La fratellanza del Graal
By Martin Rua
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eNewton Narrativa
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La fratellanza del Graal - Martin Rua
871
Questa è un’opera di finzione. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in maniera fittizia, e qualunque somiglianza con persone, viventi o defunte, aziende, eventi o località reali è da ritenersi puramente casuale.
Prima edizione ebook: gennaio 2015
© 2015 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-7584-6
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Librofficina
Martin Rua
La fratellanza del Graal
A Silvana, Fabrizio, Alessandro
e tutti gli amici dell’Isola d’Elba
Prologo
Persia, autunno 7 a.C.
Gundophar rimase in silenzio, lasciando che le parole pronunciate un attimo prima facessero il loro effetto. Gli altri due uomini – Magupati come lui, uomini saggi e astrologi abbigliati con tipici berretti conici ripiegati in avanti, brache e mantelli – lo fissarono per qualche istante, quindi tornarono a rivolgere lo sguardo alle stelle. Era una fredda notte di fine autunno, con un cielo limpido ideale per osservazioni astronomiche, perfetto per studiare l’importante fenomeno astrale che li aveva portati in cima alla ziqqurat.
«I due pianeti, Hormouz e Keivan, in congiunzione nella costellazione dei Pesci», sussurrò Larvandad dopo alcuni secondi trascorsi a osservare il cielo. «Attendevamo da tempo questo fenomeno».
Hormisdas annuì e stringendosi nel mantello spostò lo sguardo verso l’orizzonte ancora immerso nell’oscurità. «Se questo è il segno, dovremo preparare il viaggio al più presto, così da giungere lì in primavera».
«Sì», confermò Gundophar. «E lungo il cammino dobbiamo fermarci al tempio di Adur Gushnasp per prendere il dono più prezioso».
Hormisdas e Larvandad si guardarono e Gundophar colse la leggera preoccupazione nei loro occhi. Lui, il più anziano dei Magupati, aveva l’ultima parola e la responsabilità della missione da intraprendere. Usò la dolcezza della voce e le prove dei loro precisi calcoli per convincere gli altri due.
«Non dobbiamo temere, fratelli. Il cielo ci ha rivelato il segno che attendevamo, così come secoli fa ci ha mandato la pietra di fuoco che ancora custodiamo. I due pianeti allineati indicano la direzione da seguire. Cos’è che vi preoccupa?»
«Venerabile Gundophar, non è l’esattezza di quel che leggiamo nelle stelle che ci turba, ma il fatto di donare anche solo un frammento della pietra a degli stranieri», obiettò Hormisdas. «Cosa succederebbe, se il suo potere venisse usato per scopi malvagi?».
Gundophar sorrise. «La pietra non può essere usata per fare del male, lo sai, buon Hormisdas. Essa è stata creata da Auramazdā affinché pochi uomini saggi possano adoperarla per il bene. Non ha alcuna utilità tra le mani di un malvagio».
«Anche l’uomo più retto, operando nel bene, può cadere in errore e fare del male, venerabile Gundophar», intervenne Larvandad, di solito sempre silenzioso.
«È vero», ammise l’altro. «Ma noi non andiamo a rendere omaggio a un semplice uomo. Noi andiamo a onorare la nascita di un maestro che molti chiameranno… re!».
PARTE PRIMA
LCP
48
1
Herculaneum, 48 d.C.
La brezza che soffiava dal golfo, unita al tepore di quel giorno d’estate, invogliava ad attardarsi volentieri sulla terrazza affacciata sul mare. E Lucio non perdeva occasione per godere di quel privilegio. Nei giorni di bel tempo preferiva restare a leggere sotto la tenda di lino che aveva fatto posizionare proprio davanti alla balaustra, piuttosto che occupare una delle numerose diaetae che circondavano il peristilio, sale da soggiorno sicuramente più fresche e accoglienti.
Valeva la pena soffrire un po’ il caldo, se quello era il prezzo per stare più vicini al mare.
Quel giorno poi, Lucio attendeva l’arrivo di una nave dalla Giudea e non stava più nella pelle. Era la terza volta che rileggeva un epigramma di Filodemo, poeta greco già ospite più di un secolo prima nella villa del suo illustre avo Lucio Calpurnio Pisone Cesonino.
Consapevole che non sarebbe riuscito a concentrarsi nella lettura di quel licenzioso componimento in greco, appoggiò il rotolo sul tavolino e si versò un goccio di quel mulsum eccellente e non troppo pesante che gli aveva procurato un amico di Surrentum. Ne bevve un sorso e tornò a scrutare il mare. Dopo qualche istante notò un’imbarcazione provenire da sud. Si alzò quasi di scatto dal triclinio sul quale era disteso e si avvicinò alla balaustra. Avvertì subito il tepore del sole sulla pelle e sentì tutto il corpo riscaldarsi, anche perché indossava soltanto una tunica leggera di costoso cotone indiano. Quasi contemporaneamente, qualcuno uscì sulla terrazza e lo raggiunse. Avvertendone la presenza, Lucio si girò e incrociò lo sguardo di una graziosa fanciulla bruna, una liberta giudea alla quale era molto affezionato.
«Sara, sono dunque giunti?»
«Sì, domine», rispose la ragazza con un leggero cenno del capo. «Sto approntando tutto per accoglierli».
«Mi raccomando, confido nella tua discrezione. Se qualcosa dovesse trapelare, sarei nei guai».
«Non dubitare, domine, viaggiano sotto false identità e occuperanno l’ala più lontana della villa. Saranno come ombre».
Lucio sorrise e tornò a guardare il mare. «Grazie, Sara».
Dopo poco più di un’ora, uno schiavo andò a chiamare Lucio che intanto si era spostato in uno degli scriptoria.
«Domine, gli ospiti sono nei loro alloggi e Sara è con loro, come avevi chiesto».
Lucio alzò di scatto la testa e i due schiavi intenti a ricopiare dei testi si accorsero della sua agitazione. «Molte bene, Barbarianos, li raggiungo subito. Che nessuno ci disturbi».
«Sarà fatto, domine», disse ossequioso lo schiavo, ritirandosi.
«Continuate, ci vediamo dopo», fece Lucio rivolto agli scribi, quindi uscì dallo scriptorium e percorse lo splendido peristilio che circondava l’enorme piscina, passando in rassegna con lo sguardo le statue in bronzo e marmo che la decoravano. Sorrise ammirando la statua di un satiro che amoreggiava con una capra, una delle più licenziose della collezione di famiglia. Non era proprio opportuno che i viaggiatori venuti dalla Giudea vedessero di quali sconcezze erano capaci i patrizi romani.
Giunse nell’ala della villa destinata ad alloggi per gli ospiti e ordinò agli schiavi che lo lasciassero solo in compagnia dei nuovi arrivati. Fu accolto da Sara sulla soglia dell’atrio ma, ancor prima di attraversarlo, il suo sguardo superò rapido il piccolo impluvio posto al centro della stanza e raggiunse il tablino, la porta del quale era rimasta aperta. Dal tablino, profondi come le notti nel deserto di Giudea, gli occhi di una donna di circa quarant’anni, circondata da altre quattro persone, tra cui due bambini, lo fissarono intensamente.
Lucio si avvicinò al gruppo e subito gli ospiti s’irrigidirono in segno di rispetto. «Vi prego, sentitevi come a casa vostra», disse il padrone di casa affabile.
La donna fece per alzarsi dallo sgabello imbottito sul quale sedeva, ma fu Lucio invece a sederle accanto. «Resta pure seduta, il viaggio deve essere stato estenuante».
«Non è la fatica fisica che pesa, domine, ma quella del nostro animo», disse sorridendo malinconicamente, con una voce graffiante e sensuale. Parlava