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I love Roma
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Storie insolite, grandi personaggi, luoghi magici e leggende popolari della città più bella del mondo

La città eterna come non l'avete mai vista

È una delle città più romantiche al mondo, unica per bellezza e per le opere d’arte che custodisce sotto il suo cielo. Ecco perché Roma merita un intero libro per celebrare l’amore incondizionato che milioni di persone nutrono per essa. Storie inedite e vicende notissime, personaggi famosi e gente comune ci raccontano il modo di vivere, le preziose opere d’arte, le tradizioni, il dialetto e le usanze della Città Eterna: un patrimonio che tutto il mondo ci invidia.

Tra i temi trattati nel libro:

Personaggi di Roma • luoghi segreti e scomparsi • Misteri risolti e irrisolti • Meraviglie e curiosità • Storie e leggende popolari • A tavola • Il grande schermo • Le tradizioni • Gli artisti e il dialetto • Gli scorci e le passeggiate

Claudio Colaiacomo

è nato a Roma nel 1970. Da anni studia la storia di Roma antica e moderna. Collabora con «Il Giornale di Trastevere» e altri periodici locali e con «Roma Uno TV », dove interviene all’interno della rubrica I segreti di Roma. Con la Newton Compton ha pubblicato Il giro di Roma in 501 luoghi, Roma perduta e dimenticata e I love Roma. Potete seguirlo sulle sue pagine Twitter e Facebook.
LanguageItaliano
Release dateOct 20, 2014
ISBN9788854170544
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    I love Roma - Colaiacomo Claudio

    I Personaggi di Roma

    L’anima di Roma si esprime attraverso i personaggi che hanno popolato le sue strade, hanno contribuito a scrivere pagine di storia da semplici spettatori o veri protagonisti. Grazie al loro esempio, ognuno di noi riceve in prestito un po’ di quello spirito e ha il privilegio di apportare il suo contributo personale, per poi passare il testimone alle generazioni che verranno.

    Nella pagina precedente: il cast dello spettacolo Rugantino di Garinei e Giovannini, liberamente ispirato al noto personaggio popolare romanesco. Qui sono raffigurati gli straordinari attori che, in uno storico allestimento, prestarono i loro volti, rispettivamente, a Rosetta (Alida Chelli), Mastro Titta (Aldo Fabrizi), Eusebia (Bice Valori) e Rugantino (Enrico Montesano).

    Giulio Cesare e le 23 pugnalate

    Il 15 marzo del 44 a.C. è la data in cui si compì l’efferato assassinio di Gaio Giulio Cesare, all’apice di una carriera militare e politica di enorme successo, che lo aveva portato a concentrare quanto più potere possibile nelle sue mani, assumendo la carica, senza precedenti, di dittatore a vita. Erano anni in cui già si intravedeva lo sviluppo della futura epoca imperiale e un simile dominio assoluto a Roma non si conosceva dal tempo dei sette re. Quel giorno il condottiero prese posto tra gli scranni dell’aula del Senato che si riuniva presso il teatro di Pompeo, nel Campo Marzio. Immediatamente fu raggiunto dai congiurati che, fingendo di chiedergli qualcosa, lo trafissero con la prima delle 23 pugnalate che lo avrebbero ucciso. Cesare ebbe la forza di reagire, si alzò e uscì all’esterno, subito raggiunto dai suoi assassini, che infierirono sul suo corpo tra il tumulto generale e l’incredulità dei senatori ignari. Cesare cadde a terra sui gradini della Curia, morì mormorando «Tu quoque Brute fili mi» (anche tu Bruto figlio mio), diretta a Marco Giunio Bruto, suo figlio adottivo e principale congiurato insieme a Cassio. Si racconta, ebbe la dignità di coprirsi le ferite e il volto con la toga in cui si avvolse prima di esalare l’ultimo respiro. La storia si compiva sotto lo sguardo della statua di Pompeo che regge il globo simbolo del mondo. Il popolo della città si strinse attorno a quell’uomo tanto amato, qualche giorno dopo l’assassinio, al Foro dove fu allestita una pira funeraria per ardere la salma e far ascendere al cielo la sua anima.

    Alcuni elementi di quegli infausti eventi sono in qualche modo sopravvissuti fino ai giorni nostri, seppur alterati e modificati dal trascorrere dei secoli. A largo Argentina, all’interno dell’area archeologica a cielo aperto, si trovano infatti i resti di alcuni templi. Nel retro del secondo tempio da destra, proprio davanti al teatro Argentina, s’intravede una struttura in mattoni di tufo accanto ai resti di un’antica latrina pubblica. È quel che rimane della Curia di Pompeo, il luogo dove si consumò l’efferato delitto. La Statua di Pompeo, muto testimone dell’assassinio, è ancora in piedi, con lo sguardo a quella scena. Si trova all’interno di palazzo Spada in piazza Capodiferro, con il braccio atleticamente proteso, come a volerci comunicare qualcosa. È possibile persino vedere la sala dove si riuniva il Senato, con i sedili per gli ottimati e l’area per le orazioni. Si trova presso la Curia del Foro, non è quella dell’omicidio, ma l’ambiente è perfettamente conservato sia nell’aspetto sia nella solennità del luogo.

    A pochi passi da qui, è possibile rendere omaggio alla memoria di Giulio Cesare. Lungo la via Sacra si conservano i resti di un piccolo altare in mattoni, celato all’interno di una minuta costruzione.

    È proprio qui che, nel marzo del 44 a.C., fu cremata la salma di Cesare tra la commozione generale: lacrime e lamenti che in qualche modo sono riusciti ad attraversare due millenni di storia. E ancora oggi, potreste trovarvi fiori freschi e gente che rende omaggio a un grande uomo. È la pietà umana, è l’amore che ha trovato il modo di tramandarsi da cuore in cuore fino a scaldare quello di chi avrà posto dei fiori in ricordo di un omicidio perduto nella notte dei tempi.

    Gaio Giulio Cesare, assassinato nel 44 a.C.

    I Caporioni

    Il Comune di Roma ha le sue radici nel lontano 1143 quando, a seguito di un tumulto popolare, venne ripristinato l’antico Senato romano, composto da un gruppo di 56 membri incaricati di prendersi cura delle problematiche della città. Questa configurazione, però, durò appena 48 anni, fino al 1191, quando l’amministrazione dell’Urbe si dette un nuovo ordinamento con un singolo senatore e un consiglio di anziani. Si erano gettate le basi per l’ordinamento comunale moderno, anche se la struttura democratica dei nostri giorni era ben lontana dall’essere realizzata. Alla fine del Trecento, il papa acquisì il potere di nomina del senatore e istituì la magistratura dei Conservatori e quella dei Caporioni. I primi si occupavano delle questioni burocratiche del Comune, mentre i secondi, detti anche Banderesi, erano incaricati di seguire la vita sociale ed economica di ognuna delle quattordici regioni in cui era suddivisa la città. Il nome rione, infatti, altro non è che la corruzione in romanesco del termine regione. Il caporione era una figura del popolo che però godeva di un certo status sociale, sovente nominato con l’influenza di nobili famiglie o del pontefice stesso. A lui era affidata anche una piccola milizia raccolta tra la gente del rione, non un esercito formale, ma piuttosto un gruppo di sgherri per far rispettare l’ordine nel quartiere. Furono proprio queste milizie di popolo a dare vita alle scaramucce tra rioni, il cui eco è stato tramandato nei secoli fino ai giorni nostri. Famosissime erano, ad esempio, le sassaiole tra i trasteverini e i monticiani. Se fate attenzione, alcune targhe antiche affisse qua e là nella Città Eterna riportano i nomi sia dei Conservatori sia dei Caporioni in diverse epoche storiche. Inoltre, anche la grande quantità di documenti conservati negli archivi e nelle chiese capitoline ci hanno tramandato i loro nomi e persino dove vivevano.

    Cola di Rienzo

    È un personaggio davvero singolare, la cui storia è avvolta in un velo di mistero, complice il buio del Medioevo in cui si svolgono le vicende che lo resero amatissimo e odiatissimo nell’arco di pochi anni. Agli inizi del Trecento, Roma è una città irriconoscibile, lontana dai fasti imperiali e ancora troppo acerba per la nuova fioritura che avverrà nel Rinascimento. Il papa è fuggito ad Avignone, lasciando un vuoto di potere che alimenta faide quotidiane tra nobili e il brigantaggio nelle vie buie e polverose di un agglomerato urbano che conta appena 17mila anime. Gli episodi storici che avverranno in quegli anni, infatti, vanno inquadrati nella vita quotidiana di un paesotto disorganizzato al limite dell’ingovernabilità, popolato da gente poverissima.

    Cola di Rienzo è un giovane erudito visto di buon grado dal papa, che lo investe della carica di notaio della Camera Urbana. Nato nel 1313 nel rione Regola da una povera famiglia, il padre Lorenzo è un oste, la madre fa la lavandaia. Si chiama Nicola ed è per tutti Cola, il figlio di Renzo che in romanesco diviene Cola di Rienzo. Sono proprio le origini popolari che gli infiammano il cuore d’amore per la sua gente e passione per l’antica gloria della città. Nicola è determinato a ripristinare l’ordine, riscattare il popolo e farla pagare ai nobili tracotanti e usurpatori. E poi è un grande oratore e sa come infervorare l’animo della sua gente. I suoi discorsi diventano subito popolari e riscuotono il plauso dei suoi concittadini. Il 19 maggio 1347, giorno della Pentecoste, Cola Di Rienzo raduna i suoi uomini sull’Aventino, davanti alla chiesa di Santa Sabina, dove si esibisce in un delicato sermone in bilico tra concetti religiosi e moti rivoluzionari. In sintesi, lega la discesa dello Spirito santo a una chiamata all’azione per ristabilire l’ordine a Roma. Il discorso fomenta il popolo, ma allo stesso tempo rassicura i nobili e il papa, che ne apprezzano l’impronta religiosa: Cola appare ancora ben inquadrato nei ranghi del potere pontificio. Si sparge veloce la notizia di un’adunata che avrebbe avuto luogo il giorno seguente in Campidoglio, senza armi. Il capopopolo fa celebrare la messa nella chiesa di Sant’Angelo in Pescheria, invoca ancora una volta la protezione dello Spirito santo e muove verso il Campidoglio seguito dalla folla e persino dal vicario pontificio. Il discorso sul colle inizia con una dichiarazione di fedeltà per il papa, poi cambia bruscamente tono, dichiarando che le tasse dovranno confluire nelle casse comunali e non in quelle pontificie, arrivando a manifestare la volontà di requisire tutti i terreni pontifici in favore della gente comune. La folla in visibilio lo dichiara tribuno e gli affida il governo cittadino. È questo l’apice della vita di un uomo e del sogno di libertà e riscatto di un popolo che dovrà aspettare ancora mezzo millennio prima di liberarsi del potere di aristocratici e papi. Dopo forti contrasti con la nobiltà romana, infatti, il pontefice farà dapprima arrestare Cola di Rienzo e poi nel 1354 lo spedirà di nuovo a Roma con la nomina di senatore, affiancato dal vicario pontificio per restaurare il governo temporale della Chiesa. La storia ci tramanda però un uomo trasformatosi in un despota spietato. L’8 ottobre il popolo torna in Campidoglio, questa volta per deporre il senatore con la violenza. Cola sarà ucciso brutalmente, il suo corpo appeso a testa in giù in piazza San Marcello e poi trascinato al mausoleo di Augusto, dove verrà bruciato. Oggi sul fianco sinistro della scalinata che conduce al Campidoglio, una piccola statua ricorda il luogo dove l’esistenza terrena di Cola di Rienzo giunse all’epilogo. Ma la via che porta il suo nome è la strada cardine del rione Prati. L’asse viario è stato dedicato proprio a quel tribuno irriverente verso il potere dei papi, all’interno del primo rione nato all’ombra del cupolone e che arriva fino al Tevere, nella Roma appena liberata dal governo pontificio degli ultimi anni dell’Ottocento.

    Pasquino

    Il cardinal Carafa aveva acquistato un palazzo nei pressi di piazza Navona, nel luogo dove oggi sorge palazzo Braschi. Era il 1501 e, durante i lavori di restauro, il porporato decise di far lastricare la piccola piazza che si forma naturalmente tra via di santa Maria dell’Anima e via del Governo Vecchio. Il sottosuolo restituì un gruppo marmoreo piuttosto malmesso ma, secondo Michelangelo, contemporaneo di Carafa e autorevole esperto, di grande pregio. Oggi lo troviamo su un elegante piedistallo in un angolo di piazza Pasquino ed è ormai una delle statue più famose di Roma: Pasquino. La scultura è così consumata dal tempo e mancante di pezzi, che è impossibile capire cosa rappresenti. Un indizio ci viene da piazza della Signoria a Firenze, dove alloggia la medesima scultura perfettamente conservata. Scopriamo in questo modo che rappresenta una scena tratta dall’Iliade: Menelao che sorregge il corpo esanime di Patroclo. Si capisce come quel torso leggermente ruotato è intento a sostenere il peso del cadavere del giovane acheo, lo sguardo verso l’orizzonte. La statua di Pasquino era con ogni probabilità una decorazione dello stadio di Domiziano che sorgeva in epoca romana al posto dell’attuale piazza Navona. La statua quindi è in questo luogo da tempo immemore, non si è mai spostata, se non di qualche metro.

    Da subito i romani cambiarono il nome dell’eroe greco dandogli il soprannome di Pasquino. Alcuni sostengono per via di un barbiere o di un oste che aveva la sua bottega sulla piazza. La storia più accreditata sull’origine del nome, però, racconta che Pasquino era un insegnante di grammatica della vicina Università La Sapienza. Il 25 aprile, giorno di San Marco, una processione si snodava per i vicoli dalla piazza San Lorenzo in Damaso fino alla statua, per l’occasione vestita con drappi e allori. Si trattava di una competizione letteraria tra studenti, che giunti davanti al tronco marmoreo, vi appendevano i loro scritti.

    Da quel giorno Pasquino non smise più di parlare, trasformandosi man mano da letterato a uomo di popolo. Gli scritti classici cedettero presto il posto a satira pungente, spesso in romanesco, all’indirizzo della borghesia, principi, cardinali e pontefici. Papa Benedetto XIII emanò addirittura un editto che intimava la pena di morte a chi fosse stato sorpreso ad affiggervi le cosiddette pasquinate. Un piccolo drappello di soldati pontifici comparve a guardia della scomoda statua chiacchierona. Eppure Pasquino continuò a farsi portavoce dello sfogo del popolo attraverso i secoli, insieme ad altre cinque statue, che come lui presero a parlare. Sono il cosiddetto congresso degli arguti: Madama Lucrezia a piazza San Marco, Marforio nel cortile dei Musei Capitolini, l’Abate Luigi in piazza Vidoni, il Facchino nella piccola via Lata e il Babuino nell’omonima strada. E anche oggi c’è chi continua a lasciare poesie e scritti irriverenti nei confronti del potente di turno…

    La più famosa delle statue parlanti di Roma: Pasquino.

    I briganti e Sisto V

    Nel giugno del 1585, papa Sisto V emanò un editto nel tentativo di porre rimedio alla dilagante emergenza dei briganti nella campagna romana. Questi erano temibili fuorilegge – di frequente accompagnati da un piccolo esercito di malviventi altrettanto temibili – dediti al furto, l’estorsione e il sequestro di persona che spesso finiva in omicidio. Le loro storie sono giunte a noi condite di dettagli fantasiosi, mistici e persino miracolosi. Alcuni erano semplici ladri, altri veri antagonisti del potere dei papi. Altri ancora, paladini del popolo: una sorta di Robin Hood alla romana. Le gesta di due personaggi in particolare sono giunte fino a noi: Marianaccio e Giovanni Valente. Il primo era chiamato l’uomo selvaggio… e c’era perfino chi credeva fosse un cannibale! Si muoveva per le campagne insieme a un gruppo di trecento mercenari pronti ad assalire, rubare, sequestrare e spartirsi il bottino. Fu sconfitto e ucciso dalle truppe del papa che, pur di catturarlo, dettero vita a una vera e propria battaglia nei boschi attorno a Ceri, nella campagna vicino a Cerveteri.

    Giovanni Valente, invece, era un astuto brigante che divenne famoso perché architettò il sequestro di un signorotto, evento che tenne con il fiato sospeso la borghesia del tempo. Fu rilasciato solo dopo il pagamento di un astronomico riscatto che ammontava a ben diecimila scudi. Valente spadroneggiava senza contrasto, la sua influenza e il suo potere erano così forti che si mise addirittura a coniare monete con la sua effige, s’incoronò re della campagna romana ed emanò persino degli editti che si aprivano con la curiosa frase: «Noi, Giovanni Valente, prete Ardeatico, esule peritissimo e fortissimo, principe di tutta la spiaggia marina e di tutta la regione montana…». Segnali di un evidente carattere stravagante, noncurante dell’autorità. Purtroppo per il bizzarro brigante, tanta spavalderia gli costò la vita. Al contrario di Marianaccio, non fu braccato da un nutrito esercito pontificio. Sisto V, che già aveva usato la mano pesante contro ogni malvivente, annunciò che sarebbe stato Dio stesso a scatenare la sua ira e fare giustizia contro Valente. Pochi giorni più tardi il «prete Ardeatico», re della campagna romana, morì misteriosamente assassinato e decapitato. La sua testa fu portata in processione per le strade di Roma ed esposta per settimane a Castel Sant’Angelo, issata su un palo e ornata da una corona dorata come sberleffo per le sue autoproclamate origini reali.

    Papa Sisto V, che tentò di debellare la piaga del brigantaggio nelle campagne intorno a Roma.

    Meo Patacca

    Bartolomeo Patacca è un personaggio di fantasia, protagonista dell’omonima opera in romanesco scritta nel XVII secolo da Giuseppe Berneri. Meo è un bullo di Trastevere, abile con il coltello, scontroso ma di animo buono. Incarna una figura piuttosto comune nella cultura popolare romanesca: un uomo sbruffone e insolente, però dal cuore tenero. Caratteristiche che ritroviamo, in qualche modo, nel Rugantino, nel Marchese del Grillo e in Pasquino.

    La storia ideata da Bernieri è curiosa e divertente. In sostanza, Meo Patacca decide di raccogliere i soldi e organizzare un plotone di popolani per mettersi in marcia alla volta di Vienna con l’obiettivo di contrastare l’invasione dei Turchi. Lo stesso nome patacca deriva dal termine dialettale che indicava la misera paga di cinque Carlini percepita dai soldati di basso rango. Ma l’invasione è un fatto storico realmente avvenuto nel 1683, quando le truppe dell’impero ottomano assediarono la città sul Danubio.

    Appena il gruppo è partito da Roma, però, giunge la notizia che l’assedio è terminato, e Meo decide di usare i fondi e le provviste raccolte per organizzare una grande festa. È questo lo scenario all’interno del quale prende vita il personaggio insieme agli altri protagonisti: Ninuccia, la sua amata, e Marco Pepe, suo acerrimo rivale. Oltre a uno spaccato popolare, il poema è un eccezionale documento per capire le origini del dialetto di Roma. L’autore stesso si sofferma nell’introduzione a spiegare alcune caratteristiche di quella lingua che definisce «del popolo». A tratti, anzi, sembra quasi difenderla, ponendo l’accento sull’abitudine tutta romanesca di introdurre parole turpi nel discorso.

    Nell’Ottocento, l’opera ebbe un periodo di rinnovata popolarità. Fu prima stampata con una serie di cinquantadue illustrazioni di Bartolomeo Pinelli, e poco dopo messa in scena con grandissimo successo. Meo Patacca divenne, in questo modo, un personaggio distintivo di Roma con tanto di maschera carnevalesca a lui intitolata, rappresentazioni teatrali e stornelli che da quasi quattro secoli vengono tramandati di generazione in generazione, fornendo linfa sempre nuova a una tradizione popolare tra le più radicate, e tutt’oggi ancora riconoscibile.

    Ruffianello

    Il gioco del lotto fece la comparsa ufficiale a Roma il 14 febbraio del 1732 sotto lo stretto controllo delle autorità pontificie. Una novità, non tanto per il gioco, ma perché era lo Stato ad amministrare regole e vincite, tradizionalmente gestite clandestinamente da cittadini più o meno loschi. I tentativi di dare una veste istituzionale all’azzardo erano iniziati diversi anni prima senza mai riuscire a ottenere la necessaria continuità e trasparenza, sicché il gioco continuava abusivamente. Forse anche per arginare il proliferare di attività illegali, e certamente per trarre guadagno, il papa istituì una commissione per presenziare il corretto svolgersi dei sorteggi e della distribuzione delle vincite. Le estrazioni erano pubbliche e si svolgevano prima in piazza del Campidoglio, poi in piazza Montecitorio dalla loggia del palazzo del parlamento. Immaginate la folla speranzosa in attesa trepidante del fatidico momento, l’estrazione di cinque numeri da un ampolla che ne conteneva 90, sigillati all’interno di piccole sfere, in maniera molto simile a quanto accade oggi. A verificare la regolarità del tutto c’era il cosiddetto Pallaro, il quale accertava che le sfere contenenti i numeri non fossero manomesse, riconoscibili e che non ci fossero numeri mancanti o doppi. Per porre l’accento su innocenza e purezza, l’estrazione era affidata a un bambino scelto tra gli orfanelli ospitati negli istituti religiosi di cui l’Urbe era piena. Il popolo romano – abituato alla condotta non sempre innocente di principi e baroni e certo delle interferenze delle autorità governative – soprannominò ruffianello il ragazzino chiamato di volta in volta a quel compito. Una piazza nel cuore del Campo Marzio conserva ancora il ricordo di quei bagni di folla nell’attesa e nella speranza di cambiare vita in un colpo solo, proprio come accade oggi. È il delizioso largo del Pallaro, accucciato teneramente tra Campo de’ Fiori e la cupola rassicurante di Sant’Andrea della Valle.

    Il Marchese del Grillo

    Non sappiamo con certezza se il personaggio magistralmente interpretato da Alberto Sordi nel famoso film di Mario Monicelli sia esistito davvero. Di certo, circolano numerosi aneddoti e racconti proliferati attorno a una figura storica vissuta tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, descritta come un nobile burlone dai modi piuttosto singolari. La voce della gente è fulminea nel trasmettere le vicende più curiose, condendole di fantasia e colore, al punto di offuscare il personaggio reale dietro alla fama popolare. Ricercando tra i libri di storia e gli archivi del Vaticano, però, emerge una figura riconducibile al famigerato marchese. Si tratta del Marchese Onofrio del Grillo, originario di Fabriano, vissuto a Roma durante il Settecento.

    Nonostante il titolo nobiliare, ricevette una cospicua eredità che gli permise di entrare alla corte di papa Benedetto XIV come palafreniere, cioè come affiliato a un ordine cavalleresco di stretta e segreta collaborazione con il pontefice. Tracce del suo passaggio a Roma sono nascoste in diversi luoghi. Il primo è la chiesetta di Sant’Anna, all’interno della città del Vaticano, pochi passi oltre l’omonima porta. All’ingresso una lapide ricorda i membri della confraternita dei Palafrenieri, tra i quali spicca proprio il Marchese del Grillo. Nel rione Monti esiste una via che prende il nome dalla nobile casata: è la salita del Grillo, dove ha sede l’austero palazzo nobiliare tuttora di proprietà della famiglia. È persino possibile fare visita al noto burlone recandosi presso la chiesa di San Giovanni dei Fiorentini. È qui che potrete rivolgergli una preghiera, proprio davanti alla sua tomba. I racconti delle sue burle non sono stati tramandati da nessuna cronaca del tempo, ma dai racconti del popolo, eloquentemente interpretati da Alberto Sordi in tutte le loro singolari manifestazioni, incluso l’accanimento contro gli ebrei romani. Il film cattura l’aspetto più giocoso e derisorio del Marchese, però non va dimenticato che molti di quegli scherzi erano veri e propri soprusi di una nobiltà abituata a farsi scherno e a divertirsi alle spalle (e spesso ledendo la dignità) della gente comune.

    Mastro Titta

    Il modo migliore per fare la conoscenza con questo personaggio è quello di recarsi presso Ponte Sant’Angelo alle prime luci dell’alba. Secondo una vecchia leggenda, il suo fantasma si aggirerebbe proprio qui, avvolto da un lungo mantello rosso e sbuffando il fumo di un sigaro. Se l’esoterico incontro non avesse l’esito desiderato, una breve passeggiata presso il vicino museo del crimine di via del Gonfalone vi permetterà di vedere quel mantello dal vivo, insieme con alcuni degli strumenti utilizzati da Mastro Titta per svolgere la poco invidiabile professione di boia. Nei suoi 68 anni di carriera tra il 1796 e il 1864, infatti, Giovanni Battista Bugatti – così si chiamava al secolo – portò a compimento ben 516 esecuzioni in tutto il territorio pontificio, e non solo a Roma.

    Subire la pena capitale a quel tempo significava l’impiccagione, il taglio della testa ma anche la mazzolatura o lo squartamento davanti a una folla di curiosi. Il boia era il protagonista finale di un evento dai contorni teatrali, ma drammaticamente reale. Mastro Titta attendeva sul patibolo avvolto dal suo mantello e con il viso incappucciato, mentre una lenta processione accompagnava il condannato verso l’epilogo di una vita. Preghiere e lamenti completavano la scena fino a quando il mastro prendeva in consegna il condannato, lo sistemava per la pena prevista e sferrava il colpo mortale. Si narra che nel momento del trapasso, tra i sospiri e le grida di orrore, i padri erano soliti sferrare un ceffone ai figli: un sistema per far comprendere, nella maniera più vivida possibile, che quella era la fine riservata ai malfattori e che una condotta di vita sbagliata li avrebbe portati alla medesima sorte.

    Nonostante tanta fama, Mastro Titta era un personaggio riservato. Quando non era impegnato a uccidere, faceva l’artigiano nel rione Borgo. Viveva in via del Campanile al civico 4 e riparava ombrelli in via degli Ombrellari. Casa e bottega, diremmo oggi. Il popolo usava l’espressione «Mastro Titta passa ponte» per indicare che a breve un condannato sarebbe morto sul patibolo. La gran parte delle pubbliche esecuzioni avveniva, infatti, fuori dal rione Borgo, oltre il Tevere. Il famoso boia attraversava Ponte Sant’Angelo ogni volta che una mano esperta era richiesta per mandare qualche malcapitato all’altro mondo. E se sarete fortunati, incontrerete il suo fantasma mentre passa ponte ancora una volta.

    Un’esecuzione capitale in pubblica piazza. Mastro Titta – al secolo Giovanni Battista Bugatti – fu il boia più famoso di Roma.

    L’abate Giannini

    A pochi passi da piazza Navona, in un angoletto di Largo Febo, si trova la piccola chiesa di Santo Stefano dei Lorenesi, risalente al XVI secolo. Qui, a metà dell’Ottocento, svolgeva la sua missione l’abate Giannini, personaggio piuttosto singolare finito nei racconti e nelle dicerie popolari. Si narra, infatti, che durante il Carnevale – infastidito dai giochi e dalle feste in maschera cui partecipavano i suoi fedeli – il prete avesse escogitato un trucco per riportare le pecorelle smarrite all’ovile. Nel bel mezzo dei festeggiamenti, accese tutte le candele della chiesa e mise un chierichetto a suonare l’organo a tutto volume, poi spalancò le porte. La gente del rione di Tor di Nona, incuriosita dall’evento, varcò la soglia della parrocchia. C’erano donne, vecchi e bambini, alcuni indossavano le maschere tradizionali del Carnevale, altri erano agghindati per la festa. Una folla variopinta si era affollata sul sagrato. A quel punto l’abate Giannini serrò il portone e in un attimo balzò dietro l’altare, pronto per la predica. Il poeta romanesco Giggi Zanazzo ce la descrive in lingua:

    Signori mii, ve ciò agguantato cor sorcio in bocca! Indove andavate? Indove andavate, accusi vestiti tutti in cchìcchere e ppiattini ? Andavio al festino; andavio a bballare, andavio a scherzare co’ li purcinelli. l’arlecchini e li pajacci? Ma ritornate in vojaltri; finitela co’ questo carnovale, co’ questi festini, co’ queste mmascherate ridicole, e rivolgete la vostra mente al Signore! Basta co’ li purcinelli, l’arlecchini e li pajacci: abbasta!

    E indicando il crocifisso dal pulpito, seguitava:

    Eccolo er vero purcinella, er vero arlecchino, er vero pajaccio!

    Il singolare evento fa eco a quello più famoso sopravvissuto fino a pochi decenni fa tra le famiglie romane. Si racconta che, mentre l’abate Giannini distribuiva la comunione, un bambino in braccio alla mamma tentò di rubare l’ostia dalla sua mano. Per distoglierlo dal gesto sacrilego, gli intimò un singolare: «Lassa sta che è cacca!».

    Giannini svolse la funzione di parroco del rione per tutta la sua vita, non fece mai carriera ma, considerando che il padreterno tiene più ai propositi che alle parole, si sarà di certo guadagnato anche lui un cantuccio in paradiso, se non altro per la simpatia, nonostante le pratiche spesso poco ortodosse.

    Il piccolo Righetto

    Nell’estate del 1849 Roma era preda di un drammatico bombardamento scatenato dalle truppe francesi asserragliate sul colle Gianicolo. Le bombe piovevano a ritmo incessante, colpivano indiscriminatamente per portare scompiglio tra la popolazione e forzare i romani alla resa. La città sarebbe capitolata dopo pochi giorni ma la resistenza fu eroica, fino allo stremo delle forze. Nel tentativo di contrastare l’attacco con ogni mezzo, le autorità della Repubblica romana decretarono che avrebbero pagato un baiocco e mezzo per ogni bomba inesplosa consegnata alle truppe di resistenza. Gli ordigni sarebbero stati riciclati contro il nemico. La notizia fece il giro dei rioni e in poco tempo nacquero squadre di primitivi artificieri che si cimentarono nel pericolosissimo lavoro. A quel tempo le bombe erano lanciate dai cannoni e munite di miccia per ritardare l’esplosione fino a impatto avvenuto. Le bombe più facili da recuperare erano quelle con la miccia intatta, spenta durante il volo verso il bersaglio. Le più pericolose erano quelle che arrivavano al suolo con la miccia scintillante, pochi secondi prima di esplodere. L’abilità degli artificieri era di spengere la miccia con un panno bagnato, recuperare l’ordigno intatto ed evitare l’esplosione. Righetto era un orfanello trasteverino di soli dodici anni, sempre in giro con sgrullarella, un piccolo cagnolino che lo accompagnava a fare le consegne ai panettieri della città. In quei giorni drammatici, Righetto mostrò tutto il suo coraggio e abilità nel disinnesco. Il 29 giugno un ordigno cadde sulle rive del fiume pochi metri a valle di Ponte Sisto. Righetto si gettò sulla bomba ma non fece in tempo a estinguere la miccia ormai cortissima. La fiamma penetrò profonda nel ferro, mentre Righetto tentava di liberarsene. Infine l’ordigno esplose uccidendo il bambino sul colpo. L’evento toccò il cuore dell’intera città, un gesto eroico che commosse anche le truppe impegnate al fronte. Pochi anni più tardi, il Conte Litta, combattente garibaldino, dedicò una statua all’interno del suo palazzo di Milano a quel tenero eroe. Da pochi anni una copia è comparsa in cima al Gianicolo, a pochi passi dal monumento equestre di Garibaldi. È un’opera commovente che ritrae il piccolo Righetto insieme al fedele compagno sgrullarella.

    Il generale Mannaggia la Rocca

    Tra gli acquerelli che Bartolomeo Pinelli e il figlio Achille hanno dedicato al Carnevale romano, molti raffigurano maschere di cui si è perso completamente il nome, non sappiamo più chi rappresentassero e quale carattere avesse il loro personaggio. Alcuni resoconti scritti ci hanno tramandato l’enorme varietà di maschere e la bravura di chi le interpretava. Molte di queste erano completamente inventate, e diventavano popolari per l’interpretazione o per le situazioni in cui si trovavano, per poi tornare nell’oblio. Tra queste c’è il Dottor Gambalunga, che si aggirava per le strade proclamando di possedere le soluzioni per i malanni più svariati. Quando trovava un cliente, andava in scena uno scambio di suggerimenti e opinioni dove il dottore si esprimeva in un romanesco condito da improbabili latinismi, per sottolineare il suo livello culturale. Un’altra maschera era quella della zingara, munita di tarocchi e oggetti per scacciare il malocchio, che improvvisava fantasiose letture del futuro, unite ad altrettanti suggerimenti per questo o quel problema.

    Ma forse la maschera più curiosa è quella del bizzarro Generale Mannaggia La Rocca. Fu ideata nel 1898 da un tale Luigi Guidi, di professione stracciarolo, che la interpretò con grande successo durante i festeggiamenti carnevaleschi di strada. La maschera era semplicissima però efficace. Si trattava di un ufficiale a capo di un esercito inesistente fatto di straccioni, che si fregiava di imprese al limite del credibile e di battaglie per cause assurde contro eserciti inventati. A completare il buffo quadretto, il generale Mannaggia la Rocca, si presentava a cavalcioni su di un asino adornato di gualdrappa rossa, indossava larghi pantaloni e una giacca a imitazione di una giubba militare. In testa, un elmetto e in mano una sciabola di legno che brandiva tra la folla. Quando scendeva in piazza si prodigava nel decantare le vittorie sue e dei suoi prodi in perfetto dialetto romanesco, incitando il popolo ad arruolarsi e partire insieme a lui verso le destinazioni più improbabili. Andava in scena un esilarante botta e risposta tra chi gli reggeva lo scherzo e chi lo prendeva in giro, la battuta sempre pronta e colorita in elegante equilibrio tra ironia, offesa e pasquinata. Si racconta che il generale Mannaggia la Rocca sfidò a duello il vero Duca d’Orleans, il quale accettò con fierezza tutta francese inviando un telegramma a Roma. Si trattava di uno scherzo, la trovata di un giornalista ideata per prendersi gioco del duca, colpevole di aver preso in giro le truppe italiane impegnare nella campagna d’Africa. Purtroppo la divertente maschera, nonostante l’acquisita fama internazionale, non sopravvisse alla scomparsa del suo ideatore nel 1901. Nessuno più indossò i panni del famigerato generale Mannaggia la Rocca, a capo del suo esercito di straccioni.

    Angelo Brunetti

    È la notte di San Lorenzo del 1849, siamo nel paesino veneto di Porto Tolle. Un uomo con i suoi due figli viene catturato dalle truppe austriache e condannato a morte per fucilazione, ma si esprime solo in romanesco e chiede al capo del plotone d’esecuzione di risparmiare il figlioletto più piccolo, Lorenzo, di soli tredici anni. I tre sono allineati davanti ai fucili spianati. Con un gesto di estrema crudeltà, il capo plotone uccide per primo proprio il piccolo Lorenzo, davanti al fratello e al padre. Subito dopo la raffica mortale, anche loro due cadono a terra, la vita li abbandona. È il drammatico epilogo della vita di Angelo Brunetti e dei suoi figli.

    Ma chi era Angelo Brunetti? Era un carrettiere di Campo Marzio, uomo del popolo mosso dall’ardore degli ideali di libertà che scossero un’intera generazione di giovani durante l’entusiasmante ascesa e la drammatica caduta della Repubblica romana. Era nato in via di Ripetta, in un palazzo oggi scomparso, presso il civico 248, ma una lapide ancora lo ricorda. La mamma lo chiamava Ciceruacchio per via dell’aspetto paffuto che lo caratterizzava, e con quel nome lo conosceva tutto il rione. Fin da giovanissimo, Angelo aveva riposto grande fiducia nel pontificato di Pio IX, speranzoso che quel papa si sarebbe mostrato aperto verso una politica più democratica. Purtroppo le sue nobili speranze furono ben presto tradite. Ciceruacchio divenne uno dei più arditi agitatori di popolo, a capo dei numerosi tumulti e proteste tra i vicoli di Roma che caratterizzarono quel periodo storico. Agitazioni che velocemente infiammarono tutta la città, portarono alla cacciata del papa a Gaeta e alla proclamazione della Repubblica romana nel febbraio del 1849. Il motto «Dio e Popolo» campeggiava nel bel mezzo della bandiera tricolore. Monumenti viventi come Garibaldi, Manara, Mameli e lo stesso Ciceruacchio difesero quegli ideali contro le truppe francesi, invocate dal papa per liberare la città, fino alla capitolazione della Repubblica romana e la restaurazione del pontificato di Pio IX appena sei mesi più tardi.

    Oggi una breve passeggiata sulle pendici del Gianicolo riporta la memoria a quei drammatici eventi, così ricchi di amore e di aspirazione alla libertà. Presso la balaustra della splendida terrazza che si affaccia sulla Città Eterna, oltre piazzale Garibaldi, nei pressi della statua di Anita Garibaldi, sono stati di recente incisi alcuni passaggi della costituzione della Repubblica romana. Parole proiettate verso il futuro, cariche di libertà e seme della futura Costituzione italiana. Dentro l’aula consiliare dell’Università israelitica della Sinagoga Maggiore, sul Lungotevere, si trova una commovente lapide che in sostanza recita:

    Onore e gratitudine alla memoria del famoso popolano Angelo Brunetti, detto Ciceruacchio, il quale vinto da carità del natio loco e da tenerezza più di fratello che di cittadino, la sera di lunedì 17 aprile 1848 con pio e vigoroso slancio le mura di cinta smantellò, infranse le porte del vituperevole ghetto fin dal 1556 sciaguratamente durato.

    Lungo il viale che dal piazzale del Gianicolo conduce a Porta San Pancrazio, si trova invece la statua di Ciceruacchio, un tempo collocata su Lungotevere Arnaldo da Brescia. Opera di Ximenes e di recente restaurata, ritrae l’eroe proprio nel momento della fucilazione, lo sguardo fiero mentre tiene per mano il figlioletto Lorenzo qualche attimo prima di morire. A pochi passi da qui, però, si può fare la conoscenza di Ciceruacchio, dal vivo. Dentro Porta San Pancrazio ha sede infatti il Museo della

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