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I 100 delitti di Milano
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I 100 delitti di Milano

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Crimini, intrighi, stragi e omicidi. Duemila anni di storia scritta con il sangue

La storia di Milano è fatta anche di atroci delitti, omicidi che per la loro portata hanno cambiato il corso degli eventi, scandito la brusca chiusura di epoche e domini, o l’inizio di nuove, travagliate stagioni di violenza e di incertezze. È una storia che inizia dal martirio dei primi santi cristiani, prosegue con le lotte di potere nelle corti rinascimentali, con gli assassini seriali, le esecuzioni “politiche”, termina con i casi della cronaca nera contemporanea. Le vendette consumate al tramonto del ventennio fascista hanno dato seguito alle lunghe stagioni “di piombo” del terrorismo, agli atti più efferati della delinquenza comune e della criminalità organizzata, ai delitti “griffati” consumati nell’ambiente del jet-set e a quelli di strada, opera di gang giovanili. Molti di questi fatti hanno suggestionato le folle, ispirato letterati, convinto storici e ricercatori a scavare in profondità, nelle vicende, nella psicologia dei criminali e nei motivi che li hanno spinti ad agire, fino a svelare scomode verità. Non tutti i delitti raccolti hanno trovato una solida spiegazione, e qualcuno di essi neppure un colpevole, lasciando in bianco, forse per sempre, l’ultima pagina della loro narrazione.

Duemila anni di delitti, misteri e stragi, dal martirio dei santi ai giorni nostri

• Linciaggio annunciato: Giuseppe Prina
• Delitto a fumetti: Ernestina Beccaro
• Una canzone per la Rosetta: Elvira Andressi
• Il delitto della Cattolica: Simonetta Ferrero
• Il killer venuto dall’America: Giorgio Ambrosoli
• Terroristi per gioco: il giornalista Walter Tobagi
• L’arciere folle: Lorenzo Bignamini
• Non c’è pace fra le gang: David Betancourt
• La legge del più forte: Luca Massari

E tanti altri delitti…
Andrea Accorsi
(Legnano 1968), giornalista professionista e ricercatore, lavora come capo servizio della redazione interni in un quotidiano nazionale. Studioso di storia del giornalismo e di criminologia, per la Newton Compton ha scritto molti libri e saggi sull’argomento.
Daniela Ferro
(Milano 1977), giornalista pubblicista e saggista, ha scritto diversi libri, tutti editi dalla Newton Compton.
LanguageItaliano
Release dateNov 19, 2014
ISBN9788854173538
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    I 100 delitti di Milano - Daniela Ferro

    es

    273

    I fatti narrati nel presente saggio fanno riferimento a fatti di cronaca ed a varie inchieste giudiziarie, alcune delle quali sono ancora in corso. Tutte le persone coinvolte o citate a vario titolo, anche se condannate nei primi gradi di giudizio, sono da ritenersi penalmente innocenti fino a sentenza definitiva.

    Prima edizione ebook: novembre 2014

    © 2014 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-7353-8

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Andrea Accorsi - Daniela Ferro

    I 100 delitti di Milano

    Crimini, intrighi, stragi e omicidi.

    Duemila anni di storia scritta con il sangue

    omino

    Newton Compton editori

    Oltre i luoghi comuni

    Milano Capitale economica. Milano Capitale della moda. Milano da Bere. E poi la Milano di Tangentopoli, la Città corrotta. Milano Capitale morale.

    I luoghi comuni sulla metropoli all’ombra del Duomo si sprecano e tendono a illustrarla come un luogo freddo, fatto di corse, di indifferenza, di gente che va di fretta. Consacrata al dio lavoro.

    Naturalmente se soltanto la si frequenta un po’, ci si accorge che le cose sono piuttosto diverse. Per scoprirlo, bisogna però addentrarsi nel lungo serpentone di periferie, nelle notti di bische sempre aperte, nei grattacieli dove sopravvive un’umanità calpestata, nei quartieri dove lo spaccio di droga è considerato un’opportunità di lavoro. Infine, nelle case, dove si tenta di tirare a fine mese con un terno al lotto.

    Ma questo, ovviamente, non lo recitano i luoghi comuni. Lo dicono i dati. Già nel 2011 l’Istituto Mario Negri lanciò l’allarme dopo aver analizzato il depuratore delle acque di Nosedo, scoprendolo pieno di cocaina, una volta la droga dei ricchi, oggi più o meno alla portata di tutti: la città è stabile ai primi tre posti per consumo. Per contro, una recente ricerca della Fondazione Rodolfo Debenedetti, firmata dagli economisti Tito Boeri della Bocconi, Andrea Ichino dell’Istituto universitario europeo ed Enrico Moretti dell’università californiana di Berkeley, la colloca fra le più povere nel rapporto tra potere d’acquisto e costo della vita. Non in ultimo, alla fine del 2013 l’agenzia specializzata agimeg sul gioco d’azzardo e le lotterie in Italia piazzava la provincia milanese al primo posto per giocate, con 5,9 miliardi di euro spesi in un anno. La ragione per la quale il Comune emette ordinanze e sanzioni per fermare le cosiddette ludopatie.

    Altro che Milano da Bere. Milano, stando alle statistiche, è droga, immense sacche di povertà e disperata voglia di riscatto attraverso l’azzardo: non sarà esatto nemmeno questo ritratto, ma certamente dà una misura più equilibrata della realtà.

    Sfatato il mito, ecco che la città comincia ad assumere l’aspetto di un porto di mare, quello di Marsiglia, o di una Las Vegas buia, quando cioè le luci del casinò si spengono e si devono trovare i soldi per tornare a casa.

    Per decenni la parte sporca, brutta e cattiva della città è stata frequentata dalla letteratura noir, pronta a indagarne i malesseri, le scorie e i vizi avvolti dalla nebbia. Ma in quanto letteratura, non è mai stata presa troppo sul serio.

    Raccontare Milano attraverso la cronaca nera può diventare così un esperimento estremamente interessante.

    Non è cosa facile. Perché anche la cronaca nera, ormai diventata oggetto da show business, si ammanta di luoghi comuni. Più che narrare i fatti si pensa oggi a illustrare teorie. Sul settore si affacciano così i personaggi più improbabili, criminologi con la verità in pugno che discettano dell’intero scibile umano, esperti di tecniche di laboratorio che in tv propugnano l’infallibilità di test genetici e affini, salvo dire l’esatto contrario nelle aule giudiziarie. E ancora psicologi dell’ultima ora, detective imbarazzanti. E cronisti che, quando non si improvvisano Sherlock Holmes, riducono il proprio spazio a domande perlopiù irritanti. La prima delle quali, a cadavere ancora caldo, viene rivolta ad uno stretto parente della vittima: Può perdonare l’assassino?.

    Quello che segue è un lavoro enciclopedico, dannatamente documentato, lontano anni luce dal dilettantismo cui i media ci hanno abituati. Non pretende di narrare verità, anche perché spesso le verità giudiziarie non corrispondono a verità reali. Però espone fatti. Li spiega, li sintetizza.

    Cento delitti esplorano la storia di Milano in lungo e in largo, partendo dalla notte dei tempi, passando per le congiure di Palazzo per arrivare all’autunno caldo della Repubblica, fino a tragedie strettamente private e alle schegge impazzite alla Kabobo, armate di piccone per uccidere così, perché non gli andava più di vivere a quel modo. Ne esce una guida nera che illustra l’altra storia di Milano, tirando fuori la polvere da sotto al tappeto per sbatterla sotto gli occhi del lettore.

    Come topi da biblioteca, Andrea Accorsi e Daniela Ferro si sono messi a scavare tra giornali d’epoca, libri vetusti e documenti giudiziari quasi dimenticati, per recuperare vicende altrimenti destinate all’oblio, attenti a verificare, anche per gli omicidi più lontani nel tempo, i dettagli su come si concluse la storia. I fatti, appunto, e non le teorie.

    L’aspetto più interessante è però come questi fatti vengono mostrati. Ogni delitto diventa qui un lungo racconto, il soggetto di una tragedia teatrale a sé stante. Come se la realtà mutasse in fiction.

    Il risultato è che, messi uno accanto all’altro per cento volte, i delitti da una parte rivelano una città violenta e fragile, denunciandone le pecche e gli intrighi, dall’altra vanno a comporre un vero e proprio romanzo nero di Milano.

    Non sono in molti a tentare operazioni del genere. Difficili, ma esaltanti. Ci vuole molto affiatamento. Ma Andrea Accorsi e Daniela Ferro, evidentemente questo affiatamento ce l’hanno. Anche perché questa è solo l’ultima di tante antologie che gli autori hanno dedicato a fatti criminali, libri diventati classici del settore. Tanto che verrebbe da definirli i Per Wahlöö e Maj Sjöwall della cronaca nera. Come i due scrittori scandinavi sono infatti marito e moglie. E se Wahlöö e Sjöwall inventarono l’investigatore Martin Beck, usando la letteratura per denunciare i mali della società capitalistica svedese, ai nostri è bastato narrare i fatti per mostrare al mondo l’anima nera di Milano e farle dire addio ai luoghi comuni.

    Edoardo Montolli

    Introduzione

    La storia di Milano non è fatta solo di uomini e carriere brillanti, di idee e scoperte di successo che hanno spesso precorso i tempi, di valori che si sono affermati come un modello per il resto del Paese, quali fossero i suoi mutevoli confini. A contrassegnare la storia della città, fin dalle epoche più remote, sono stati anche atroci delitti e agguati vigliacchi, esplosioni di ira irrefrenabile e omicidi annunciati. Alcuni di essi per la loro portata sul piano politico, sociale, civile hanno cambiato il corso degli eventi. Un lungo filo rosso attraversa i millenni legando tra loro una sequela di uccisioni che hanno scandito, oltre alla fine prematura dell’umana esistenza delle vittime, la brusca chiusura di epoche e domini, o l’inizio di nuove, travagliate stagioni di violenza e di incertezze.

    Questo libro percorre secoli di storia milanese attraverso i delitti più celebri che vi sono avvenuti e molti di quelli che più hanno impressionato l’opinione pubblica. Delitti compiuti per le più diverse ragioni: dal martirio dei primi santi cristiani alle lotte di potere ordite nelle corti rinascimentali, dagli omicidi in fotocopia degli assassini seriali (quasi una costante nella storia milanese più recente) fino alle esecuzioni politiche compiute in nome di questa o quella ideologia, al termine di presunti processi mai celebrati da alcuna corte di giustizia, ma condotti esclusivamente sul piano del fanatismo e dell’intolleranza.

    Al di là della mera cronaca, molti di questi fatti hanno suggestionato le folle, ispirato letterati, convinto storici e ricercatori a scavare in profondità dietro i nomi degli autori riconosciuti e dietro le ragioni addotte in via ufficiale, fino a svelare talvolta scomode verità nascoste.

    Omicidi di interesse si sono alternati a sequestri di persona dal tragico (e spesso pianificato) epilogo, stragi familiari a delitti passionali che hanno visto i generi scambiarsi di volta in volta i ruoli di vittime ed esecutori. Nell’ultimo secolo, in particolare, alle vendette consumate nel corso del fosco tramonto del Ventennio fascista, sono seguite le lunghe stagioni di piombo dello stragismo e del terrorismo di opposta matrice ideologica, ma identica e spietata strategia criminale. Attentati ed esecuzioni si sono sommati agli atti più efferati compiuti dalla delinquenza comune e dalla criminalità organizzata, fino ai delitti griffati consumati negli ambienti più esclusivi e insospettabili del cosiddetto jet-set (i casi D’Alessio, Gucci, Jucker…) e ai delitti di strada ad opera di gang giovanili d’importazione.

    Ci sono poi casi che hanno registrato clamorosi colpi di scena in sede investigativa o processuale, come la morte della prostituta Paola del Bono in pieno boom economico. O l’omicidio, nel corso di una rapina ad un benzinaio, avvenuto in piazzale Lotto qualche anno dopo e destinato a riempire le cronache come il delitto del biondino.

    In questo girone dantesco di orrori pubblici e privati, gli ultimi anni sono stati contraddistinti dalla comparsa sulla scena criminale cittadina di nuovi attori, quali i sicari delle mafie ormai stabilmente insediatesi e operanti nel tessuto sociale ed economico del quale Milano è l’apice trainante, o le frange più violente dell’immigrazione extracomunitaria, o ancora insospettabili tutori dell’ordine.

    Non tutti i crimini ricostruiti e descritti in queste pagine sulla base di fonti storiche e giornalistiche hanno trovato una solida spiegazione. Qualcuno di essi, neppure un colpevole. Lasciando così in bianco, forse per sempre, l’ultima pagina della loro narrazione.

    1. Il martirio del santo dall’acqua miracolosa

    Il primo delitto che ricostruiamo in questa sede ci porta a quasi duemila anni fa, agli albori del Cristianesimo. È naturale che, a tanti secoli di distanza, sia pressoché impossibile accertare con precisione come si svolsero i fatti; anche perché, dal momento che la vittima fu poi santificata dalla Chiesa, i pochi elementi storici si confondono con quelli dettati dalla fede e dalla tradizione, com’è consuetudine per l’agiografia. A confondere ancora di più le acque, già poco chiare, intervenne una lettura medievale che addirittura antepose la vita della vittima di un secolo: un evidente falso storico che, come si vedrà, trovò la sua ragione in motivi di natura politica e religiosa.

    Quello che possiamo affermare con certezza, ripescando questo delitto dalla notte dei tempi, è che la vittima era nientemeno che il vescovo di Milano Calimero, il terzo delle serie cronologiche storicamente accertate (ma il quarto vescovo martire per la Chiesa milanese). Poche e incerte sono le notizie reperibili sulle sue origini. C’è chi lo vuole nato a Roma da una famiglia di nobile lignaggio; avviato alla carriera militare, culminata con il grado di ufficiale, Calimerius (questa la versione del suo nome nella lingua latina dell’epoca) sarebbe stato convertito al Cristianesimo e avrebbe ricevuto il battesimo ad opera dei santi Faustino e Giovita. Anche nella sua nuova vita, condotta all’insegna della fede cristiana, Calimero avrebbe dato dimostrazione della propria convinzione religiosa, ma anche delle proprie capacità nel gestire le anime: non più quelle dei soldati ai suoi ordini, ma dei fedeli che da lui ricevevano i sacramenti e la predicazione delle Sacre Scritture. Il risultato fu una rapida carriera nelle gerarchie ecclesiastiche, al termine della quale fu ordinato vescovo di Milano.

    14

    Papa Telesforo in un’incisione tratta da Vita dei pontefici del Platina (Venezia, 1715).

    Secondo altre fonti, invece, Calimero non era romano ma greco. Avrebbe comunque incrociato il suo destino con la capitale dell’impero, dove sarebbe cresciuto e avrebbe ricevuto l’educazione alla fede cristiana dal papa in persona, che allora era Telesforo, l’ottavo nella cronologia della Chiesa. Telesforo ebbe in sorte un glorioso martirio, dopo il quale Calimero pensò bene di lasciare la turbolenta Roma per approdare a Milano. Qui sarebbe stato accolto dall’allora vescovo, Castriziano, nelle fila del clero cittadino e destinato come suo fedele coadiutore alla Basilica Fausta (la futura chiesa di San Vitale). Alla morte di Castriziano, i milanesi lo avrebbero eletto vescovo per acclamazione. Calimero, però, non avrebbe voluto saperne, non sappiamo se per modestia o per paura di non essere all’altezza di un tale incarico. Fatto sta che, per evitare una sua fuga, i milanesi ricorsero a estremi rimedi: incatenarono Calimero fino alla sua consacrazione episcopale. Una costrizione che ricorda quella alla quale sarebbe stato soggetto, un secolo dopo, sant’Ambrogio: anche lui fu acclamato vescovo dalla folla, ma in un primo tempo rifiutò la nomina e preferì fuggire da Milano, prima di accettare l’ordinazione.

    Ora, nessuna di queste due scarne biografie viene accreditata con certezza dagli storici. Nella seconda, tra l’altro, Calimero sarebbe stato un contemporaneo di papa Telesforo, vissuto nella prima metà del ii secolo, quando invece Calimero fu vescovo di Milano all’incirca tra il 270 e il 280, quindi alla fine del iii secolo. Questa retrodatazione della sua vita coincide con quella dell’intera storia della diocesi di Milano attuata nell’xi secolo al fine di dimostrare una pari anzianità della Chiesa milanese con quella di Roma, al tempo della lotta per le investiture. Facendo scalare l’origine della diocesi milanese di oltre un secolo, anche le vite dei suoi vescovi, fra i quali Calimero, furono fatte risalire artatamente indietro nel tempo, nonché forzatamente allungate per assecondare l’assai più lungo arco di tempo che risultavano così aver coperto.

    A sostegno di questo falso storico, una lastra marmorea collocata nel Duomo, sulla quale è riportata la cronologia dei vescovi milanesi, indica per Calimero il periodo tra l’anno 139 e il 192: ma si tratta di una epigrafe dell’Ottocento, che riprende la tradizione medievale senza alcun supporto storico.

    Anche se molto differenti tra loro, le due vite di Calimero concordano nel sostenere che il pastore milanese pose fine prematuramente ai suoi giorni con il martirio. Il vescovo avrebbe pagato con la vita la strenua battaglia condotta contro il paganesimo: Calimero non esitò a perseguitare quanti credevano ancora negli dèi della tradizione romana, e li costrinse a ricevere il battesimo, volenti o nolenti. Una simile condotta era destinata ad attirargli molti odi e inimicizie, anche negli ambienti della corte imperiale, allora capeggiata da Marco Aurelio Probo. La sua condanna a morte sarebbe stata ordinata dall’imperatore in persona.

    I sicari sorpresero Calimero in un cimitero della città e lo trafissero a colpi di lancia. In spregio alla sua frenetica opera di battezzatore di anime, il corpo del vescovo fu gettato in un pozzo presso un sito dove i pagani officiavano a Belenos, il dio della luce. Secondo un’altra versione, il pastore fu invece gettato vivo nel pozzo e lì lasciato morire.

    È evidente che si tratta di ricostruzioni da prendere con le dovute cautele. Lo stesso martirio non è accertato, anche perché viene riferito per la prima volta molto tempo più tardi, nell’viii secolo. Qualunque siano state le esatte circostanze della sua morte, pare che i milanesi ne abbiano comunque sofferto: avevano apprezzato e ammirato Calimero come vescovo, e per onorarlo come ai loro occhi meritava, costruirono una basilica a lui dedicata. Il luogo di culto fu eretto nel v secolo, nello stesso luogo dov’era avvenuto il martirio del santo o dove, forse, si trovava un tempio di Apollo.

    La basilica di San Calimero sorge tuttora nell’omonima via, nel centro storico della città; più volte ristrutturata nel corso dei secoli, ospita ancora nella cripta le ossa del santo. Quando, nell’viii secolo, il vescovo Tomaso dispose una ricognizione dei resti di Calimero, li trovò immersi nell’acqua. Per farla defluire, fu scavato un pozzo; la gente prese allora ad abbeverarsene, nella convinzione che l’acqua bagnata dalle ossa del santo fosse miracolosa.

    Per molti anni, il 31 luglio, giorno nel quale si commemora san Calimero, le acque di quel pozzo venivano distribuite ai malati. Non solo: esse avrebbero avuto il potere di influire anche sugli eventi atmosferici, debellando la siccità. Per questo motivo, quando si rendeva necessario, una bottiglia di quell’acqua veniva rovesciata sul sagrato della basilica, dopo essere stata consacrata durante la messa.

    2. Murata viva

    La crudeltà di un uomo può non avere pietà per nessuno. Neppure per il sangue del suo sangue. Bernabò Visconti, potente signore di Milano nel xiv secolo, avrebbe riservato un destino terribile a una delle figlie, colpevole di non aver assecondato la volontà paterna circa lo sposo al quale accompagnarsi.

    Bernardina Visconti non era uno dei (tanti) figli ufficiali di Bernabò, quelli nati dal matrimonio con la nobildonna veronese Regina Della Scala. Bernabò l’aveva avuta – come altri suoi figli – da una delle sue cortigiane, in questo caso dalla sua favorita, Giovannola di Montebretto. Il padre aveva comunque riconosciuto Bernardina, che infatti poteva fregiarsi dell’augusto nome dei Visconti. In quanto tale, rientrava anch’ella fra gli strumenti in uso ai potenti per intrecciare preziose relazioni politiche. La ragion di Stato, e non altro, men che meno le aspirazioni della giovane e gli orientamenti del suo cuore, avrebbe determinato la scelta dell’uomo al quale unirsi finché morte non vi separi.

    Per Bernardina la scelta era caduta sul condottiero bergamasco Giovanni Suardo, discendente di una affermata e ricca famiglia ghibellina, alleata dei Visconti. Solo che Bernardina, di quella unione, non voleva saperne. Era consapevole che avrebbe dovuto rassegnarsi ad essa; ma, almeno, cercò consolazione fra le braccia di un noto libertino di corte, Antoniolo Zotta. I due giovani, però, forse perché travolti da reciproca passione, non seppero tenere a freno i loro istinti e finirono col farsi scoprire in flagrante proprio da Bernabò.

    La punizione decisa nei loro confronti dal signore, vistosi tradito nelle sue volontà, fu tremenda. L’incauto Zotta venne falsamente accusato di furto e sottoposto a torture fino a fargli ammettere la colpa che gli veniva attribuita, ma che in realtà non aveva mai commesso: aver tentato di scassinare la serratura di un forziere di Bernabò. Tanto bastò per decretarne l’irrevocabile condanna a morte, per impiccagione.

    17

    Il monumento funebre di Bernabò Visconti.

    Ancora peggiore fu la punizione paterna per Bernardina. La ragazza venne murata viva in una segreta nella famigerata rocchetta di Porta Nuova, dove poteva cibarsi solo di acqua e pane. In quella sorta di tomba, la povera Bernardina trascorse sette mesi nella completa oscurità e fra terribili sofferenze, finché la fibra del suo corpo, messa a così dura prova, cedette.

    Ora, se vogliamo dare credito a questa versione dei fatti, così com’è stata divulgata e tramandata per secoli, verrebbe da dire: da che pulpito. Nel senso che lo stesso Bernabò era un adultero incallito e un infaticabile donnaiolo. Ma trarre questa conclusione nel considerare il comportamento che ebbe con Bernardina e Antoniolo significherebbe non comprendere le norme che regolavano, e avrebbero regolato ancora per lungo tempo, i rapporti all’interno delle famiglie al potere nel passato. Quello che per un signore rappresentava un capriccio che nessuno poteva negargli era imperdonabile se commesso da una donna; figuriamoci poi se si trattava di sua figlia, la quale doveva rassegnarsi a rispettare ed eseguire le decisioni prese dal genitore per tutta la sua vita.

    Comportarsi come fece Bernabò, insomma, era la prassi. Non farlo, avrebbe rappresentato una violazione di questa. Ma, soprattutto, un segno di debolezza, il che era inammissibile per una persona nella posizione del Visconti, specie di fronte ai suoi nemici. Eppure, nonostante questo rispetto delle regole non scritte esercitato fino a distruggere un proprio caro, la fine di Bernardina fu tale da impressionare profondamente quanti ne vennero a conoscenza.

    È forse per questo, per esorcizzare in qualche modo l’orrore suscitato da questa vicenda, che da subito cominciarono a diffondersi voci che volevano Bernardina scampata alla vendetta paterna. In molti giurarono di aver visto la giovane aggirarsi, indenne, nel chiostro del monastero di Santa Radegonda. Altri sostennero di aver visto muoversi fra le mura del castello di Trezzo lo spettro di un’altra delle figlie di Bernabò, che aveva commesso la stessa colpa di Bernardina: aver assecondato un amore proibito, stavolta nella persona di uno stalliere, dunque un uomo di rango infinitamente inferiore al suo. Come punizione, la sfortunata fanciulla fu precipitata in uno dei pozzi scavati nelle fondamenta del sinistro maniero sull’Adda, sul fondo dei quali erano state collocate lame appuntite. La stessa fine riservata dal signore di Milano – pare – ai nemici e alle fanciulle da lui sedotte.

    Ma chi la fa, l’aspetti. Perché la sorte riservò al dispotico Bernabò lo stesso trattamento del quale aveva fatto le spese la povera Bernardina. Fatto prigioniero con l’inganno dal nipote Gian Galeazzo, Bernabò venne rinchiuso proprio a Trezzo, anche se il suo soggiorno, a differenza della figlia, poté essere allietato da una piacevole compagnia, quella offertagli dall’amante Donnina Ferri.

    Le intenzioni di Gian Galeazzo erano però assai più drastiche. La prigionia dello zio non doveva protrarsi a lungo: troppo pericolosa era la sua presenza, anche se in uno stato di cattività e fuori da Milano. Così, dopo sette mesi trascorsi a Trezzo, Bernabò vi trovò la morte, a una settimana dal Natale del 1385. La vulgata lo vuole avvelenato da un cuoco al soldo dell’astuto nipote, che gli aveva cucinato il suo piatto preferito, una zuppa di fagioli, condita con del veleno.

    Non conosciamo l’anno esatto in cui Bernardina andò incontro al suo destino. Per dirla tutta, non sappiamo neppure se l’intera vicenda che la riguarda sia accaduta realmente, o se si tratti di una delle tante leggende fiorite intorno alla figura del Visconti e in particolare sul suo carattere. Bernabò era tanto determinato quanto violento, amabile con i suoi favoriti (e soprattutto le favorite) ma pronto all’ira con chiunque altro incrociava il suo cammino, almeno stando alle dicerie dell’epoca. Il fatto che anche questa storia possa essere frutto della fantasia popolare – come fa supporre, tra l’altro, la coincidenza dei tempi della prigionia di Bernardina con quella del suo aguzzino – è l’unica consolazione alla quale aggrapparsi per sperare che davvero non sia mai avvenuto nulla di tutto questo.

    3. Morte al tiranno

    Lo aspettavano sul sagrato della chiesa di San Gottardo in Corte, il cui campanile svetta ancora oggi nel cuore della città, a due passi da piazza del Duomo. Sapevano che Giovanni Maria Visconti, l’odiato duca di Milano, si sarebbe recato in quella chiesa, per partecipare alla messa. Prima di entrarvi, allo scoperto e privo di uomini armati intorno a sé, sarebbe stato facile avvicinarlo e colpirlo, prima ancora che si rendesse conto che era giunta la sua ora. È quello che speravano i membri di alcune tra le famiglie più in vista del ducato – Baggio, Pusterla, Trivulzio, Mantegazza, Aliprandi, del Maino – che non vedevano l’ora di sbarazzarsi di Giovanni Maria, per trasferire il potere a un altro erede della casata viscontea. Chiunque fosse stato, ne erano convinti, avrebbe potuto solo fare meglio del suo predecessore.

    La notizia che in quello stesso momento Facino Cane, il capitano di ventura da anni al servizio del duca, giaceva gravemente ammalato a Pavia, aveva galvanizzato i congiurati. Questi sapevano che si era presentata loro l’occasione propizia, e forse irripetibile, per entrare in azione. Anche perché, se avessero tergiversato, c’era il rischio che Giovanni Maria, rimasto senza il suo più grande condottiero, anziché essere più debole, avrebbe potuto aumentare ancora il proprio potere. Ma secondo alcuni storici, Facino Cane era già morto, colpito da un attacco di gotta, quando le famiglie milanesi presero il coraggio a due mani e diedero l’ordine di procedere con il loro piano che prevedeva di uccidere il duca.

    Quest’ultimo, allora ventitreenne, nulla sospettava di quanto stavano ordendo contro la sua persona. Così, tutto andò proprio come i cospiratori avevano sperato. Giovanni Maria Visconti fu avvicinato dai sicari sui gradini della chiesa, che aveva raggiunto da un passaggio interno di Palazzo Ducale, e lì venne pugnalato, più volte, per non dargli scampo. I colpi fatali furono sferrati alla testa e ad una gamba.

    20

    Gian Galeazzo Visconti, padre di Giovanni Maria.

    Nessuno avrebbe rimpianto il Visconti. I suoi concittadini non gli concessero neppure l’onore di un funerale solenne. La sua salma restò esposta nel Duomo, senza che nessuno vi si recasse a rendergli omaggio. Non ritenne di scomodarsi neppure la vedova, Antonia Malatesta. A che cosa si doveva tanto astio nei confronti del figlio di Gian Galeazzo Visconti e di Caterina, anch’essa una Visconti, a sua volta figlia del terribile Bernabò?

    I dieci anni che Giovanni Maria aveva trascorso sullo scranno più alto del potere erano coincisi con il periodo più nero del neonato ducato milanese. Il Visconti aveva saputo procurare solo danni al suo dominio, mettendone a repentaglio la stessa esistenza. Ma, soprattutto, aveva fatto di tutto per farsi odiare a morte dai suoi sudditi.

    Debole, incostante, facile all’ira, aveva ricevuto l’investitura appena tredicenne, alla morte del padre. I suoi capricci umorali significarono disperazione e morte per molti di coloro che ebbero la sventura di capitargli a tiro. Né bastarono a frenarne gli istinti i membri del Consiglio di reggenza, troppo presi com’erano a lottare tra loro con ogni mezzo, per poter offrire al duca un valido sostegno nella conduzione degli affari di Stato.

    I migliori compagni, e forse gli unici amici, di Giovanni Maria erano i suoi… cani, che aveva scelto fra le specie più mordaci, quali levrieri e mastini. Il fido Giramo Squarcia, personale braccio armato del duca, aveva trasformato quegli animali in spietati boia a quattro zampe, addestrandoli a sbranare i nemici del duca. Già, perché Giovanni Maria non si dilettava solo di frequenti battute di caccia nelle riserve boschive di famiglia, ma godeva nell’assistere allo scempio di uomini divorati dalle fiere del suo seraglio privato. A questo atroce destino andarono incontro detenuti condannati in tribunale e tolti di prigione per diventare prede umane da gettare nell’arena. La stessa sorte toccò ad alcuni compagni di caccia del duca, fra i quali anche suoi familiari.

    Non sorprende, dunque, che a porre fine ai giorni del duca in largo anticipo rispetto alla sua età fosse intervenuta una congiura: atto proditorio ed esecrabile, certo, ma che in questo caso ebbe larga parvenza di giustizia. Anche se quell’atto era servito a fermare per sempre la ferocia del Visconti, però, restava pur sempre da condannare, tanto per i codici del diritto quanto per quelli della morale.

    Così, i congiurati che avevano assassinato Giovanni Maria dovettero fuggire dalla città, passando da Porta Comasina. Nel caos che seguì, alcuni vennero presi e subito giustiziati, altri seguirono la stessa sorte dopo essere stati catturati nei giorni seguenti, altri ancora furono messi al bando.

    Tolto di mezzo il duca, morto e sepolto il Cane, ai rivoltosi e a quella parte di milanesi che li avevano assecondati restava un ultimo bersaglio sul quale sfogare i rancori accumulati per dieci anni, nella persona di Giramo Squarcia. Trascinato per le strade dalla folla inferocita, il temuto addestratore delle belve che tante volte si erano cibate di carne e sangue umani venne impiccato nella sua stessa casa.

    Impossibile trovare fra gli storici coevi, come fra quelli delle epoche successive, uno solo che abbia espresso giudizi positivi su Giovanni Maria Visconti. Carlo Cattaneo lo definì libertino e crudele come Nerone. La sua fine è apparsa a tutti come il giusto castigo di un tiranno fra i più spietati – e inetti – che mai vi furono. Una fine raffigurata in una celebre tela di Ludovico Pogliaghi del 1889, conservata all’Accademia di Brera. Addì, 16 maggio 1412.

    4. Pugnalato in chiesa

    Altro duca, altra dinastia, stessa sorte. Quella di Galeazzo Maria Sforza, quinto duca di Milano. Grande nel bene, come nel male. Qualcuno decise di riservargli l’identico destino del Visconti, ponendo prematuramente fine alla sua vita e, con essa, alla sua reggenza. In pochi pagarono per quella morte, mentre furono in molti a gioirne. Fra di loro, anche il re di Francia, che logica vuole fra i possibili mandanti dell’omicidio. Anche se la circostanza non è mai stata suffragata da prove.

    Che qualcuno prima o poi avrebbe attentato alla vita dello Sforza era opinione diffusa fra i milanesi, plebei e aristocratici, amici e nemici del duca. In pochi anni di signoria sulla città, Galeazzo Maria si era guadagnato la meritata fama di tiranno feroce e impenitente. E sebbene la città gli sia debitrice di opere destinate a rimanere un fiore all’occhiello nella sua storia, i meriti servirono ben poco a farlo amare dai suoi sudditi. Perché il duca – figlio di Bianca Maria Visconti e di Francesco Sforza – non si fece mai scrupolo nel togliere il pane di bocca alla povera gente, a furia di tasse e di gabelle imposte per finanziare i suoi ambiziosi progetti, ma anche per concedersi bagordi sfrenati e pretenziosi capricci.

    Lo Sforza amava i banchetti, il lusso, il divertimento. E per goderne, non badava a spese. Amava le belle donne, che corteggiava di continuo e alla luce del sole. Ma con la sua condotta volubile, dissoluta e prepotente era riuscito ad alienare da sé persino gli amici. Furono proprio alcuni dei confidenti e consiglieri del duca a trasformarsi nei suoi carnefici. A loro avviso, non vi era altra soluzione se non quella di eliminarlo fisicamente, per restituire a Milano la sua libertà e la sua anima.

    23

    La piazza e la basilica di Santo Stefano in un’incisione settecentesca.

    Forse prendendo esempio da quanto successo a Giovanni Maria Visconti, per colpirlo i congiurati scelsero il momento in cui lo Sforza sarebbe andato in chiesa fuori dal suo inaccessibile palazzo. È quanto accadde la mattina del 26 dicembre 1476, giorno di Santo Stefano, quando il duca si recò nella chiesa a lui dedicata per assistere alla messa, anziché nella cappella ducale come aveva fatto ben tre volte il giorno precedente, Natale.

    I suoi più fidati consiglieri gli avevano sconsigliato di prendere parte alla sacra funzione fuori dal palazzo, esponendo così la propria persona a possibili agguati. Le spie al servizio del duca erano bene informate. Del resto, non era un segreto per nessuno che Galeazzo Maria fosse odiato quasi da tutti. Persino la madre, Bianca Maria, pur di non vederlo aveva lasciato la corte di Milano.

    L’agguato scattò quando Galeazzo Maria fece il suo ingresso nel tempio. Memore di quanto successo al suo predecessore, il duca procedeva scortato dai soldati. Ma né lui, né le sue guardie potevano sospettare che nel gesto di riverenza di uno fra coloro che erano considerati i più devoti amici dello Sforza, Giovanni Andrea Lampugnani, si celasse il gesto di un attentatore.

    Lampugnani si inginocchiò al suo cospetto per baciargli la mano in segno di ossequio. Ma mentre una mano dell’assassino teneva quella del duca, l’altra corse a prendere il pugnale nascosto sotto il mantello e con quello inferse i primi colpi mortali, uno all’arteria femorale, l’altro allo stomaco.

    Così descrive l’agguato Orfeo Cenni da Ricavo, amico e consigliere di Galeazzo, che gli fu al fianco negli ultimi istanti della sua vita:

    Essendo nel mezzo della chiesa quello traditore di Giovanni Andrea li misse tutto il pugnale nel corpo. El povero signore si li misse le mani e disse: Io son morto! Illo ed eodem stante, lui reprichò l’altro colpo nello stomacho; li altri dua li dierono quatro colpi: primo nella ghola dal canto stancho, l’altro sopra la testa stancha, l’altro sopra al ciglio nel polso, el quarto nel fiancho di drieto, e tutti di pugnali. E questo fu in un baleno e uno alzare d’occhi, e chosì venne rinculando indrieto, tanto che quasi mi diè di petto. E veniva traboccando, e io lo volsi sostenere, ma non fui chosì presto che ’l cascò a sedere e poi riverso tutto. E dua di quelli traditori non lo abandonaron mai per insino che fu in terra.

    Gli altri due congiurati citati dal Cenni erano Gerolamo Olgiati e Carlo Visconti. In tutto, il corpo del duca era stato trafitto quattordici volte. L’agguato era avvenuto in maniera tanto rapida quanto inaspettata. Né il duca né le guardie della sua scorta ebbero il tempo di reagire, parando i colpi, mentre la gente che affollava la chiesa nel giorno festivo si rese conto solo dopo qualche istante di quello che era accaduto. Passata la sorpresa, le guardie colpirono a morte il Lampugnani, mentre i suoi complici fecero in tempo a scappare. Ma non per molto.

    Rintracciati e arrestati pochi giorni dopo, Olgiati e Visconti vennero sommariamente processati e giustiziati. Può darsi che a pagare con la vita per la morte del duca furono solo gli esecutori materiali dell’omicidio e non i mandanti. Fra i possibili ideatori dell’attentato, ce n’era uno particolarmente interessato a mettere le mani sul ducato di Milano: nientemeno che Luigi xi, re di Francia e cognato di Galeazzo Maria, dal momento che questi

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