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Forse non tutti sanno che a Torino...
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Forse non tutti sanno che a Torino...

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Curiosità, storie inedite, misteri, aneddoti storici e luoghi sconosciuti della prima capitale d’Italia

Racconti sconosciuti e grandi storie fanno di Torino una città dal fascino innegabile

Torino magica, Torino misteriosa, Torino “diabolica”. Ma anche romana, risorgimentale, sabauda. Una città dalle mille anime, protagonista di diverse epoche, di cui resta sempre qualche angolo inesplorato, qualche vicenda meno nota o un personaggio rimasto nell’ombra. Laura Fezia punta il suo obiettivo su angoli affascinanti e spesso sconosciuti, fatti curiosi e interessanti: un viaggio in profondità, per scovare episodi inediti e storie poco conosciute, ma che svelano aspetti essenziali della città nell’insieme. La storia ufficiale del capoluogo piemontese viene ricostruita in queste pagine attraverso una serie di racconti paralleli, minori solo all’apparenza, ma capaci di riportare a galla ciò che spesso passa inosservato.

Forse non tutti sanno che a Torino...

…Infiniti misteri aleggiano intorno a una delle chiese più amate della città
…Gli eretici, gli untori e le streghe salirono sul rogo in piazza Castello 
…Dalle apprensioni di una dama non troppo avvenente, nacque (forse) una delle più golose specialità piemontesi
…Dal 1899, la FIAT vagò per tutta la città e non solo 
…Prima di approdare alla cappella del Guarini, quanta strada fece la Sindone! 
…Si dice che in via dei Quartieri militari si celebrassero inquietanti riti satanici
…Un intrigante mistero circonda la morte di Vittorio Amedeo II
…Le tombe dei Savoia sono disseminate un po’ ovunque
Laura Fezia
è nata a Torino, dove vive e lavora. Studiosa del mistero in tutti i suoi aspetti, appassionata di cronaca giudiziaria, fa la consulente e la scrittrice. Con la Newton Compton ha pubblicato 101 misteri di Torino (che non saranno mai risolti), Misteri, crimini e storie insolite di Torino, Il giro di Torino in 501 luoghi e Forse non tutti sanno che a Torino...
LanguageItaliano
Release dateNov 9, 2015
ISBN9788854187788
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    Book preview

    Forse non tutti sanno che a Torino... - Laura Fezia

    introduzione

    Esistono molti modi per osservare una città: la si può visitare come turisti, ammirando i monumenti decantati dalle guide, attenti alla Storia raccontata dai testi ufficiali, oppure la si può vivere nel suo aspetto più intimo, cercando di andare oltre l’apparenza per coglierne la vera anima, addentrandosi nei meandri delle sue vicende meno conosciute. Torino, in particolare, è difficile da comprendere, talmente avviluppata da pregiudizi e disinformazione che spesso perfino i suoi abitanti si accontentano di viverla superficialmente. Per riuscire a capirla, occorre essere torinesi o, meglio, sabaudi: il che non significa necessariamente avere visto la luce all’ombra della Mole, ma essere riusciti a cogliere il segreto di un luogo che di complicato, in fondo, ha nulla, anzi: è, semplicemente, essenziale. Attenzione a quest’ultimo termine, perché è la chiave per afferrare Torino. Mi ha colpito, qualche tempo fa, il commento di un’amica proveniente da un’altra regione italiana, cui stavo facendo gli onori di casa in piazza San Giovanni; di fronte alla cattedrale, esclamò: «Certo che chiamarlo duomo è un po’ troppo…». In quel momento mi si accese una lampadina attorno alla quale giravo da tempo: se non si riesce a entrare nell’ottica giusta, a vedere l’essenzialità di Torino non come una rinuncia al fasto, non come una tendenza alla sciatteria, bensì come dato distintivo di un carattere che bada molto al sodo e non ama perdersi in fronzoli, ma proprio per questo conserva intatta l’energia per tirarsi su le maniche quando veramente è necessario, la città rimarrà impressa come una sfinge un po’ fredda, a tratti perfino inospitale, che non sbandiera nulla di sé, ma che ha ostinatamente fatto dell’understatement il proprio marchio di fabbrica. Questo è, forse, uno degli ostacoli più difficili da superare per fare del capoluogo piemontese una città turistica: chi viene in visita si aspetta un’accoglienza pirotecnica, un’allegria estroversa, un turbinio di cotillons, pacche sulle spalle ecc., tutte cose che a Torino ben difficilmente troverà, così come avrà qualche difficoltà a capire, salvo rare eccezioni, davanti a quale monumento si trovi, su quale stralcio di Storia stia camminando, cosa o chi sia transitato attraverso quel portone o quel vicolo. Sui requisiti del carattere sabaudo c’è poco da fare e d’altronde questa è la sua cifra cogente, mentre invece ci sarebbe molto da lavorare per valorizzare la città e rivelarla non solo al turista, ma ai torinesi stessi, in tutti i suoi innumerevoli, seducenti particolari.

    Nonostante questo sia il mio quarto libro su Torino, ho ancora trovato infiniti spunti avvincenti, tantissimi angoli affascinanti e sconosciuti, mille storie curiose e altrettanti personaggi interessanti che hanno contribuito a fare del capoluogo piemontese una guida per il destino dell’Italia.

    Certo… una guida silenziosa, concentrata sul proprio ruolo, che difficilmente concede spazio al superfluo e pare disinteressarsi ai risultati della propria fatica, tanto da cederli ad altri con disinvoltura, però… che volete farci… il fascino di noi sabaudi è proprio questo: lo comprenderete solo imparando a conoscerci e ad accettarci nella nostra essenzialità, passando attraverso le inesauribili anime della nostra incantevole e arcana città.

    Laura Fezia

    1. …Il ricordo di Julia Augusta Taurinorum rivive in una mappa del 1887

    Presso il Museo archeologico, recentemente riallestito in modo ineccepibile nei sotterranei della Manica Nuova di Palazzo Reale, proprio sotto la rediviva Galleria sabauda, insieme a molti reperti di epoca romana e preistorica è possibile ammirare una pianta di Torino tracciata da Alfredo d’Andrade nel 1887, che rivela un affascinante mondo sconosciuto perfino alla maggior parte dei torinesi: si tratta di una mappa, il cui originale è conservato presso l’archivio della Soprintendenza per i beni archeologici del Piemonte, che ne aggiorna un’altra realizzata da Carlo Promis intorno alla metà del xix secolo, dove si possono osservare, con emozione, il probabile aspetto dell’antica Augusta Taurinorum e le sue successive evoluzioni. Lo stesso D’Andrade informa che potrebbero esserci alcune imprecisioni nella nomenclatura dei vari luoghi, dovute al fatto che i testi di riferimento sono pochi e confusi e che ogni autore che se ne è interessato se l’è un po’ cantata e suonata a proprio uso e consumo. Questo è un particolare che era saltato all’occhio anche a me, soprattutto per ciò che riguarda il nome di due delle antiche porte della colonia romana, ma iniziamo con il vedere come erano organizzati i castra, ossia gli accampamenti stabili dai quali si sarebbero sviluppate le città.

    Quando giungevano su di un territorio dove intendevano impiantare un presidio permanente, per prima cosa i romani sceglievano un’area facilmente difendibile e, badando all’orientamento e ad altri elementi, tracciavano due direttrici principali, perpendicolari tra loro, in base alle quali erigevano una fortificazione a pianta quadrata o rettangolare. Queste due linee ortogonali costituivano il decumano massimo (direzione est-ovest) e il cardo massimo (da nord a sud), al cui incrocio si trovava il praetorium, la grande tenda del comando, e ai cui estremi venivano aperti i quattro varchi di accesso, ossia le porte. Nel castrum chiamato Julia Augusta Taurinorum, il decumano corrispondeva all’attuale via Garibaldi, mentre il cardo era quella che ai giorni nostri si chiama via Porta Palatina e su questa informazione tutti i testi sembrano essere concordi. Le differenze si palesano nel nome attribuito alle porte: la maggior parte degli autori afferma che la Porta Decumana era quella che si trovava dove oggi c’è Palazzo Madama, mentre la Pretoria era collocata all’estremo opposto, nell’attuale tratto tra via Garibaldi e piazza Savoia, all’angolo con via della Consolata, ma altri, come anche lo stesso D’Andrade, invertono le definizioni. A tagliare la testa al toro (o almeno così sembrerebbe) c’è un grande pannello esplicativo esposto nella parte dedicata al Museo di antichità presso la ex Casaforte degli Acaja, proprio di fianco ai resti della Porta Fibellona, aperta tra il xii e il xiii secolo in sostituzione di quella romana, che viene inequivocabilmente chiamata Decumana; la nomenclatura troverebbe la sua conferma sapendo che veniva definita Porta Pretoria quella rivolta in direzione del nemico: nel caso di Julia Augusta Taurinorum, questo era rappresentato dalle popolazioni stanziate al di là delle Alpi. Probabilmente altri autori mischiarono un po’ le carte e provocarono quella confusione che a sua volta generò le imprecisioni adombrate da D’Andrade nei commenti alla sua pianta.

    Ben lungi dal possedere il patrimonio archeologico di Roma, anche il capoluogo piemontese può comunque vantare numerosi reperti, che rendono l’idea di come apparisse ai suoi esordi e per andare a scoprirlo partiamo proprio dalla mappa del 1887. Quello di Carlo Promis, illustre architetto, archeologo e filologo, che attraversò buona parte della storia sabauda del xix secolo, fu il primo tentativo topografico nel quale si cercò di ricomporre i reperti antichi fino ad allora conosciuti: siamo intorno alla metà dell’Ottocento e Promis si basò su di una vecchia cartina militare del 1656; in seguito, nel corso dei lavori per la costruzione della Manica Nuova di Palazzo Reale, nel tratto dell’odierna via xx Settembre che si chiamava via del Seminario, vennero effettuate altre importanti scoperte, tra le quali quella delle mura del teatro: ciò consentì ad Alfredo d’Andrade, che tre anni prima aveva costruito il Borgo medievale al Valentino in collaborazione con Riccardo Brayda, di completare una pianta della Torino romana nell’ottica della tutela di un patrimonio archeologico che prometteva altre sensazionali scoperte. Prima di allora, era uso comune smantellare le costruzioni antiche per ricostruire edifici moderni, ma il triste destino di Augusta Taurinorum, purtroppo, era già iniziato con l’arrivo in città del vescovo Massimo, intorno al 400: ossessionato da un paganesimo ancora ben radicato nella popolazione, che rendeva difficoltosa la totale cristianizzazione della diocesi, il sant’uomo si dedicò con ferocia a fare abbattere tutti i templi esistenti dentro e fuori le mura, sostituendoli con altrettante chiese.

    Grazie alla mappa di D’Andrade, però, agli studi fatti in seguito e ai successivi ritrovamenti in tutta l’area del Quadrilatero, che si sono intensificati soprattutto a partire dagli anni Ottanta del Novecento, noi oggi sappiamo che il castrum elevato al rango di colonia da Augusto era un quadrato con un angolo tagliato in diagonale in corrispondenza degli attuali Giardini Reali, poiché la conformazione del terreno non aveva consentito di realizzare i canonici quattro angoli retti. Di quell’insediamento rimangono, oltre ai resti del teatro visibili anche da via xx Settembre, molti tratti di mura, alcuni dei quali portati alla luce, altri inglobati nei sotterranei di edifici pubblici e privati, altri ancora in fase di scavo, come, per esempio, quelli nell’area intorno a Palazzo Madama, dove fino al 1801 esisteva la Grande Galleria di Carlo Emanuele i, che collegava la Casaforte degli Acaja a Palazzo Reale.

    A proposito di Palazzo Madama, visitare la sezione aperta al pubblico dei suoi sotterranei, dove è alloggiato parte del Museo civico di arte antica, fornisce la possibilità di vedere l’evoluzione del castello e di individuare dove si trovasse la primitiva Porta Decumana. Della Porta Pretoria, invece, chiamata in seguito Porta Segusina, non esiste più traccia, se non una targa, in via Garibaldi, quasi all’angolo con via della Consolata. La stessa sorte ha subito la Porta principalis sinixtera, una delle due del cardo massimo, che si trovava dove via San Tommaso sfocia in via Santa Teresa e che assunse, nel Medioevo, il nome di Porta Marmorea: sembra che fosse già fatiscente, anche se ancora funzionante, ai tempi in cui Ludovico d’Acaja decise di ampliare la Casaforte di famiglia nella futura piazza Castello, ossia tra il 1402 e il 1415 e pare che per costruire il palazzo vennero utilizzate parti della Porta Marmorea. Di questo varco, che andò progressivamente incontro al degrado e venne definitivamente abbattuto intorno alla metà del xvii secolo, rimane un disegno eseguito da Giuliano di Sangallo conservato, non si sa perché, presso la Biblioteca apostolica vaticana: gli esperti sono comunque concordi nell’affermare che l’artista lo realizzò dando libero sfogo alla propria fantasia. Sembra anche che alcune parti della Porta Marmorea vennero utilizzate per la chiesa di Santa Teresa, costruita nel 1642 su commissione di Madama Reale, che attualmente vi riposa in una semplice cappella a destra dell’ingresso.

    L’unica porta romana di Augusta Taurinorum ancora al suo posto, è l’antica principalis dextera del cardo massimo, ossia la Porta Palatina, che a Torino ci si ostina a definire utilizzando il plurale porte Palatine. Anche in questo caso valgono le avvertenze di d’Andrade sulla differenza della nomenclatura: coloro che indicano come Porta Decumana quella verso le Gallie, chiamano la Palatina principalis sinixtera. Attualmente l’area è chiusa al traffico ed è stata valorizzata come sito archeologico, ma fino a non molti anni orsono le auto transitavano liberamente attraverso un paio di millenni di Storia, mettendone a rischio l’integrità. La Porta Palatina fu oggetto di infinite vicissitudini nel corso del secoli, la sua struttura originale venne più volte modificata: già nell’xi secolo fu trasformata in fortezza, cambiò il proprio nome in Porta Doranea o Doranica e intorno al 1400 le sue torri furono arricchite da merli, pur continuando a fungere da accesso alla città fino all’inizio del xviii secolo: intorno al 1724 Vittorio Amedeo ii, impegnato in un importante ampliamento della capitale del regno, cedette tutto il complesso al Comune, che lo trasformò in prigione. Per assistere a un nuovo cambio di destinazione, occorre giungere al 1861, quando il Municipio, per rispondere alle mutate esigenze della popolazione carceraria, diede il via alla costruzione delle Nuove, in strada San Solutore, che vennero inaugurate undici anni più tardi, ma invece di restituire alle vestigia romane il loro primitivo aspetto, qualche illuminato amministratore decise di costruirvi a ridosso un ulteriore edificio per ospitarvi delle scuole. Il primo vero restauro della Porta Palatina fu realizzato proprio da Alfredo d’Andrade nei primi anni del xx secolo, altri furono realizzati in seguito, ma l’autentico aspetto dell’antica Porta principalis dextera di Augusta Taurinorum rivide la luce solo negli anni Novanta del Novecento. Le due statue in bronzo, rispettivamente di Giulio Cesare e di Ottaviano Augusto, poste in prossimità della porta, non sono reperti dell’antica colonia: si tratta di copie di autore ignoto realizzate nel 1934, ossia in pieno ventennio fascista, quando la romanità veniva enfatizzata ovunque. Infatti la loro collocazione all’interno delle mura è sbagliata, poiché i romani, caso mai, erano soliti posizionare questo tipo di monumenti al di fuori della cinta muraria, come monito che chiarisse a chi apparteneva la città.

    Intorno alla Porta Palatina sono fiorite, nel tempo, infinite leggende, relative soprattutto ai personaggi che vi furono ospitati. La più suggestiva è quella che riguarda Ponzio Pilato il quale, caduto in disgrazia e condannato alla detenzione in un carcere della Gallia, nel suo viaggio verso la destinazione finale fece tappa ad Augusta Taurinorum. Questa diceria non ha riscontri storici, anche perché su Pilato si hanno solo poche e incerte notizie, per la maggior parte riferite dai Vangeli ed è probabilmente nata nel 1578, quando la Sindone giunse a Torino da Chambéry e sembrò utile sventolare l’ombra della Nemesi inventando la notizia che il carnefice di Cristo avesse a sua volta patito a pochi passi dal luogo dove, in seguito, sarebbe stato conservato il lenzuolo funebre della sua più illustre vittima. Un po’ di marketing non fa mai male!

    2. …A qualcuno piace pensare che forse Giulio Cesare lo fece apposta

    Chissà cosa indusse Giulio Cesare, una cinquantina di anni prima di Cristo, a porre un accampamento proprio nel luogo dove, in seguito, sarebbe sorta Torino? Motivi di opportunità strategica, certamente, forse anche l’intenzione di usufruire dell’esperienza dei Taurini e magari dei resti di Taurasia, la loro città distrutta da Annibale poco più di un secolo e mezzo prima, ma probabilmente non solo. Il mondo antico era permeato dal pensiero magico, di cui le pratiche apotropaiche e propiziatorie erano una diretta conseguenza: non solo il popolino ricorreva agli indovini per avere qualche dritta preventiva su tutto ciò che riguardava la quotidianità, ma i libri di storia e quelli sacri di tutte le tradizioni raccontano di re, sacerdoti e condottieri nell’atto di ricorrere all’oracolo o in attesa di segni premonitori prima di prendere importanti decisioni.

    Esistono racconti (che gli studenti del liceo classico ricordano bene, perché rappresentavano, almeno un tempo, inquietanti versioni dal latino o dal greco) che riferiscono come gli eserciti avessero al loro seguito anche il reparto metafisico, quindi possiamo immaginare come lo stesso Giulio Cesare, che pare fosse molto superstizioso, abbia consultato gli aruspici prima di fondare il castrum che poi Ottaviano Augusto avrebbe trasformato in colonia e tra tutti i territori possibili al confine con le Gallie, scelse proprio il nostro.

    Cosa gli consigliarono i suoi esperti, cosa avvertirono nella zona?

    Una disciplina antica chiamata geografia sacra afferma che la Terra è un organismo vivente solcato, al pari di quello umano, da infinite linee energetiche; laddove due o più di esse si incontrano, si realizza una particolare concentrazione, che crea un vortice di forze, trasformando questi punti in accumulatori, condensatori e trasformatori di energie. Esistono, inoltre, linee principali e linee secondarie, che si differenziano per la loro intensità, così come i relativi punti di incrocio e sembra che vi siano luoghi, nel mondo, dove tale potenza è massima, tra i quali sarebbe compreso anche il territorio torinese. Gli antichi ritenevano che questi siti particolari presentassero un’alta concentrazione di quelle che venivano definite le energie della Dea Madre, ossia della Terra, forze luminose, benefiche, risanatrici, che agivano a favore dell’umanità sorvegliandone amorevolmente il cammino evolutivo, rappresentate da quelle statue femminili dalla carnagione scura che, più tardi, sarebbero state associate ad Astarte, Iside, Demetra ecc., fino a giungere alle madonne nere di epoca cristiana.

    E allora piace pensare che i maghi al servizio di Cesare non ebbero dubbi quando si trattò di indicare al loro signore il luogo dove edificare il castrum: avevano trovato uno dei più potenti gangli energetici del mondo, che avrebbe garantito all’insediamento tutta la protezione e la carica necessarie a conferirgli caratteristiche straordinarie. Quando Augusto, una ventina di anni più tardi, dopo aver sconfitto Antonio e Cleopatra ad Azio e sistemato un po’ di altre faccende interne, iniziò a mettere ordine nelle ingarbugliate res dei territori dell’Urbe, non solo mantenne il castrum, ma lo elevò al rango di colonia romana: fu ispirato anche lui dagli àuguri?

    Comunque si svolsero i fatti (la Storia dice che si trattò, per il futuro imperatore, di accontentare i veterani dell’esercito con l’elargizione di fondi), fu così che Augusta Taurinorum iniziò ufficialmente la sua vita come vera e propria civitas, senza che la maggior parte dei suoi ignari occupanti sospettasse di abitare nel bel mezzo di un potente crocevia energetico che ribolliva silenzioso.

    Trascorse il tempo, accaddero eventi tumultuosi e straordinari, il mondo conosciuto divenne quasi totalmente romano, sul trono imperiale salì Tiberio, mentre nella lontana Palestina nacque e morì un uomo che avrebbe cambiato le vicende dell’umanità e il sistema di numerare gli anni in Occidente.

    Non si sa con esattezza quando un certo Apollonio di Tiana passò dalle parti di Augusta Taurinorum, ma la leggenda assicura che ciò accadde.

    Sulla vita e addirittura sulla reale esistenza di questo personaggio esistono molti pareri, tutti parimenti fumosi. La sua unica biografia antica è quella scritta da Lucio Flavio Filostrato agli inizi del iii secolo d.C., dalla quale apprendiamo che Apollonio nacque a Tiana, in Cappadocia, in un non meglio precisato anno del i secolo d.C., ma perfino questo dato è controverso. In gioventù si accostò alla filosofia di Platone frequentando il tempio di Esculapio di Egeo, dove ricevette importanti iniziazioni, ma in seguito fu folgorato dalla dottrina pitagorica, alla quale, da quel momento, dedicò la propria esistenza. Le notizie con qualche fondamento di storicità su questa misteriosa figura finiscono qui: tutto il resto si perde nella leggenda. Filostrato cantò le gesta di Apollonio su incarico di Giulia Domna, potente patrizia romana moglie di Settimio Severo, che a tale scopo gli permise di consultare le memorie di Damis di Ninive, diretto discepolo del maestro. La storia che ne scaturì pare, a tratti, più un romanzo che una ricerca documentata, perché forse lo scrittore subì l’indiscutibile fascino di quell’uomo straordinario. Da lui apprendiamo che Apollonio era vegetariano e non beveva vino, se ne andava in giro scalzo, vestito di una lunga tunica bianca come gli Esseni e aveva rinunciato a tutti i suoi averi per ritirarsi a meditare in solitudine. Dopo quattro anni di eremitaggio tornò nel mondo e prese a viaggiare. Soggiornò a Babilonia, in Egitto, in India, in Asia minore, in Grecia, a Roma, in Sicilia, in Spagna. Filostrato afferma con sicurezza che ebbe anche modo di dimorare a Shamballa, la mitica residenza dei grandi maestri spirituali, sita in un luogo segreto dell’Himalaya accessibile solo agli iniziati di alto grado. Questo girovagare aumentò la sua sapienza e gli permise di predicare, con le parole e con l’esempio, uno stile di vita improntato all’amore per il prossimo e per tutto il Creato. Operò anche miracoli, guarigioni fisiche e spirituali, diede prova di veggenza, insegnò la necessità di un religiosità senza idoli, senza l’imposizione di verità assolute, che si fondasse sull’ascolto del maestro interiore presente in ogni uomo. Se poi si aggiunge che, sempre secondo Filostrato, Apollonio, alla sua morte, fu assunto in cielo, emerge una figura simile a quella di Gesù di Nazareth, tanto che il personaggio venne definito il Cristo pagano. Il solerte biografo afferma anche che il vero potere di Apollonio di Tiana, quello in cui eccelleva, risiedeva nella capacità di fabbricare potenti talismani, veri e propri scudi contro gli agguati di quello che nel linguaggio di Guerre stellari si chiama «il lato oscuro della Forza».

    Occorre distinguere i talismani dagli amuleti, anche se spesso i due termini sono erroneamente utilizzati come sinonimi: l’amuleto è un qualsiasi oggetto, ornamento, indumento, animale, colore, suono ecc. cui si attribuisca la proprietà di portare fortuna o di proteggere dai guai; il suo ambito, quindi, è quello della generica scaramanzia, dalla quale, anche solo per scherzo, quasi nessuno è completamente immune. Il talismano, invece, è una cosa seria, la cui preparazione non è lasciata al caso, ma segue regole ben precise, dettate dagli antichi testi di Magia (con la maiuscola non casuale), che riguardano, per esempio, i materiali, i colori, le essenze con cui deve essere realizzato; il periodo dell’anno, i giorni, le ore, le fasi lunari in cui è necessario lavorare alla sua fabbricazione; le analogie e le corrispondenze in esso racchiuse e deve essere consacrato con un rituale apposito; infine, più potente è l’operatore, più la sua coscienza è vicina alla Perfezione cosmica, più il suo lavoro sarà efficace: sembra che Apollonio di Tiana possedesse tali qualità.

    Abbandoniamo Filostrato e diamo uno sguardo alle cronache esoteriche: queste affermano che, nel suo vagabondare, il Cristo pagano sarebbe passato dalle parti di Augusta Taurinorum, dove la sua grande capacità di percepire l’energia dei luoghi e di prevedere gli avvenimenti, al pari di quanto era già accaduto agli esperti metafisici di Giulio Cesare, lo indusse a porre uno scudo protettivo che costituisse una perpetua difesa della futura Torino, amplificando, contemporaneamente, le straordinarie qualità energetiche naturali del territorio. Altre versioni dicono che furono i templari a portare in città il talismano di Apollonio. In ogni caso, questo sarebbe celato in una di quelle grotte alchemiche che costituiscono un altro dei tanti enigmi sabaudi, forse nella terza, la più segreta, quella dove solo i maestri e gli iniziati di alto grado possono penetrare. Da sempre, un misterioso gruppo di custodi riuniti in confraternita veglia su di esso, difendendolo da intrusioni profane. Si racconta che durante la seconda guerra mondiale Hitler avesse ordinato ai suoi emissari di portargli quel prezioso tesoro: esperto di esoterismo, il Führer ne conosceva molto bene le straordinarie potenzialità. Fu allora che molti dei sotterranei torinesi sparirono per sempre: pur di non far cadere quella sorgente di luce nelle mani del lato oscuro della Forza, i suoi guardiani preferirono sacrificare parte dei cunicoli che percorrevano l’intero sottosuolo urbano.

    Dunque furono gli oracoli di Cesare prima e Apollonio poi a rendere Torino uno dei più potenti crogioli alchemici a cielo aperto del mondo: certamente si tratta di leggende, però va osservato che queste non nascono mai dal nulla, ma si fondano su antichi racconti e tradizioni che si perdono nella notte dei tempi, quando l’uomo viveva ancora in diretta connessione con la Perfezione cosmica.

    3. …Infiniti misteri aleggiano intorno a una delle chiese più amate della città

    In una delle arterie più trafficate del nucleo storico di Torino si erge la chiesa che forse più di tutte è cara alla cittadinanza pia: si tratta di quella che si chiamerebbe Santa Maria della Consolazione, ma è popolarmente nota come la Consolata, dalla quale la via prende il nome.

    La sua storia ufficiale è nota, soprattutto per ciò che riguarda il dipinto attorno al quale nacque, ma è anche ammantata di leggende, misteri, imprecisioni, omissioni e rimaneggiamenti vari.

    Fino al v secolo in quell’area sorgeva un altro luogo sacro, poi giunse il vescovo Massimo, in preda alla sua ossessione iconoclasta, lo fece abbattere e lo sostituì con una cappella votiva dedicata a sant’Andrea: siamo nel cuore più antico di Torino, dove si trovava una delle torri angolari della cinta muraria della colonia romana, a pochi passi dalla Porta Pretoria e su questo periodo non esistono molte altre notizie. Occorre fare un salto di oltre mezzo millennio per ritrovare in loco i monaci dell’abbazia di Novalesa che, in fuga dalla Val Cenischia per sfuggire ai saraceni, ripararono a Torino presso la chiesa in oggetto, ma qui nasce la prima contraddizione: la leggenda narra che i Benedettini fecero restaurare e ampliare la costruzione e nel trambusto dei lavori smarrirono un antichissimo dipinto in essa conservato, si suppone, almeno fin dai tempi di Massimo e forse anche da ben prima. Un’altra versione, però, suffragata da approfondite ricerche, afferma esattamente il contrario: i monaci avrebbero infatti ritrovato un’icona andata precedentemente perduta, che sarebbe scomparsa solo in seguito. Tornando alla narrazione ufficiale, questa racconta che nel 1104, quando ormai nessuno più si ricordava del quadro, il cieco Giovanni Ravacchio (o Jean Ravache o Jean Ravais) giunse a Torino da Briançon, affermando di aver sognato la Madonna in persona che gli dava indicazioni per riportare alla luce la preziosa immagine: ciò accadeva il 20 di giugno, giorno in cui ancora oggi si festeggia la Madonna della Consolata; nell’occasione, l’uomo non solo rinvenne il sacro oggetto, ma recuperò anche la vista. In seguito al ritrovamento e alla guarigione miracolosa, il dipinto venne solennemente collocato al posto d’onore all’interno della chiesa, che fu ampliata e diventò meta di pellegrinaggio. Anche in questo caso i documenti dell’epoca sono andati perduti, ma sul finire del xvi secolo, nel santuario, fu posta una lapide a testimonianza dell’evento. Intorno al 1898, però, avvenne un incredibile scoop il cui autore fu Secondo Pia, lo stesso che era stato incaricato da Umberto i di fotografare la Sindone, con tutte le conseguenze che ne sarebbero derivate: l’avvocato astigiano, infatti, fu chiamato a immortalare anche il quadro che da secoli era oggetto di venerazione in quanto ritenuto veicolo di un miracolo, poiché la Curia intendeva realizzarne dei santini da distribuire ai fedeli. La sorpresa e, di certo, lo sgomento furono grandi quando, smontando la cornice, alla base del dipinto saltò fuori una scritta precedentemente e forse appositamente occultata, che indicava l’immagine come quella di Santa Maria de Populo de Urbe e ne collocava, quindi, la realizzazione nel xvi secolo; ricerche successive chiarirono come la Consolata della basilica torinese fosse opera di Antoniazzo Romano, cui era stata commissionata dal cardinale Della Rovere per sostituire il quadro miracoloso che, evidentemente, era andato di nuovo perduto o distrutto da qualche ignoto evento; fu anche ipotizzato che, su indicazione del monsignore, l’artista si rifece alla madonna che più assomigliava a quella raffigurata del dipinto originale. Se vi recherete a Roma e andrete a visitare la cappella Paolina nella basilica di Santa Maria Maggiore, potrete vedere l’icona che ispirò l’artista: si tratta dell’immagine di una giovane donna con bambino, che si dice sia stata dipinta da san Luca e che intorno al 1240 era venerata come Regina Coeli. Sorvolando sul fatto che questa storia non viene mai citata dalle fonti ufficiali ecclesiastiche, perché sarebbe imbarazzante ammettere di aver indotto milioni di fedeli di ieri e di oggi a prostrarsi di fronte a un falso quadro miracoloso, anche osservando l’originale sorge più di una perplessità sull’identità del soggetto rappresentato: in entrambi i casi, infatti, si tratta di una fanciulla con la pelle olivastra e le vesti scure, ben lontana dall’iconografia mariana cui la Chiesa ci ha abituati. Non dimentichiamo che le vaghe notizie sull’antico dipinto risalgono a poco prima dell’anno Mille, quando il culto della Dea Madre era ancora ben vivo tra il popolo: i monaci di Novalesa lo trovarono (o ritrovarono) dove probabilmente stava almeno fin dal v secolo, quando il furore iconoclasta di san Massimo abbatté un preesistente tempio pagano che sembra si chiamasse Nostra Donna. Secondo questa interpretazione, troverebbe una spiegazione logica anche un’altra stranezza legata alla basilica più celebre di Torino: se infatti analizziamo il nome popolare dato al santuario – la Consolata – sembrerebbe che fosse la Vergine ad avere bisogno di conforto, non che fosse lei la consolatrice degli afflitti e allora, facendo un banale due più due, spunta il nome di Iside, l’inconsolabile vedova di Osiride. C’è solo un’altra chiesa, in Italia, a portare lo stesso nome: è la Consolata di Anversa degli Abruzzi, in provincia de L’Aquila, dove viene venerato un quadro che ritrae una figura femminile con le stesse caratteristiche somatiche di quella del capoluogo piemontese. Per terminare con le bizzarrie, va detto che a Torino esiste il ritratto di un’altra Madonna che si dice sia stato dipinto da san Luca: è quello conservato nella chiesa di Santa Maria di Piazza, al civico 4 di via Santa Maria, uno dei luoghi più intriganti dell’intera città, a poca distanza da quella che è nota come la casa di Cagliostro, in via Barbaroux; va precisato che sono moltissimi i santuari e le chiese, in Italia e altrove, a contendersi questo privilegio, come se da un certo punto in avanti della sua lunga vita (sembra che morì ultraottantenne) il santo avesse trascorso il tempo a dipingere una Maria di Nazareth che all’epoca non doveva essere più una giovinetta: guarda caso, però, tutte le madonne a lui attribuite hanno le stesse caratteristiche, alcune sono perfino nere… Luca evangelista, secondo quanto riportato dalle fonti ufficiali cattoliche, fu «compagno e collaboratore di san Paolo, che lo chiama il caro medico» e fece parte della «seconda generazione cristiana»; si convertì nel 37 d.C. ed era «figlio di pagani», dunque conosceva bene l’iconografia della Dea Madre. In un dépliant distribuito presso la basilica, prima di parlare del restauro di Guarino Guarini e di quelli successivamente eseguiti da Juvarra e Ceppi, che la resero un gioiello del barocco, vi è un’affermazione curiosa che avalla la teoria secondo la quale quella raffigurata nel dipinto posto sopra l’altare maggiore non sia la Madonna cristiana, ma Iside con Horus; vi si dice, infatti che «La devozione alla Consolata risale, secondo la tradizione, al v secolo. Ma ricevette un impulso straordinario nel 1104», dopo la vicenda che ebbe come protagonista il cieco di Briançon. Va osservato, però, che il culto mariano non fu così forte nel cristianesimo delle origini, ma si andò affermando in sordina a partire dal ix secolo, quando diventò urgente sostituire le figure delle dee pagane con un’immagine femminile cristiana; la stessa Maria di Nazareth non ricopre un ruolo fondamentale nei Vangeli, dove, tolta l’annunciazione, resta quasi sempre sullo sfondo, pertanto risulta assai improbabile che nel v secolo, presso il santuario di Nostra Donna, si venerasse la Consolata che noi conosciamo: forse è vero che l’antica effigie era denominata così, ma quella Consolata era verosimilmente Iside.

    Ciò nulla toglie, comunque, alla fede di coloro che da sempre si rivolgono alla fanciulla che dall’altare, sapientemente illuminata per camuffare un po’ i suoi tratti mediorientali, offre se stessa e il suo divino figlio alla venerazione dei credenti: in fondo, una Grande Madre ne vale bene un’altra!

    4. …L’unica chiesa in stile gotico medievale si trova in via Milano, poco distante da un curioso bestiario

    Occorse del tempo prima che il tribunale della Santa Inquisizione avesse la sua sede a Torino e – bontà sua – non fu nemmeno tra i più feroci, rispetto ad altri, eseguendo in tutto solo un’ottantina di condanne a morte.

    L’istituzione, che dietro il paravento della lotta alle eresie nascondeva anche (e soprattutto) finalità di potere, nacque dal Concilio di Verona del 1184, sponsor il pontefice Lucio iii e l’imperatore del Sacro Romano Impero Federico Barbarossa, con la bolla papale Ad abolendam diversarum haeresum pravitatem, che introduceva il principio secondo il quale non erano necessari testimoni o prove concrete per accusare qualcuno di eresia, inviarlo a processo e condannarlo. Nel 1198, Lotario dei Conti di Segni salì al soglio di Pietro con il nome di Innocenzo iii e nel 1215 convocò il iv Concilio lateranense, nell’ambito del quale vennero ribadite le decisioni prese a Verona e stabilite alcune procedure per ripulire il territorio da una piaga che stava diventando sempre più pericolosa: fu deciso, per esempio, che dovesse essere ritenuto colpevole e destinato allo stesso trattamento anche chi, venuto a conoscenza di pratiche in contrasto con la fede cattolica, non le denunciasse; nel 1252 Innocenzo iv autorizzò l’uso della tortura e Giovanni xxii, nel secolo successivo, estese i poteri del Sant’Uffizio, consentendogli di inquisire e condannare anche chi fosse sospettato di stregoneria.

    I primi autorizzati da papa Gregorio ix, nel 1231, a vestire i panni dei giudici inquisitori furono i padri Cistercensi, sostituiti poi dai Francescani, quindi dai Domenicani, il cui nome ben si prestava a tale incarico (Domini canes, mastini del Signore) e furono proprio questi ultimi a svolgere la delicata missione a Torino, minacciata dalle eresie provenienti soprattutto dalle valli immediatamente al di là delle Alpi. La comunità dei seguaci di san Domenico era giunta nel capoluogo piemontese (all’epoca poco più di un grande borgo) nel 1227 e aveva dato inizio alla costruzione della chiesa che ancora oggi si trova nella strada omonima, all’angolo con via Milano. Nel 1260 alla chiesa fu aggiunto il convento, nella cui ala verso via Bellezia trovò definitivamente sede il famigerato tribunale, istituito ufficialmente in città nel 1257. Per un paio di secoli, tuttavia, l’Inquisizione torinese non ebbe vita facile: i suoi sistemi un po’ troppo aspri fecero sì che i Domini canes fossero invisi al popolo, che, pertanto, si rifiutava di collaborare nonostante i pressanti inviti a denunciare eretici e simpatizzanti; inoltre, all’epoca, streghe, stregoni e fattucchiere potevano ancora dormire sonni quasi tranquilli.

    Fu con Amedeo viii di Savoia-Acaja che, nella prima metà del Quattrocento, le cose iniziarono a cambiare, poiché il duca aumentò le competenze del santo tribunale e meglio ancora fece suo figlio Ludovico che, nel 1462, concesse pieni poteri ai padri inquisitori: mal gliene incolse, perché ciò fu spesso fonte di contrasti, in quanto i padri Domenicani pretendevano di agire in piena autonomia, senza consultare né le autorità civili, né la dinastia, anche se il tribunale di Torino era composto da religiosi e da alcuni membri laici scelti direttamente dai Savoia.

    Non si sa se per misericordia o per calcolo, comunque, il Sant’Uffizio torinese preferì comminare pene pecuniarie piuttosto che condanne al rogo: le pire, erette quasi sempre in piazza Castello, furono accese solo come extrema ratio, quando si rese necessario fornire prove esemplari. Le sanzioni monetarie, invece, che prevedevano o una multa decisamente onerosa, o addirittura la confisca dei beni, offrivano interessanti vantaggi per tutti, poiché il ricavato veniva più o meno equamente spartito tra l’Ordine, la dinastia sabauda e il Comune: un modo come un altro per fare cassa, in attesa degli autovelox.

    Trascorsero alcuni secoli durante i quali i duchi di Savoia contribuirono ad ampliare e abbellire San Domenico, mentre la cupa ombra del tribunale calò anche sui sospettati di pratiche stregonesche, ma intorno al 1729 Vittorio Amedeo ii ordinò a Juvarra di raddrizzare la Contrada d’Italia (l’attuale via Milano) e la chiesa divenne un ostacolo per i progetti dell’architetto, il quale non ci pensò su granché e ne demolì una intera ala, non si sa con quanto gradimento dei padri. Poco lontano dal santuario, l’originale artista creò anche uno slargo romboidale, dove ancora oggi, accanto e davanti alla basilica Mauriziana, è possibile osservare qualcosa di molto curioso, una specie di bestiario in pietra, unico nel suo genere, sul cui significato occulto gli esoteristi hanno ricamato a lungo. Sul palazzo al civico 11, che un tempo costituiva l’isola di San Domenico, fanno bella mostra di sé delle teste di cane dall’espressione non molto rassicurante, simbolo dei vicini inquisitori; al numero 13, invece, nell’isola di Sant’Ignazio, su di un palazzo che fu una delle sedi dell’antico Municipio, è raffigurato il toro, simbolo della città, mentre sul lato opposto della via, al numero 18, antica isola di Santa Rosa, troviamo il leone, presente nello stemma araldico del conte Faussone (o Fauzone) di Germagnano, allora proprietario dell’edificio. Si ipotizza che nel decorare in tal modo lo slargo, Juvarra volle rappresentare i tre poteri forti dell’epoca, quello religioso, quello civico e quello della nobiltà (e per estensione, della corte), sempre più o meno apertamente in conflitto tra loro, salvo cercare alleanze in base alla convenienza: ancora oggi, infatti, le teste in pietra dell’antica Contrada d’Italia sembrano sfidarsi le une con le altre, guardando di sottecchi i passanti.

    Il tribunale dell’Inquisizione piemontese cessò di esistere nel 1799 in forza di un decreto che lo abolì e ne confiscò tutti i beni.

    La chiesa di San Domenico rappresenta una delle tappe obbligate della Torino turistica: al suo interno, oltre ad altre opere di notevole valore artistico, è possibile ammirare una pala d’altare del Guercino che rappresenta la Madonna del Rosario con i santi Domenico e Caterina da Siena. Nella sacrestia, invece, sono presenti alcune sepolture e due tra di esse attirano l’attenzione: una è quella dell’inquisitore Pietro Cambiani di Ruffia assassinato a Susa il 2 febbraio 1365, di cui vedremo in seguito la storia, l’altra è, curiosamente, quella del mite Emanuele Filiberto Pingone, il primo, fantasioso autore di una biografia ufficiale della dinastia sabauda e di una Storia di Torino. Nei dintorni della chiesa, invece, e nei suoi sotterranei, interdetti al pubblico, la leggenda vuole che aleggino inquiete le anime delle streghe e degli eretici arsi sui roghi: potevamo forse farcele mancare?

    5. …L’assassinio dell’inquisitore è ancora oggi un intrigante cold case

    Scovare notizie esaustive su personaggi vissuti durante i secoli bui del Medioevo non è facile, poiché, se si eccettuano quelle figure che fecero la Storia, come re, imperatori, vescovi e papi, le cui gesta, peraltro, sono spesso circondate da aloni celebrativi in cui non manca la fantasia, i documenti sono pochi e spesso contraddittori. È il caso, per esempio, di Pietro Cambiani di Ruffia, del quale sono incerti perfino data e luogo di nascita, forse il 1320 e il piccolo comune di Ruffia, nei dintorni di Savigliano. La sua biografia, che lo vede entrare nell’ordine domenicano intorno al 1345, continua con una serie di pare fino al 9 maggio 1351, quando, finalmente, un documento lo definisce senza mezzi termini «inquisitor haereticae pravitatis» (inquisitore della malvagità eretica), titolo che mantenne per quindici anni, incaricato direttamente da ben tre papi (Clemente vi, Innocenzo vi e Urbano v) di combattere gli eretici in Piemonte e in Liguria. Padre Cambiani risiedeva, a Torino, presso la chiesa di San Domenico, dove i Domini canes non solo abitavano e si occupavano

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