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I grandi condottieri del Medioevo
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I grandi condottieri del Medioevo

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Da Carlo Magno a Giovanna d'Arco, una nuova luce su un'epoca buia

Le loro gesta hanno scritto la storia

Riccardo Cuor di leone, Carlo Magno, Saladino, Roberto il Guiscardo, Braccio da Montone, Giovanna d’Arco sono solo alcuni degli uomini straordinari raccontati in questo libro.
Guide carismatiche, a cui bastava un cenno per determinare il destino di eserciti o addirittura di popoli interi. Allo stesso tempo capi illuminati e feroci, banditi spietati e ammirevoli strateghi, guidati dalla sete di potere e ricchezze o dall’amor di patria: erano i “condottieri”, che diventarono un vero e proprio archetipo, dotato di una prepotente forza evocatrice. Chiunque si imbatta nella storia di questi capi temibili, non può fare a meno di immaginare il clangore delle armi e il campo di battaglia su cui si staglia un uomo solo al comando, padrone di quel mondo e delle vite ai suoi ordini. Seguire il filo della loro esistenza “alla ventura”, che si dipana nei secoli del Medioevo, significa ripercorrere il sentiero di sangue e acciaio su cui da Bisanzio all’Italia, dalle fredde terre del Nord ai torridi deserti siriani, dalle steppe asiatiche alle paludi europee, all’ombra della croce o della mezzaluna, questi uomini avanzarono a disegnare la mappa di un’era terribile e portentosa. 

Hanno dominato eserciti, hanno cambiato la storia

Carlo Magno
Un grande imperatore, un grande stratega

El Cid
Da mercenario a eroe di una nazione

Riccardo Cuor di leone
Il re dei re. Il cavaliere crociato che fermò il Saladino

Giovanna d’Arco
La “pulzella” guerriera di dio

Gengis Khan
Il mongolo che creò l’impero più vasto

Guglielmo il Conquistatore
Il magnifico bastardo che fece tremare gli inglesi

Tamerlano
Lo “zoppo” che non trovò un nemico capace di fermarlo

Castruccio Castracani
Da formica divenne leone

e tanti altri...
Giuseppe Staffa
è nato a Roma nel 1973. Laureato in Archeologia medievale, ha partecipato a numerose campagne di scavo in Italia e all’estero. È insegnante ed educatore tiflologico (per i non vedenti). Dal 2010 collabora con la trasmissione televisiva di Rai3 Cose dell’altro Geo, come consulente storico e archeologo. Con la Newton Compton ha pubblicato 101 storie sul Medioevo che non ti hanno mai raccontato, I personaggi più malvagi della Chiesa e I grandi condottieri del Medioevo.
LanguageItaliano
Release dateMay 30, 2014
ISBN9788854164574
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    I grandi condottieri del Medioevo - Giuseppe Staffa

    logo-collana

    195

    Prima edizione ebook: giugno 2014

    © 2014 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-6457-4

    www.newtoncompton.com

    Giuseppe Staffa

    I grandi condottieri

    del Medioevo

    Le loro gesta hanno scritto la storia

    Newton Compton editori

    OMINO-OTTIMO.tif

    Introduzione

    Al di là di ogni considerazione etica o morale bisogna ammettere un’incontrovertibile evidenza: la guerra è una delle manifestazioni che ha accompagnato l’uomo da quando questi si è affacciato sulla terra.

    Se tale assioma è vero per ogni periodo storico, compreso l’attuale, lo è ancora di più per il Medioevo. Basti pensare alle Crociate, alle lotte tra il papato e l’impero, alla Guerra dei Cent’anni, alle feroci contese dinastiche o, giusto per restare nell’orticello italiano, alle sanguinose faide che hanno arrossato il cammino dell’affermazione comunale o delle Signorie.

    Naturalmente l’Età di Mezzo fu molto di più che non uno sterminato campo di battaglia, riproducendo in sé tutte le complesse architetture sociali, politiche e culturali che accompagnano ogni stagione dell’incedere umano.

    Ma è innegabile che la via delle armi fu uno dei veicoli attraverso i quali l’agire di quei tempi si sia espresso.

    Al punto da creare la stessa categoria di cui questo volume intende riannodare le fila: i condottieri.

    Almeno dal punto di vista etimologico, considerato che questi traggono il nome dalla condotta, come altrimenti era chiamato il patto stabilito tra un capitano di ventura e chiunque si avvalesse dei suoi servigi, fosse esso un sovrano, un Comune, una Signoria, un imperatore o un papa.

    In virtù di tale contratto, costoro divennero ciò per cui li riconosciamo, guide carismatiche cui bastava un cenno per determinare il destino di eserciti o addirittura di popoli.

    Ma la potenza delle loro gesta fu tale da travalicare l’angusto recinto del vocabolo con cui vennero definiti.

    Se ciò non fosse avvenuto, l’elenco si limiterebbe al Carmagnola, al Gattamelata, a Castruccio Castracani, per citare i più noti.

    Invece, l’audacia di questi guerrieri fu tale da superare i limiti geografici e storici imposti da quell’etimologia, capaci di ritagliarsi un orizzonte che andasse ben oltre lo stipendio stabilito per il servizio e per gli uomini messi a disposizione.

    Costoro diventarono un vero e proprio archetipo, dotato di una prepotente valenza evocatrice.

    Ma dietro le loro spade, i loro scudi e le loro armature si celò qualcosa di più, qualcosa che li rese e li rende affascinanti ancora oggi: la volontà di perseguire un obiettivo, la determinazione di operare un cambiamento.

    Ognuno, tra coloro che scorreranno in queste pagine, scelse di agire, di essere artefice del proprio destino, assumendosi la responsabilità delle proprie decisioni.

    Fu proprio questa la forza attrattiva capace di riunire sotto le loro insegne uomini che si dimostrarono pronti a seguirli fino alla morte, a volte anche oltre.

    Costoro riconobbero in quegli straordinari protagonisti un esempio capace di innervare le loro stesse esistenze, a prescindere dall’obiettivo prefisso.

    È questo il filo rosso che lega figure altrimenti diversissime tra loro, dipanandosi in un campionario che vede imperatori, avventurieri, guerriglieri e combattenti per la libertà, per tacere di quell’icona inclassificabile che fu Giovanna d’Arco, santa, guerriera o folle che fosse.

    Indipendentemente dal movente che informò le loro gesta, sete di potere, fame di bottino, salvezza di un popolo o affermazione della grandezza del proprio dio, costoro testimoniarono una palese verità: chiunque ha il diritto se non addirittura il dovere di rendere la sua esistenza degna di essere vissuta.

    La via delle armi è stata solo un mezzo o meglio una scorciatoia attraverso la quale queste guide si sono manifestate, tanto più in un’epoca quale il Medioevo, in cui il destino degli uomini e delle loro idee passava spesso e volentieri sulla punta della spada.

    Attraverso la guerra essi si definirono, o meglio sconfinarono fino a imprimersi nel nostro immaginario. Tracciare le tecniche con cui imposero la loro maestria, le strategie che scelsero nelle loro campagne, le tattiche con le quali vinsero le loro battaglie (o le persero) costituisce un’occasione non solo per tracciare i loro profili, ma anche per gettare uno sguardo profondo nella realtà in cui palpitarono.

    I paladini della Cristianità

    Carlo Magno

    Contro tutte le regole imperiali d’etichetta, Carlomagno s’andava a mettere a tavola prima dell’ora, quando ancora non c’erano altri commensali. Si siede e comincia a spilluzzicare pane o formaggio o olive o peperoncini, insomma tutto quello che è già in tavola. Non solo, ma si serve con le mani. Spesso il potere assoluto fa perdere ogni freno anche ai sovrani più temperanti e genera l’arbitrio.

    È con queste tutt’altro che regali note che Italo Calvino introduce nel Cavaliere inesistente la mirabile scena del banchetto dei paladini, restituendoci una delle più dissacranti rappresentazioni dell’imperatore carolingio.

    Il sovrano è dipinto come un «vecchio bacucco», attaccato alla corona imperiale pur non rispecchiando nessuno dei requisiti necessari al suo mantenimento, persi probabilmente con l’avanzare di un’incipiente vecchiaia.

    Eppure, la figura del monarca non appare affatto sminuita: anzi, la descrizione dei suoi vizi dimostra che la grandezza di Carlo fu tale da poter contenere anche la messa alla berlina dei suoi istinti più meschini, ampiamente contrastati dal valore storico delle sue azioni.

    Per dirla alla Calvino, Carlo riempì l’armatura di quel cavaliere che lo scrittore parodiando immaginava vuota, divenendo non per caso Magno.

    Ma per far ciò, egli dovette dar voce alla sinfonia delle armi, l’unica capace di farsi ascoltare in un’età violenta come i secoli dell’Alto Medioevo hanno dimostrato di essere.

    Carlo fu dunque un soldato figlio di soldati: sulle sue imprese militari fonderà un governo attraverso il quale travalicherà le soglie del mito fino a incarnare l’archetipo della cavalleria occidentale.

    L’autore di questa altisonante avventura scontò per contrappasso l’incertezza dei natali.

    La maggior fonte a cui abbeverarsi, il biografo di corte Eginardo, tentennava su tre date: 742, 743 o 744 d.C., per tacere degli storici che posticiperanno il genetliaco addirittura al 748-749. Fu allora che secondo questi, suo padre Pipino III conosciuto come il Breve – forse per la concisione con cui era solito esporre il suo pensiero – poté finalmente dedicarsi alle carezze della moglie Bertrada di Laon, meglio nota come Berta la Piedona – quasi sicuramente a causa delle sue estremità non proprio aggraziate -; e solo dopo che suo fratello Carlomanno ebbe la squisita sensibilità di togliersi di mezzo imboccando la via del chiostro e rinunciando a quella parte di regno cui l’aveva destinato il padre Carlo Martello.

    Al di là della facile ironia a cui una coppia come il Breve e la Piedona può ragionevolmente indurre, i due erano al contrario dei pezzi da novanta.

    Berta era figlia del conte Cariberto, discendente per linea materna dalla dinastia dei Merovingi, che all’epoca deteneva, almeno di nome, il potere in Gallia; quanto a Pipino, era l’ultimo esponente del clan dei Carolingi, i maggiordomi di palazzo che avevano progressivamente esautorato proprio i Merovingi, accingendosi a trasformarsi di fatto nella stirpe regnante.

    Da tanta speme nacque il prode Carlo a cui la tradizione si affannò a confezionare una bella data che tacitasse le incertezze delle fonti coeve: il 2 aprile 742.

    Che poi, quest’ansia della data fu tutta moderna, considerato che a quei tempi non gliene poteva importare di meno: la scansione secondo la nascita di Nostro Signore era affare troppo recente per risultare avvezzo alle popolazioni dell’epoca, per le quali tra l’altro lo scorrere inesorabile del tempo era appannaggio confinato alla volontà divina.

    Se il quando era un lusso su cui difficilmente si indugiava, figurarsi il dove.

    In un mondo in cui le città, sommerse dalla marea montante delle migrazioni barbariche erano andate a farsi benedire, ricordare il luogo natale equivaleva a ricomporre i pezzi di una mappa stracciata. Tanto più se avevi la ventura di nascere in una famiglia le cui responsabilità rischiavano di sbatterla in qualsiasi villa, castrum o corte in cui era richiesta la sua presenza.

    Ne consegue che Carlo nacque in una delle residenze padronali di cui le feconde proprietà dei genitori potevano disporre, presumibilmente tra quelle concentrate nella regione tra il Reno, la Mosa e la Mosella.

    Tanto nebulose le origini, quanto incerte le notizie sulla sua giovinezza.

    Lo stesso Eginardo, che pure conobbe Carlo, appare abbottonato, dimostrando come questi apprezzasse non poco la discrezione e il silenzio, tanto da richiederli ai suoi collaboratori al pari di altre qualità.

    Bisogna allora ricorrere alle infinite testimonianze relative alla sua maturità, almeno per ricostruire un ritratto dal punto di vista fisico. Queste ci restituiscono un colosso dotato di una pancia altrettanto degna, lasciando dunque supporre che in gioventù Carlo fosse un marcantonio della ragguardevole statura di sei piedi, stimati oggi all’incirca sui due metri.

    Da qui forse il destino di un uomo che dal vertice della sua sommità avrà sviluppato un’intrinseca idiosincrasia a inginocchiarsi abituandosi al contrario a incutere timore reverenziale.

    Le stesse fonti ci dicono che Carlo era così biondo da essere quasi bianco, riproponendo il colore dominante nei canoni di bellezza che non solo durarono sino al Rinascimento, ma permearono il prototipo dell’eroe che a quel punto non ebbe difficoltà ad aderire naturalmente sulla sua persona.

    Resta quella pancia che, seppur imponente in vecchiaia, lascia supporre che nei bei tempi andati fosse costretta in una figura possente, temprata da anni di esercizio all’aria aperta in cui l’addestramento marziale e la caccia furono il pane quotidiano.

    Carlo infatti, al pari di tutti gli appartenenti alla casta dominante dei milites almeno sino alla Rivoluzione francese, dovette dedicarsi a quella attività che, nata come bisogno alimentare, si era via via caricata di complesse sfumature divenendo un potentissimo status symbol: attraverso di essa infatti si intesserono le complesse relazioni sociali di natura clientelare meglio note come vassallaggio.

    Senza contare quanto questa garantisse il potenziamento e il mantenimento di quelle abilità marziali che costituivano il know-how di ogni guerriero degno del nome.

    All’epoca infatti, l’arte venatoria era qualcosa di sensibilmente differente da ciò che siamo soliti immaginare oggi, vale a dire uno sport praticato al riparo di tutti quei gadget tecnologici che l’hanno resa una sorta di scampagnata.

    Era al contrario una faccenda dannatamente seria, in cui si rischiava la vita cimentandosi con tutto ciò che strisciava, correva o volava sino a riempire le pagine immaginifiche dei bestiari medievali: tutte esperienze capaci di fissarsi nella memoria subcosciente pronta ad attivarsi nel momento del pericolo. Senza contare che tale disciplina svolgeva una preziosa funzione propedeutica capace di fornire una messe di informazioni sorprendente attraverso cui il cacciatore acquisiva coscienza del mondo circostante.

    Assai probabile dunque che Carlo non sapesse nulla a proposito della sfericità della terra, ma fosse capace di cogliere dettagli geografici che oggi susciterebbero l’invidia di scout e ranger.

    Inoltre la pratica venatoria gli avrà insegnato a scuoiare e scannare, ricavandone nozioni più che accurate sull’anatomia degli animali e sulle loro abitudini di vita.

    E visto che dalla bestia all’uomo il passaggio è breve, giusto una manciata di cromosomi, gli uomini come Carlo erano assolutamente in grado di estirparsi i denti da soli o di curare le proprie ferite se costretti dalle necessità.

    Quasi scontato ammettere che alla bisogna la sua regale persona sarebbe stata in grado di riparare la sua bardatura e lavorare un ferro piegandolo alle sue esigenze.

    Quanto alla perizia in materia di ossa e muscoli animali, essa lo rese un fuoriclasse nell’arte di trinciare a tavola, un’abilità particolarmente apprezzata tra le corti dell’epoca che non dimenticarono mai il motto evangelico secondo il quale non di solo pane vive l’uomo ma anche e soprattutto di companatico.

    Chi poteva vantare tanta maestria, non poteva certo eludere altrettanta destrezza nel mescere, tanto più in un’epoca orfana di diavolerie acronimiche quali DOC, DOP o IGP, in cui verificare la qualità di ciò che veniva ingollato diveniva letteralmente una questione di vita o di morte.

    Ora i maligni affermeranno che un personaggio così affaccendato non potesse trovare il tempo di imparare a leggere e scrivere, alimentando quel mito che serpeggiando sino ai giorni nostri ci ha restituito la figura di un monarca analfabeta.

    È indubbio che Carlo non fosse propriamente un dotto, ma da qui a considerarlo un selvaggio privo di qualsiasi rudimento ce ne corre.

    Scrivere all’epoca era una vera e propria arte, padroneggiabile solo al termine di un lungo tirocinio.

    Carlo, proiettato verso ben altro avvenire, assunse giusto quel tanto che gli bastava per poter suggellare i documenti, potendo contare su uno stuolo di scribi prontissimi a tramutare in segni i suoi pensieri e soprattutto i suoi voleri.

    Quanto alla lettura, era appannaggio di uomini che avevano dimostrato competenze conoscitive straordinarie. Egli dovette in alternativa attendere di diventare un uomo ricco e potente prima di poter godere delle gioie di quell’intrattenimento. Anche in questo caso un esercito di giullari, cantori o semplici lettori riempiva i momenti di quiete della sua vita intensissima, narrando o leggendo le gesta degli antichi, le sacre scritture o gli exempla, sul ricordo dei quali si stratificò l’ideale che egli fedelmente si peritò di incarnare.

    Carlo dunque concepiva una cultura funzionale all’esercizio del comando, in virtù della quale apprese la lingua franca – l’idioma materno – ma anche il latino, parlato dai suoi sudditi gallo-romani, nonché il greco, benché lo utilizzasse assai di rado. Possiamo quindi affermare che Carlo era il tipico prodotto di ciò che siamo soliti chiamare tradizione orale.

    Forte di tale retaggio, il giovanotto assurse finalmente al potere nel 768, complice la dipartita del padre Pipino.

    Quando parliamo di potere, intendiamo quello pieno, derivante dalla dignità regale. Pipino, che in qualità di maggiordomo di palazzo aveva incarnato lo strano incrocio tra un dittatore e un primo ministro, nel novembre del 752 riusciva nel colpaccio e, deposto senza troppi complimenti l’ultimo esponente merovingio, l’oscuro Childerico III, si fece eleggere re dei Franchi a Soissons con benedizione popolare e soprattutto papale.

    Vale la pena ricordare che Gallia e papato erano legati a doppio filo sin dai tempi di Clodoveo, il sovrano merovingio che il 24 dicembre del 496 si convertì al cattolicesimo, quando la moda del momento era invece approdare all’arianesimo. In sostanza la stragrande maggioranza dei popoli barbari sostituiva gli antichi idoli con un nuovo credo che per quanto cristiano, puzzava di eresia tanto da far arricciare i delicati nasi dei vescovi della Città Eterna.

    I Franchi invece con un triplo salto mortale erano passati direttamente dal paganesimo all’intimità accogliente della Chiesa di Roma, determinando così il loro futuro e quello di tutto l’Occidente.

    Normale che tutti i pontefici, non appena sentivano odore di bruciato strillassero come aquile all’indirizzo di chi consideravano loro naturale alleato: popolo eletto, spada del Signore, difensore della fede veniva declamata la stirpe franca nelle epistole angosciose che impetravano il loro aiuto, imbevute di quella retorica che costituirà la linfa di cui Carlo si pascerà a suo tempo.

    Normale anche che Pipino, proprio sfruttando tali richieste d’ausilio, avesse incassato in cambio da papa Zaccaria – con il famoso quesito su a chi spettasse effettivamente la corona, se a colui che deteneva di fatto il potere o a colui che ne vantava il diritto di sangue – e poi dal successore Stefano II – preoccupato dall’incombente minaccia longobarda –, il passaporto che conduceva al trono dei Franchi.

    Grazie all’alacrità paterna, dunque, Carlo poté sedere su quell’ambito seggio.

    O meglio su metà di esso, poiché, secondo la consuetudine franca, il regno andava diviso tra gli eredi maschi che nella fattispecie erano due.

    Così a Carlo spettò il Nord-ovest compresi i vecchi domini di Neustria e Austrasia, terre dure abitate da uomini forti quanto poveri, mentre al fratello Carlomanno toccò in sorte il Sud, «dove la vite cresceva abbondante addolcendo i costumi e arricchendo le tasche», almeno secondo un adagio dell’epoca.

    La Gallia tratteneva il fiato aspettando il naturale corso degli eventi: uno dei due fratelli, inevitabilmente, sarebbe saltato alla gola dell’altro. Unica fragile barriera la presenza della madre Berta, sotto il cui amorevole abbraccio i contendenti potevano simulare una pallida concordia ammantata di deferenza filiale.

    Al momento bastò, soprattutto perché Carlo, ancora lungi dallo sprigionare quell’energia di cui sarà capace in seguito, sembrò conformarsi al volere dell’intraprendente Piedona.

    Nel 770 fu lei a gettare il figlio tra le braccia di una principessa longobarda, talmente oscura che solo la pietà del Manzoni le concederà l’omaggio di un nome di fantasia, Ermengarda, altrimenti nota come Desiderata. D’altro canto, l’unico valore della pulzella risiedeva nel rappresentare il vincolo di fedeltà che avrebbe legato Carlo alla corte longobarda, sancendo un’alleanza che fece rivoltare Pipino nella tomba e raggelare il sangue nelle vene del papa.

    Decenni e decenni di politica franca finivano così alle ortiche, eppure Berta otteneva l’isolamento di Carlomanno e scongiurava una guerra fratricida che temeva sopra ogni altra cosa.

    Fu forse questo il vantaggio che spinse Carlo, seppur attanagliato dal dubbio, a seguire il volere della madre. Si apprestava dunque a rinnegare l’amata Imiltrude per sposare una donna insignificante in cambio di una posizione di forza che gli permetteva di prendere tempo e progettare le mosse future. Le quali, a conti fatti, si presentavano irte di insidie, soprattutto dalle parti di Roma.

    Sebbene la distensione tra Franchi e Longobardi prevedesse la restituzione da parte di questi ultimi di tutti i territori contesi allo Stato della Chiesa, il papato non poteva tollerare un vicino così potente e minaccioso.

    Fu così che il pontefice Stefano III compì un capolavoro di perizia politica. Adottando la scusa di un incerto complotto ai suoi danni, chiamò in soccorso non più l’abituale sovrano franco, bensì Desiderio, il re dei Longobardi, non senza preoccuparsi di far recapitare una missiva a Carlo in cui si consumava in lodi sperticate nei confronti del nuovo alleato.

    E pensare che al tempo della notizia del matrimonio, lo stesso pontefice apostrofava il sovrano franco accusandolo di mischiarsi con un popolo talmente infetto da generare la stirpe dannata dei lebbrosi.

    Ora, a meno di non considerare le opinioni di Stefano III vacillanti quanto le sue competenze mediche, c’è da giurare che il repentino voltafaccia fosse dettato suo malgrado dal mutato assetto dello scacchiere geopolitico.

    Intanto Carlo schiumava: i lacci tesi dalla madre lo imprigionavano in una coabitazione forzata col fratello mentre l’alleanza con Roma, trampolino di imprese di ben più alto respiro, volava verso altri lidi, rendendo Desiderio ogni giorno più gonfio di potere e prestigio.

    L’arrovellamento di Carlo era esattamente lo scopo cui mirava Stefano III, nella speranza che conducesse a un ripensamento che traghettasse Franchi, Longobardi e papato alla situazione precedente le velleità di Berta.

    Il papa non fu deluso: Carlo resistette un anno, poi esplose agendo con una tempestività insospettabile. Complice una sterilità imbarazzante, il sovrano diede il ben servito a Desiderata, dimostrando quanto, almeno da un punto di vista semantico, la scelta di Manzoni si fosse rivelata infelice. Sposò in sua vece Ildegarda, una giovanissima principessa sveva che si rivelerà donna talmente devota alla causa del marito da regalargli ben nove figli. Forse ringalluzzito dalle nuove nozze, Carlo sembrava marciare sulle ali di un rinnovato entusiasmo, che in virtù del trattamento riservato alla tapina longobarda, era fatalmente destinato a fronteggiare l’ira paterna di Desiderio.

    L’onta subita dalla figlia spinse infatti quest’ultimo a blandire Carlomanno alla ricerca di un’improbabile alleanza che schiacciasse Carlo in una morsa mortale.

    Così, il 771 fu un anno in cui si rincorsero rumors di intrighi e maneggi più o meno acclarati.

    Ma domineddio dimostrò di parteggiare già per il suo futuro paladino: così, nel dicembre di quell’anno convulso, il povero Carlomanno abbandonava le scene a causa di un’infermità, mai tanto benedetta da Carlo, che si scoprì liberato da una pericolosa spina nel fianco.

    Dopo tre anni di condominio forzato, il nostro eroe diveniva il solo e unico re dei Franchi, il che, per un popolo circondato da ogni lato da nemici, significava una sola cosa: guerra, guerra e ancora guerra. Come avrebbe presto sperimentato Desiderio.

    Prima, però, Carlo trovò il tempo concedersi una scappatella in quel di Sassonia.

    Nell’estate del 772, ormai libero di poter assecondare i propri orientamenti, mosse le armi oltre il Reno contro i pagani del Nord, da sempre refrattari a sottomettersi al potere franco come le campagne di Pipino e di suo fratello Carlomanno avevano ampiamente dimostrato.

    La Sassonia, oltre a essere un covo di serpi sempre pronto a pugnalare alle spalle il regno franco, attirava l’odio del nuovo sovrano anche per un altro motivo. Il mantenimento delle antiche tradizioni germaniche da cui traevano forza le spinte autonomiste delle singole tribù risultava intollerabile in chi come Carlo cullava il sogno di un potere universale: quel focolaio anarcoide andava estirpato dalla radice.

    Così, intimamente convinto di essere l’alfiere di una rinnovata civiltà, il re franco si accingeva a sbaragliare ciò che concepiva come un retaggio decadente.

    Non a caso una delle prime azioni che compì appena penetrato in territorio nemico fu quella di abbattere l’Irminsul, l’albero sacro di Parderborn, idolo venerato della Germania pagana. La sua non era solo una guerra, era una sacra missione.

    Un tale fervore prese di sorpresa i Sassoni: Carlo penetrò in profondità, impose la sua autorità con la spada costringendoli a consegnare dodici ostaggi di stirpe regale e a Natale di quello stesso anno già ritornava al palazzo di Héristal presso Liegi, per celebrare una vittoria così fulminante da non avergli neppure concesso di mettere in mostra le sue virtù militari.

    Per rimediare a ciò, si accinse a compiere la prima delle fortunate imprese guerresche grazie alle quali ottenne la fama per cui giustamente apre questo libro.

    Con la campagna contro i Longobardi, iniziata nella primavera del 773, Carlo inaugurò un’attività che lo impegnerà per tutta la vita: d’altronde era ciò che si chiedeva al sovrano di un popolo che aveva fatto della guerra la sua ragione d’essere. Tanto più se a farne le spese erano i Longobardi, guerreggiare contro i quali era per un franco naturale quanto respirare. Non solo perché confinavano, ma anche e soprattutto in merito alle rispettive posizioni che entrambi, come abbiamo visto, avevano assunto nei confronti di Roma.

    Carlo dunque ruppe gli indugi, anche perché Gerberga e i suoi figli, cioè la vedova e gli orfani del fratello morto, ripararono alla corte di Desiderio, costituendo una fastidiosa appendice che in futuro avrebbe potuto avanzare diritti di successione dinastica.

    In termini strategici, la campagna si prospettava come una sfida ardita. Il primo ostacolo era costituito dall’incombenza delle Alpi, passaggio obbligato per accedere alle verdi valli padane che assieme alla maggior parte dell’Italia centrosettentrionale giacevano ormai da un paio di secoli sotto il tallone longobardo.

    Quanto fosse tosto quell’attraversamento l’aveva già sperimentato a suo tempo Annibale, che per poco non ci lasciò le zanne insieme ai suoi elefanti; ma Carlo, a differenza dell’illustre predecessore, poteva contare su un significativo vantaggio.

    Il limes infatti, l’effettiva frontiera tra i due regni, non era rappresentata dall’arco montano, bensì si trovava allo sbocco delle valli, lì dove iniziava la pianura. Se i Longobardi fossero stati in grado di presiedere le cime alpine, le cose sarebbero andate altrimenti: invece Carlo, una volta scavallate le montagne, sapeva di trovarsi in un territorio che, seppur circoscritto, apparteneva sostanzialmente a lui.

    Da qui avrebbe potuto marciare verso il vero ostacolo, le mitiche Chiuse, capaci di accendere la fantasia di storici e studiosi.

    Come il nome suggerisce, si doveva trattare di opere difensive che affondavano la loro origine all’epoca dei Romani già impegnati a impedire l’accesso alla piana italica.

    La Cronaca della Novalesa del XII secolo le descriveva come uno sbarramento compatto costituito da un’unica muraglia di pietra eretta da una costa all’altra della valle.

    Al suo potenziamento si erano dedicati gli ultimi re longobardi che, scottati dalle cattive esperienze nelle guerre contro Pipino, si erano illusi di fronteggiare la minaccia franca al riparo delle fenomenali fortificazioni.

    Queste, poste nel fondovalle, sorvegliavano gli unici due itinerari che collegavano l’Italia alla Gallia: quello di San Michele, dal nome dell’abbazia che sorge su uno sperone limitrofo, presiedeva la via Francigena che da Lione passava il Moncenisio e discendeva la Valle di Susa sino a Torino; l’altra difendeva il valico del Gran San Bernardo, all’epoca noto come monte di Giove.

    Dunque la prima scelta da compiere riguardava l’itinerario da seguire: una decisione non da poco, visto che i Longobardi presumibilmente si sarebbero concentrati a difesa del cammino che il re franco avrebbe seguito. Nel dirimere la questione, Carlo dimostrò la sua tempra.

    Nei mesi invernali a cavallo tra il 772 e il 773, decine e decine di dispacci partirono dalla corte carolingia alla volta delle guarnigioni disseminate in tutta la Gallia richiamando l’armata a un appuntamento primaverile a Ginevra.

    Ai Longobardi dovette venire un colpo considerato che dalla ridente località elvetica era possibile prendere sia la strada della Val di Susa, discendendo il corso del Rodano, sia percorrere l’itinerario che risalendo lo stesso fiume verso Martigny avrebbe condotto alle gole del Gran San Bernardo: non avrebbero mai scoperto quale via avrebbero intrapreso i Franchi se non nel momento in cui le loro armature si sarebbero affacciate minacciose al cospetto di uno dei muri. Costretti a dimezzarsi per presiedere entrambi gli obiettivi si assieparono dietro i loro mirabolanti ripari col cuore gonfio di chi presagiva la disfatta.

    Ma anche qualora fossero stati in grado di indovinare la strada che l’invasore avrebbe intrapreso, sarebbero stati una volta di più surclassati dal genio militare di Carlo. Questi infatti, non contento, decise di adoperare per la prima volta quello che sarà il suo marchio di fabbrica: la manovra a tenaglia.

    Giunto a Ginevra, spezzò il suo esercito in due tronconi, affidando allo zio il segmento che avrebbe intrapreso la via del San Bernardo e riservando per sé il comando dell’armata che avrebbe puntato sulla Val di Susa attraverso il Moncenisio.

    Quella che potrebbe sembrare un’intuizione fu invece il risultato di una meticolosa e ponderata scelta strategica.

    La manovra a tenaglia non solo era vantaggiosa, ma addirittura necessaria: Carlo si trovava a comandare uno dei più potenti eserciti dell’epoca, anche e soprattutto in termini numerici. Spostare un’armata di quelle dimensioni attraverso un unico itinerario costituiva un impegno logistico notevole e soprattutto rischioso: le fonti di approvvigionamento, sia quelle idriche che quelle alimentari, potevano risultare insufficienti. Molto più agevole frammentare l’esercito in vari tronconi, riducendolo in colonne più ridotte che avrebbero avuto maggiore probabilità di sostentarsi coi mezzi reperiti durante la marcia. Così Carlo trasformava un handicap in una formidabile scelta tattica dimostrando una modernità strategica strabiliante se paragonata ai tempi in cui visse.

    Facile intuire come, dopo una preparazione così raffinata, l’effettiva entità dello scontro fosse ridotta. Tanto che il cronista Eginardo per dare un tocco di epicità all’intera vicenda dovette concentrarsi sullo sforzo compiuto nell’attraversamento delle Alpi, quella sì davvero un’impresa titanica. Invece rimase nella memoria collettiva la fulmineità con la quale Carlo, una volta giunto a valle, ebbe ragione dell’esercito nemico, che sbaragliò quasi senza colpo ferire.

    Non pago di tutte le sottigliezze sinora messe in campo, il re franco preferì non attaccare frontalmente i Longobardi, ma giudicò più saggio aggirarli utilizzando un passaggio nascosto.

    Gli echi di tale iniziativa hanno assunto carattere romanzesco nella Cronaca della Novalesa, attribuendo la scoperta del passaggio a un infido giullare longobardo che avrebbe rivelato per denaro la strada che avrebbe permesso ai Franchi di piombare alle spalle del nemico. La nota pietas del Manzoni ha invece trasformato la meschinità di un traditore in un alto intervento divino conferendone la paternità al diacono Martino, strumento della volontà di Dio.

    Racconto popolare o tradizione miracolistica il risultato non cambia: i Franchi evitarono la trappola delle Chiuse battendo un sentiero poco noto.

    Presero a destra per la Valle del Sangone e da lì risalirono all’altezza dei Laghi di Avigliana, giusto alle spalle dell’esercito di Desiderio che, colto di sorpresa, non poté far altro che darsela a gambe levate. Una rotta cui contribuì, per quanto dimenticata dalle fonti intente a esaltare la figura di Carlo, anche la comparsa dell’altra colonna guidata dallo zio del futuro imperatore che aveva disceso la Val d’Aosta più o meno con esito similare.

    Grazie al genio militare di Carlo, la guerra contro Desiderio finì ancor prima di cominciare. Al re non restò che battersela riproponendo un copione abusato già ai tempi di Pipino: inviata la moglie e il figlio Adelchi a Verona, si rifugiò a Pavia, dimostrando quanto fosse ristretto l’orizzonte tattico dei Longobardi, capaci di ripercorrere le imprese dei loro predecessori con una precisione diabolica: sperava infatti che i bastioni della città, come in passato, minassero la pazienza dell’aggressore e lo inducessero presto a sbaraccare.

    Peccato che Carlo non fosse come il padre: caparbio, non mollò la presa per tutto il corso dell’anno successivo, sinché nel giugno del 774, uno stremato Desiderio era costretto a capitolare senza condizioni. Per l’ex suocero si spalancarono o meglio si serrarono le porte del lontano monastero di Corbie, mentre il genero si insediava da vincitore a palazzo distribuendone il tesoro tra i suoi guerrieri.

    Le speranze longobarde, riposte in Adelchi, si spensero come una fiammata in una tormenta invernale. Scacciato da Verona, il giovane principe che tanto fece palpitare il Manzoni al punto di concedergli un’eroica morte sul campo, riparò in realtà a Costantinopoli, la patria di tutti gli esuli dell’epoca, dove saper brandire una spada costituiva la certezza di un pasto caldo e di un giaciglio sicuro. Lì fu foraggiato sino alla vecchiaia mentre inseguiva il mito di una riconquista che non si verificò mai, nonostante un inglorioso tentativo di sollevazione nell’Italia del sud, tanto fugace quanto infruttuoso.

    Così, dopo oltre duecento anni, il regno longobardo cessava di fatto di esistere: sopravvivevano solo le enclaves della Langobardia Minor, costituite dal Ducato di Spoleto e di Benevento da cui presto scaturirono il Principato di Salerno e la Signoria di Capua, travagliati da lotte intestine e dissidi esterni.

    È vero che Carlo non abolì il regno conquistato, né lo incorporò nei suoi domini ma ne mantenne le strutture di governo e l’autonomia amministrativa. Ma è altresì vero che l’antica nazione scomparve in breve dalle carte e rimase solo nel titolo di rex Langobardorum che il sovrano si peritò di assumere, conscio che presto, preso dal sogno di dominio che si accingeva a realizzare, avrebbe costituito la pallida appendice di una formula ben più altisonante: quella di imperatore.

    Se nella campagna d’Italia Carlo mostrò le sue doti strategiche, nella successiva spedizione contro i Sassoni palesò quanto potesse essere feroce la sua res militaris. Come anticipato, l’avventura sassone non fu una scampagnata isolata: fu al contrario una guerra lunghissima, che impiegò le energie del re franco per circa trent’anni, dal 772 all’804, sin quasi in prossimità della morte.

    E non fu solo un’impresa bellica, ma assunse i toni di una vera e propria crociata.

    La storia ha ampiamente dimostrato che quando si mischiano i santi con i fanti i risultati quasi mai sono positivi: Carlo ebbe modo di confermare tale regola scrivendo una pagina sanguinosa di incredibile crudeltà.

    I Sassoni all’epoca erano uno dei pochi popoli europei che assieme a Slavi e Danesi ancora non aveva accolto l’abbraccio fraterno di Cristo.

    Un comportamento inaccettabile per chi aveva fondato il suo potere proprio sul connubio con santa madre chiesa e che anzi per mezzo di esso trovava legittimazione. Senza contare che all’indomani della conquista italiana, Carlo si trovava a essere di fatto l’unico sovrano cristiano d’Occidente, con un potere di fronte al quale i piccoli re anglosassoni e spagnoli impallidivano.

    Era dunque nella logica delle cose che Carlo levasse la sua spada per mondare la civiltà europea dall’onta della presenza pagana incarnata dai Sassoni. Ma al di là dei paludamenti religiosi lo spingevano motivi ben concreti.

    La frontiera tra Franchi e Sassoni era aperta, una linea immaginaria che, per quanto attraversasse anche paludi e foreste inestricabili, correva su una pianura accessibile dove stupri, razzie e assassinii si avvicendavano senza sosta da entrambi i lati.

    Carlo non poteva tollerare che un branco di razziatori prosperasse nel cuore della Germania centrale, pronto ad azzannare le terga del popolo franco non appena lo svolazzare della sottana di una delle sue donne ne avesse aizzato l’istinto predatorio.

    Esattamente come successe nel 778, quando i Sassoni approfittarono del temporaneo allontanamento dell’esercito carolingio, impegnato a saggiare al di là dei Pirenei quanto fosse tenace la fede dei figli di Maometto, per affacciarsi in massa nella valle del Reno, contenuti a stento dai comandanti locali, non senza uno strascico di distruzioni e saccheggi.

    Allora Carlo pensò che la misura fosse colma.

    Così, quell’armata di ferro che tanto aveva colpito l’immaginazione dei cronisti longobardi, atterrendoli, si mosse, decisa a inoculare il germe salvifico della parola di Dio attraverso il filo delle sue spade, garantendo una durevole pace.

    Che naturalmente si tradusse in quella sempiterna del camposanto. I Sassoni, che si erano già mostrati refrattari alle penetrazioni sporadiche di alcuni coraggiosi evangelizzatori, rispendendoli al mittente spesso e volentieri sotto forma di cadaveri straziati, non accettarono di buon grado che il verbo di Dio passasse attraverso l’imposizione di un’invasione su larga scala.

    Solo la ragione delle armi ottenne la loro prostrazione, e solo quando il numero dei morti minacciò di ridurre di molto quello delle anime che tanto spontaneamente abbandonavano con la conversione i loro dèi barbarici.

    Fu una guerra atroce, che si dipanò nel corso degli anni con crudele monotonia.

    In primavera i Franchi penetravano in forze, valutavano l’abilità dei Sassoni nel farsi il segno della croce, li sterminavano qualora non fosse stata ritenuta soddisfacente e si ritiravano di buon grado col sopraggiungere dei primi freddi, lasciando sporadiche postazioni a presiedere i territori così coscienziosamente convertiti.

    Durante i mesi invernali, i Sassoni si riorganizzavano, assaltavano le guarnigioni e qualora riuscivano a impossessarsene ricompensavano i nemici lì asserragliati con gli stessi frutti che la nuova fede aveva offerto loro.

    Ugual sorte per i monasteri che si moltiplicavano mano a mano che l’opera di sterilizzazione franca avanzava.

    Eppure, nonostante la disarmante lentezza, i Franchi procedevano, strappando ogni anno sempre più terreno a un popolo che si era rivelato formidabilmente risoluto a mantenere a ragione intatte le proprie radici, culturali, politiche e religiose. Soprattutto quando le residue energie furono convogliate sotto la guida di un unico capo per giunta capace, Witichindo.

    Fu lui che nel 782, proprio nel momento in cui Carlo era ormai sicuro di avere pacificato la regione, incassando la fedeltà dei nobili sassoni ormai evidentemente stremati da anni di conflitto, riuscì a scatenare la ribellione più clamorosa, sterminando sulle montagne del Süntel le forze franche in tutta fretta inviate a contrastarlo.

    Fuori di sé per lo scacco, reso ancora più cocente dalla dipartita di due dei suoi più stretti collaboratori, il camerario Adalgiso e il connestabile Geilone, Carlo compì quell’atto che in barba a tutti gli apologeti impegnati a stemperarne l’entità, costituì il punto più alto (o il più basso) a cui giunse la sua spietatezza.

    Quello stesso anno, intervenuto con un nuovo esercito, il re franco costrinse i ribelli alla resa; a eccezione di Witichindo che, fedele alla tradizione inaugurata da Adelchi, riusciva a riparare presso i Danesi. Una volta che quegli sventurati gli capitarono tra le mani, ne fece decapitare in un solo giorno 4500, durante quel massacro che è passato alla storia come il «bagno di sangue di Verden», dal nome della cittadina tedesca collocata in Bassa Sassonia presso le sponde dell’Aller, un affluente della Weser.

    Come accennato, in molti si affannarono a cancellare quella che rimase una macchia indelebile nella condotta di Carlo: inaccettabile attribuire al simbolo più fulgido del cattolicesimo occidentale la responsabilità di una strage così efferata.

    Misconoscendo che la misericordia divina nel corso della storia si è dispiegata con toni sconsolatamente simili se non più foschi, costoro hanno addotto le più svariate giustificazioni in merito alla vicenda. Bisognava comprendere il povero sovrano: aveva riposto la sua fiducia in uomini infidi che, giurandogli fedeltà, lo colpivano al cuore col più vile dei tradimenti; una colpa punibile con la morte, anche secondo le durissime leggi sassoni che comminavano l’estrema sentenza per reati ben più lievi. Ci fu anche chi tentò di opacizzare l’evidenza delle fonti, lanciandosi in spericolate traslazioni linguistiche che attribuivano il verbo decollare, decapitare, a una svista dei copisti e ripristinavano un molto più salubre delocare, secondo il quale i poveri prigionieri sarebbero stati magnanimamente traslocati intatti in altra sede.

    Tutti tentativi goffi, tesi a mondare un comportamento che in realtà sfugge ai princìpi di un moderno senso morale, tanto suscettibile quanto ipocrita: Carlo aveva un compito da svolgere, o meglio una missione particolarmente insidiosa. L’inganno dei Sassoni lo poneva di fronte a un dilemma morale, sfidandolo a punire gli uomini implicati nella rivolta. Carlo li castigò, accettando che la riprovazione della posterità fosse un onere meno grave da sostenere rispetto al disprezzo e al dileggio che avrebbe sofferto nel suo tempo e nelle età immediatamente successive qualora la sua mano avesse esitato.

    Né deve stupire che tale inclinazione allignasse all’interno di un uomo che portava sempre con sé, in guerra e in pace un libro come la Città di Dio di sant’Agostino: da esso traeva la visione di uno Stato, un concetto che sopravanza quello di tribù o nazione, destinato a realizzarsi in Terra come tramite di quello che si apparecchiava in Cielo; tutto secondo la volontà del Signore, alla quale ben potevano essere sacrificate le teste di qualche migliaio di selvaggi pagani.

    Forte di questa legittimazione, Carlo continuò la guerra con spietata determinazione. Negli anni immediatamente successivi, tra il 783 e il 785, egli diede una svolta significativa al conflitto svernando lui stesso in Sassonia, a Minden. Un atto simile già costituiva un evento eccezionale e introduceva un nuovo modo di belligerare tendente a fiaccare il nemico sia sul piano materiale, sia sul piano morale, senza concedergli un attimo di tregua. Ma l’intelligenza strategica di Carlo andò ben oltre il terrore indiscriminato, concentrandosi piuttosto nell’eliminare con oculatezza tutti quei presidi che avrebbero costituito un ostacolo futuro, nel rinsaldare il controllo delle vie di comunicazione e nell’accumulare nell’avamposto di Eresburg tutte quelle vettovaglie che gli avrebbero permesso, con il sopraggiungere della bella stagione, un’azione che potesse risultare davvero decisiva.

    Contemporaneamente emanò la più crudele delle leggi che la sua lunga carriera era destinata a promulgare, il famigerato Capitulare de partibus Saxonie che imponeva la pena capitale per chiunque offendeva in ogni modo la religione cristiana e i suoi officianti: di fatto il manifesto della conversione forzata del popolo pagano.

    Scorrendone le note si rabbrividisce di fronte alla spietatezza delle pene, smisurate anche nei confronti di manchevolezze irrisorie come l’inosservanza del digiuno durante il venerdì.

    È evidente quanto la ferocia del capitolare non sia da attribuire alla durezza dei tempi, peraltro sufficientemente rozzi e violenti, quanto all’esasperazione di un generale che vuole stroncare con il terrore la resistenza di un intero popolo.

    La strategia della paura e della terra bruciata sembrò portare i risultati sperati: nel 785, dopo che i Franchi avevano fatto tabula rasa del paese sino all’Elba, Witichindo fu ridotto a più miti consigli, al punto di abbandonare il suo rifugio e venire in Francia, dove ad Attigny lo attendeva Carlo pronto a imprimergli il suggello del battesimo. Ciò che avvenne in quella villa fu avvolto dal più stretto riserbo: certo è che Witichindo uscì da quelle mura appartenendo ormai alla vasta schiera delle anime del Signore, alle cui grazie si abbandonò più per lenire le disgraziate sorti del suo popolo che non per convinzione. Incapace di cogliere tale sottigliezza, il papa ordinava a tutte le chiese della Cristianità di rendere grazie per quella nuova e grandiosa vittoria della fede, mentre Carlo, l’artefice di quel tripudio, concedeva che l’aratro sassone solcasse ancora la terra, inaugurando trionfalmente la nuova era di pace.

    Che, manco a dirlo, appena cominciata si concluse.

    Dopo neppure un decennio, nel 793, le architetture scricchiolanti della conversione forzata crollarono con grande strepito. Una nuova insurrezione di massa infiammò le regioni settentrionali della Sassonia, quelle che più tiepidamente avevano accolto la croce, la cui gloria celeste era per loro pressoché impossibile da contemplare, gravati com’erano dal giogo molto più concreto di una dominazione straniera.

    Così, «tornati al paganesimo», secondo la laconica formula espressa dagli Annali di Lorsch, i Sassoni bruciarono le chiese, massacrarono i preti e si prepararono al lungo inverno della resistenza.

    Carlo, ormai a corto di pazienza, reagì con l’abituale ferocia, a cui aggiunse la drasticità di interventi spaventosamente moderni.

    Anziché riproporre il solito balletto di devastazione e riduzione per fame della popolazione, egli pensò bene di deportare in massa i Sassoni e rimpinguare le loro terre con coloni franchi e slavi.

    Ma siccome era un politico navigato, intuì che la soluzione finale della questione necessitava anche di una sostanziale modifica di approccio: così nel 797, intensificati i contatti con i capi dell’aristocrazia sassone, li riunì ad Aquisgrana in un’imponente assemblea dalla quale scaturì una nuova versione del Capitulare saxonicum, assai più mitigata rispetto alla prima.

    L’ennesima riproposizione dell’alternanza tra bastone e carota si rivelò vincente, anche perché somministrata a un popolo già disumanamente schiantato.

    Il suggello della conquista poté essere così apposto con la costruzione della nuova città che Carlo volle erigere a Paderborn, dove sulle paludi bonificate svettarono presto il palazzo reale e una grandiosa cattedrale: qui il sovrano risiedeva ogniqualvolta la sua presenza era richiamata dai focolai mai domi di rivolta; di qui si irradiò una minuziosa opera di evangelizzazione che, mutati i toni iniziali, si rivelò essere un’arma molto più efficace delle spade franche.

    Conquistata finalmente alla fede, la nuova regione venne presto integrata a ciò che nel frattempo era divenuto un impero, al punto che la leva reclutata tra i Sassoni cominciò a essere inquadrata nell’esercito e impiegata proprio nelle successive spedizioni contro i popoli slavi. Coloro che avevano patito così duramente la penetrazione franca divennero i principali artefici di quella stessa dominazione che ormai guardava con cupidigia a est: miracolo della potenza persuasoria di Carlo, la cui prospettiva di colonizzazione oltre l’Elba deve aver costituito per i contadini sassoni uno degli argomenti di maggior efficacia.

    Come ormai il lettore avrà compreso, asfaltare i Sassoni non fu l’unica attività nella quale il prode Carlo si cimentò. Fedele al suo sogno di conquista, il sovrano nutriva nei confronti dei confini la stessa insofferenza che agita un toro al cospetto dello sventolamento di un drappo rosso.

    Soprattutto quelli posti a sud, dove, oltre la cortina dei Pirenei, si agitava un groviglio di reami unificati dalla colpa gravissima di appartenere alla falsa fede dell’Islam.

    Restituire quelle terre all’abbraccio di Cristo fu più o meno il tenore della propaganda con la quale i Franchi iniziarono la campagna contro gli Arabi di Spagna a partire dal 778, impetrando la benedizione del papa che naturalmente fu più che favorevole nel concedere il suo assenso per una sì alta missione.

    Lo sbandieramento del vessillo religioso copriva il reale intento di una politica aggressiva che, smessi i consueti panni prevalentemente difensivi, si armò approfittando delle lotte intestine che agitavano la regione.

    Così, avvalendosi dell’aiuto richiesto dal governatore di Barcellona Sulaimân ben Yazqân ibn al-Arabi che, insieme a non meglio identificati principes Sarracenorum, si era ribellato all’emiro di Cordoba, Carlo si precipitò in terra iberica convinto di farne un solo boccone, non dimenticando di attribuire alla sua impresa la volontà di liberare i cristiani di Spagna dal «giogo crudelissimo dei Saraceni».

    Che poi tale giogo fosse in realtà un misero laccio reso più che sopportabile dalla proverbiale tolleranza islamica, ben lontana dai rigori fanatici attuali, non sembrò sminuire minimamente la foga con la quale il re franco si accingeva a compiere ciò che un osservatore attento definirebbe una rapina.

    Carlo predispose la campagna con la consueta attenzione, pianificando l’ormai nota manovra a tenaglia: egli stesso avrebbe condotto personalmente un’armata sul versante atlantico, attraverso il paese basco, cristiano e teoricamente sottomesso, mentre una seconda colonna sarebbe transitata presso i colli più orientali, seguendo la dorsale mediterranea.

    Punto di congiunzione la città di Saragozza, che secondo gli accordi sarebbe stata ceduta ai Franchi come base per le operazioni future.

    Peccato che il governatore locale, in barba a quanto promesso, si rifiutò di consegnare la città, costringendo l’esercito di Carlo a un assedio che dopo un mese e mezzo ancora non aveva sortito effetti.

    Ora non si potrà certo rimproverare il re franco se, durante il viaggio di ritorno deciso dopo l’insuccesso, abbia sentito la necessità di rinfrancare lo spirito con qualche razzia nei dintorni, giusto per non tornare a casa a becco asciutto. Ma neanche si possono biasimare i baschi che mal digerendo tale iniziativa, si rivolsero piccati contro la colonna che attraversava le loro terre, intercettandone la retroguardia e facendogli passare una volta per tutte la voglia di riaffacciarsi a tali latitudini.

    Il risultato di tali premesse fu la celebrata battaglia di Roncisvalle, in cui una minuscola scaramuccia tra eserciti cristiani divenne l’archetipo dello scontro di religioni in virtù delle manipolazioni propagandistiche.

    Troppa impietosa la realtà che quel 15 agosto 778 vide la rifulgente cavalleria franca soccombere sotto i colpi di uno sparuto gruppo di indignados montanari, così punita per la sue malefatte: urgeva capovolgerne l’essenza, attribuire la disfatta a un soverchiante numero di nemici, identificare questi ultimi con una più altisonante etichetta religiosa che evidenziasse per contrasto la virtù franca e consegnare la battaglia al mito.

    Così, un altrimenti sconosciuto Hruodlandus, menzionato nelle cronache come responsabile del confine di Bretagna, potette assurgere con la sua dipartita al ruolo di paladino, ispirando oceani di inchiostro in cui sguazzerà con il nome di Orlando e Rolando: in lui la gloria di Carlo si riflesse come in uno specchio chiaro e con lui quella dell’intera cristianità europea.

    Nei fatti, dopo la batosta basca, Carlo capì che al momento la Spagna non era cosa: se proprio doveva avere a che fare con l’Islam, molto meglio trattare direttamente col suo omologo della mezza luna, all’epoca incarnato dal califfo di Baghdad Hārūn al-Rāshid. La fama di costui fu ingigantita dai racconti delle Mille e una notte, a cui corrispondeva nella realtà un personaggio piuttosto ininfluente. Ma Carlo sembrò non preoccuparsene: aveva trovato un alleato a cui lo univa il fastidio per l’imperatore di Costantinopoli, senza contare l’idiosincrasia che il califfo nutriva per i mori iberici, ribelli alla sua autorità.

    Così i rapporti con l’altra metà del Mediterraneo si intensificarono e il prestigio di Carlo fu arricchito dai regali che il munifico califfo si premurò di inviargli: su tutti l’elefante Abbul-Abbas, considerato tanto spettacolare che i cronisti si preoccuparono di ricalcarne fedelmente il nome. Se avessero saputo che nei registri islamici l’animale era rubricato come dono di infimo livello, forse non si sarebbero affannati tanto nell’esaltare un omaggio destinato a regnanti di seconda categoria.

    Conclusasi opacamente la parentesi in tierra caliente, Carlo optò per un ritorno a climi per lui più congeniali e nell’estate del 791 il sovrano scatenò la guerra che a detta di Eginardo «fu la più importante che Carlo condusse in vita sua, fatta eccezione per quella dei Sassoni». A farne le spese, il popolo degli Avari.

    In effetti, tra tutte le stirpi che ebbero la sventura di attirare l’attenzione di Carlo, essi furono coloro che pagarono il conto più salato, al punto che fino a poco tempo fa si credeva che fossero scomparsi dalla faccia della terra quasi senza lasciare traccia. Per la verità, più che un popolo avevano rappresentato per secoli uno spauracchio: orde di razziatori nomadi che ciclicamente invadevano le frontiere europee in cerca di bottino e rapina. Simili agli Unni nell’aspetto asiatico e nelle usanze, tanto che le fonti franche li confusero spesso, registrandoli con il termine di «Huni».

    Una realtà eterogenea dunque che, riunita sotto un unico capo cui spettava il titolo turco di khagan, capo del khanato, aveva progressivamente occupato i larghi spazi danubiani lasciati liberi dall’esodo longobardo verso l’Italia e aveva ingrossato le proprie fila con elementi bulgari, gepidi e slavi.

    All’epoca carolingia gli Avari avevano abbandonato il nomadismo per una più stabile struttura agraria, pur conservando nell’aristocrazia modi e usanze tipici della steppa, comprese le lunghe trecce che tutti i testimoni coevi riconoscevano come tratto identificativo di questi formidabili guerrieri a cavallo.

    Per Carlo, essi erano e rimanevano i barbari di cui aveva letto o si era fatto leggere nei classici che avevano trattato l’argomento. Sia che fossero gli Sciti di Erodoto o gli Unni di Ammiano Marcellino, le fonti convergevano tutte nella creazione dello stereotipo del nomade sanguinario, selvaggio e crudele, dedito a pratiche pagane tanto lontane dalla vera fede quanto abominevoli. E di certo non deve aver contribuito a lenire tale fama quanto riportava a corte un intellettuale del calibro di Paolo Diacono, le cui memorie di longobardo nato in terra friulana erano raggelate dall’eco delle incursioni avare che da tempo immemore funestavano la sua patria.

    D’altro canto la realtà del khanato sfuggiva ai legami imposti dai luoghi comuni. La sua potenza era riconosciuta così come i suoi rapporti diplomatici con il mondo cristiano, ammessi dallo stesso Paolo Diacono che ricordava come secoli addietro ambasciatori avari fossero stati inviati in Gallia e in Italia; per tacere della lunga tradizione di scambi occorsi con Bisanzio, sin dai tempi di Giustiniano.

    In effetti, fu proprio l’esito di un’ambasceria la miccia da cui deflagrò l’incendio che li avrebbe distrutti.

    Nel 790 infatti Carlo e gli Avari si trovarono a dover condividere la stessa frontiera, complice la prematura scomparsa del ducato di Baviera, lo stato che alla pari del proverbiale vaso di coccio aveva fino a qualche anno prima resistito tra la morsa dell’intraprendente dominio franco e il turbolento khanato avaro.

    L’assimilazione del ducato bavarese, inglobato senza troppi complimenti dal vorace Carlo, costrinse il nuovo vicino a inviare messi, per sincerarsi senza troppe illusioni circa le future azioni che questi avrebbe adottato nei confronti del limes. Manco a dirlo Carlo aveva in testa solo una cosa: entrare come un treno nei territori avari e spazzare gli occupanti per far posto ai coloni germanici che già sognavano di dissodare le ricche pianure della Pannonia.

    Forte della propria superiorità, Carlo pose il khagan di fronte a una scelta che aveva tutto il sapore di una farsa: o la guerra o accettare la modifica del confine che avrebbe equivalso alla capitolazione. Se infatti il sovrano avaro avesse accondisceso a un arretramento verso oriente, avrebbe di fatto spalancato le porte alla penetrazione dell’elemento franco, come insegnava ciò che da anni succedeva lungo la linea di demarcazione tra mondo germanico e mondo slavo.

    Ovvio che il negoziato fallì, o meglio prese la piega che Carlo auspicava, consentendogli già nell’estate del 791 di ammassare i suoi guerrieri in territorio bavarese pronto a fare a pezzi il nemico.

    Sulla carta, l’impresa si prospettava degna: i cavalieri avari si presentavano come avversari di tutto rispetto, la cui abilità guerriera aveva da tempo immemore impressionato tutti coloro che avevano avuto la ventura di imbattersi nelle loro frecce e nelle loro lunghe lance. Non per niente furono i primi in Europa ad adottare la staffa, consentendo alla cavalleria di compiere quel balzo che la proietterà al vertice della potenza militare medievale.

    Gli strateghi bizantini ne studiavano le tattiche e anche i cronisti franchi, seppur a denti stretti, ne lodavano la capacità di manovra, che consisteva spesso in una simulazione di fuga salvo poi cogliere di sorpresa l’avversario. Se a ciò si aggiunge il corredo delle urla con cui gli Avari affrontavano la battaglia, simili all’ululato di un branco di lupi selvaggi, ecco dimostrata la meritata fama che questi guerrieri si erano guadagnati nel corso dei secoli precedenti.

    Peccato che tutto ciò risultò pressoché inutile: l’imprevista velocità con la quale Carlo ebbe ragione di questo popolo lascia supporre che la presunta potenza del famigerato khanato appartenesse ormai al passato.

    Ma questo Carlo non poteva saperlo e dunque, secondo quanto registrato dal sempre attento Eginardo, si apparecchiò alla guerra con un impegno senza precedenti.

    L’esercito che si radunò a Ratisbona nell’estate del 791 fu infatti il più numeroso tra quelli che il sovrano ebbe mai al proprio comando. Sotto quelle insegne marciarono contingenti di Sassoni e Frisoni oltre a milizie franche, turingie e bavare.

    Individuato il Danubio come la naturale via di penetrazione, il re divise le sue forze in due colonne che avrebbero costeggiato la grande arteria fluviale da settentrione e da meridione, affidando la prima al conte Teodorico e al camerario Meginfredo e riservando a se stesso il comando della seconda; chiatte e barconi li avrebbero accompagnati garantendo i rifornimenti e una rapida comunicazione tra le due sponde, mentre una terza forza guidata da suo figlio Pipino avrebbe dovuto attaccare gli Avari alle spalle, sopraggiungendo dal confine friulano.

    Gli accorgimenti di Carlo permisero di esporre il paese nemico a una invasione su entrambe le sponde e qualora il khagan avesse deciso di attaccare uno dei due contingenti, la flotta avrebbe comunque consentito all’altro di attraversare il fiume e prendere parte ai combattimenti.

    È ovvio che il piano presentava elementi di rischio, come sempre accade in ogni fatto di guerra, soprattutto quando la riuscita dell’impresa è subordinata alla sincronica collaborazione tra i reparti. Ma evidentemente Carlo seppe scegliere bene i suoi comandanti, visto che nel momento in cui il suo esercito raggiunse il confine avaro a Lorsch, sull’Enns, l’altra armata era già pronta sull’altra sponda, tanto che Meginfredo poté attraversare il fiume in barca per ricevere personalmente le istruzioni del re.

    A riprova di quanto il nemico fosse temuto, i sacerdoti che accompagnavano l’esercito imposero tre giorni di digiuno e preghiere affinché i guerrieri ottenessero i favori del Cielo. In una gustosa lettera inviata all’allora moglie Fastrada, Carlo specificava che il divieto di mangiare carne era esteso a tutti, mentre era possibile bere vino versando un obolo di un soldo per i più ricchi e di quanto potevano per tutti gli altri. Era chiaro che l’ansia di affrontare purificati un nemico considerato formidabile non riuscì a superare l’angoscia di affrontarlo con la gola secca.

    Comunque quel fatidico incontro era destinato a procrastinarsi dal momento che Carlo fu impegnato a dirimere le questioni che i nobili bavari, approfittando della sua presenza, si erano affannati a presentare.

    Così l’invasione vera e propria iniziò non prima della fine di settembre, quando la notizia che Pipino aveva già attaccato e conquistato una fortezza a protezione del confine italiano giunse propizia a rinsaldare gli animi.

    I Franchi entrarono e all’inizio la loro avanzata fu degna delle aspettative: le preghiere e i digiuni sembrarono dunque sortire gli effetti sperati. La popolazione, alla vista di quell’esercito che procedeva su entrambe le sponde del bel Danubio blu fuggiva atterrita, abbandonando campi, case e bestiame; le fortezze poste a difesa del confine cadevano l’una dopo l’altra. Un successo travolgente, insomma.

    Presto però apparve chiaro che tanta facilità risiedeva nella scelta degli Avari di rifiutare lo scontro e affidare le loro residue difese all’ampiezza della pianura pannonica che permetteva loro di ritirarsi al cospetto del nemico e rifugiarsi in luoghi fortificati capaci di offrire prolungata resistenza. Altro che cavalieri ululanti e saettanti: lo spauracchio di un formidabile avversario si allontanava sempre di più.

    L’unica vera forza cui Carlo dovette abdicare fu l’inclemenza del tempo: la cattiva stagione avanzava e i cavalli iniziavano a morire di malattia o di fame, senza contare che l’umore degli uomini peggiorava ogni giorno di più.

    Giunto presso il fiume Raab a ottobre inoltrato, decise che non era più il caso di procedere e tornò in patria.

    La campagna del 791 alla fine dei conti risultò deludente: il re aveva devastato una provincia che corrispondeva a una piccola parte del territorio avaro; era stato incapace di costringere il nemico a uno scontro decisivo come invece aveva sperato sin dall’inizio e per giunta aveva perso parecchi uomini quasi senza combattere. Di contrò però la sua sortita aveva dimostrato quanto gli Avari fossero incapaci di fronteggiare i Franchi, e quanto la loro capacità difensiva fosse nulla senza l’alleanza dell’inverno e la strategia della terra bruciata.

    Meditando su tale lezione, Carlo passò i due anni successivi preparando la campagna che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto essere risolutiva: sappiamo quanto fosse caparbio e quanto la sua volontà non si sarebbe data per vinta prima di mettere una pietra sulla questione. Meglio se tombale.

    Lo sforzo dedicato a ciò fu secondo Eginardo straordinario.

    Compreso che le vie d’acqua erano l’alimento indispensabile per una campagna militare a largo raggio e conscio altresì di come la flottiglia di barche, chiatte e zattere che aveva disseminato sul Danubio fosse risultata insufficiente, Carlo fece costruire un ponte di barche smontabile sul grande fiume, lungo le cui sponde, è bene ricordarlo, all’epoca non vi era traccia di ponti. Dello stesso tenore fu la creazione di un canale navigabile che avrebbe messo in comunicazione il bacino del Reno con quello danubiano.

    Non conosciamo il nome dell’ideatore del progetto ma sappiamo che l’immensa squadra di sterratori che si cimentò nell’impresa non fu precisamente all’altezza. Nonostante gli sforzi congiunti per la creazione di ciò che passerà alla storia come Fossa Karolina fossero imponenti e assorbissero Carlo per tutto l’autunno del 793, il terreno non reggeva e le piogge fecero franare quel poco che era miracolosamente rimasto in piedi: così il canale non entrò mai in funzione e più che un’opera realizzata rimase un’idea, per quanto geniale, non attuata.

    Inoltre, le rivolte in Sassonia e sul versante pirenaico costrinsero il sovrano ad abbandonare l’area dei lavori e rimandare ancora il redde rationem con gli Avari.

    Fu a quel punto che gli avvenimenti del 791 risultarono avere più conseguenze di quanto sperato.

    La passeggiata che i Franchi si erano permessi quasi senza essere disturbati avevano minato l’autorità del khagan, al punto che parecchi suoi sottoposti iniziarono a dirigersi verso le accoglienti braccia di Carlo. Uno in particolare, conosciuto con il non meglio identificato titolo turco di tudun, mandò nel 795 ambasciatori ad Aquisgrana, manifestando l’intenzione di sottomettersi al sovrano franco e di farsi cristiano.

    Fu l’inizio della fine: dopo questo episodio, il khanato cadde come un castello di carte. L’anno successivo lo stesso khagan cadeva sotto i colpi dei sicari mentre il duca del Friuli, Erich, poteva organizzare una spedizione ai danni della capitale avara, un immenso accampamento fortificato sulla riva destra del Danubio conosciuto nella loro lingua come ring, di cui si favoleggiavano le ricchezze.

    Alla luce di tale esperienza il re d’Italia Pipino, il figlio di Carlo, invase il paese con forze più considerevoli: il nuovo khagan si prostrò ma non riuscì a impedire che il ring fosse di nuovo saccheggiato, subendo una razzia che rimarrà a lungo impressa nella memoria dei posteri. Quando Eginardo pose lo sguardo su quei tesori a stento riuscì a contenere l’entusiasmo della propria penna che, assieme a quella di altri cronisti, ci lasciò la testimonianza di un bottino che dovette essere trasportato da ben quindici carri trascinati ognuno da quattro buoi: per la gioia dei conti, vescovi e abati fedeli di Carlo, nonché del papa cui il re non dimenticò di riservarne una parte, dopo aver prelevato un bel gruzzolo destinandolo all’abbellimento di Aquisgrana.

    La sottomissione del khanato non comportò come in altri casi l’assimilazione al regno franco: gli Avari erano un popolo di pagani, impensabile che Carlo potesse assumere il titolo di khagan per riunirli sotto la propria autorità. Per la verità già nell’estate del 796 si pianificava una campagna di evangelizzazione, che risulterà molto più blanda, dopo che gli orrori di quella sassone avevano smosso le coscienze dell’entourage intellettuale carolingio, più propenso a consegnare al Signore quelle anime più con la parola che non con la spada.

    Ovviamente il confine dell’Enns fu spostato verso oriente, spalancando come previsto le praterie pannoniche alle voraci vanghe germaniche, mentre i sopravvissuti alla furia franca furono abbandonati al loro destino e spinti nelle pianure del Tibisco, dove li attendevano i loro antichi sudditi bulgari impazienti di regolare i conti in sospeso.

    Nonostante avessero capitolato in così breve tempo, gli Avari rimasero a lungo una spina nel fianco di Carlo. Già nel 799 si scatenò una violenta ribellione di cui si fece promotore quel galantuomo del tudun: la fedeltà non doveva essere tra le sue doti principali. A dire la verità l’insurrezione non fu mai tale da richiedere personalmente l’intervento del sovrano, anche perché di lì a breve questi sarebbe stato in ben altre faccende affaccendato, come dimostra ciò che avvenne nel fatidico natale

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