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Racconti di Natale
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Racconti di Natale

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About this ebook

• Un canto di Natale
• Le campane
• Il grillo del focolare
• La battaglia della vita
• Il patto col fantasma

Introduzione di Marisa Sestito
Edizione integrale

Scritti tra il 1843 e il 1848, questi racconti costituiscono un fantastico spettacolo narrativo metafisico e magico. Con le sue storie animate da fantasmi, folletti e fate, Dickens affida alla scrittura il compito di rappresentare la qualità mutevole e fluttuante del reale, dimostrando la labilità del confine tra vero e apparente, la difficoltà di definire ciò che gli occhi vedono, di comprendere ciò che le parole dicono. Come nei suoi straordinari romanzi, anche qui l’autore svela l’altra faccia del mito del progresso, ritraendo l’Inghilterra della disoccupazione e del malessere sociale, e l’immensa e caotica metropoli con le sue case fatiscenti e le sue strade degradate. La vita raffigurata non è però mai talmente cupa e disperata da non consentire spazi al sorriso o alla risata liberatoria, al comico e al grottesco. Dickens disegna le sue grandi utopie natalizie, facendo ravvedere gli indifferenti e i malvagi; così grazie all’intervento di spiriti benevoli, agli umili è consentito il lieto fine, in stanze rallegrate dall’agrifoglio, davanti a tavole finalmente stracolme di cibo.
Charles Dickens
nacque a Portsmouth nel 1812. Trascorse l’infanzia a Chatham e poi seguì il padre in un traumatico trasferimento a Londra. Della metropoli in cui visse fece il centro ispiratore della sua arte, il centro di un quadro vivo e mobile, un caleidoscopio armonico e colorato di personaggi, conflitti sociali, umori e fermenti della sua epoca. Di Dickens la Newton Compton ha pubblicato Le due città, Grandi speranze, Oliver Twist, Tempi difficili e, nella collana Mammut, Il circolo Pickwick, David Copperfield e I grandi romanzi.
LanguageItaliano
Release dateNov 18, 2014
ISBN9788854173750
Racconti di Natale
Author

Charles Dickens

Charles Dickens was born February 7, 1812 in Landport, Portsmouth, the second of eight children to John and Elizabeth Dickens. Dickens' father had great difficulty managing his affairs and was often under the burden of crushing debt, which culminated in his imprisonment in Marshalsea debtor's prison in 1824. As a result, Dickens was forced to leave school and begin work at a boot-blacking factory to assist in getting the family out of debt, an experience that would allow Dickens to sympathize with the plight of the poor and destitute that would last his entire life. Dickens took to writing immediately and, in 1833, he published his first story: A Dinner at Popular Walk in Monthly Magazine. The following year, he began writing under the pseudonym Boz and released a collection of short stories entitled Sketches by Boz in 1836. That same year he married Catherine Hogarth, daughter of the editor of the Evening Chronicle. They had 10 children before they separated in 1858. From 1836 to 1837, Dickens serialized what would become the novel The Pickwick Papers, which was an immediate sensation and became one of his most popular works, released in book form in 1837. Encouraged by this success, Dickens began writing at a furious and astonishing rate, producing (in serial form) some of his most favorite novels: Oliver Twist (1837-39), Nicholas Nickleby (1838-39), as well as The Old Curiosity Shop and Barnaby Rudge (1840-41). After that, Dickens barely paused for the rest of his career. He would regularly release a book ever year or so for the next two decades, including American Notes, his five Christmas Books (including, of course, A Christmas Carol), David Copperfield, Bleak House, A Tale of Two Cities, and Great Expectations. Charles Dickens suffered a stroke on June 9, 1870 at died at Gad's Hill. Buried in the Poets' Corner of Westminster Abbey.

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    Racconti di Natale - Charles Dickens

    517

    Titoli originali: A Christmas Carol, The Cricket on the Earth, The Battle of Life,

    The Haunted Man and the Ghost’s Bargain, traduzione di Emanuele Grazzi

    Prima edizione ebook: novembre 2014

    © 1993 Newton & Compton editori s.r.l.

    © 2009 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-7375-0

    www.newtoncompton.com

    Charles Dickens

    Racconti di Natale

    Un canto di Natale, Le campane, Il grillo del focolare,

    La battaglia della vita, Il patto col fantasma

    Premessa di Marisa Sestito

    Edizione integrale

    Newton Compton editori

    Premessa

    Scritti tra il 1843 e il 1848, questi racconti di Natale recano in sé i segni della loro epoca e contrappongono la celebrazione della solidarietà cristiana (lo spirito del Natale, appunto) a una realtà dolorosa e degradata. Come nei romanzi, Dickens, l’appassionato riformatore, traccia la mappa del malessere, segnala i guasti, svela l’altra faccia del mito del progresso. Non ritrae l’Inghilterra che si appresta a celebrare i propri trionfi nell’Esposizione Universale del ’51; guarda invece alla nazione dei «hungry forties», i terribili anni Quaranta della fame, della disoccupazione, del disordine sociale. È l’Inghilterra che serve ad Engels per studiare le forme del capitalismo industriale, quella esposta da Carlyle per mettere in guardia la classe borghese di fronte alla minaccia del movimento cartista. È un paese spaccato al suo interno – le due nazioni divise da un golfo, che i romanzieri di quegli anni tentano di far riavvicinare: facendo appello alla comprensione, allo spirito filantropico e riformatore; cadendo inevitabilmente, a volte, nel sentimentalismo, nella melodrammaticità, nell’idealizzazione utopica.

    Quasi dovunque Dickens trae ispirazione dal presente e anche qui, soprattutto in tre di questi racconti (Un canto di Natale, 1843; Le campane, 1844; Il patto col fantasma, 1848), è la contemporaneità a fornire motivi, ambienti, personaggi. Anche qui, come nei romanzi il luogo è la città, Londra con le sue strade, i suoi vicoli fetidi, le sue case fatiscenti, da cui emergono creature che di umano hanno ben poco. E dove la città è assente, Dickens non usa la campagna per guardare nostalgicamente a un passato preindustriale, né se ne serve per costruire oasi incontaminate: in La battaglia della vita (1846) la natura si connette fermamente al cammino della storia, nelle messi concimate dai corpi dei morti della Grande Battaglia; in Il grillo del focolare (1845), ripropone il conflitto tra miseria e opulenza negli interni spogli, negli abiti consunti, nel faticoso arrancare attraverso la vita.

    Di racconto in racconto si tesse la trama della modernità, scardinando le illusioni vittoriane del benessere, le rassicuranti teorizzazioni degli economisti: protagonisti sono bambini che la miseria riduce a creature rapaci e demoniache, a esserini fragili e deformi; sono giovani, cui la vita sottrae speranze e desideri; sono padri incapaci di garantire a sé e ai figli la sopravvivenza. Da un lato dunque si dà voce al bisogno, dall’altro a chi potrebbe alleviarlo: uomini d’affari, politici, utilitaristi. Sullo sfondo si staglia minaccioso l’ospizio di mendicità, l’orrore della workhouse che «risolve» il problema dei poveri rinchiudendoli e celandoli alla vista – con sarcasmo feroce Carlyle aveva suggerito di usare un metodo più sbrigativo, adottando l’arsenico per sterminare sia i ratti che i poveri.

    Contro la realtà gretta e meschina, Dickens progetta le sue utopie natalizie, facendo ravvedere gli indifferenti e i malvagi; grazie all’intervento di folletti fantasmi e fate, agli umili è consentito il lieto fine, in stanze rallegrate dall’agrifoglio, davanti a tavole stracolme di cibo.

    Uno dei motivi del grande interesse di questi racconti – o piuttosto romanzi brevi – nasce dalla qualità del rapporto che li lega alla produzione maggiore; in un certo senso è come se attraverso il tempo, da Pickwick (1837) a Edwin Drood (1870, incompiuto), corressero dei fili, come se via via l’universo narrativo dickensiano si precisasse e si arricchisse a dismisura di figure e motivi, pur rimanendo fedele alle intuizioni degli inizi. Di romanzo in romanzo ogni nuovo personaggio esibisce la straordinaria capacità inventiva dell’autore, e insieme porta con sé una sorta di marchio dell’origine, un segno che lo rende riconoscibile: prolungamento e continuazione di ciò che è già stato, prefigurazione e annuncio di ciò che non è ancora.

    Fili collegano i luoghi. Redlaw che segue il baby monster, l’orrendo bambino, fin nel cuore marcio della città, anticipa l’inquieto vagare notturno di Bleak House oppure di Our Mutual Friend; lo scenario che si offre ai suoi occhi, è quello già noto a Oliver Twist oppure a Barnaby Rudge.

    Fili collegano i personaggi. Le immagini dell’infanzia derelitta attraverso cui Dickens rielabora la propria infanzia – l’incubo del lavoro nella fabbrica di lucido per scarpe, inerme e abbandonato a se stesso da genitori che non proteggono – si proiettano di testo in testo: Tiny Tim ricorda i bambini all’ospizio in Oliver Twist; Bertha anticipa Jenny, la bambina deforme di Our Mutual Friend, anch’essa sarta di bambole. Le immagini della vecchiaia inquieta accostata a donne giovani e belle, costantemente ripropongono la propria ambigua esistenza: il giocattolaio si imparenta all’antiquario (The Old Curiosity Shop), al professore (David Copperfield), al medico (A Tale of Two Cities).

    Anche l’intervento che l’arte compie sulla vita, selezionando materiali e riversandoli sulla pagina, segue le stesse leggi nei romanzi e nei Libri di Natale: la realtà raffigurata non è mai talmente cupa o disperata da non consentire spazi al sorriso o alla risata liberatoria. Attraverso personaggi e situazioni Dickens non perde occasione per scandagliare le possibilità del comico e del grottesco: si pensi allo sguardo di Scrooge che percorre la porta chiusa alla ricerca del codino di Marley; agli arti di Clemency, animati di vita autonoma e indipendente dalla volontà della donna; alla bimba-Moloch che schiaccia col suo peso il fratellino, costretto a trasportarla, ansante e sudato, da un punto all’altro della stanza; allo spiritello con lo spegnitoio sotto al braccio. Fugaci apparizioni di clown, quotidiani e metafisici, che rimandano a tanti altri personaggi, prima e dopo di loro.

    I Libri di Natale si collocano dunque coerentemente all’interno dell’opera dickensiana, rivisitando il passato della scrittura, preparandone il percorso futuro. Ma accanto alla familiarità, alla riconoscibilità di temi e figure, vi è dell’altro, una qualità specifica e particolare che li distanzia dai romanzi e li rende autonomi, frutti di una sperimentazione formale diversa. Se infatti la pubblicazione a puntate (che Dickens inventa) impone ai romanzi un dipanarsi lento, su tempi lunghi, occupati dalle complicazioni dell’intreccio, dai colpi di scena, dall’infittirsi dei misteri e dal crescendo della suspense, questi testi, di necessità molto più brevi, compaiono nella loro interezza con scadenze precise, in occasione delle festività natalizie.

    E allora, alla ricerca di un’altra misura, della sintesi propria al racconto, Dickens lavora sul tempo narrativo, sulle nette scansioni degli intrecci: ingabbiando i materiali, marcando rigidamente i confini, raggiunge una rara compattezza e concisione. Più che il romanzo e le sue leggi, sembra che sia il teatro a suggerire modi e ritmi: più che capitoli di romanzo infatti, le parti in cui i racconti sono divisi, sembrano atti di drammi, fortemente unitari nel tempo, nel luogo e nell’azione. A un inizio per così dire neutro, che ritrae le condizioni del presente, fa seguito un momento critico in cui le sorti si rovesciano e si raggiunge l’apice della tensione (ricco di potenzialità tragiche) per arrivare infine allo scioglimento, che ristabilisce l’ordine e una prosperità inizialmente imprevedibili.

    Tranne in un caso, tutti i racconti sono contenuti – quasi aristotelicamente – in tempi brevissimi: lo spazio consentito alle avventure soprannaturali di Trotty, Scrooge e Redlaw è di una notte; pochi giorni decidono della vita di Dot e May. E anche dove gli eventi abbiano origini lontane, in un tempo indeterminato e antico, Dickens riesce, attraverso strategie particolari, ad avvicinare ciò che è distante, a dare unità a ciò che è apparentemente frammentario: la Battaglia, cruenta, visibile e imponente, diviene, a distanza di secoli, battaglia, intima e segreta; attraverso le date, i segni arbitrari del destino e dell’artista, Dickens scavalca il tempo, connette epoche lontane fino a farle coincidere: in un disegno unitario traccia linee che legano lo scontro antico alla nascita di Marion, al ritorno dell’innamorato, alla rivelazione finale.

    Ogni elemento coopera a costruire l’unità del racconto. Si pensi ad esempio all’uso dei titoli delle varie parti, che suggeriscono scansioni ravvicinate, sia che una «strofa» succeda all’altra, arrivando senza indugio alla fine del Canto, sia che i tre trilli del grilletto segnalino il momentaneo, presto risolto sconvolgimento del focolare. Ma forse il Libro che più degli altri permette di scorgere il metodo dickensiano, è Le campane: contenuto nel tempo breve delle ventiquattr’ore, grazie all’uso dei titoli delle sue parti ancor più raccorcia il tempo, quasi a sottolineare ulteriormente la qualità relativa e fittizia della realtà rappresentata. Non solo infatti sono illusori i lunghi tragici anni proposti dagli spiriti; lo sono anche i segmenti del giorno e della notte «reali», poiché il battito delle campane registra il passare di un’ora soltanto, dal primo all’ultimo quarto. Ma qui forse Dickens immette un’altra dimensione ancora, coinvolgendo il lettore che trascorre quell’ora leggendo il racconto.

    Nella dilatazione del tempo, nella sua contrazione, l’artista offre un’interpretazione del mondo, chiedendo alla scrittura di rappresentare la qualità metamorfica e fluttuante del reale. Tutto in questi racconti dimostra la labilità del confine tra vero e apparente, la difficoltà a definire ciò che gli occhi vedono, a comprendere ciò che le parole dicono. È qui che l’immissione massiccia del metafisico, la continua osmosi tra soprannaturale e quotidiano, trova la sua ragion d’essere profonda: «Aveva sognato, Trotty?», si chiede il narratore, «Oppure sono le sue gioie e i suoi dolori e gli attori che in essi compaiono, ad essere un sogno; un sogno lui stesso; un sognatore colui che narra questa storia»¹.

    L’inafferrabilità, la mutevolezza, è in personaggi e situazioni: Redlaw, l’alchimista, lavora su una materia percorsa da tremiti, «come se le cose conoscessero il suo potere di scinderle e di restituirne i componenti al fuoco e al vapore»; intorno a lui, le ombre danzanti sui muri deformano la realtà in immagini instabili e stravolte; introducono l’altra Ombra – il Doppio – e con lei la paurosa perdita dell’identità.

    Soprattutto alla visione, quasi onnipresente in questi testi, è affidato il compito di sottrarre certezze, di sfocare immagini note e, pur nella loro miseria, rassicuranti, di fornire illusorie parvenze di realtà: sia che gli spiriti delle campane suscitino in Trotty smarrimento e paura, cancellando la demarcazione tra la vita e la morte; sia che Caleb si serva della cecità della figlia per negare la quotidianità squallida e gretta, per dipingere un mondo fiabesco e meraviglioso.

    Ma il vero trionfo della metamorfosi e dell’instabilità delle forme è in Un canto di Natale dove, a racconto appena iniziato, il batacchio che assume le sembianze del socio morto, segnala l’apertura della porta su un mondo perturbante e oscuro: nel viaggio attraverso il tempo e la coscienza che Scrooge si appresta ad affrontare, il contesto familiare si fa evanescente e sconosciuto, divenendo fonte di terrore. Non vi è via di scampo all’esterno – miriadi di spettri volteggiano nell’aria – e neppure all’interno, dove gli oggetti divengono irriconoscibili e le forme si dissolvono. Emblema dell’inafferrabilità e della perdita di senso è la fluttuazione dello spiritello dell’infanzia, «ora una cosa con un braccio, ora con una gamba, ora con venti gambe, ora un paio di gambe senza una testa, ora una testa senza un corpo».

    La metamorfosi, l’indecifrabilità delle cose, l’instabilità della vita dell’uomo, è al cuore di questi racconti e ne struttura le parti. Il peso della realtà, di una possibile evoluzione tragica degli eventi, grava su ognuno di essi; tenendo abilmente in bilico le potenzialità positive e negative di ogni storia, Dickens riesce a modificare la crudezza del reale – e forse anche a suscitare fremiti di solidarietà umana. Alchimista della scrittura, trasforma la miseria in opulenza, la fame in sazietà, la tristezza in canto, imponendo l’ultima finzione ai suoi lettori, quella del lieto fine.

    Per ottenere il suo scopo, di nuovo Dickens si avvale del genere che per eccellenza segnala lo scarto tra realtà e finzione: ancora al teatro ricorre, mettendo in scena degli stupefacenti spettacoli. I registi – gli spettri, il Grillo, Caleb – costruiscono abilmente le scene di una realtà immaginaria, animandole di personaggi, immettendovi tensione drammatica; gli spettatori – Scrooge, Trotty, Dot, John, Bertha e anche Redlaw, per quanto con modalità diverse – decentrati in un angolo del «palcoscenico», guardano attoniti e coinvolti la rappresentazione della loro vita.

    Altri spettatori guardano sulla pagina lo spettacolo della forma, le sue evoluzioni, i suoi giochi, sperando che non si inceppi nel sentimentalismo, che trovi il suo lieto fine. Lo spettatore esitante coglie qualche tentennamento, qualche indugio melodrammatico; ma a sipario abbassato, a libro chiuso, non può non applaudire.

    MARISA SESTITO

    1 Questa e le altre traduzioni sono di chi scrive.

    Nota biobibliografica

    CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE

    1812. Charles Dickens nasce a Portsmouth il 7 febbraio.

    1815. John Dickens, padre di Charles, impiegato all'ufficio paghe della Marina, viene trasferito a Londra.

    1817. John Dickens è trasferito a Chatham, dove il piccolo Charles trascorre il periodo più felice della propria infanzia.

    1821. Scolaro alla William Giles's School, Charles scrive, alla matura età di 8-10 anni, la tragedia Mìsnar, the Sultan of India.

    1822. John Dickens è di nuovo trasferito a Londra, e va ad abitare al 16 di Bayham Street, Camden Town.

    1824. Mentre la sorella Fanny è iscritta alla Royal Academy of Music, il piccolo Charles, anche su pressioni della madre, viene abbandonato al lavoro in una fabbrica di lucido da scarpe, Warren, sulle sponde del Tamigi. Questo gli dà il senso di una contaminazione col mondo basso e criminale. Il padre è rinchiuso nella prigione per debitori di Marshalsea. Charles alloggia presso una famiglia di amici, prima a Camden Town e poi a Lant Street, più vicino alla prigione del padre. Dopo pochi mesi, uscito John Dickens di prigione, la famiglia si trasferisce a Somers Town.

    1825. Charles Dickens si iscrive alla Wellington House Academy.

    1826. John Dickens ottiene un impiego giornalistico.

    1827. Charles si impiega presso lo studio legale Ellis e Blackmore. Per evadere dalla routine degli impieghi legali, studia stenografia da autodidatta.

    1830. Si invaghisce di Maria Beadnell, la cui famiglia tratta snobisticamente il giovane e lo induce ad interrompere il rapporto, nel 1833. Ottiene l'impiego di reporter parlamentare grazie anche allo zio.

    1832. Tenta il mestiere dell'attore.

    1833. «The Monthly Magazine» pubblica il suo primo racconto: A Dinner at Poplar Walk.

    1834. Giornalista al «The Morning Chronicle». Conosce la futura moglie, Catherine Hogarth. Pubblica altri bozzetti su «The Monthly Magazine».

    1836. Escono Sketches by Boz, First Series, e Sketches by Boz, Second Series, i suoi primi volumi. Si sposa e conosce John Forster che rimarrà forse il suo più fedele amico e primo, importantissimo biografo. Inizia a pubblicare Pickwick Papers in parti mensili, metodo a cui rimarrà sostanzialmente fedele per il resto della sua opera.

    1837. Inizia la pubblicazione in 20 fascicoli, mensili, di Oliver Twist.

    1838. Inizia la pubblicazione in 20 fascicoli, mensili, di Nicholas Nickleby.

    1840. Assunta la direzione di una nuova rivista, «Master Humphrey's Clock», su di essa inizia la pubblicazione, in 40 puntate, settimanali, di The Old Curiosity Shop.

    1841. Su «Master Humphrey's Clock», inizia la pubblicazione, in 40 puntate, di Barnaby Rudge.

    1842. Esce American Notes, risultato del suo primo viaggio negli Stati Uniti, e inizia la pubblicazione di Martin Chuzzlewit.

    1843. Scrive il racconto natalizio, archetipo di un genere, A Christmas Carol (a cui seguono, fino al 1848: The Chimes, The Cricket on the Hearth, The Battle of Life, e The Haunted Man).

    1844-5. Visita l'Italia.

    1846. Esce Pictures from Italy. Prende avvio Dombey and Son, in 20 puntate, che dà inizio alla sua fase matura dopo la crisi produttiva degli anni precedenti.

    1849. Inizia la pubblicazione di David Copperfield (in 20 puntate).

    1850. È direttore di una nuova rivista, «Household Words», che attraverserà tutti gli anni Cinquanta.

    1852. Inizia la pubblicazione di Bleak House (in 20 puntate).

    1854. Esce Hard Times, in numeri settimanali.

    1855. Inizia la pubblicazione di Little Dorrit (in 20 puntate).

    1855. Acquista la casa di Gads Hill, nei pressi di Chatham, ammirata nelle passeggiate dell'infanzia assieme al padre. I giri di letture delle proprie opere, iniziati per beneficenza e poi trasformati in vere e proprie iniziative commerciali, acquistano ritmi più intensi.

    1859. Assume la direzione della nuova rivista «All The Year Round», dove pubblica A Tale of two Cities.

    1860. Su «All The Year Round» inizia la pubblicazione di Great Expectations.

    1864. Inizia la pubblicazione di Our Mutual Friend (in 20 puntate), ultimo suo romanzo concluso.

    1865. Coinvolto in un incidente ferroviario, rischia che sia scoperta la sua relazione extraconiugale con l'attrice Ellen Ternan.

    1868. Pubblica su «The Atlantic Monthly» il racconto George Silverman's Explanation.

    1870. Inizia la pubblicazione di The Mistery of Edwin Drood, del quale solamente sei numerisono pubblicati, dei dodici previsti. Provato da una serie di stressanti letture pubbliche,muore a Gad's Hill, il 9 giugno.

    BIBLIOGRAFIA GENERALE

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    Per una rassegna della critica si veda, a cura di C. PAGETTI e M.T. CKALANT, Dickens e la critica, in iid., La città e il teatro. Dickens e l’immaginario vittoriano, Roma, Bulzoni, 1988, pp. 13-39. Si vedano inoltre ADA NISBET Ch. Dickens, in L. STEVENSON (a cura di), Victorian Fiction: A Guide to Research, Cambridge, Harvard up, 1964 e PHILIP COLLINS, pp. 34-113, Ch. Dickens, in g.h. forD (a c. di), pp. 34-113 Victorian Fiction: A Second Guide to Research, New York, mLAA, 1978.

    La biografia di Dickens più accreditata è quella di EDGAR JOHNSON, Charles Dickens: His Tragedy and Triumph, London, Allen, 1977 (19521); la prima in assoluto è Life of Dickens, di JOHN FORSTER (London, Chapman, 1872-4, 3 voll). Inestimabili per gli studi dickensiani le Letters of Charles Dickens, volumi 1-12, a c. di M. HOUSE, G. STOREY, K. TILLOTSON, K.J. FiELDiNg, Oxford, Oxford u.p., 1965-2002.

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    WORTH, GEORGE, Dickensian Melodrama: A Reading of the Novels, Lawrence, University of Kansas, 1978.

    Studi in italiano su Dickens:

    BONADEI, ROSSANA, Paesaggio con figure. Intorno all'Inghilterra di Charles Dickens, Milano, Jaca Book, 1996.

    CHIALANT M.T. e PAGETTi C., La città e il teatro. Dickens e l'immaginario vittoriano, Roma, Bulzoni, 1988.

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    MARRONI, FRANCESCO, Disarmonie vittoriane, Roma, Carocci, 2002.

    MARTINO, MARIO, Dickens e la crisi della scrittura, Bari, Adriatica, 1996.

    PAGANELLI, MARINA BONDI, Dickens e il discorso politico, Bologna, Cappelli, 1989.

    PRAZ, MARIO, La crisi dell'eroe nel romanzo vittoriano, Firenze, Sansoni, 1981 (1952).

    RUNCINI, ROMOLO, Illusione e paura nel mondo borghese. Da Dickens a Orwell, Bari, Adriatica, 1968.

    SPINA, GIORGIO, Charles Dickens. L'uomo e la folla, Genova, E.R.S.U.,1985.

    Un canto di Natale

    STROFA PRIMA

    Lo spettro di Marley

    Marley era morto, tanto per incominciare, e su questo non c’è alcun dubbio. Il registro della sua sepoltura era stato firmato dal sacerdote, dal chierico, dall’impresario delle pompe funebri e da colui che conduceva il funerale. Scrooge lo aveva firmato, e alla Borsa il nome di Scrooge era buono per qualsiasi cosa che decidesse di firmare. Il vecchio Marley era morto come il chiodo di una porta.

    Badate bene che con questo io non intendo dire che so di mia propria scienza che cosa ci sia di particolarmente morto nel chiodo di una porta; personalmente, anzi, propenderei piuttosto a considerare il chiodo di una bara come il pezzo di ferraglia più morto che si possa trovare in commercio. Ma in quella similitudine c’è la saggezza dei nostri antenati, e le mie mani inesperte non la disturberanno, altrimenti il paese andrà in rovina. Vogliate pertanto permettermi di ripetere con la massima enfasi che Marley era morto come il chiodo di una porta.

    Scrooge sapeva che era morto? Senza dubbio; come avrebbe potuto essere altrimenti? Scrooge e lui erano stati soci per non so quanti anni; Scrooge era il suo unico esecutore testamentario, il suo unico procuratore, il suo unico amministratore, il suo unico erede, il suo unico amico e l’unico che ne portasse il lutto; e neanche Scrooge era così terribilmente sconvolto da quel doloroso avvenimento da non rimanere un eccellente uomo di affari anche nel giorno stesso del funerale e da non averlo solennizzato con un affare inatteso e particolarmente buono.

    Menzionare il funerale di Marley mi ha ricondotto al punto dal quale ero partito. Non c’è alcun dubbio che Marley era morto. Questo dev’essere perfettamente chiaro; altrimenti nulla di meraviglioso potrà uscire dalla storia che sto per narrare. Se non fossimo perfettamente convinti che il padre di Amleto era morto prima che cominciasse la tragedia, nel fatto che egli passeggiasse di notte, al vento di levante, sui bastioni del proprio castello non ci sarebbe niente di più notevole di quello che ci sarebbe se qualunque altro signore di mezza età uscisse all’improvviso, dopo il tramonto, in una località battuta dal vento – diciamo, per esempio, nel cimitero di St. Paul – per impressionare la mente debole di suo figlio.

    Scrooge non aveva mai cancellato il nome del vecchio Marley. Anche dopo qualche anno si poteva leggerlo sopra la porta del magazzino: Scrooge e Marley. La ditta era conosciuta come «Scrooge e Marley». A volte persone nuove degli affari chiamavano Scrooge Scrooge e a volte lo chiamavano Marley, ma egli rispondeva ad ambedue i nomi. Per lui era perfettamente lo stesso.

    Oh! ma Scrooge era un uomo che aveva la mano pesante; duro e aspro, come la cote, dalla quale non c’era acciaio che fosse mai riuscito a far sprizzare una scintilla di fuoco generoso; segreto, chiuso in se stesso e solitario come un’ostrica. Il freddo che aveva dentro congelava i suoi vecchi lineamenti, gli pungeva il naso aguzzo, gli corrugava le guance, irrigidiva la sua andatura; gli faceva diventar rossi gli occhi e violacee le labbra sottili e si esprimeva tagliente nella sua voce gutturale. Sulla testa, sulle ciglia e sul mento peloso c’era uno strato di ghiaccio. Si portava sempre dietro la sua bassa temperatura; gelava l’ufficio nei giorni della canicola e non lo sgelava neppure di un grado a Natale.

    Il caldo e il freddo esterni avevano scarsa influenza su Scrooge; nessun calore poteva riscaldarlo e nessuna brezza invernale raffreddarlo. Non poteva soffiare un vento che fosse più aspro di lui, non poteva cadere neve che fosse più determinata, non c’era pioggia scrosciante che fosse meno disponibile. Il cattivo tempo non aveva presa su lui. La pioggia più fitta, la neve, la grandine e il nevischio potevano vantare una sola superiorità nei suoi confronti, e cioè che spesso venivano giù non senza bellezza. Scrooge mai.

    Nessuno lo fermava mai per strada per dirgli, con una espressione gioviale: «Mio caro Scrooge, come state; quando verrete a trovarmi?». Non c’era mendicante che lo implorasse di dargli un centesimo, non c’era bambino che gli chiedesse l’ora, non c’era uomo o donna che chiedesse mai a Scrooge, nemmeno una volta in vita sua, la strada per andare in questo o quel posto. Perfino i cani dei ciechi sembrava che lo conoscessero e, quando lo vedevano arrivare, trascinavano i loro padroni dentro un portone o un cortile e poi agitavano la coda, come per dire: «Caro padrone, è meglio non aver occhi che avere il malocchio».

    Ma che gliene importava, a Scrooge? Era proprio ciò che gli piaceva. Aprirsi la strada sul cammino affollato della vita, ammonendo qualunque umana simpatia di tenersi a distanza, era ciò che più gli andava a genio.

    Una volta – fra tutti i giorni dell’anno, la vigilia di Natale, – il vecchio Scrooge stava lavorando nel suo ufficio. Era una giornata fredda, sinistra, pungente, nebbiosa; ed egli poteva sentire, fuori nel cortile, la gente passeggiare in su e in giù e picchiarsi il petto con le mani e pestare i piedi sulle pietre del lastrico per riscaldarsi. Gli orologi della città avevano appena battuto le tre, ma era già completamente buio; del resto, non c’era mai stata luce in tutta la giornata; e nelle finestre degli uffici vicini luccicavano le candele, simili a macchie rossastre sulla densa aria bruna. La nebbia si infiltrava attraverso le fessure e la serratura e fuori era così densa che, per quanto il cortile fosse uno dei più angusti, le case di fronte non erano che puri fantasmi. Vedere quella nuvola scura scendere lentamente in basso ed oscurare tutto quanto, faceva pensare che la Natura vivesse a due passi di lì e stesse fabbricando birra su larga scala.

    La porta dell’ufficio di Scrooge era aperta, così da permettergli di tener d’occhio il suo impiegato, che stava copiando lettere in una celletta sinistra, una specie di cisterna. Nella stanza di Scrooge c’era un fuoco molto piccolo; ma quello dell’impiegato era tanto più piccolo che sembrava fatto di un solo pezzo di carbone. Egli però non poteva rifornirlo, perché Scrooge teneva la cassetta del carbone nella sua stanza, e non appena l’impiegato entrava con la paletta in mano, il padrone prediceva invariabilmente che la loro separazione era ormai inevitabile. Pertanto, l’impiegato si stringeva intorno al collo la sua sciarpa bianca e cercava di riscaldarsi alla candela, sforzo nel quale, non essendo uomo dotato di una forte immaginazione, non aveva successo.

    «Buon Natale, zio! Dio vi protegga!», gridò una voce allegra, quella del nipote di Scrooge, che gli era piombato addosso così rapidamente che quel saluto era stata la prima notifica che avesse ricevuto dal suo arrivo.

    «Bah», disse Scrooge, «fesserie!»

    A forza di camminare in fretta nella nebbia e nel gelo, questo nipote di Scrooge si era talmente scaldato da essere tutto un fuoco. Aveva un viso rosso e simpatico; gli occhi scintillavano e l’alito fumava.

    «Natale una fesseria, zio?», disse il nipote di Scrooge; «sono sicuro che non pensi una cosa simile.»

    «Certo che la penso», disse Scrooge. «Buon Natale! Che diritto hai tu di essere allegro? Che ragione hai tu di essere allegro? Sei povero abbastanza.»

    «Andiamo, via», rispose allegro il nipote. «Che diritto hai tu di essere triste? Che ragione hai di essere scontento? Sei ricco abbastanza.»

    Scrooge, non trovando lì per lì una risposta migliore, disse un’altra volta: «Bah!» Poi soggiunse: «Fesserie».

    «Non ti arrabbiare, zio», disse il nipote.

    «Come potrei non arrabbiarmi», rispose lo zio, «quando vivo in un mondo di cretini come questo? Buon Natale! In giro a augurare Buon Natale! Che cosa è il Natale per te se non il momento per pagare i conti senza avere i soldi; il momento in cui ti trovi più vecchio di un anno, e non più ricco di un’ora? Un momento per fare il bilancio e vedere che ogni voce, nel giro completo di dodici mesi, è in passivo? Se potessi fare di testa mia», disse Scrooge indignato, «ogni idiota che va in giro con Buon Natale in bocca dovrebbe esser bollito insieme al suo pudding e sepolto con un paletto di agrifoglio che gli trafigga il cuore. Proprio così!»

    «Zio!», supplicò il nipote.

    «Nipote!», rispose severamente lo zio. «Passa il Natale a modo tuo e lascia che io lo passi a modo mio.»

    «Passarlo a modo tuo!», replicò il nipote di Scrooge. «Se non lo passi per niente!»

    «Allora lascia che non me ne dia pensiero», disse Scrooge, «e buon pro’ ti faccia, come ti ha sempre fatto.»

    «Ci sono molte cose, credo, che possono avermi fatto del bene senza che io ne abbia ricavato un profitto», replicò il nipote, «e Natale è una di queste. Ma sono sicuro che ho sempre considerato il periodo natalizio, quando è venuto – a prescindere dalla venerazione dovuta al suo nome e alla sua origine sacra, ammesso che qualcosa che si riferisca possa esser tenuta separata da questa venerazione – come buono; un periodo di gentilezza, di perdono, di carità, di gioia; l’unico periodo che io conosca, in tutto il lungo calendario di un anno, nel quale uomini e donne sembrano concordi nello schiudere liberamente i cuori serrati e nel pensare alla gente che è al disotto di loro come se si trattasse realmente di compagni nel viaggio verso la tomba, e non di un’altra razza di creature in viaggio verso altre mete. E per questo, zio, anche se il Natale non mi ha mai fatto entrare in tasca una moneta d’oro, e neanche d’argento, credo che mi abbia fatto bene e che mi farà bene, e chiedo che Dio lo benedica.»

    L’impiegato, dalla sua cisterna, applaudì involontariamente; poi, rendendosi conto immediatamente della sconvenienza del suo atto, stuzzicò il fuoco con le molle e così ne spense per sempre l’ultima debole scintilla.

    «Fatemi sentire un altro suono», disse Scrooge, «e festeggerete il Natale perdendo il vostro impiego. Sei davvero un oratore straordinario», soggiunse, rivolto al nipote; «mi domando perché non ti fai eleggere al Parlamento.»

    «Non andare in collera, zio. Andiamo, vieni a pranzo da noi domani!»

    Scrooge disse che poteva anche andare a… Sì, lo disse davvero; pronunciò tutta la frase e disse che preferiva vederlo in quella situazione prima di andarlo a trovare.

    «Ma perché?», gridò il nipote di Scrooge. «Perché?»

    «Perché hai preso moglie?», chiese Scrooge.

    «Perché mi ero innamorato.»

    «Perché ti eri innamorato?», brontolò Scrooge, come se questa fosse la sola cosa al mondo più ridicola di un Buon Natale. «Buona sera.»

    «Ma, zio, non sei mai venuto a trovarmi neanche prima che questo succedesse. Perché ne fai ora una ragione per non venire?»

    «Buona sera», disse Scrooge.

    «Io non voglio niente da te e non ti chiedo niente. Perché non possiamo essere buoni amici?» «Buona sera», disse Scrooge.

    «Mi rincresce con tutto il cuore di trovarti così ostinato. Fra noi non c’è mai stato nessun litigio. Ma ho voluto fare questo tentativo in omaggio al Natale e intendo conservare fino all’ultimo il mio umore natalizio. Dunque, Buon Natale, zio!»

    «Buona sera», disse Scrooge.

    «E buon anno!»

    «Buona sera», disse Scrooge.

    Ciononostante, il nipote uscì dalla stanza senza una parola irata, soffermandosi sulla porta esterna per fare gli auguri all’impiegato, il quale, con tutto il freddo che aveva, era più caldo di Scrooge, e glieli ricambiò cordialmente.

    «Eccone un altro», borbottò Scrooge, che aveva sentito la conversazione. «Il mio impiegato che guadagna quindici scellini la settimana, con moglie e figli, e parla di Buon Natale. Davvero c’è da finire al manicomio!»

    Quel pazzo, facendo uscire il nipote di Scrooge, aveva fatto entrare altre due persone. Erano due signori imponenti, di aspetto simpatico, e ora erano in piedi, senza cappello, nell’ufficio di Scrooge. Avevano in mano libri e carte e gli fecero un inchino.

    «Questa è la ditta Scrooge e Marley, credo», disse uno dei due signori, dopo aver consultato un elenco. «Ho il piacere di parlare con il signor Scrooge o col signor Marley?»

    «Marley è morto da sette anni», rispose Scrooge. «Morì sette anni fa, in questa stessa notte.»

    «Non abbiamo nessun dubbio che la sua generosità sia ben rappresentata dal socio superstite», disse il signore presentando le sue credenziali.

    Era indubbiamente così, giacché i due soci erano stati anime gemelle. Alla minacciosa parola «generosità», Scrooge aggrottò le ciglia, scosse la testa e restituì le credenziali.

    «In questo periodo di feste, signor Scrooge», disse il signore, prendendo una penna, «è ancor più desiderabile del solito che si provveda in qualche modo ai poveri e ai derelitti, che nel tempo presente soffrono molto. Migliaia di persone sono prive delle cose più necessarie; centinaia di migliaia sono prive delle più piccole comodità.»

    «E non ci sono le prigioni?», chiese Scrooge.

    «In abbondanza», disse il signore, rimettendo giù la penna.

    «E gli ospizi per i poveri?», chiese Scrooge. «Funzionano ancora?»

    «Funzionano; però,» replicò il signore, «vorrei poter dire che non funzionano più.»

    «La legge Treadmill e la legge sui poveri sono ancora in vigore, dunque?», chiese Scrooge.

    «Sono attivissime, tutte e due.»

    «Oh… quel che avete detto in principio mi aveva fatto temere che fosse accaduto qualche cosa che ne avesse arrestata l’utile attività», disse Scrooge. «Sono molto felice di sentire che così non è.»

    «Avendo l’impressione che quelle leggi non forniscano alla moltitudine un po’ di gioia cristiana né per lo spirito né per il corpo», replicò il signore, «alcuni di noi stanno tentando di raccogliere fondi per comprare ai poveri qualcosa da mangiare e da bere e l’occorrente per riscaldarsi. Abbiamo scelto questo periodo dell’anno perché, fra tutti, è un periodo nel quale il bisogno è più duramente sentito, e l’abbondanza gioisce. Per quale cifra debbo iscrivervi?»

    «Nessuna», rispose Scrooge.

    «Desiderate conservare l’anonimato?»

    «Desidero esser lasciato in pace», disse Scrooge. «Dal momento che mi avete chiesto ciò che desidero, signori, questa è la mia risposta. Io non faccio festa per Natale e non posso permettermi di rendere allegri i fannulloni. Contribuisco al mantenimento delle istituzioni di cui abbiamo parlato – e costano abbastanza care – e coloro che si trovano in cattive condizioni economiche non hanno che da ricorrere a quelle.»

    «Molti non ci possono andare, e molti preferirebbero la morte.»

    «Se preferiscono la morte», disse Scrooge, «farebbero meglio a morire, diminuendo così la popolazione in sovrappiù. E poi, scusatemi, ma sono faccende che non conosco.»

    «Ma potreste conoscerle», osservò il signore.

    «Non è affar mio», replicò Scrooge. «Per un uomo basta che capisca quello che è affar suo, senza interferire negli affari altrui. I miei prendono tutto il mio tempo. Buona sera, signori.»

    I due signori, rendendosi chiaramente conto dell’inutilità di insistere, si ritirarono; e Scrooge riprese il suo lavoro con un’opinione ancor più alta di se stesso e con un umore più faceto del solito.

    Nel frattempo, la nebbia e l’oscurità si erano fatte talmente fitte che alcuni andavano in giro con torce accese e offrivano i loro servigi per camminare davanti alle carrozze a cavalli e guidarle sul loro cammino. L’antico campanile di una chiesa, la cui burbera vecchia campana guardava costantemente giù verso Scrooge, affacciata a una finestra gotica nel muro, era divenuto invisibile e batteva le ore e i quarti nelle nuvole, con una tremula vibrazione prolungata, come se lassù nella sua testa gelata gli battessero denti. Il freddo divenne intenso. Nella strada principale, all’angolo della corte, alcuni operai stavano riparando le tubazioni del gas e avevano acceso un gran fuoco in un braciere, attorno al quale un gruppo di uomini e di ragazzi laceri si era raccolto a scaldarsi le mani, battendo estaticamente le palpebre davanti al chiarore. La fontanella, abbandonata a se stessa, vide congelarsi tristemente e mutarsi in ghiaccio il flusso dell’acqua. Le luci delle botteghe, nelle quali i ramoscelli e le bacche dell’agrifoglio scricchiolavano al chiarore delle lampade delle vetrine, facevano sembrar rosse le facce pallide che vi passavano dinanzi. Il commercio dei pollaioli e dei droghieri divenne un gioco meraviglioso; uno spettacolo magnifico, nel quale era quasi impossibile credere che principi tanto grevi, come il contrattare e il vendere, potessero avere a che fare. Il Lord Mayor, dentro la cittadella poderosa del Palazzo, diede ordine ai suoi cinquanta cuochi e servitori di preparare i festeggiamenti di Natale come si conviene alla casa di un Lord Mayor; e perfino il piccolo sarto, al quale aveva inflitto, il lunedì precedente, una multa di cinque scellini, per essere stato trovato ubriaco per strada, rimestava nella sua soffitta il pudding per il giorno dopo, mentre la moglie sparuta usciva con il bambino per andare a comprare la carne.

    Sempre più nebbia e sempre più freddo! Un freddo acuto, pungente, penetrante! Se il buon Saint Dunstan, invece di usare le sue armi consuete, avesse appena pizzicato il naso del diavolo con un tempo come quello, allora sì avrebbe avuto un buon motivo per ruggire. Il proprietario di un nasetto giovane, roso e martoriato da quel freddo famelico come un osso rosicchiato da un cane, si piegò sul buco della serratura per allietare Scrooge con un canto di Natale. Ma non appena intese i primi versi, Scrooge impugnò il righello con atto così energico che il cantore fuggì terrorizzato, abbandonando il buco della chiave alla nebbia e anche al gelo che sembrava ci stesse di casa.

    Finalmente venne l’ora di chiudere l’ufficio. Scrooge scese di mala voglia dal suo alto panchetto, e ammise tacitamente il fatto coll’impiegato in ansiosa attesa nella sua cisterna, che immediatamente spense la candela e si mise il cappello in testa.

    «Penso che domani vorrete avere tutta la giornata libera», disse Scrooge.

    «Se la cosa va bene per voi, signore.»

    «Non va bene», disse Scrooge, «e non è giusto. Scommetto che se per questo io volessi trattenervi mezza corona, voi vi considerereste trattato male.»

    L’impiegato ebbe un pallido sorriso.

    «Eppure», disse Scrooge, «a voi non sembra un’ingiustizia che io paghi una giornata di stipendio senza lavoro in cambio.»

    L’impiegato osservò che questo accadeva una sola volta all’anno.

    «Questa è una scusa ben meschina per tirar fuori i danari dalle tasche di un galantuomo ogni 25 dicembre!», disse Scrooge, abbottonandosi il pastrano fino al mento. «Ma immagino che dobbiate avere tutta la giornata libera. Venite ancora più per tempo la mattina dopo!»

    L’impiegato promise che lo avrebbe fatto e Scrooge uscì in strada con un grugnito. L’ufficio fu chiuso in un batter d’occhio e l’impiegato, con le lunghe estremità della sciarpa che gli pendevano fin sotto la cintola (non possedeva un pastrano), venne giù da uno scivolo a Cornhill per venti volte dietro una fila di ragazzi per onorare la vigilia di Natale, e poi corse a tutta velocità a Camden Town, a casa sua, per giocare a moscacieca.

    Scrooge consumò il suo pranzo malinconico nella solita malinconica taverna; e, dopo aver letto tutti i giornali e allietato il resto della serata con un esame del suo conto in banca, se ne andò a casa a dormire. L’appartamento nel quale abitava era stato in passato del suo defunto socio. Era una lugubre serie di stanze in un fabbricato cupo in fondo a un cortile dove aveva tanta poca ragione di trovarsi da far quasi immaginare che vi fosse corso dentro quando era una casa giovane, giocando a nascondino con altre case, e avesse dimenticato la strada per uscirne. Ora era abbastanza vecchio e abbastanza sinistro, giacché il suo unico abitante era Scrooge e tutte le altre stanze erano affittate come uffici. Il vicolo era così buio, che perfino Scrooge, che ne conosceva ogni pietra, era costretto a procedere a tastoni. Nel nero e vecchio androne della casa, la nebbia e il gelo incombevano in modo tale che sembrava che il Genio del Tempo fosse seduto sulla soglia, immerso in una lugubre meditazione.

    Ora, è un fatto che nel batacchio della porta non c’era niente di straordinario, tranne che era molto grosso; è pure un fatto che Scrooge lo aveva veduto mattina e sera, durante tutto il periodo nel quale aveva abitato lì, e così pure che Scrooge possedeva ciò che si chiama fantasia nella stessa scarsa misura di qualunque uomo della City di Londra, compresi persino il Consiglio, gli assessori, e gli impiegati, il che è tutto dire. Non bisogna neppure dimenticare che Scrooge non aveva mai rivolto un pensiero a Marley, dopo aver menzionato in quello stesso pomeriggio il suo socio morto da sette anni. E allora, mi spieghi chi può come accadde che Scrooge, dopo aver introdotto la chiave nella toppa, scorse nel batacchio, senza che questo nel frattempo avesse subito alcun processo di alterazione, non più un batacchio, ma il volto di Marley.

    Il volto di Marley. Non era avvolto da un’ombra impenetrabile, come tutti gli altri oggetti nel vicolo, ma era circonfuso da una luce sinistra, come un’aragosta andata a male in una cantina buia. Non era né irritato né feroce, ma guardava Scrooge come Marley era solito guardarlo, con un paio di occhiali spettrali tirati su sulla fronte. I capelli erano curiosamente arruffati, come da un soffio o da una corrente d’aria calda; e gli occhi, per quanto fossero spalancati, erano perfettamente immobili. Questo e il colorito livido lo rendevano orribile; ma l’orrore sembrava esistere a dispetto del volto e senza che questo potesse controllarlo, piuttosto che esser parte della sua espressione.

    Allorché Scrooge fissò intensamente il fenomeno, il batacchio tornò ad essere un batacchio.

    Dire che non fu scosso e che il suo sangue non ebbe coscienza di una sensazione terribile, che gli era ormai estranea fin dal tempo dell’infanzia, sarebbe dire una bugia; nondimeno, pose la mano sulla chiave che aveva lasciato, la girò decisamente, entrò e accese la candela.

    Prima di chiudere, si fermò con un momento di indecisione, e diede prima una cauta occhiata dietro la porta, quasi aspettandosi di restare terrorizzato alla vista del codino di Marley, sporgente verso l’ingresso. Ma dietro la porta non c’era niente, tranne le viti e i dadi che fissavano il batacchio. Pertanto disse: «Bah, bah!»; e la richiuse con un tonfo.

    Il suono echeggiò come un tuono per tutta la casa. Sembrò che l’eco di ogni stanza ai piani superiori e di ogni botte nelle cantine dei negozianti di vino al piano di sotto possedesse una sua propria e separata risonanza; ma Scrooge non era uomo che l’eco potesse spaventare. Mise il paletto alla porta, attraversò l’ingresso, e salì le scale lentamente, smoccolando la candela.

    Non è facile dire che un tiro a sei può salire su per una vecchia rampa di scale, oppure attraverso una cattiva legge appena approvata dal Parlamento; ma vi assicuro che su per quella scala si poteva benissimo portare un catafalco nel senso della larghezza, colla testata verso il muro e il fondo verso la ringhiera, e con estrema facilità. Lo spazio e la larghezza erano più che abbondanti per farlo; ed è questa forse la ragione per la quale, nella semioscurità, parve a Scrooge che un catafalco semovente lo precedesse. Mezza dozzina di lampade a gas nella strada non sarebbero bastate a rischiarare bene quell’ingresso; sicché potete pure supporre che, con la candela di Scrooge, era piuttosto buio.

    Scrooge continuò a salire senza badarvi; il buio costa poco, e perciò piaceva a Scrooge. Tuttavia, prima di chiudere la sua porta pesante, fece un giro per tutte le stanze per vedere se tutto era in ordine. Quella faccia gli era rimasta abbastanza impressa da ispirargliene il desiderio.

    Salotto, stanza da letto, ripostiglio – tutto in perfetto ordine. Nessuno sotto la tavola; nessuno sotto il sofà; un piccolo fuoco nel caminetto; cucchiaio e scodella pronti; e il piattino con la minestra d’avena (giacché Scrooge aveva il raffreddore) era posato sulla mensola del focolare. Nessuno sotto il letto; nessuno nell’armadio; nessuno nella sua veste da camera, che pendeva in atteggiamento sospetto contro il muro. Ripostiglio come al solito: un vecchio parafuoco, un vecchio paio di scarpe, due cestini da pesca, un catino su un treppiede e un paio di molle.

    Perfettamente soddisfatto, chiuse la porta e si serrò dentro, dando una doppia mandata, cosa che non era nelle sue abitudini. Dopo essersi assicurato in tal modo contro ogni sorpresa, si tolse la cravatta, si mise la veste da camera, le pantofole e il berretto da notte e si sedette a mangiare la sua minestra davanti al fuoco.

    Era veramente un fuoco molto misero, che in una notte così fredda era poco più che niente. Scrooge fu costretto a sedervisi vicino e a piegarvisi sopra, prima di poter estrarre da quel pugno di brace la più piccola sensazione di calore. Il caminetto era antico, costruito molto tempo prima da qualche mercante olandese, tutto ornato di mattonelle olandesi, con immagini tolte dalla Sacra Scrittura. C’erano Caino e Abele, la figlia del Faraone, la regina di Saba, messaggeri angelici che scendevano per l’aria su nuvole simili a piumini da letto, Abramo, Baldassarre, apostoli che si imbarcavano su salsiere, centinaia di figure che tutte avrebbero potuto attrarre i suoi pensieri; e pure, quel volto di Marley, morto da sette anni, riappariva, come la verga dell’antico profeta, e annullava tutto il resto. Se ciascuna di quelle mattonelle lisce fosse stata bianca e fosse stato possibile disegnare sulla sua superficie qualche figura utilizzando a questo scopo i frammenti sconvolti dei suoi pensieri, su ciascuna di esse ci sarebbe stata una copia della testa del vecchio Marley.

    «Fesserie!», disse Scrooge, e si mise a passeggiare per la stanza.

    Dopo averla percorsa varie volte, tornò a sedersi; e, mentre appoggiava di nuovo la testa sulla poltrona, gli occhi gli caddero casualmente su un campanello, un campanello fuori uso, che pendeva nella stanza e comunicava, per una qualche ragione ormai dimenticata, con una stanza nel piano più alto del fabbricato. Fu con grande meraviglia e con uno strano e inesplicabile terrore che, nel guardare, si accorse che il campanello cominciava a dondolare. Dondolava così dolcemente, da principio, da non produrre alcun suono; ma ben presto cominciò a suonare forte e così fecero tutti gli altri campanelli della casa.

    Questo durò forse mezzo minuto o un minuto, ma parve che durasse un’ora. I campanelli cessarono tutti insieme, come avevano incominciato, e ad essi tenne dietro un rumore metallico, che veniva dalla profondità dei piani inferiori, come se qualcuno stesse trascinando una catena pesante sulle botti nella cantina del negoziante di vino. Allora Scrooge si ricordò

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