scrittore.

    Un momento quasi esemplare di questo tracciato che fatica a definirsi, impacciato com’è da una serie di elementi spurii e ritardanti rispetto a quello che si confermerà poi come il filone centrale della ricerca di Svevo, è costituito dal lungo racconto giovanile pubblicato nel 1890 nell’Indipendente, che segna l’esordio narrativo dello scrittore. Il romanzo Una vita uscirà due anni dopo, ma già questo testo del ventinovenne narratore rive­la certe sue inclinazioni e movenze discretamente caratterizzate.

    Il titolo del racconto è L’assassinio di Via Belpoggio, e vi si narra la sto­ria di un facchino che uccide con una coltellata al cuore e poi deruba di una forte somma un occasionale compagno di sbornie. All’inizio la fa franca, ma in seguito la stretta del rimorso, l’incertezza e l’incapacità di as­sumere cinicamente il ruolo dell’innocente gli fanno commettere una tale quantità di errori da insospettire chi gli vive accanto, finché non viene arre­stato e confessa il delitto.

    La cornice che inquadra il racconto è chiaramente naturalistica. Delle suggestioni che il «roman expérimental» di matrice zoliana e autori come Flaubert, Daudet, Gourmont esercitano in questo periodo sul giovane scrittore fa fede, tra l’altro, una nota di diario del fratello Elio in data 12 maggio 1881: «Ettore fa… nulla: legge, studia sempre, ed è sempre più fer­mo nell’idea di studiare e scrivere. Vive sognando commedie e lavori ora drammatici, ora romantici, che sulla carta non vengono mai a compimen­to. Ha ora cambiato alquanto partito in arte. È verista. Zola lo ha ricon­fermato nell’idea che lo scopo della commedia e l’interesse devono essere i caratteri e non l’azione. Tutto deve essere vero».

    Se il progetto è zoliano, l’aria che circola dentro all’Assassinio di Via Belpoggio è tutt’affatto diversa, già inclinata sul versante dell’analisi e del­l’introspezione psicologica, tendente sia pure timidamente a suggerire un clima fluido, impalpabile, sottilmente soggettivo e perciò «aperto» rispetto alla concezione «chiusa» dell’oggettivismo naturalistico. Né estranee al­l’atmosfera del racconto risultano certe suggestioni del Dostoevskij di De­litto e castigo (Raskolnikov non compie anche lui una serie di «errori» do­po il delitto, pur se calcolati con rischiosa freddezza?) e addirittura, a pro­va ulteriore di una consonanza culturale e di un atteggiamento mentale in qualche misura propri a tutta la cultura mitteleuropea, certi brividi kafkia­ni avanti lettera (si veda, ad es., l’arresto dell’assassino da parte dei poli­ziotti, fissato in una luce di astrazione cruda e angosciosa).

    L’analisi sveviana è appena agli albori, eppure funziona con una sua in­dubbia efficacia da elemento di disturbo e di frattura, da contraddizione attiva nel corpo della struttura naturalistica del testo. Se tale contraddizio­ne raggiungerà maggiore evidenza e maggiore scarto nel successivo roman­zo Una vita, già qui comunque la visione personale dello scrittore si avver­te senza equivoci in certi momenti di riflessione e di scavo interiore. Ecco perché per alcuni versi L’assassinio di Via Belpoggio non solo preannuncia certe linee di sviluppo della successiva ricerca di Svevo, ma tende a trasbordare fuori dal solco naturalistico, dall’oggettivismo della «tranche de vie», realizzandosi con l’immersione della vicenda in un clima già pregno di im­ponderabili ragioni individuali, per via di segmenti apparentemente spez­zati, di un reticolato complicato e sottile di nessi psicologici, di nevrosi ac­cennate, di censure e amputazioni, caratteristici della letteratura (e dell’uo­mo «straniero» nel mondo) del secolo scorso.

    In una pagina del 1927 Svevo scrive: «L’immaginazione è una vera av­ventura. Guardati dall’annotarla troppo presto perché la rendi quadrata e poco adattabile al tuo quadro. Deve restare fluida come la vita stessa che è e diviene». A questa consapevolezza si è ispirato l’intero percorso della ri­cerca sveviana. La percezione acutissima di ciò che vibra dentro questa fluidità è la sua forza e il carattere primario della sua cifra. Osserva esatta­mente Franco Petroni in una sua monografia recente che il «dilettantismo» di Svevo è il tentativo sempre rinnovantesi «di mantenere un incerto punto di equilibrio tra principio di realtà e principio del piacere, tra doveri impo­sti e desiderio. La letteratura è, per Svevo, uno strumento insostituibile per mantenere il punto di equilibrio. Da alcuni suoi scritti, che non hanno al­cuna pretesa teorica, è ricavabile una poetica che sotto l’aspetto dimesso cela una profonda originalità, anzi un modo rivoluzionario di intendere la funzione della letteratura. Questa è considerata infatti non come mezzo per dare espressione a dei miti collettivi, sublimando e celando, attraverso la forma, le contraddizioni che esistono in seno a una collettività e che si ri­flettono sulla psiche dell’individuo, ma piuttosto come strumento terapeu­tico individuale, che funziona mediante una continua e capillare presa di coscienza. La letteratura è, in questo senso, uno strumento insostituibile di igiene».

    Una vita è il primo passaggio obbligato per entrare nell’area «avventuro­sa» di questa presa di coscienza. I suoi risultati sul piano espressivo posso­no essere diseguali, ma il romanzo resta, nella storia di Svevo, un momen­to fondamentale: la zona di minor resistenza in cui si esprime la sua crisi. Alfonso Nitti è il primo degli «inetti» sveviani: una sorta di archetipo de­bole, di sinopia macerata. La sua è più che altro una forma cava in poten­za che reclama il corpo che la incarni in atto. In Senilità (1898) l’incarna­zione è avvenuta: Svevo conosce se stesso. In un certo senso, il suo destino di scrittore è segnato: e correrà in rotta di collisione nei confronti di ciò che si chiama successo, fino al 1925. Scrive con la consueta acutezza Giacomo Debenedetti nel Romanzo del Novecento: «Nel 1925 e negli anni successivi la critica e il pubblico (meno il pubblico, però, che la critica) si accorgono che Svevo è un romanziere di importanza eccezionale. La domanda più ov­via è: perché prima di allora non se ne erano resi conto? La risposta più ov­via, dal nostro punto di vista, è che Svevo, coi suoi romanzi, presenta l’im­magine dell’uomo che la nuova narrativa cerca e persegue; che anche i suoi romanzi, come tutti i romanzi moderni, sono romanzi interrogativi. Inter­rogano per cercare, forse invano, di sapere il significato della vita, il senso del destino di un uomo dissociato, dilacerato. Forse parrà banale, ma è ne­cessario, soggiungere che formulare più o meno distintamente una doman­da non vuol dire promettere o far sapere una risposta. L’idea che porre un problema sia già risolverlo è tipica degli uomini e delle età ottimistiche (una simile idea, per esempio, era molto cara a Benedetto Croce. Ma il Croce, per l’appunto, era un ottimista, sia pure nel modo più complesso e meno ingenuo). Il romanzo interrogativo, anche in Svevo, è quello che af­faccia, e lascia aperto nella sua drammatica problematicità, il problema di trovare il senso di ciò che si vede».

    Non è certo un caso che chi fa questa analisi tanto puntuale e suggestiva sia l’autore di Amedeo (1926), un racconto al cui centro vive un protagoni­sta che «finiva coll’affidarsi alla coscienza di una generica superiorità, di­fendendosi da ogni urto esteriore con una specie di solitudine ascetica; so­stenuta peraltro dalla tragica civetteria di volersi far notare dai circostanti come ribellione per una virtù disconosciuta ovvero minaccioso silenzio ca­rico d’avvenire». Ha precisamente notato Enrico Ghidetti che «una analo­ga sintomatologia […] aveva afflitto, anni prima, Emilio Brentani». Bren­tani, appunto, il piccolo borghese protagonista di Senilità con velleità di scrittore; l’uomo d’ordine che flirta cautamente con idee filosocialiste tan­to generiche quanto episodiche; colui, infine, che «sceglie» per manco di vitalità di appassire come appassisce un vegetale anziché difendere i diritti del proprio desiderio. Tra la chiarezza geometrica della sconfitta di Emilio e l’ambiguità della sconfitta del protagonista di Una vita (che pure conte­neva in sé un tasso non trascurabile di conflittualità e di opposizione al do­minante modello culturale borghese), si sviluppa l’apertura angolare ad am­plissimo raggio che porta alla Coscienza di Zeno. È stato più volte notato che il significato dell’«inettitudine» di Zeno Cosini è ambiguo: ma è pro­prio in questa ambiguità che si esprime la sua ricchezza poetica.

    L’inettitudine, appunto. La dépense, diremmo oggi, in termini bataillani. L’atteggiamento non accumulativo, non risparmiatorio. Insomma, quanto di più spregevole (e magari, esiziale) per un’ottica fondata sull’o­rizzonte di valori della produttività borghese, dell’efficientismo, dell’eco­nomia della ricchezza e delle passioni, della «chiarezza».

    In un’opera indubitabilmente «aperta» come La coscienza di Zeno («un’opera totalmente nuova, rivoluzionaria, che si situa allo stesso livello delle più grandi opere della contemporanea avanguardia europea»: F. Petroni, Svevo, Milella, pp. 29-30), Svevo assume l’inettitudine come contro­valore attivo. Senza nessuna pretesa ideologica, senza appoggiarsi come in passato alle teorie di Schopenhauer o di Darwin, rinunciando definitiva­mente ai «diritti» di quello che è stato definito il suo moralismo senza mo­rale, prendendo nettamente le distanze perfino dalla psicoanalisi come Weltanschauung e passepartout scientistico per servirsene non senza ironia semplicemente a livello di tecnica, Svevo affronta in questo romanzo che è un testo di pura scrittura autogenerativa, privo di qualsiasi «didascalia» o «istruzione per l’uso» (cioè a dire, privo di quelle che risultano le rassicu­ranti ficelles ideologiche di tutta la narrativa mimetica, nella quale il letto­re è guidato per mano o è tranquillizzato allusivamente, non è abbandona­to nel labirinto), il tema triadico che è da sempre la sua ossessione: inettitu­dine / malattia / senilità: sintetizzandone sintomi e comportamenti in un’area che si colloca ai due estremi dell’asse elastico malattia-salute.

    Cos’è la salute – sembra sottintendere lo scrittore se non la zona vuota della malattia? Cos’è la malattia se non la zona vuota della salute? In realtà, ciò che interessa l’autore della Coscienza di Zeno è l’area di inde­terminazione e di conflitto che resiste a ogni tentativo di razionalizzazione immunizzante. Il processo virale è certamente più vivo e interessante della sanità asettica. Lo stato entropico è ben più ricco di qualsiasi inerte sereni­tà. La coscienza è il luogo dove queste contraddizioni si consumano, non è il luogo della pacificazione formale. Appunto, per dar forma letteraria a questo processo fondato su una pratica di esplorazione espressiva total­mente nuova, occorre rompere la fissità del quadro e la saldezza del rap­porto autore-materia, per avventurarsi nel caos.

    La coscienza di Zeno è il rapporto di un viaggio nell’oscurità della psi­che, che ripete in forma liquida i tratti dell’oscurità sociale borghese, la du­rezza opaca dei suoi istituti, l’implacabilità del suo codice comportamenta­le. Il ridicolo ne è alla base (tragicamente) e lo scrittore lo svela minandone la compattezza anche linguistica. Questo spiega in gran parte anche l’atteg­giamento di sufficienza, o l’incomprensione frontale nei confronti del ro­manzo (e dell’intera opera sveviana) che caratterizzò la cultura letteraria coeva, e non soltanto: basti ricordare che negli anni Cinquanta Svevo fu scambiato da qualcuno per un precursore del neorealismo.

    Almeno fino agli anni Sessanta il punto di vista largamente dominante nella critica italiana è stato condizionato dalla necessità (certo non facile per parametri legati a un concetto di letteratura come forma della pacifica­zione sublimatoria e non come contraddizione aperta) di armonizzare la «diversità» sveviana con un quadro di ben più tranquillizzante normalità tradizionale. Il centro nevralgico di questa provocatoria «diversità» consi­ste nella sua irriducibilità a una visione e a una pratica della letteratura co­me atto di elevazione rituale dei conflitti nell’iperuranio del Bello.

    La coscienza di Zeno rappresenta il punto massimo di frizione con que­sto quadro, e allo stesso tempo il punto critico all’interno dell’opera sve­viana. Le prove successive, dal Vecchione a La novella del buon vecchio e della bella fanciulla a Corto viaggio sentimentale a Una burla riuscita, te­stimoniano di un’impasse che intriga lo scrittore, tra ideologia della libera­zione edonistica assoluta e pratica di una scrittura totalmente «liberata» dopo l’esperienza profonda della Coscienza.

    L’itinerario dell’autobiografia ironicamente riflessa, iniziato con Una vita nel lontano 1892, e che nell’universo di Zeno Cosini ha trovato la sua realizzazione più estesa e concentrata, deve cedere alla necessità di altre forme, che lo sperimentalismo dello scrittore sta evidentemente saggiando, con un alternarsi di avanzate, di ripiegamenti, di scarti e di pause di rifles­sione e di attesa (magari in direzioni solidificate: v. la chiara impronta proustiana che caratterizza Il Vecchione) a cui mette seccamente fine la morte, con l’incidente automobilistico di Motta di Livenza del settembre 1928.

    MARIO LUNETTA

    Nota biobliografica

    Cronologia della vita e delle opere

    Ettore Schmitz nasce a Trieste il 19 dicembre 1861 da Francesco Schmitz (figlio del funzionario imperiale austriaco Adolfo Schmitz oriundo della Renania, che aveva sposato la trevigiana Rosa Macerata) e da Allegra Moravia, quinto di otto figli: Paola, Natalia, Noemi, Adolfo, Ettore, Elio, Ortensia è Ottavio. Trascorre l'infanzia a Trieste nella casa patriarcale di Corsia Stadion, in un'atmosfera gaia e affettuosa malgrado il padre, commerciante nel ramo vetrario, fosse poco incline alle effusioni, in particolare nei rapporti coi figli.

    Il progetto di Francesco Schmitz è, tutto sommato, di fare, dei maschi, dei solidi e esperti uomini d'affari. È per questo che a dodici anni Ettore deve partire per il collegio di Segnitz presso Wurtzburg, insieme ad Adolfo e Elio, per iniziarvi gli studi commerciali e apprendervi correttamente il tedesco, lingua indispensabile per ogni commerciante triestino. Elio non regge ai rigori del clima e della disciplina, per cui dovrà ben presto rientrare in famiglia. Ettore riesce invece ad acclimatarsi, e in pochi mesi impara la lingua, tanto da essere in grado di scrivere una tesina filosofica in tedesco, in polemica col condiscepolo Bratter. È pieno di fervore intellettuale, e dà vita con alcuni compagni a un circolo culturale. Legge intanto con entusiasmo i classici tedeschi, Schopenhauer, Jean Paul e, in traduzione, Turgenev e Shakespeare. È di questo periodo il primo amore per una fanciulla, Anna Herz, la ragazza ricordata in L'avvenire dei ricordi. A 17 anni, compiuti gli studi, Ettore lascia definitivamente la Germania e a Trieste si iscrive all'Istituto Superiore di Commercio «Revoltella», peraltro senza troppo entusiasmo. In realtà, le sue aspirazioni segrete sono la letteratura e un viaggio prolungato a Firenze per apprendere dal vivo la corretta lingua e pronuncia italiana. Sono i prodromi dei crucci linguistici che si porterà dietro per tutta la vita.

    Nel febbraio del 1880 inizia la commedia Ariosto Governatore; nel marzo II primo amore; nel luglio Le Roi est mort; vive le Roi!. Successivamente lavora a un'altra pièce, I due poeti. Nello stesso anno, il fallimento del padre lo costringe a impiegarsi quale corrispondente tedesco e francese presso la succursale triestina della Banca Union. Le difficoltà materiali si moltiplicano, ma non affievoliscono la sua passione per la letteratura. Il futuro autore della Coscienza di Zeno sottrae molte ore al riposo per frequentare con tutta la possibile assiduità la biblioteca civica. Legge in questo periodo classici italiani e autori francesi moderni, con una particolare attenzione per i romanzieri naturalisti. Nel febbraio del 1881 lavora a ima novella dal titolo Difetto moderno. Scrive La storia dei miei lavori. In marzo realizza la novella I tre caratteri, intitolandola in seguito La gente superiore. Ha iniziato intanto a collaborare all'Indipendente, il quotidiano in lingua italiana di tendenze irredentiste diretto da Luigi Cambon e Attilio Hortis, con lo pseudonimo di «E. Samigli».

    Nel 1886 muore di nefrite l'amatissimo fratello Elio: la sua perdita lascia nell'animo di Ettore un solco di amarezza profondo. Conosce in questo torno di tempo il diciannovenne pittore Umberto Veruda, appena tornato da Monaco, e stringe con lui un'amicizia fraterna. Dal 4 al 13 ottobre 1890 appare a puntate sull'Indipendente il lungo racconto L'assassinio di Via Belpoggio. Si stabilisce un forte sodalizio intellettuale e affettivo tra Schmitz e Veruda. Scrive Livia Veneziani Svevo in Vita di mio Marito che «la loro intesa spirituale fu completa e per lunghi anni vissero in profonda comprensione reciproca». Il primo aprile 1892 muore il padre. Rivede, dopo anni, la cugina diciottenne Livia Veneziani e dall'incontro nasce una tenera amicizia.

    Nello stesso anno pubblica presso l'editore Ettore Vram di Trieste il suo primo romanzo, Una vita, con lo pseudonimo di «Italo Svevo» e — curiosamente — la data 1893. In giugno riceve una lettera di elogi dallo scrittore tedesco Paul Heise, che sarà più tardi Premio Nobel. Il libro passa pressoché inosservato: una breve recensione di Domenico Oliva sul Corriere della Sera e qualche articolo distratto sulla stampa cittadina. Nell'ottobre del 1895 muore la madre, e l'amicìzia con la cugina Livia si sviluppa nei termini di un grande amore. Logica conseguenza di questa passione è il fidanzamento, che avviene il 20 dicembre. Il matrimonio si celebra il 30 luglio 1896, e Ettore va ad abitare in villa Veneziani, casa dei suoceri, continuando a mantenere i suoi tre impieghi: la banca, il lavoro notturno al Piccolo e l'insegnamento all'Istituto «Revoltella». Nel settembre 1897 nasce la figlia Letizia.

    Dal 15 giugno al 16 settembre 1898 appare a puntate sull'Indipendente il suo secondo romanzo» Senilità, che nello stesso anno uscirà in volume presso Peditore Vram, a spese dell'autore. Riceve da Paul Heise una lettera, in cui si esprime sul libro un giudizio negativo. La critica nazionale ignora il romanzo. Amareggiato, lo scrittore si immerge nella lettura di Ibsen, Dostoevskij, Tolstoj, quasi a cercarvi un risarcimento alle sue frustrazioni di autore. Nel 1899 lascia la Banca Union per entrare nella ditta del suocero Gioachino Veneziani. Le sue condizioni economiche migliorano. La sua facies ufficiale è quella del coscienzioso dirigente industriale, ma in segreto non cessa la sua attività letteraria. Nel maggio 1901 inizia i suoi viaggi di affari in Europa visitando Tolone e Londra; due anni dopo termina Un marito, la sua prima commedia di grande impegno. Nel 1904 muore l'amico pittore Umberto Veruda, modello del tormentato personaggio di Balli in Senilità.

    È dell'anno seguente l'incontro e l'amicizia con James Joyce, professore di inglese alla Berlitz School di Trieste, che gli dà lezioni private. Il rapporto tra i due scrittori diviene ben presto di stima confidenziale: Joyce gli legge i suoi lavori manoscritti; Svevo dà in lettura al futuro autore di Ulysses i suoi due romanzi pubblicati, sui quali Joyce si esprime entusiasticamente. Racconta Livia Veneziani Svevo, nel cit. Vita di mio Marito: «Fra il maestro, oltremodo irregolare, ma d'altissimo ingegno (conosceva diciotto lingue tra antiche e moderne), e lo scolaro d'eccezione le lezioni si svolgevano con un andamento fuori del comune... Si parlava di letteratura e si sfioravano mille argomenti».

    Nel 1915 l'Italia entra in guerra, e Joyce è costretto a lasciare Trieste. I suoceri di Svevo si trasferiscono in Inghilterra, e la fabbrica di vernici sottomarine di cui Ettore è dirigente viene chiusa. «Nell'agosto del 1915 gli esperti e i tecnici militari austriaci si presentarono alla fabbrica per sequestrare macchinari e merci, pretendendo anche il segreto, gelosamente custodito, delle formule delle vernici, e minacciando Ettore d'internamento» (Livia Veneziani, op. cit). Durante il periodo del conflitto, Svevo studia (Swift è uno degli autori maggiormente approfonditi, e pour cause), scrive e s'incontra spesso con gli amici irredentisti al Caffè Tergesteo. Joyce, da Zurigo, resta in contatto epistolare con lui. Nel 1922 inizia la traduzione dell'Interpretazione dei sogni di Freud, e lavora attorno a un progetto di pace universale. È membro del comitato di salute pubblica prima dell'entrata delle truppe italiane a Trieste. Dà la sua collaborazione al giornale La Nazione, fondato in Trieste dopo il passaggio della città all'Italia.

    Da tre anni, intanto, aveva iniziato La coscienza di Zeno. Nel 1921 Joyce gli aveva chiesto con una lettera affettuosa scritta in un italo-triestino maccheronico, di fargli recapitare «un mucchio disordinato di carte» contenenti gli appunti di Ulysses: «Non posso muovermi da qui (come credevo di poter fare) prima di maggio. Infatti da mesi e mesi non vado a letto prima delle due o le tre del mattino lavorando senza tregua. Avrò presto esaurito gli appunti che portai qui con me per scrivere questi due episodi». Dopo aver rivisto Joyce a Parigi, Svevo lavora intensamente alla stesura definitiva della Coscienza di Zeno, che esce nel '23 presso l'editore Cappelli, il primo maggio. Scarsissimi, al solito, gli echi nella stampa. Il dottor E. Weiss, al quale lo scrittore si rivolge, gli dice che non gli è possibile parlare del libro, «perché con la psicanalisi non ha nulla a che vedere».

    Nel 1924 spedisce La coscienza di Zeno a Joyce, che gli risponde con ima lettera di lodi e lo consiglia di mandarla ai suoi amici critici e letterati, tra i quali i francesi Valéry Larbaud e Benjamin Crémieux. L'esito della generosa operazione di Joyce è positivo. Nel '25 Svevo riceve la prima lettera di Larbaud, che gli fa concrete proposte per un lancio del romanzo in Francia. Nella primavera incontra a Parigi i suoi estimatori e si lega di amicizia confidenziale particolarmente con la signora Crémieux, che gli parla di Proust, autore a lui sconosciuto e del quale acquista l'opera completa. Bobi Bazlen fa conoscere a Eugenio Montale i romanzi di Svevo, e nel numero IV, novembre-dicembre 1925, della rivista L'Esame il poeta pubblica il primo dei suoi scritti sveviani. Nel 1926 escono su Le Navire d'argent (n. 9,1 febbraio) larghi estratti delle sue opere. L'evento trascina sulla sua scia l'interesse della critica francese e italiana. Gli amici letterati milanesi, tra i quali Enrico Somarè, Giansiro Ferrata e Leo Ferrerò, lo festeggiano affettuosamente, eppure l'editore Treves rifiuta la ristampa di Senilità. Svevo scrive La madre, Una burla riuscita, Vino generoso, La novella del buon vecchio e della bella fanciulla.

    Nel 1927 appare l'edizione francese de La coscienza di Zeno, nella traduzione di Paul-Henri Michel. Nel marzo di quell'anno il Convegno di Milano ospita una sua conferenza su Joyce, e in aprile va in scena al Teatro degli Indipendenti di A.G. Bragaglia, a Roma, il suo atto unico Terzetto spezzato.

    A Parigi, in una riunione del Pen Club, viene festeggiato insieme a Isaak Babel durante una cena cui partecipano i più illustri letterati francesi. Giovanni Comisso, presente alla riunione, riporta questa confidenza di Joyce: «Dicono che io abbia immortalato Svevo, ma io ho immortalato anche le chiome della signora Svevo. Erano chiome lunghe e bionde. Mia sorella che le vedeva sciolte me ne parlava. Vicino a Dublino vi è un fiume che attraversa la tintoria e le sue acque sono rossastre come quel tavolo; allora mi è piaciuto di parlare di queste due cose che si somigliano nei libro che sto scrivendo (Finnegans Wake). La signora si chiamerà Anna Livia Plurabella».

    Nel 1928 Svevo, che nel frattempo si è profondamente appassionato per l'opera di Kafka, inizia il suo quarto e incompiuto romanzo, Il vecchione. In seguito a un incidente verificatosi ni settembre, lo scrittore, la cui fama tardiva ha ormai dimensioni europee, muore il giorno seguente all'ospedale di Motta di Livenza.

    Opere di Italo Svevo

    Romanzi

    Una vita, Trieste, Vram 1893 (in realtà 1892); II ediz. Milano, Morreale, 1930; III ediz. Milano, dall'Oglio, 1938; e Milano, Mondadori, 1956.

    Senilità, Trieste, Vram, 1898; II ediz. con prefazione di I.S., Milano, Morreale, 1927; III ediz. Milano, dall'Oglio, 1938; e IV ediz. Milano, dall'Oglio, 1949.

    La coscienza di Zeno, Bologna, Cappelli, 1923; II ediz. con prefazione di Silvio Benco, Milano, Morreale, 1930; III ediz. Milano, dall'Oglio, 1938; IV ediz. Milano, dall'Oglio, 1947; e Milano, dall'Oglio, 1957.

    I tre romanzi sono riuniti nel II volume dell'Opera Omnia, Milano, dall'Oglio, 1969. Questa edizione riporta anche il testo della redazione 1898 di Senilità.

    Racconti e scritti vari

    La novella del buon vecchio e della bella fanciulla ed altri scritti, con nota introduttiva di Eugenio Montale, Milano, Morreale, 1929 (comprende, oltre alla Novella: Vino generoso, Una burla riuscita, La madre, Il vecchione); II ediz. Milano, dall'Oglio, 1938; e III ediz. Milano, dall'Oglio, 1951.

    Corto viaggio sentimentale e altri racconti inediti, a cura e con prefazione di Umbro Apollonio, Milano, Mondadori, 1949 (comprende, oltre al racconto che dà il titolo al volume: L'assassinio di Via Belpoggio, Proditoriamente, La morte, Orazio Cima, Il malocchio, La buonissima madre, L 'avvenire dei ricordi, Incontro di vecchi amici, Argo e il suo padrone, Marianno, Cimutti, In Serenella, Giacomo, Le confessioni del vegliardo, Umbertino, Il mio ozio, Un contratto); e II ediz. Milano, Mondadori, 1957.

    Saggi e pagine sparse, a cura e con prefazione di Umbro Apollonio, Milano, Mondadori, 1954 (comprende: Articoli; Saggi diversi; Scritti su Joyce; Favole; Pagine di diario e sparse; e il racconto Lo specifico del dottor Menghi).

    Diario per la fidanzata, a cura di B. Maier e A. Pittoni, con introduzione di B. Maier, Trieste, Edizioni dello Zibaldone, 1962.

    Tutti questi testi, con l'aggiunta del Profilo autobiografico (già pubblicato in Vita di mio Marito di Livia Veneziani Svevo, stesura di Lina Galli a cura di Anita Pittoni, Trieste, Edizioni dello Zibaldone, 1958), sono riuniti nel III volume dell'Opera Omnia, Milano, dall'Oglio, 1968.

    Teatro

    Commedie, a cura e con prefazione di U. Apollonio, Milano, Mondadori, 1960 (comprende: Le ire di Giuliano, Le teorie del conte Alberto, Il ladro in casa, Una commedia inedita, Prima del ballo, La verità, Terzetto spezzato, Atto unico, Un marito, L'avventura di Maria, Inferiorità, Con la penna d'oro, La rigenerazione, ed inoltre le varianti).

    Commedie, introduzione e note di U. Apollonio, Opera Omnia, Milano, dall'Oglio, 1969, vol. IV (questa edizione ripete senza variazioni la precedente).

    Il frammento Ariosto Governatore si può leggere in: Lettere a Svevo - Diario di Elio Schmitz, a cura di B. Maier, Milano, dall'Oglio, 1973, pp. 222-224.

    Epistolari

    I. SVEVO-J. JOYCE, «Carteggio inedito», con introduzione di H. Levin, in Inventario, I, 1949.

    I. SVEVO, Corrispondenza con V. Larbaud, B. Crémieux e M.A. Comnène, con prefazione di E. Montale, Milano, All'Insegna del Pesce d'Oro, 1953.

    «Lettere inedite di I. Svevo» (a V. Jahier), a cura di G. Veronesi, in Paragone, 26, 1952.

    Lettere alla moglie, a cura di A. Pittoni, introduzione di B. Maier, Trieste, 1963. «Lettres inédites d'I. Svevo à V. Larbaud», a cura di O. Ruggiero, in Revue des études italiennes, 1962-63.

    E. MONTALE-I. SVEVO, Lettere, con gli scritti di Montale su Svevo, Bari, De Donato, 1966.

    I. SVEVO-E. MONTALE, Carteggio, con gli scritti di Montale su Svevo, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1976.

    I. SVEVO, Carteggio con James Joyce, Valéry Larbadu, Benjamin Crémieux, Marie Anne Comnène, Eugenio Montale, Valerio Jahier, a cura di B. Maier, Milano, dall'Oglio, 1965.

    Le lettere di Svevo (senza le risposte) si trovano riunite nell'Opera Omnia, vol. I, Milano, dall'Oglio, 1966.

    Alcune lettere inedite sono state pubblicate poi nel volume: I. SVEVO, U. SABA, G. COMISSO, Lettere inedite, a cura di M. Sutor, presentazione di G. Pullini, Padova, Gruppo di Lettere Moderne dell'Università di Padova, 1968. Tre lettere inedite sono state inoltre pubblicate in appendice al volume di G.A. CAMERINO, Svevo, Torino, UTET, 1981 (questo volume riporta anche, in appendice, un articolo sveviano dal titolo «Storia dello sviluppo della civiltà a Trieste nel secolo presente», pubblicato su La Nazione di Trieste del 2 agosto 1921).

    Bibliografia critica

    Della sterminata bibliografia critica su Svevo si indicano qui soltanto le opere, pur numerose, che risultano significative per la vicenda della «fortuna» sveviana.

    Per la storia della critica, fondamentale è lo studio di S. Maxia, Svevo, Palermo, 1976, che comprende anche un'antologia della critica.

    La biografia più ricca è quella di E. Ghidetti, Italo Svevo - La coscienza di un borghese triestino, Roma, Editori Riuniti, 1980.

    AN., «Una vita - Romanzo di I.S.» in Il Piccolo, Trieste, 27 novembre 1892.

    AN., «Una vita di I.S.», in L'Indipendente, Trieste, 27 novembre 1892.

    D. OLIVA, recensione di Una vita, in Corriere della Sera, Milano, 11 novembre 1892.

    S.B. [S.BENCO], «Senilità d'I.S.», in L'Indipendente, Trieste, 12 ottobre 1898.

    S.B. [S. BENCO], «La coscienza di Zeno, romanzo di I.S.», in Il Piccolo della sera, Trieste, 5 giugno 1923.

    AN., recensione de La coscienza di Zeno, in Corriere della Sera, Milano, 9 dicembre 1923.

    E. MONTALE, «Omaggio a I.S.», in L'Esame, Milano, a. IV, 1925, pp. 804-13.

    E. MONTALE, «Presentazione di I.S.», in Il quindicinale, Milano, 30 gennaio 1926.

    E. MONTALE, «Profili - I.S.», in L'Italia che scrive, Roma, a. IX, 1926, pp. 117-8.

    B. CRÉMIEUX, «I.S.», in Le Navire d'argent, Paris, a. II, febbraio 1926, pp. 23-6.

    B. CRÉMIEUX, «Uno scrittore italiano scoperto in Francia», in La Fiera Letteraria, Milano, 28 febbraio 1926.

    G.CAPRIN, «Una proposta di celebrità», in Corriere della Sera, Milano, 11 febbraio 1926.

    G. RAVEGNANI, «Da Freud a S.», in I libri del giorno, Milano, a. IX, 1926, pp. 233-5.

    U. MORRA DI LAVRIANO, «I.S.», in Il Baretti, Torino, a. III, 1926, pp. 101-2.

    E. ROCCA, «Scrittori delle terre redente - Il romanziere triestino I.S.», in La stirpe, Roma, a. V, 1927, pp. 523-8.

    S. SOLMI, recensione dì Senilità, in Il Convegno, Milano, a. VIII, 1927, pp. 671-7.

    A. CONSIGLIO, «I.S.», in Il mattino, Napoli, 24-25 dicembre 1927.

    C. LINATI, «I.S., romanziere», in Nuova antologia, Roma, a. LXIII, 1 febbraio 1928, pp. 328-36.

    E. MONTALE, «Ultimo addio», in La Fiera Letteraria, Milano, 23 settembre 1928.

    B. CRÉMIEUX, «I.S.», in La Nouvelle Revue Française, Paris, 1

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