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Misteri, segreti e storie insolite di Napoli
Misteri, segreti e storie insolite di Napoli
Misteri, segreti e storie insolite di Napoli
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Misteri, segreti e storie insolite di Napoli

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Gli enigmi più seducenti di una città dai molti volti

È vero che il diavolo di Mergellina fu commissionato per esorcizzare una storia d’amore impossibile? Il Graal è veramente passato per Soccavo? Sono dei Templari i segni disseminati nel sottosuolo partenopeo? Quale premonizione c’è dietro il numero 10 di Maradona? E cosa nascondono il segreto di Pulcinella, ’o scarpunciello d’’a Maronna e il triangolo benedetto? Napoli è una città dai molti chiaroscuri, che occulta e insieme svela misteri inafferrabili. Un impasto di memorie greche, alessandrine, romane, francesi, spagnole… Una città che racconta di sé attraverso i tabernacoli lungo le strade, le capuzzelle degli ossari e nei bellissimi volti delle statue velate. I misteri a Napoli si toccano, si mangiano, si sentono, si vivono e si percorrono. Demòni e angeli intorno alla pentola del ragù che bolle, foglie di basilico per scacciare la morte e teste d’aglio ad allontanare il malocchio. Questo libro condurrà il lettore attraverso gli enigmi più seducenti, dai geroglifici di piazza del Gesù, che si fondono in un pentagramma dalla melodia celestiale, allo straordinario Cristo voluto da Sansevero, fino ai misteri egizi di Iside legati ai ruderi della villa romana di Marechiaro a Posillipo. E poi i chilometrici cunicoli della Napoli sotterranea, grotte e passaggi che molto spesso sono dei veri e propri cammini iniziatici.

L’anima di Napoli raccontata attraverso i suoi misteri

Tra i misteri, i segreti e le storie insolite:

- Messaggi segreti tra i marmi di San Giovanni a Carbonara
- D10S sceso in campo, liturgia di un culto profano
- Le tombole dei morti e delle femminelle
- Pulcinella etrusco, principe delle tenebre
- I sortilegi d’amore nella notte di San Giovanni
- È sangue, e si scioglie solo se san Gennaro è d’accordo
- Veli svelati e Iside potente
- Il culto delle Madonne Nere
Agnese Palumbo
giornalista, ha collaborato con «la Repubblica», «il Riformista», «D di Repubblica». Per il teatro ha scritto, con Massimo Piccolo, Sante, Madonne e Malefemmene e Non farlo nel mio nome, storia di una brigantessa. Collabora con la casa di produzione cinematografica MoonOver. Per la Newton Compton ha pubblicato 101 cose da fare a Napoli almeno una volta nella vita, 101 storie su Napoli che non ti hanno mai raccontato e 101 donne che hanno fatto grande Napoli. Con Maurizio Ponticello ha scritto Misteri segreti e storie insolite di Napoli e Il giro di Napoli in 501 luoghi . È vicepresidente dell’associazione Luna di Seta.Maurizio Ponticello
è stato corrispondente di testate radiofoniche e televisive, redattore di vari quotidiani e cronista de «Il Mattino». È autore di Napoli, la città velata; I misteri di Piedigrotta; I Pilastri dell’anno. Il significato occulto del Calendario e del thriller La nona ora. Per la Newton Compton ha pubblicato, con Agnese Palumbo, Misteri, segreti e storie insolite di Napoli e Il giro di Napoli in 501 luoghi. Ha scritto racconti per varie antologie tra cui Apocalisse 2012 e Sbirri di Regime. Ha avuto diversi riconoscimenti tra i quali il premio Domenico Rea. È vicepresidente della storica associazione Napolinoir.
LanguageItaliano
Release dateJul 17, 2015
ISBN9788854185593
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    Misteri, segreti e storie insolite di Napoli - Agnese Palumbo

    Una Madonna che perde

    la scarpa, Cenerentola

    sotto il Vesuvio

    È una storia antichissima che ha fatto sognare e piangere intere generazioni, parla di una dama e di una scarpetta e a prima vista sembra voglia commemorare un favoloso riscatto sociale. Oggi la conosciamo come una novella per bambini, tutt’al più un cartone animato che ha per protagonista una diseredata un po’ sfigata, maltrattata da matrigna e sorellastre e rinchiusa tra le pareti della sua ex residenza nobiliare a fare stremanti pulizie domestiche. Il lieto fine è ancora più noto, Cenerentola e il principe, che era riuscito a rimettere assieme calzatura e legittima proprietaria, vissero felici e contenti, ma è molto meno conosciuto che – sparse per l’Europa – di questa storia si ritrovano più versioni di quanto si possa pensare. Generalmente, si fanno risalire a un unico ceppo d’arte, alle raccolte seicentesche del napoletano Giambattista Basile, molto prima cioè dei fratelli Grimm e di Charles Perrault. Tuttavia, l’originaria prima edizione è di gran lunga anteriore, risale addirittura a un retore romano vissuto tra il II e il III secolo d.C., Claudio Eliano che, dopo Erodoto e Strabone, ambientò gli avvenimenti di Rodope la bella etera, schiava di stirpe tracia, nell’antico Egitto. Forse è a causa delle origini collocate tra il Nilo e il mondo greco-romano che questa favola nasconde alcuni risvolti misteriosi, che conducono passo dopo passo al mito di Persefone/Kore e a quello della dea tra le dee, Iside l’Immacolata.

    A prescindere – per quanto possibile – dalla fiaba popolare o d’autore, con una storia ermetica che si perde nella notte dei tempi, Cenerentola cova anche sotto il Vesuvio. È collegata alla vicenda di Piedigrotta la quale, oltre a essere fino a un certo periodo la festa più antica e famosa in Occidente, è anche da sempre un luogo sacro a cui si fanno risalire una serie di enigmatici episodi tra il religioso e il folclorico, che a sprazzi tutt’ora sopravvivono. Tra questi, sebbene con minor devozione e diffusione di un tempo, c’è l’usanza dei credenti di donare un talismano a forma di piede o di scarpetta alle donne da marito, oppure di offrire ex voto della medesima forma alla Madonna del santuario quale riconoscenza di un miracolo di fertilità avvenuto, o anche per chiedere – subito dopo la luna di miele – la grazia di un figlio che non vuole arrivare. La leggenda ispiratrice è detta lo scarpunciello d’a Maronna (la scarpetta della Madonna), sebbene pare più che verosimile che la tradizione e il mito anticipino di gran lunga questa storia straordinaria.

    Le memorie più lontane nel tempo riportano che la Madonna dimorava nella Crypta neapolitana e usava uscire di notte sulla spiaggia adiacente di Mergellina. Una volta la Vergine si attardò e, durante il percorso di ritorno, le si infilò sabbia di mare nella calzatura e ripulendola dalla rena perse la scarpa. All’alba dell’indomani, i pescatori della zona, gridando al miracolo, ritrovarono il sandaletto sulla spiaggia e successivamente, scavando nei pressi della grotta, scoprirono una scultura di legno di Maria: da quel momento le ragazze che si sposavano ricevevano in dono dalla propria madre una scarpetta e un’ampolla piena di granelli di sabbia, ciò che a ragione si potrebbe interpretare una miniatura del palladio di Virgilio. Nelle versioni più recenti, invece, si dice che era una statua sopra l’altare all’interno del santuario ad animarsi e a prendere di tanto in tanto una boccata di brezza marina sulla battigia. Una sera di tempesta, il vecchio sagrestano Bernardino si recò a controllare che tutto fosse in ordine e, trepidando, si accorse che la nicchia era vuota, che qualcuno, insomma, aveva rubato la statua della Madonna. Il prete, non sapendo a quale santo votarsi per tanta disgrazia, si disperò in ginocchio pregando finché, nel bel mezzo della nottata, calarono all’improvviso il vento e il mare e nel silenzio si aprì il portone che fu immerso in una luce più abbagliante di quella di mezzogiorno. Una figura tutta bagnata si presentò sull’uscio, si incamminò lentamente verso il centro della chiesa, si fermò e si levò una scarpa dalla quale scivolò sabbia di mare. C’era burrasca, riferì la Madonna, mi hanno invocata alcuni marinai che stavano affogando tra le onde. Si può ben credere che tutto ciò a Bernardino non parve vero, il parroco tornò nella sua stanza in preda a una febbre che lo faceva vaneggiare, poi decise di correre a svegliare l’abate con il quale voleva condividere il miracolo: la statua era nuovamente al suo posto ma aveva il mantello ancora umido e… un piede nudo. La calzatura benedetta, si racconta, fu ritrovata ancora sporca di sabbia nell’androne del santuario.

    Le anime purganti e la livella

    A dispetto di chi crede che i napoletani siano inguaribilmente superstiziosi, quando qualcuno vi passa davanti non si segna, e neppure evita di imbattersi con la presunta malasorte incamminandosi per il giro largo alle sue spalle. Piuttosto, fa scorgere un profondo senso di deferenza. La vulgata la conosce come la chiesa d’e cap’e morte, dei teschi. La sua facciata barocca è inquietante: oltre a essere grigia e ombrosa a causa del piperno dominante e la scarsa illuminazione del vicolo, quattro (ora tre) capuzzelle di bronzo assise su altrettanti paracarri poggiano i denti dell’arcata superiore su tibie a croce, e gli occhi cavi – come cupe porte d’accesso agli Inferi – fissano i passanti con un ghigno privo di mandibola che proviene direttamente dall’aldilà. I più temerari, per rispondere al monito silenzioso dello sguardo vacuo delle teste di morto – memento mori, ricorda che devi morire –, dopo aver serrato le altre dita nel palmo della mano, osano inserire l’indice e il mignolo nelle orbite inespressive come per dire: Questa volta non tocca a me. E lambiscono la calotta cranica che è diventata lucida per i secoli di amorevoli e riguardose carezze. Stiamo parlando di uno dei principali luoghi di culto napoletani, uno dei tanti dedicati alle anime pezzentelle: la chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco.

    Dagli inizi del Seicento, l’edificio sacro si affaccia con tutta la propria memoria funeraria sul Decumano Maggiore, oggi via Tribunali. Fu costruito grazie alle ingenti somme raccolte dalla nobiltà partenopea, in quanto i committenti finanziatori si convinsero di trovare in questo modo un tragitto spiccio per redimersi dai propri peccati, e ai fondi provenienti dagli offertori destinati a dir messe per i defunti senza nome. Secondo la logica dello scambio delle indulgenze, i migliori contribuenti ebbero licenza di utilizzare la casa del Signore come sepolcro personale, un luogo dove poter accelerare la permanenza in Purgatorio. Napoli, tuttavia, sia che si tratti di ricchi commercianti sia di aristocratici rampolli, non ha mai separato drasticamente la gente del popolo dagli altolocati, specie davanti al sonno eterno che – come ha scritto il principe Antonio De Curtis in arte Totò, probabilmente ispirandosi ai Dialoghi dei morti di Luciano di Samosata del II secolo a.C. – «è una livella». Qui, nella terra santa di questa chiesa, blasonati e lazzaroni dormono insieme in attesa del riscatto.

    Lo stabile ha il fronte rientrato di qualche passo rispetto alla strada e il piano della basilica è rialzato di qualche metro, come se volesse rappresentare uno stadio intermedio o una ascesa a metà, una sosta temporanea tra il sottoscala e il Paradiso. Tra angeli volanti, femori incrociati a ics e pomi di melograno, il famoso teschio con le ali piumate dispiegate, con la bocca spalancata e i denti sbeccati campeggia dietro l’altare maggiore: è un chiaro ammonimento alla caducità dell’esistenza e invita a toccare con mano, a proseguire, cioè, con rispetto, nell’ipogeo sottoposto dove si confondono ossa agiate e ossa sventurate, i resti mortali di chi ha pagato uno sconto di pena con ducati sonanti e di chi beneficia dell’amore gratuito dei curatori, il rinfresco. Al sepolcro vi si entra da una rampa di scala che scende direttamente dalla strada, una volta consentiva l’accesso anche quando il tempio era chiuso poiché i morti non godono di ferie. Ceri accesi, lumini, preghiere, biglietti e finanche i più moderni post-it, effigi di santi e fiori (quasi) sempre freschi: con tale parata devozionale la gradinata antica apre al vero luogo in cui si respira aria di santità e magia arcaica, quello sotterraneo, dove sono deposte immagini rosicate dal tempo, fotografie sbiadite, ritratti che sembrano ombre evanescenti, sepolture in terra santa e resti scomposti a vista. Poi, le nicchie e gli scaravattoli, le gabbiette di legno nelle quali riposano i frammenti diseredati e adottati dalla pietas popolare su cui si concentra ’o rifrisco, ossia la cura meticolosa nei confronti delle miserabili reliquie ignote, un tentativo di baratto mistico a metà tra sacro e profano: una preghiera che favorisce l’assunzione in Paradiso potrebbe indurre l’anima del defunto a portare buona sorte, una grazia e, caso mai, qualche numero benedetto da giocare al lotto. È qui che, tra schegge, ossa e crani autentici e consunti, tra spoglie mischiate e candide stele marmoree, deposta su un cuscino c’è la capuzzella con il velo da sposa incoronato di Lucia, una ragazza sciagurata che da pezzentella anonima è divenuta uno dei personaggi più popolari delle storie che si raccontano. Ognuno dice la sua, tutti però la chiamano o Principessa o la Moglie vergine. C’è chi la vuole congiunta in matrimonio con il proprio amato e colta da doppia sciagura durante il viaggio di nozze, in quanto sarebbe annegata prima di consumare; chi, invece, storicizza la leggenda e la dà defunta a soli sedici anni: unica figlia del principe di Ruffano nonché marchese di Ugento, don Domenico D’Amore, Lucia sposò il marchese di Santomago, Giacomo, ma subito si ammalò di tisi e morì nel 1789. Altri ancora la vogliono deceduta di crepacuore tra le braccia del marito che era molto più anziano di lei, o tra quelle del padre; oppure ricordano che la sventura prese le forme del colera che si sarebbe sovrapposto alla tisi che la tormentava da tempo. Fatto è che i suoi resti adorati e miracolosi sono in particolar modo confortati dalle signorine che, pregando per la Principessa, trovano marito. Gli ex voto per grazia ricevuta, adagiati vicino alla testa di Lucia, sono la testimonianza concreta che talvolta la patrona della zite (zitelle) risponde agli appelli e sa mettere la giusta parola per combinare matrimoni. Anche dall’oltretomba.

    Trentaquattro, ’a capa ’e morte

    Si invocano le porte dell’Ade. Questa città che di volta in volta spinge varchi verso il mondo dell’altrove, in quel lungo, interminabile dialogo intrapreso con il Regno dei Morti.

    Arape na port, arape na port, arap na port… mormora la voce delle donne come un mantra nel via vai che percorre i viali del cimitero delle Fontanelle, invocando le anime del Purgatorio. La distanza è una sensazione, sulla soglia della morte c’è una vicinanza mai compresa. Da una parte, su un bordo, restano gli uomini, oltre il baratro, sulla soglia altra ci sono le anime purganti, che invocano il perdono divino nella dimensione sospesa del passaggio. Queste anime «così lontane, così vicine […] soggetti di un culto segnato dalle stimmate del Mistero e della Precarietà» (Franco Salerno, La vita, la festa e la morte). Il limite è la differenza reiterata, nella soglia si compie la distanza e si mette in relazione chi è in contatto. Passi misurati con parsimonia rispecchiano, senza saperlo, chi ci si trova di fronte. La distanza è minima e invita al passaggio.

    Le porte si spalancano, sotto l’invocazione insistente delle donne: le Fontanelle come Cuma, le Maeste come sibille, una porta trapezoidale come accesso estremo che solo una preghiera può superare. La consolazione del congedo è per chi resta.

    Un culto di femmine, questo ipogeo gigantesco, cimitero consolatore di resti anonimi nel cuore del Rione Sanità. Sei caverne, sei grotte illuminate da un’unica porta voluminosa; cataste e collinette di teschi, femori, omeri, tibie appoggiati alle pareti delle caverne, lavorio decennale di pietose e devote operazioni popolari. Di donne che hanno scavato, pulito, collocato uno a uno quegli avanzi. Sono madri senza figli, sono vedove senza mariti, sono donne sole. Quello delle capuzzelle è il culto femminile che nasce dall’esigenza di una consolazione collettiva ai tanti lutti anonimi. L’elaborazione di un rito liminare che combatte il soffocamento, la censura, aprendo varchi non ufficiali, come accadde quando la Chiesa ne impose la chiusura, nel 1969, vietando il culto dei morti e delle ossa, lasciando le "anime pezzentelle senza prefiche. Da allora il culto è diventato occulto, si nasconde, resiste e si rinnova ancora oggi, quando i ragazzi in visita lasciano i biglietti Unico" ex voto, quando arrivano in metro o in autobus a fare visita.

    Requie, repuoso, refrische, cunzuolo, mormorava il Caposquadra, Requia Materna, rispondeva il coro. Requia Materna perché il sentire collettivo evocava in questo culto materne e supreme protezioni femminili, al punto da rielaborare la preghiera stessa. I requiem da eterni diventano materni, nell’elenco di anime da affidare all’utero oscuro.

    Requie, repuoso, refrische, cunzuolo. Requia Materna ripetevano per tre volte, fino a quando il rito non tornava individuale, con i suffragi indirizzati alle anime chiamate per nome.

    Caposquadra: Guè, pè l’anema ’e Giuvannino!

    Coro: Requia Materna.

    Caposquadra: Guè, pè l’anema ’e Nanninella ca murette sgravanno!…

    Coro: Requia Materna.

    Caposquadra: Guè, pè l’anema ’e Vincenzino ca s’accerette ’a coppo ’o ponte ’a Sanità!…

    Coro: Requia Materna.

    E per finire, un coro di donne per la preghiera in suffragio delle anime degli appestati:

    Io ve chiammo aneme tutte,

    Aneme appestate cchiù de tutte;

    Mò che nnate a Dio state

    A me miscina scunzulata

    E nun ve ne scurdate

    Pregate alla nostra divina clemenza.

    Arapitece ’e porte de la santa divina pruverenza.

    Si faceva lentamente sera e il custode allertava le Maeste perché accelerassero la conclusione delle preghiere… e le donne si avviavano verso l’uscita non prima di aver concluso per la decima volta la giaculatoria finale, che, alle loro spalle, ancora riecheggiava nelle caverne:

    Requia materna, erona romine, sparpetua

    Lucia ’nterna

    Schiatte in pace.

    Amen.

    (tratto da Il camposanto delle Fontanelle di Luciano Sola)

    Tra le ossa dell’antica cava si ricongiungono le memorie millenarie delle mantiche celtiche, i teschi parlanti delle tradizioni nordeuropee, i teschi colorati messicani, con le "capuzzelle" napoletane. Nell’aspirazione umana di mettere in comunicazione i vivi e i morti per comunicare con l’aldilà. «Queste porte – gli ingressi dei passages – sono soglie», scrive Walter Benjamin nel suo I «passages» di Parigi, quasi a sottolineare una condizione umana transitiva, più che transitoria, dove nessun gradino di pietra le contrassegna come tali, ma lo fa l’atteggiamento di attesa delle persone.

    Nel Seicento, nel popoloso Rione Sanità, continue emergenze cimiteriali trasformarono una vecchia cava di tufo nel più grande ossario della città. Tra l’aprile e il luglio 1656 si raccolsero i resti di un numero impressionante di napoletani, vittime di epidemie di peste. Ai galeotti fu imposto il compito di seppellire quei corpi, un provvedimento straordinario accorpò resti su resti senza inumazione, senza riconoscimento alcuno. Si scavarono perfino strade e piazze per fare posto ai corpi. Il 7 agosto, una provvidenziale pioggia purificò l’aria e spense la pestilenza. Napoli restava decimata per metà della sua popolazione. Gli anni successivi si cercarono soluzioni per quelle sepolture.

    Il rito collettivo della morte è la riposta della plebe alle sepolture esclusive nobiliari. Nei periodi di epidemia si seppelliva extra-moenia, mentre i nobili, e chi poteva permetterselo, restavano a farsi seppellire nelle terresante delle chiese cittadine. La Sanità è il quartiere extra-moenia delle sepolture, dei riposi eterni, fin dall’epoca più antica.

    Altri teschi sono venerati, nella Basilica di San Pietro ad Aram, alla Basilica di Santa Maria del Purgatorio ad Arco, Santa Maria del Pianto… Ma solo in questo cimitero si verifica il trasudamento dei teschi, umido umore che ricorda l’essudazione nelle mitologie religiose arcaiche dal valore creatore. I teschi che sudano come sudò il dio Supremo quando diede vita all’uomo.

    La visita a queste cave determina l’adozione. È il defunto che in sogno sceglie il suo devoto. I suoi resti saranno adottati, il suo teschio sarà distinto dagli altri, carezzato, lucidato, baciato devotamente prima di essere riposto, protetto in una teca di legno, di vetro, di scatole di biscotti, scarabattole popolari che ne segnano la proprietà con una targhetta.

    L’anima che troverà refrisco, sollievo, nelle preghiere del vivo, ricambierà proteggendo i familiari, esaudendo suppliche, fornendo numeri vincenti per il lotto. Trentaquattro fa ’a capa ’e morte!

    Le corna, come fu

    che spuntarono a Napoli

    L’Italia è un Paese che si fonda sulle corna. Senza offesa.

    È tutta l’Europa che risente dello stesso destino. La stessa donna che vi diede inizio. Tutto si mosse dopo che il Toro Zeus ebbe fecondato la fanciulla, Europa. In quel macabro rituale di possessione violenta così familiare agli antichi miti, greci e romani. Le sue corna sono il suo attributo. Come le corna degli animali sono capostipite di tutti gli amuleti.

    ’O curniciello adda essere tuosto, vacante, stuorto e cu’ ’a ponta, si dice a Napoli, poche regole essenziali per proteggersi dalla malasorte. Duro, vuoto, arcuato, appuntito. E regalato, un dettaglio fondamentale. Se nascosto alla vista è ancora meglio. Che sia rosso è necessario. L’efficacia, vera o presunta, deriverebbe dall’essere oggetto appuntito, capace di offendere o di difendere, ma anche il turgido esempio legato all’immagine del membro virile nell’atto della sua massima espressione. L’uso apotropaico che si muove richiamando a sé un’idea di fecondità e di abbondanza.

    È dall’antichità che le protuberanze portano con sé meriti superiori: gli obelischi in Egitto, i monumenti di Delo, le costruzioni falliche della Persia e della Fenicia, le torri d’Irlanda e Scozia, i monoliti della Francia e della Corsica, i sassi piantati a Cuzco o nelle Indie, alcuni edifici polinesiani e giapponesi, alcune monete macedoni, le tombe etrusche, i Dolmen in Gran Bretagna, Sardegna, Malta e Spagna, i cippi agricoli in Puglia, Albania e Grecia, oltre a testimonianze sulla religione orgiastica di Dioniso e nei baccanali… eppure è Napoli la città per eccellenza del fallo-corno portafortuna. Il peperoncino, rosso, storto come un corno, piccante abbastanza da allontanare le malelingue, abbastanza da renderlo erotico e fertile, o le pitture della Villa dei Misteri della vecchia Pompei, pagana e ierofallica.

    Culti sopravvissuti fino a oggi, anche se mimetizzati sotto altre forme, come la Sagra dei gigli a Nola: altissime (e antiche) macchine da festa, straordinari apparati dall’altezza vertiginosa che scivola e oscilla tra le strade strettissime della città vescovile. Imponente nei suoi 2000 anni di tradizione. Un culto che ricorda Osiride fatto a pezzi da Seth, e Iside che lo ricompone, mentre un pesce del Nilo ne mangia il fallo, l’unico pezzo mancante. Si dice che i faraoni abbiano compensato quella mancanza ergendo straordinarie costruzioni fino al cielo. E che i Romani, quando conquistarono l’Egitto, per prima cosa gli castrarono proprio gli obelischi.

    Potenzialmente – scrive Scott – tutti gli oggetti appuntiti o protuberanti possono assumere una connotazione fallica (G. Ryley Scott, Phallic Worship). Ma questo corno nostrano altro non è che il fallo stilizzato di Priapo, custode dei campi e protettore del malocchio, dio della prosperità. Connesso e confuso con il culto di Dioniso, tra il III e il II secolo a.C., il segno di Priapo penetrò in Italia trovando grande integrazione per il forte legame con il mondo agricolo e pastorale. Falli abnormi in erezione.

    Messo al collo dei ragazzi (lo descrive anche Varro, nel suo De lingua latina, VII, 97) o al dito dei bambini per protezione, il fallo era frequente anche nelle tombe. Una protezione per il defunto, ma anche una sentinella che mantenesse le anime nei sepolcri. Non a caso Priapo veniva anche chiamato il custos epulcri (pene destricto deus / Priapus ego sum; mortis et vitai et mortis locus).

    E ancora Pompei, ma anche Ercolano, tornano a raccontarci di falli pubblici, sui muri, sui pavimenti, su costruzioni di ogni tipo. Non si tratta di segni casuali, dettati dall’ispirazione di un graffitaro d’altri tempi, ma di simboli apotropaici attentamente eseguiti, più frequenti, come è evidente, in luoghi soggetti a potenziale pericolo, come angoli di strada, ponti e ingressi.

    Un fallo famoso è scolpito su un riquadro di travertino accanto a una scritta: Hic habitat felicitas (qui dimora la felicità), un augurio e simbolo protettivo, piuttosto che lo spot (come sostengono in molti) di una casa di piacere. Numerosi altri falli sono sparsi per le antiche strade archeologiche accompagnati da altrettanti fraintendimenti e maliziose interpretazioni. Un’approssimativa (e troppo prevenuta) spiegazione ha sempre letto questi simboli come volgare, oscena celebrazione di promiscuità. Eppure, i bassorilievi ben esposti sulle mura delle case e della città, nelle tombe, con le erme nei crocicchi, nei campi e nei piccoli templi dedicati, da un’analisi più attenta si riconoscono come simboli portafortuna, e il loro senso non è più erotico di quanto non lo siano i nostri più comuni ex voto.

    A questo punto immaginiamo di saperne abbastanza, ma raramente dai racconti di falli e di corna emerge il vero segreto del meccanismo di protezione, quello che si innesca indossando un curniciello. È una protezione, senza dubbio, ma non perché, come si crede, crei intorno a chi lo indossa uno scudo protettivo (semmai quella punta potrebbe rompere l’aura negativa) ma, piuttosto, perché rafforza il radicamento (principio di fertilità) e il collegamento col mondo celeste (principio solare e di regalità) fino ad annullare l’attacco della iettatura, agendo come potenziatore esponenziale della propria energia luminosa. È la nostra forza che viene potenziata, tanto da sconfiggere il male.

    E qui torniamo a Zeus, il padre degli dei, in versione Toro, alle prese con la bellissima Europa. Non solo perché lui stesso avrebbe regalato alla sua nutrice un corno magico per ringraziarla delle sue cure, ma anche perché il nome stesso di corno (come quello di corona) si ricollega in modo manifesto alla radice KRN. La somiglianza di memoria latina (cornu e corona), ma anche la posizione e il significato simbolico di potere. La corona sta in testa, come le corna, come la punta di un vertice, la cima di una piramide. La corona in origine era un cerchio ornato di punte a forma di raggi; e le corna erano similmente considerate raffigurazioni dei raggi luminosi. La stessa Iside ostentava belle corna sul capo (e per traslato anche qualche Madonna nostrana).

    L’epiteto "cornuto dovrebbe dunque essere inteso come attributo di potenza, accolto come un complimento, ma non è più così. I napoletani, in particolare, per sottolineare la mancanza di corna e quindi di potenza, risolvono, per offesa, con la parola scurnacchiato", uno mancante di corna, se non addirittura uno a cui le corna le hanno rotte.

    «Non è vero ma ci credo», sostenevano i fratelli De Filippo. E così, anche per i più fermi devoti alla ratio di matrice illuminista, nel dubbio, in presenza di jettatori, senza grandi interrogazioni si provveda, di nascosto, a strofinarlo energicamente. Male che vada, non può fare che bene!

    Omnia mala fugat:

    precauzioni contro

    la jettatura

    Benché Matilde Serao abbia forzosamente voluto stigmatizzare che «tutte le superstizioni sparse nel mondo sono raccolte in Napoli e ingrandite, moltiplicate poiché la sua credulità è frutto dell’ignoranza, della miseria e delle sventure che a Napoli si sono alternate dai diversi attacchi del colera all’eruzione del Vesuvio nel 1872», che la iettatura non sia un fenomeno esclusivamente partenopeo è bene precisarlo subito. A distinguerla dal resto del pianeta Italia, caso mai, è una j al posto della i: jettatura, più che essere una parola in napoletano, però, conserva la lettera arcaica del latino jactàre, cioè mandar fuori, effondere. Poi, c’è quella che l’antropologo Ernesto De Martino ha definito addirittura una ideologia nata in ambienti colti, fatta tale dall’attenzione posta dagli illuministi di Napoli.

    Dopo le dotte osservazioni di Giovan Battista Della Porta nel De magia naturalis a proposito dell’influenza malefica («de’ raggi che sian fuori da gli occhi, e che sono vehicoli de’ spiriti» che giungono al margine del cuore del «riguardante» e «diventano sangue»), a gettare nuovi spunti di riflessione, con un godibilissimo compendio sulla sventura provocata, è stato il brillante docente universitario di Diritto civile Antonio Valletta. Nella sua famosa Cicalata in difesa del fascino volgarmente detto jettatura, in una riunione rivolta agli amici Accademici nell’abitazione del marchese di Villarosa, nel 1787, il giureconsulto discettò a lungo sull’argomento definendolo un «cicaleccio» e un «soggetto scherzevole». In verità, nella stessa occasione precisò pure che egli stesso era stato vittima di un grave maleficio dal momento che gli morì la figlia in fasce, «mirata appena con occhio torvo ed obliquo da un empio jettatore». Benedetto Croce, molti anni dopo, affermò che a parer suo Valletta avesse inteso indulgere a un capriccio alla moda della società dell’epoca e che aveva composto soltanto una fiction letteraria. Lo stesso Croce, però, all’asettico storicismo critico sul quale fondò il proprio pensiero, pare che nell’intimità contrapponesse un atteggiamento diverso. In un aneddoto si racconta che nel 1915, parlando con l’amico Karl Vossler a proposito del primo conflitto mondiale che vedeva Italia e Germania in guerra, il filosofo ebbe a dire: «Sapete, Vossler, al posto vostro non piangerei troppo sulla sorte dell’Italia. Vedete, noi siamo un poco jettatori: la storia ci insegna che chi prende le armi contro l’Italia, finisce sempre male». Del resto, non fu lo stesso Croce ad affermare: «Non è vero, ma prendo le mie precauzioni»?

    La leggenda popolare vuole che il cupo personaggio che porta iella, facendo andare sempre le cose di traverso, sia facilmente riconoscibile da alcuni tratti caratteristici, allo stesso modo di Alexandre Dumas padre, che aveva dipinto un losco figuro descrivendolo magro ed emaciato, con il naso ricurvo e gli occhi dilatati come quelli di un rospo abitualmente nascosti da occhiali scuri. «Se costui vi ha scorto per primo», scriveva Dumas nel Corricolo, «il male è fatto e non c’è rimedio: chinate il capo e aspettate. In caso contrario, se non avete ancora incontrato lo sguardo, presentategli il dito teso e le altre dita piegate: il maleficio sarà scongiurato. Et digitum porrigito medium, dice Marziale». Cioè, l’anulare proteso tra l’indice e il medio chiusi: il segno apotropaico utilizzato per disinnescare il flagello incombente è il simbolo del corno, quantunque sia noto che è preferibile raddoppiare con le classiche corna a due dita. L’antidoto fu consigliato anche da Francesco Mastriani ne La cieca di Sorrento (1852), in cui definì corna e ferro di cavallo «preservativi agli occhi avvelenatori». Suggerimento che, evidentemente, doveva essere già particolarmente diffuso visto che, nella seconda metà dell’Ottocento, Renato Fucini descrisse l’intera città di Napoli come tappezzata da talismani: «Corna nelle botteghe, corna nelle case; amuleti alle catene degli orologi, agli anelli, ai pomi delle mazze, amuleti da per tutto. Famiglie intere di oneste e rispettabili persone sono rigettate dal consorzio civile, perché sospette di comunicare il malefico influsso. Passa un gobbo, passa un cieco, uno storpio, c’è lo scongiuro particolare da farsi per scansare l’atroce pericolo».

    La fascinazione (ovvero l’incantamento), indotta dagli jettatori che si presumono dotati di poteri nefasti che si scaricano sulle vittime designate, ha radici assai antiche. Già il termine (utilizzato pure da Valletta) «fascino» riporta all’ammaliamento al quale è possibile sottrarsi utilizzando il simbolo del fascinum (sinonimo di veretrum, alias il membro virile), emblema della fertilità associato alle corna che coronano il capo del maschio fecondo, e tradotto nella bulla, un piccolo pene chiuso in un astuccio e appeso al collo degli infanti di Roma fino al raggiungimento dell’età da toga virile. Verrebbe da qui l’azione scaramantica cosiddetta della toccatina alla sorgente della vita che esorcizza ogni ascendente nefasto e vampirico. Oggi, però, è malvista dalla Suprema Corte la quale ha sancito che l’auto palpeggiamento propiziatorio dei genitali costituisce reato di decenza. Pertanto, oltre al gesto rituale, rischia di finire in soffitta o con una pesante ammenda anche il detto in latino maccheronico che solitamente lo accompagna: raptatio pallorum omnia mala fugat.

    Pareti intonate

    Lungo la parete di pietra, oltre le punte di diamante, si leggono i segni di rune antiche quanto la leggenda che le vorrebbe messaggi segreti di comunità massoniche, nello spazio esoterico che, da tremila anni, racconta di inconfessabili intrecci tra alessandrini e greci, tra muratori e alchimisti, tra storici e narratori. Piazza del Gesù fornisce cauta piccoli suggerimenti per i suoi segreti.

    Memento mori, e su tutto l’eterno baratro, gridato dal pulpito – allegoria della vita degli uomini perfetti – dai minacciosi gesuiti. Ricordati che devi morire, con la Madonna sulla punta dell’obelisco, che di schiena, nella penombra, ricorda la morte armata di falce.

    Infine il fronte quattrocentesco della chiesa con la faccia di bugnato, proprietà dei Sanseverino, luogo per eccellenza della dannazione e del mistero. Nella lunga estenuante battaglia di una delle più illustri casate storiche, è la prima delle sette grandi Case del Regno di Napoli. Potente e detestata.

    Il viceré li maledì. Ne maledì la generazione fino alla definitiva estinzione. E così fu, pare. I Sanseverino persero ogni proprietà e morirono erranti alla ricerca di giustizia; loro che per giustizia avevano combattuto l’Inquisizione.

    Bisogna mettersi di traverso, luce del sole a favore, per illuminare le schegge di incisioni che emergono lentamente dalla pietra nera. Simboli indecifrabili. Bugnato in piperno, a punta di diamante, opera di Novello di San Lucano (1470), che si firma in un’epigrafe sulla facciata a sinistra. Le iscrizioni sulle bugne sarebbero invece, come d’uso medievale, marchi di riferimento ai singoli lapicidi. Anonimi artisti e artigiani medievali, che superano il tempo riportando indicazioni sulla pietra per montare con esattezza il tappeto di miniature perfette di piramidi aggettanti verso l’esterno, vertici puntuti che fissano l’osservatore.

    Ma è mai possibile che i Sanseverino permettessero che si prendessero appunti sulle loro pietre? Sulla facciata del loro più prestigioso palazzo? In molti ipotizzano piuttosto che Roberto, capostipite dei Sanseverino, abbia chiesto l’intervento di esponenti dell’esoterismo alchemico, perché componessero per lui su quella facciata una chiave propiziatoria. Una composizione che si sarebbe rivelata tutt’altro che favorevole, considerato il destino infelice della famiglia. È probabile che sia stata assemblata male? O che, per una cospirazione segreta, la corporazione stessa abbia ordinato i segni con un maleficio?

    La piazza si tende in un contrasto permanente di lotta tra bene e il male: una guglia piantata nel mezzo, opera di Pepe il gesuita, gli uomini dell’esercito di Cristo, educati come i più duri dei soldati. Il prete nero che con la seduzione della salvezza aveva rastrellato le finanze dei fedeli ergendo il più noto e commovente obelisco napoletano, dopo aver acquistato nel 1584 la dimora nobiliare per 46.000 ducati, dalla famiglia caduta in disgrazia, i beni confiscati e messi in vendita, fino alla cacciata dei corvacci, il 21 novembre del 1767: «Dimessi e aboliti li Padri della Compagnia di Gesù da tutta la città e regno per ordine del Sovrano Ferdinando IV» (Florio Vincenzio, Memorie storiche).

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