Il romanzo della grande Juventus
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About this ebook
La storia del mito bianconero
La storia della più grande squadra d'Italia
Nuova edizione aggiornata
Sono passati più di cento anni dal giorno in cui, quasi per scherzo, la
Juventus nacque: da quel momento la squadra a strisce verticali bianconere si è fatta largo sui campi del mondo, tenendo ovunque alto il nome di Torino e dell’Italia. La lunga teoria di campioni, ricordi, episodi che si snoda avvincente nelle pagine di questo libro ha più il tono e il sapore del racconto che non quello della cronaca. All’autore è sembrato questo il modo migliore per descrivere i grandi protagonisti e le grandi imprese, dalle prime partite dei pionieri alle glorie e i successi memorabili nei tornei più prestigiosi, senza trascurare i momenti più bui e quelli di sconforto. Una narrazione lieve e vivace eppure rigorosa accompagna il lettore pagina dopo pagina, nella scoperta delle storie della più appassionante squadra di tutti i tempi, la Juventus.
Una squadra che in ogni nuova sfida cerca un nuovo, prezioso trofeo.
Una fede, un mito, una bandiera.
La storia della squadra più amata d’Italia.
L’epoca dei pionieri
L’alba juventina • l’idea mette radici
L’epoca degli eroi
Una squadra per una famiglia • Vent’anni dopo • Presagi di grandezza • Trionfo senza eguali • Finisce il digiuno • Una stella per la Juventus • Un decennio tribolato
L’epoca dei professionisti
Il nuovo corso • Juventus “mondiale” • Verso il duemila • Oltre il duemila • Nuvoloni all’orizzonte • Terremoto • Una nuova alba juventina • La stagione del riscatto • L’era di Andrea • Diario 2014-2015
Renato Tavella
Nato a Torino e supporter bianconero DOC, dopo le giovanili esperienze calcistiche nella Juventus si è dedicato al giornalismo sportivo. Ha pubblicato vari libri, tra cui Un uomo, un giocatore, un mito: Valentino Mazzola, e i testi per l’infanzia Nel Paese di Giocapalla e Sei favole e una torta. Per la Newton Compton ha scritto Nasce un mito: Juventus!; Dizionario della grande Juventus; 101 gol che hanno fatto grande la Juventus; Il Libro nero del calcio italiano, Il romanzo della grande Juventus e, insieme a Franco Ossola, Il romanzo del grande Torino (libro che ha ispirato la fiction televisiva RAI del 2005, Premio Selezione Bancarella Sport e Premio CONI) e Cento anni di calcio italiano (Premio Selezione Bancarella Sport e Premio Paladino d’oro della città di Palermo).
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Book preview
Il romanzo della grande Juventus - Renato Tavella
235
Terza edizione ebook: giugno 2017
© 1997, 2007, 2014 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-541-6661-5
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Librofficina
Renato Tavella
Il romanzo della grande Juventus
Oltre un secolo di vita bianconera, dalle origini ad oggi, nella storia del club calcistico più famoso del mondo
Indice
Esergo
L’EPOCA DEI PIONIERI
L’alba juventina
«Dare i calci avanti e indietro»
Torino come culla
Dal rosa al bianconero
L’idea mette radici
In premio una targhetta
Una serpe in seno
Cresce il consenso
La grande guerra
L’EPOCA DEGLI EROI
Una squadra per una famiglia
Un palazzo in via Giacosa
Lo stadio di corso Marsiglia
L’incoronazione di Edoardo
Vent’anni dopo
Il calcio come professione
Carlo Bigatto: il capitano
Il secondo tricolore
Presagi di grandezza
Nel cuore dei tifosi
Il gol come arte
Inizia lo spettacolo
Gran Gala al Regio
Trionfo senza eguali
Bianconero in Italia e nel mondo
Addio presidente
Stagioni d’attesa
Gli anni Quaranta
L’EPOCA DEI SOLISTI
Finisce il digiuno
Giampiero Boniperti detto Boni
Da mister a mister
Sinfonia danese
Una stella per la Juventus
Staffetta in casa Agnelli
Il gigante e lo zingaro
Un bis di prestigio
Un decennio tribolato
Assi in passerella
Volti sempre nuovi
Uno scudetto movimientato
Aria di rinnovamento
L’EPOCA DEI PROFESSIONISTI
Il nuovo corso
Metamorfosi di un campione
Cuore e batticuore all’ultima giornata
I lancieri trafiggono: addio Coppa
Giovanni Trapattoni, per gli amici Trap
Juventus mondiale
La prima volta europea
Tirare il fiato, ogni tanto
Un impeccabile irlandese
Mundialjuventus
Verso il Duemila
Un’amara vittoria
Come da almanacco
Alla caccia del diavolo
La trinità
e Lippi per un nuovo ciclo vincente
Juvecentus, juve centum unum
Oltre il Duemila
Carletto, nel segno della jella
Rieccoci
Quell’orologio sul polsino
Ogni promessa è un debito
La notte di Manchester
Una bandiera sulla Mole
Nuvoloni all’orizzonte
Un luglio di fuoco
L’ultima lettera
Al prossimo fischio dell’arbitro
Un giorno in Pretura
Sul carro del vincitore
Terremoto
Pallone in overdose
Del Piero o non Del Piero?
Scavalcato Boniperti
Incredulità, sconcerto
Processi, sentenze
In definitiva
Una nuova alba juventina
Su le maniche
Rimini: la prima volta
Una lunga rincorsa
Bentornata Juventus
La stagione del riscatto
Si ricomincia da Pinzolo
Siamo tornati
Di nuovo Champions
Delusione e gioia in piazza Montanari
L’era di Andrea
Una stagione di rodaggio
Bentornato, capitano coraggioso
Un alleato in più
Campioni
«30 sul campo»
Scudetto bis
L’Apache e il Re leone
Un flop insospettato
Non c’è 2 senza 3
Juve, Juve, Juve, anche un po’ personale
Diario 2014/2015
Da Giacomo ad Andrea
Sfida infinita con la Roma
Campioni d’inverno
Poker
Diario 2015/2016
Rinnovamento, falsa partenza e Quinquennio
Diario 2016/2017
Incontro alla leggenda
Riscritta la Storia
Una notte difficile da spiegare
Appendici
Spigolature
Riconoscenza in stile liberty
«Siate Juventini!»
Appendice statistica
I presidenti
Gli allenatori
I bianconeri in Nazionale A
La Juventus in campionato
Le vittorie della Juventus in Coppa Italia
Le vittorie della Juventus in Supercoppa Italiana
La Juventus in Europa
Cronologia dei derby della Mole
Bibliografia
Al neonato Giorgio
il mio splendido nipotino.
Alla sua dolce mamma
la mia adorata Sara.
Ringraziamenti
Ringrazio per la gentile disponibilità coloro che con testimonianze, dirette o indirette, hanno contribuito alla completezza del testo. Un particolare pensiero va a Stefano Canavese per la preziosa assistenza statistica. Uno speciale ringraziamento lo devo a Franco Ossola, amico e collega, con il quale ho svolto un mastodontico lavoro di ricerca e prima stesura del Romanzo Juventino
, libro a cui tenevo – e tengo – in maniera speciale.
L’epoca dei pionieri
L’alba juventina
«Dare i calci avanti e indietro»
«Canfari Eugenio?»
«Presente».
«Canfari Enrico?»
«Presente».
«Armano, Botto, Crea, Donna, Favale, Ferrero, Gibezzi, Malvano, Molinatti, Rocca, Rolandi, Savoia, Secondi, Varetti».
Tutti presenti.
Come in un metaforico appello di scuola, nel primo pomeriggio novembrino, i giovani risposero in allegrezza e sicuri presentandosi all’appuntamento. Il luogo convenuto era noto all’intera combriccola. Per i fratelli Canfari, che mettevano a disposizione i locali della loro officina di biciclette, quel cortile fra le case del corso Re Umberto addirittura era familiare. Il momento era di quelli da ritenersi importanti. Se ne parlava da mesi, fantasticando in un succedersi di parole e questa, adesso, era la riunione definitiva, quella che avrebbe infine sancito il patto.
Avevano incominciato ad occhieggiare e a sussurrarsi qualcosa nei corridoi della scuola, a parlarne animatamente all’uscita delle lezioni quando, scesi in strada, le vie Parini e San Quintino si affollavano di studenti e seriosi genitori, di pettoruti, severi professori.
«Te lo dico oggi alla panca».
«Sì, alla panca».
Alle solite finivano però in questo modo i tanti discorsi abbozzati, le ultime idee partorite, convulsi intrecci di opinione dovevano essere lasciati a metà. Per quanto fuori dal portone fossero investiti da un senso di liberazione, l’ombra del vetusto Ginnasio-Liceo Massimo d’Azeglio era pur sempre presente, pesante come una cappa, troppo fresche le ore passate a battagliare a colpi di paradigmi latini e greci. Non si scherzava con studio e disciplina al d’Azeglio, il rigore più schietto regnava sovrano in ogni aula e si avvertiva già fin dall’ampio scalone che saliva su per i piani. D’altra parte queste tipiche caratteristiche di scuola pretenziosa e severa non erano nuove nella conoscenza dei torinesi. Già l’antico Collegio di Porta Nuova, che senza soluzione di continuità nel 1882 era divenuto Ginnasio-Liceo Massimo d’Azeglio, si distingueva per questi tratti marcati che facevano della disciplina e del massimo impegno i suoi cavalli di battaglia.
Fortuna che ci si poteva almeno dare appuntamento attorno alla panca del corso Re Umberto, poco distante dalla scuola. Il luogo di raccolta lì era defilato e sicuro, in quel tratto di viale sfogarsi in parole o giochi era possibile. Sognare anche.
«Che c’è di strano a tentare?»
«Sì, basta con la statica ginnastica: proviamo anche noi».
Le parole erano sempre tante e gli argomenti sportivi si accavallavano sulle bocche di quei tredici-quattordicenni che alla panca
erano di casa. Informati di ogni nuova che veniva dal podismo o dal tamburello, dalla ginnastica, dal ciclismo, davvero in voga in quegli anni di fine secolo, non era ai loro occhi sfuggito uno sparuto gruppo di persone che sui prati del Valentino prendevano a calci una saltellante palla: football era il nuovo verbo promosso da quegli atleti stravaganti. Andava provato.
Decisa una colletta per raggranellare le dodici lire necessarie per l’acquisto di un vero pallone made in England
, la rumorosa cricca dei d’azeglini aveva così preso ad intessere interminabili sfide calcistiche, coinvolgendo ben presto nel divertimento nuovi amici ed altri compagni di scuola. Trascorsi i mesi non senza risparmio di altre eterne discussioni, maturò infine tra i ragazzi l’idea di organizzare in proprio un club sportivo in piena regola. Ed è per questo motivo che li incontriamo alla spicciolata, sognanti e contenti, in quel pomeriggio di novembre del 1897 mentre varcano il cortile del corso Re Umberto, luogo dell’appuntamento.
Dall’incontro nasce la Juventus.
Per meglio dire lo Sport Club Juventus, un sodalizio che deve dare soddisfazioni agli amanti della lotta greco-romana, deve accontentare i fautori della palla vibrata, essere di utilità ai ginnici ed ai ciclisti e… come ben si può immaginare – vista l’età – i soci fondatori sono sportivi a tutto tondo. Si narra di questi intrepidi studenti che, per dar vita al sodalizio, si impegnarono al versamento di una quota mensile pari ad una lira. E altrettanto curiosa, quanto divertente e simpatica, è l’interminabile trattativa che li condusse alla scelta del nome da dare a questa nuova società.
«Ne fioccarono di tutti i generi – ricorda uno scritto del 1914 attribuito ad Enrico Canfari – floreali come Iris Club, scolastiche Società Massimo d’Azeglio, telegrafiche Società Sportiva Augusta Taurinorum ecc.; senza contare le solite denominazioni a doppio petto, uso Forza e Salute, Vigor et Robur che ormai sono retaggio delle pillole ricostituenti. Si venne finalmente alla seduta decisiva: battaglia grossa! Da una parte i latinofili, dall’altra i classicheggianti, in minor numero i democratici. All’onore della votazione s’avanzarono tre nomi: Società Via Fort, Società Polisportiva Massimo d’Azeglio e Sport Club Juventus. Per quest’ultimo pochi simpatizzavano, ragione per cui riuscì ad imporsi. Fra gli oppositori c’ero proprio io: mi sembrava che quel Juventus
più non s’addicesse a soci fatti maturi. Avevo torto: nella Juventus non si invecchia… invecchia invece la juventus».
Se la scelta del nome distintivo con cui battezzare il club aveva costituito non pochi attriti, al contrario non vi erano state dispute quando si era trattato di risolvere un’altra questione che stava molto a cuore ai d’azeglini: la ricerca di una sede, luogo ritenuto all’unanimità indispensabile per l’attività del Circolo.
Eugenio Canfari, primo presidente della Juventus. In carica dal 1897 al 1898. (Diritti riservati. Vietata la riproduzione.)
«Me ne incarico di persona, se a voi va bene», aveva detto sicuro Enrico Canfari, con l’autorevolezza che gli derivava dall’essere non solo il fratello del neo presidente, ma soprattutto il più vecchio della compagnia. E dopo una pausa studiata ad arte aveva aggiunto: «Con l’aiuto di Eugenio, s’intende».
Scappò da ridere all’intera cricca: come sempre arguto, Enrico. Il solo Enrico Piero Molinatti ritenne giusto contenersi. In qualità di fresco segretario, con sulle spalle la gravosa responsabilità della cassa comune, aveva poco da divertirsi, lui, nel sentire aleggiare nell’aria odore di spese. «Perché a parole tutto resta facile – in un amen aveva pensato il posato giovincello – ma quando si tratta di versare la quota dovuta sono sempre troppi, in questo nostro ambiente, i soci squattrinati che si dileguano. Speriamo in bene».
In realtà sapevano già tutti dove Enrico voleva arrivare col suo eloquio, con quel fare oraziano che lo contraddistingueva. Un po’ più o un po’ meno se n’era parlato, alla panca, di cosa i Canfari avevano scovato a buon prezzo non lontano dalla loro officina. Ma bisognava che il presidente lo annunciasse in maniera ufficiale all’assemblea. Giovani e scherzosi quanto si vuole – o forse anche proprio per questo – però al cospetto di un sentito e serio impegno per i d’azeglini la forma andava rispettata. Oppure, se si preferisce, un gioco nel gioco, insomma un tipico atteggiamento a cui di rado si sottrae un qualsivoglia adolescente industrioso.
E come da copione era toccato ad Eugenio, in qualità di presidente, prendere la parola per dare l’attesa notizia: l’agognata sede non costituiva fin da subito problema. «Con Enrico avremmo trovato ciò che fa al caso nostro, in un cortile non lontano da qui», precisò soppesando le parole. «Direi che per una pigione di sei lire al mese, poter disporre di una scuderia con quattro ambienti, soffitta, tettoia, acqua potabile…».
«Hurrà», era stata la risposta convinta del gruppo.
Così ha da essere un presidente, deve aver pensato qualcuno. Non appena affiora una necessità, pronto, prende in mano la questione e in un lampo la risolve. Ma tra bisogni, desideri, esigenze, con l’andar dei giorni le richieste dei soci erano la norma. C’era chi la voleva cotta e chi cruda, chi rivendicava diritti e reclamava ad altri doveri non adempiuti. In altre parole i lamenti più non si contavano e, per mettere regola e dare soddisfazione a tutti, fu deciso di lasciare in sede un quaderno: chi doveva recriminare avrebbe in questo modo potuto farlo sapere al mondo, mettendolo per iscritto. Ci vuol poco ad immaginare che le pagine in questione erano di gran lunga più lette della grammatica latina. Vi era ogni sorta di pensata su quei fogli, per non dire delle burle e degli sfottò messi giù con grande soddisfazione. E a proposito della battaglia grossa
per il nome societario, ricordata dalla testimonianza attribuita ad Enrico Canfari, scrive sul quaderno in modo civico un socio:
«Non capisco e non posso capire, come dall’Assemblea sia potuto scaturire un così bel nome per la nostra Società. Juventus è una bella parola, ma che cosa ha a che fare con ciò che si fa in questo Circolo? Se ciò è avvenuto lo si deve al genere di soci intervenuti alla seduta, che salvo pochi erano tutti tute görbe
».
E in un altro foglio si legge:
Proprio non capisco come si possa dare in nome ad una società Juventus. Già il fatto di provenire dal latino, non lo approvo. Chi ha pensato a tale nome, crede e vuole abbia a durare questi pochi anni in cui siamo ancora Juventus
. E non crede abbia a durare fino al giorno in cui saremo uomini? Allora sì che andrebbe d’accordo Juventus quando la maggior parte dei soci avrà quaranta o cinquant’anni! Qualcuno – e non solo qualcuno – riderà all’idea che la nostra Società debba durare sino ad allora…
È un ribollire di pensieri il neonato Sport Club Juventus, nel realizzato sogno dei fondatori. I germi delle più diverse intenzioni, seppure ammirevoli, hanno comunque sempre poco tempo per decantare quando vanno a scontrarsi con la dirompente idea del football. Come sconfitti da un incontenibile virus che va propagando una malattia, i più accesi fautori del ciclismo, della ginnastica, della lotta greco-romana… i puri
, per intenderci, coloro che ancora non si sono lasciati ammaliare dal nuovo messaggio sportivo, per gradi abbandonano il sodalizio lasciandolo nelle mani dei footballers. Perché intanto erano proseguite, sempre più divertenti, infinite sfide in famiglia sui prati del Valentino che avevano coinvolto nell’avventura altri compagni di scuola, nuovi amici. Crescono i soci, dunque, e un po’ tutti sempre più fautori del gioco del calcio. Per questo bisogna rivedere la ragione sociale della Società, tocca renderla più aderente alla realtà.
Nel 1899 la denominazione viene modificata in Football Club Juventus – nome che rimarrà tale fino ai giorni nostri. Intanto l’anno prima alla presidenza di Eugenio Canfari era succeduto il fratello Enrico, ed anche la sede era nel frattempo stata spostata in un altro cortile: tre grandi camere al numero 4 di via Piazzi, zona Crocetta. Vi è gran fermento in casa juventina in questi ultimi mesi del secolo che sta per finire. Non solo è stata modificata la denominazione sociale, ma sono stati aggiunti allo statuto nuovi articoli. Uno di questi prevede per i giocatori il versamento annuo di dieci lire, mentre gli aggregati ne pagano cinque, con il diritto però di assistere gratuitamente alle partite. Ed è anche il tempo, questo, in cui per far conoscere meglio la Società ai torinesi, Canfari e compagni bandiscono un torneo di calcio, invitando alla contesa le squadre cittadine più in vista. Tutti in ghingheri come bisogna, s’intende.
Per l’occasione la Società adotta per la prima volta una divisa di gioco: una rosea casacca di sottile percalle, un berrettino di piquet bianco alla savoiarda, una fascia nera per cingere la vita, un pantaloncino nero, l’immancabile cravatta: nera anch’essa. La scelta di questa sgargiante soluzione non era dettata da preferenze, ma più semplicemente era un ripiego imposto dalle precarie condizioni economiche in cui versavano, in maniera cronica, gli eroici studenti juventini. Ed allora: grazie! al padre di quel socio che mise a disposizione una pezza di percalle, prelevandola dai fondi di magazzino della sua azienda tessile. E grazie all’austera signora Adele, raffinata pianista e mamma dei Canfari, che insieme alla cugina Eva Caligaris si era presa cura di ritagliare e cucire le camicie. Per il resto dell’arredo, ognuno si arrangiò con quel che di nero aveva.
È fatta.
Si alzano gli occhi al cielo nell’ammirare scie colorate di fuochi d’artificio; nei ritrovi alla moda saltano tappi alle bottiglie di champagne: val bene un brindisi, l’arrivo del Novecento. Alla Juventus si fa festa due volte: suona scortese non dedicare un sontuoso cenone al Club appena iscritto al terzo campionato della storia. Faccia attenzione il Genoa campione. In canti esplode la gioia:
Per il gioco del football
poche doti sol ci vuol
posseder buon colpo d’occhio
pantalon corto al ginocchio
gamba lesta molto fiato
un po’ di english bestemmiato
e se il resto anche non c’è
lo si mette col toupé.
In soli tre anni i ragazzi del d’Azeglio si sono superati. Il loro canto accompagna nell’alba una Torino che si sveglia nel nuovo secolo:
Dare i calci avanti indietro
sì così così così
sbagliar gol di un solo metro
sì così così così…
Torino come culla
Quattrocentomila abitanti. Forse qualcuno in meno. È una piccola città la Torino che vede nascere la Juventus fra le sue case. Dall’apparente sonnecchiare, apre un occhio, lo richiude. Come combattuta tra uno spirito di conservazione e lo slancio verso il nuovo, lascia di rado trapelare emozioni. Sono peraltro sempre troppe le vampe di novità che nelle strade covano sotto un apparente grigiore di cenere. Si vedrà. Sorniona, è comunque disponibile a cullare sogni e fantasie, nel suo regale distacco, attenta a graffiare se necessario. A farsi valere.
In verità non ha ancora digerito del tutto d’essere stata spodestata. Torino è pur sempre capitale, anche senza la corona. Gli echi risorgimentali rimbalzano dappertutto sui muri degli aristocratici palazzi, fino al Po e alla collina, vanno a perdersi lontano, sulle cime più alte della corona delle Alpi.
«Con quattro soldi a Torino si mangia, si beve, si legge e si va in carrozza», diceva un motto popolare.
Un modo di dire probabilmente un poco esagerato, ma alquanto veritiero nell’indicare questa particolarissima città, sempre in bilico fra il vecchio ed il nuovo, in cui un modesto ma diffuso benessere mascherava plaghe di povertà, dove poveri diavoli tiravano avanti in maniera indigente. Neppure mancavano rioni malfamati, poco raccomandabili alla frequentazione notturna tanti erano i briganti che si nascondevano nelle tenebre. Nel bene e nel male una città in tutto, questa piccola Parigi
che si attraversava con pochi passi e con altri pochi la si lasciava alle spalle per ritrovarsi in aperta campagna.
Ai bordi della periferia sta per muovere i primi passi il cinema, coi suoi monumentali apparecchi e gli attori incipriati. Fumi di ciminiere già non si contano. Si levano diritti sopra i tetti da ogni dove. Imprese dolciarie e vinicole, tessili, chimiche pulsano vivaci e dal capoluogo subalpino propongono con successo i loro prodotti oltre le frontiere; mentre prepotente l’industria automobilistica è pronta ad affacciarsi con la sua modernità sulla scena e nel mondo.
Una storia nella storia, questa dell’auto. Una vicenda che aveva dato il suo primo segnale nella città sabauda già molti anni prima, quando nel 1854 i torinesi erano accorsi in massa in piazza Castello per ammirare la macchina infernale
a vapore di Virginio Bordino, ufficiale del Genio Piemontese, che dimostrava come con trenta chili di carbone il suo cavallo meccanico era capace di percorrere otto chilometri in un’ora.
Ma l’invenzione rimase per molto tempo un semplice fatto di cui parlare, un avvenimento ricordato, anche perché capace di riunire una gran folla in un divertimento collettivo all’aria aperta, un genere di appuntamento parecchio apprezzato dai torinesi del tempo. Paragonabile un poco ai festeggiamenti carnevaleschi che di anno in anno si stavano facendo sempre più pomposi e belli, coreografici; quasi sfarzosi come l’ultima Esposizione Internazionale del 1898, se non addirittura arditi, come ardita era l’alta figura della Mole Antonelliana che adesso si stagliava contro il cielo con la sua guglia, dopo trent’anni di lavoro.
Torino continua a stupire anche per le sue stranezze e nell’animo forse se ne compiace. Ecco allora riapparire, modificata e corretta, l’idea del cavallo meccanico ora proposta da Giuseppe Lanza in una vetturetta prototipo. Tempo tre anni ed i fratelli Ceriano stupiscono tutti con la loro vettura Welleves. Ma già altri illuminati personaggi come Giovanni Agnelli e Giovanni Lancia, i fratelli Diatto, hanno fiutato la grande proporzione del fenomeno e sono pronti ad impegnare le loro sostanze ed il loro lavoro nell’impresa. Con un capitale sociale di ottocentomila lire l’11 luglio del 1899 nasce la Fabbrica Italiana Automobili Torino: la FIAT.
Sembra ieri il tempo della novità dei canottieri – 1863 – quando i gagliardi vogatori della Cerea, dell’Armida e dell’Esperia, della Caprera, della Ginnastica, avevano preso a filare veloci sul Po incassati nelle loro chiglie. Sgranavano gli occhi i torinesi dalle rive del fiume. Era uno spettacolo. Gare di remi erano andate a moltiplicarsi in un crescente interesse, al punto da far nascere persino un totalizzatore per le scommesse. Passatempo invece per pochi intimi di gran mondo – si parla di trecento soci nel 1888 – era scommettere bei soldi sulle corse dei cavalli. Al rientro in città dall’ippodromo, allora ancora vivo sul prato della Cascina Amoretti, fuori porta sulla strada per Orbassano, vi era poi il sogno per tutti. Si mostravano al passaggio noti gentiluomini in cilindro a otto riflessi, con appeso al collo l’immancabile binocolo. Non mancavano alla parata ufficiali di cavalleria ingessati nella gloriosa uniforme blu, detta blu-solferino; ma erano le dame coi loro ombrellini e ventagli, perline, pizzi, merletti e incredibili svolazzi d’abito a render bella la domenica. La duchessa di Genova, la duchessa Isabella, la principessa Laetizia, la contessa Gattinara, la marchesa di Montezemolo… sono loro a guadagnarsi le più convinte righe di giornale del cronista confuso fra la folla. Restava da parlarne per una settimana, di cotanto sfarzo.
La moda. Ecco un altro spicchio di fantasia e nuovo intendimento. Non è del tutto fuori posto accennare alle modiste, alle sartine di Torino come alle primedonne del buon gusto che va a conquistare fama in ogni dove. Nel contempo altre giovani lavoranti si sentono in diritto di calare in strada cantando:
Se an botega ai manca l’aria
an sle sofiëtte ai manca al pan
(se in bottega manca l’aria
nelle soffitte manca il pane).
Nelle innumerevoli tessiture non ne possono più. Lavorano dodici ore al giorno e chiedono un aumento di salario. Guadagnano 50 centesimi a giornata le operaie aiutanti
quando un chilo di pane costa 35 centesimi, 50 centesimi un chilo di pasta e 30 un litro di latte. Per l’affitto di una sistemazione in due camere occorrono 15 lire al mese. Scoppiano i primi scioperi.
Sta scricchiolando e si allontana sempre più il modello di una Torino a misura di principi e contesse. Alla nobile capitale sabauda dell’Ottocento si va sostituendo la capitale della rivoluzione industriale, col suo scheletro segreto della massa operaia che, senza posa, seguita a giungere da valli montane e dalle campagne, attirata fra le sue mura dal miraggio del lavoro. Per la maggior parte si tratta di persone che non sanno leggere e scrivere, sono però avvezze alle rinunce e alla fatica; sono disposti e pronti ad imparare nuovi mestieri questi contadini e pastori che, salvo rari casi, portano con sé il solo tesoro di esperienze manuali ereditate dai padri.
Richiamati dalla prepotente nascita dell’industrializzazione, con impegni qualificati a vario titolo, per lavoro vivono la città anche numerosi stranieri. Tra essi vi sono banchieri ed imprenditori, professori, medici, tecnici e operai specializzati. Neppure mancano alla conta i soliti avventurieri. Sono in prevalenza cittadini svizzeri, francesi, inglesi. Oltre che belgi, questi ormai di casa da anni e torinesi
a tutti gli effetti. Importante la strada che ha portato i fiamminghi in riva al Po, per lo spaccato dell’epoca che ci viene regalato e meglio ci fa capire.
Fino al 1845, anno in cui il signor Giovanni Rissone di Moncalieri ottenne l’autorizzazione a gestire un servizio di omnibus a cavalli per aiutare «nelle loro bisogne» i cittadini, in Torino non esistevano «cotali mezzi celeri di trasporto». Quindi è questo ingegnoso ed intuitivo moncalierese ad organizzare per primo un servizio di tram a cavalli, due linee di trasporto che incrociavano in piazza Castello ed andavano a tagliare la città: posti a sedere quattordici. Più che di tram sarebbe però giusto parlare di diligenze, trainate da rassegnati ronzini che muovono i garretti sull’acciottolato avanti e andrè
per oltre vent’anni. Nel 1871 avviene la rivoluzione. Collocate in alcune strade file di rotaie, ammodernate le carrozze, baldanzosi cavalli strigliati a brusca sono messi alla testa di un inedito convoglio che dalla piazza Castello percorreva un lunghissimo tragitto fino all’attuale piazza Carducci. Promotore di tutto questo, un tal ingegner Avenati, che aveva ottenuto la concessione per il progetto e la gestione del servizio. L’intuizione è a dir poco straordinaria. Non solo per aver concepito un trasporto cittadino più veloce e meno rumoroso dell’omnibus, ma per aver intravisto nella linea di percorso quale avrebbe potuto essere il nuovo polo di sviluppo della città: la futura Barriera di Nizza ed il rione Lingotto.
Lanciata la novità e messa a punto l’opera, dopo appena tre anni di attività l’illuminato ingegnere decide di vendere la concessione. Ed è in questo frangente, nel passaggio di proprietà, che per lavoro numerosi belgi spostano casa a Torino. Una società fiamminga aveva infatti acquistato i diritti di concessione e, ben presto, ampliato il servizio con l’inaugurazione di altre linee di percorso. La Belga
, familiare dicitura per i torinesi dell’epoca, contribuisce in questo modo a far esplodere il fenomeno del tramvai nel capoluogo subalpino, aiutata nell’intento dalla amministrazione comunale che nel 1897 elettrifica tutte le linee per poi entrare in concorrenza, fondando quella che nel tempo è stata l’Azienda Tramvie Municipali
. Ad un certo punto – si narra – l’intera città aveva strade incise da binari ed era solcata dalle vetture, dalle carrozze di tutti
, dirà con piacere Edmondo De Amicis, osservandole passare dal riparo dei portici della aristocratica e centrale via Pietro Micca.
Non ci è dato sapere purtroppo a quale società tramviaria appartenessero le vetture su cui salirono l’8 maggio 1898 – vi è da pensare in una giornata radiosa – i primi quarantaquattro giocatori della storia ufficiale del nostro calcio. Perché anche loro, i nostri pionieri, utilizzarono il servizio per raggiungere il campo di gioco, teatro della sentita contesa, posizionato nel bel mezzo di un vasto prato alle spalle della stazione di Porta Susa.
Internazionale, Ginnastica Torino, Football Club Torinese, Genoa si chiamano le squadre. Devono confrontarsi in un solo giorno per il primo Campionato Italiano di Football. Delle quattro partecipanti ben tre sono torinesi. Ma, come il proverbio vuole, a vincere è la compagine che rappresenta l’unico segno d’incomodo, vale a dire il Genoa. Il glorioso Genoa, organizzato ed imbattibile, già preparato per imporsi nelle sfide che seguiranno.
Una cinquantina di spettatori al mattino per le fasi eliminatorie, un centinaio al pomeriggio per il gran finale, avevano seguito l’avvenimento consegnando al cassiere la cifra di centonovantasette lire. Sorvoliamo sulle discussioni dei quasi gol
che ci sono state tramandate dai rari documenti, delle scazzottature che ne sono seguite per loro causa. Com’era nel costume del tempo – per lo sport in genere – i giornali concessero all’appuntamento poca importanza. Ad esempio, il quotidiano «La Stampa», ancora sottolineato «Gazzetta Piemontese», con nove righe annuncia il campionato sabato 7 maggio 1898, per non farne più cenno alla domenica ed il lunedì seguenti: in questi due giorni le quattro pagine di cui il giornale si compone sono occupate in gran parte dai fatti accaduti a Milano, dove il generale Bava Beccaris ha represso le sommosse popolari contro il rincaro del pane dando ordine di sparare col cannone sulla folla.
Un’Italia in fermento in queste ore. Nella frivolezza del piccolo mondo calcistico è però plausibile supporre vi fosse lo stesso molta soddisfazione, per l’avvenuto varo di una attività preparata ed auspicata da tempo. Edoardo Bosio, poi, colui che per primo aveva pensato a questo momento, di sicuro sarà stato raggiante per la contentezza. La soddisfazione di vedere crescere e realizzarsi un ente calcistico capace di organizzare un campionato, idea che in cuor suo aveva accarezzato, progettato, con genuina fantasia dieci anni prima, si era davvero materializzata.
Passati quasi di moda, lontani, i giorni in cui sui vasti spiazzi della piazza d’Armi lui e Dobbie, Kilpin, Savage gridavano ad altri amici: «No, non; con le mani n’est pas possible… good, good… and now goal for us…». In questo clima aveva preso le mosse il football in Torino nel 1887. E grazie a lui – Edoardo Bosio – che tornato quell’anno dall’Inghilterra da un viaggio di lavoro, aveva portato con sé un pallone e tanta, tanta voglia di lanciarsi nel gioco. In un baleno avevano aderito al suo invito di divertimento un gruppo di amici della ditta Adams di Nottingham. Allora: giù calci a quella palla di cuoio che saltella, un esercizio quanto meno stravagante, mai visto prima in Torino.
Intanto del football si era preso a parlare, con un certo interesse, anche in ambienti della aristocrazia e della buona borghesia cittadina. Ne davano le loro impressioni quegli uomini di affari che per lavoro frequentavano le maggiori città europee; ne parlavano con trasporto i ragazzi che studiavano nei collegi britannici, svizzeri, francesi, dove il gioco si stava imponendo fra i passatempi preferiti. Vi era poi un gusto speciale in certi giovanotti, amanti di ogni novità, che dalle parole passarono, decisi, ai fatti.
Con alla testa Luigi Amedeo duca degli Abruzzi, gli sportivi più all’avanguardia dell’élite torinese scesero in campo. Per l’esattezza iniziarono a dar dimostrazione del gioco inglese alla Patinoire del Valentino, quando, col bel tempo, il laghetto di ghiaccio si trasformava in galoppatoio. Nasi, il marchese Ferrero di Ventimiglia, Colongo, Guarino, De Minerbi, il barone Casana… Ci piace credere dessero saggio di grandi giocate questi gentiluomini, sotto lo sguardo rapito di eleganti mademoiselles.
Inevitabile che le schiere del duca scendano a tenzone contro quelle di Bosio. Impensabile che dalle sfide non affiorino altri seguaci, circuiti anch’essi dalle malie del gioco. Naturale che un seme accudito con molta passione germini e dia il suo frutto. Con alla presidenza il conte D’Ovidio e alla segreteria il signor Jordan, il 15 marzo 1898 nasce a Torino la Federazione Italiana del Football, con sede a Torino.
Quindi il primo campionato, il secondo, il terzo, mentre con slancio prendono piede targhe e trofei, coppe, organizzati con generosa abitudine. Sorniona, la città se ne avvede, comunque. Dall’apparente sonnecchiare pare aprire, piano piano, gli occhi. Regale, nel suo distacco, culla sogni e fantasie e se ne compiace.
Dal rosa al bianconero
Ha ben voglia di contrarre occhi e bocca Enrico Canfari ogni qualvolta si imbatte nella lingua di Cicerone. In Juventus la maggioranza dei soci la pensa in modo diverso da lui: Delectando Fatigamur
viene infine deciso di stampigliare sul fronte della tessera sociale, che ciascuno non vede l’ora di stringere fra le mani come segno di appartenenza. Ma, forse, nel profondo del cuore, non spiace neppure al simpatico Enrico leggere il motto latino accostato al suo nome ed alla firma del neo presidente: Carlo Favale.
Enrico Canfari, secondo presidente della Juventus. Da ritenersi l’autentico trascinatore dei primi passi juventini. (Diritti riservati. Vietata la riproduzione.)
Si alternano alla presidenza i ragazzi del d’Azeglio. Seguitano a discutere con piglio nel progettare per questo loro club. Tutti i santi giorni che il Signore manda sulla terra, dopo studio o lavoro, si affrettano in piazza d’Armi ad allenarsi un’ora nella corsa. Hanno fiato da vendere e fanno a gara fra loro su chi è più resistente alla fatica. S’inventano esercizi per affinare la tecnica col pallone fra i piedi: posizionano come utili ostacoli sedie in fila indiana e le raggirano in un instancabile slalom. Ancora e ancora… Resta difficile pensare che fossero stati influenzati dal dottor Adolf Kind, l’ingegnere di Coira, torinese d’adozione, che proprio in quegli anni si era fatto mandare da Zurigo il primo paio di ski
mai visto in Italia e ondeggiando, spericolato, si era gettato giù, a testa bassa, dal Monte dei Capuccini. Chissà, tutto può essere. Azzardare in fantasia inoltre non costa. Di certo è però che gli juventini sono all’avanguardia e assai bene informati.
Sono anche reazionari, a loro modo. Si sono calati in una forma inedita di essere sportmen, diversa dal rigoroso canone che fino ad allora aveva contraddistinto tale appellativo. Sportmen venivano infatti considerati i ciclisti, gli alpinisti, ossia tutti coloro che nella pratica sportiva mostravano di amare, per superarli, rischi temerari. Per i calciatori era invece tutto diverso, sosteneva in genere la corrente opinione. Ma come spiegare a chi non sa guardare avanti che la sfida sportiva col football non solo ha il grande potere di accomunare, ma diverte. Il solito ritornello della novità, apprezzata da pochi, prima di diventare a sua volta qualcosa di vecchio, passato. E sì che pure la Federazione della Ginnastica aveva ormai da tempo riconosciuto la sportiva via del gioco. Per prima aveva addirittura organizzato un torneo di football nell’ambito della propria manifestazione nazionale – e questo ancor quando la consorella calcistica non era neppure nata. Il nuovo, si sa, spesso tarda a fare breccia, prima di diventare un comune patrimonio. A dire il vero, poi, l’intera attività fisica stentava ad inserirsi in maniera piena nel contesto del tessuto sociale, anche se già nel 1887 Francesco De Sanctis, dall’alto delle sue meditate considerazioni, con non poca ironia aveva sentenziato a proposito dell’importanza dello sport: «Se vi è la ginnastica nella scuola è considerata svago».
Al pensiero torna in mente la panca sicura del corso Re Umberto, defilata il necessario dal vetusto Liceo d’Azeglio, tanto da poter darsi convegno intorno ad essa e proprio lì sfogarsi. Perché, oltre alla sede del Circolo, non sempre possibile sostenere con la dovuta continuità per via dei costi, quella parte del viale che incrocia il corso Vittorio Emanuele era pur sempre un angolo accogliente per la – scusando il bisticcio – giovane… Juventus. Specie nella bella stagione, quando il pomeriggio tarda ad entrare nella sera, gli ultimi arrivati conoscevano per bocca dei fondatori il mito di Enrico Canfari, che di sicuro stava facendo il burlone anche adesso, alla Scuola Allievi Ufficiali. Carlo Ferrero e Umberto Savoia – futuri generali – erano anche loro prossimi a partire per l’Accademia Militare e stavano vivendo le ultime ore spensierate. Gli ultimi problemi, anche.
«Se per allenamento si vogliono far partite di tal nome, bisogna tornare a piantar pali nella piazza d’Armi».
Non se ne dava ad intendere Domenico Donna, il piccolotto della compagnia. Muoveva nervoso gli occhi scuri e profondi su quel volto di furetto, senza mai stancarsi di dire la sua, arguta e sferzante. Un po’ come era nel costume di Umberto Malvano, d’altra parte. Ma nel caso in questione, Malvano ricordando di essere pur sempre il figlio di un ex assessore della città, non se l’era sentita di lanciarsi in opinioni. Già una volta, in casa, aveva dovuto sentir le sue per i guai che loro «con quel football» avevano scatenato nella piazza dei militari. Era accaduto che per giocare appunto «partite di tal nome» tutti d’accordo, con entusiasmo, avevano deciso di delimitare sulla piazza d’Armi il perimetro di un campo, tirando a mezz’aria una cordicella al di là della quale amici e curiosi, i primi fedeli supporter, potevano assistere alle loro esibizioni. Ad un simile impianto non potevano certo mancare regolari porte e fu così che presero a scavare buche, entro cui interrare per sicurezza i pali. Un’altra corda tesa, alla quale veniva attaccata una striscia di tela perché la si potesse meglio vedere, fungeva da traversa e definiva il magico rettangolo del gol. Il tutto veniva montato e smontato per la bisogna e le buche – nel rispetto degli altri frequentatori della piazza – a gioco ultimato venivano ricoperte.
In questa maniera erano andati avanti per un bel po’ di tempo, scrivendo su quel prato le gesta delle prime e gagliarde partite juventine. Anche Bino Hess, quello spilungone che era stato tra i promotori del gioco – poi, chissà perché, al momento di fondare il club non si era visto – di questi tempi si era rifatto sotto e si dannava, con gioia, in meravigliose galoppate. Così come Francesco Daprà e l’altro d’azeglino Chiapirone, terzino – chissà se di fascia o di marcatura. Sulla linea che delimitava il rettangolo di gioco, in lungo e in largo per il campo, si distendeva invece in armoniose falcate Guido Botto, prossimo campione italiano di corsa veloce. Alla visione di tanta forza dell’amico, sgranava occhi azzurri il biondo Luigi Gibezzi: lui, altissimo e dinoccolato, buono e sognatore.
E un bel giorno nell’euforia dei sogni, i nostri intrepidi smontarono lo stadio
dimenticando di ricoprire le buche dei pali. Era tassativa regola del tempo non comportarsi in modo sbadato; toccava essere rispettosi ed educati, sempre ed in ogni circostanza. Con ciò, altrettanto grande è la jella che vuole il giorno appresso un dragone del Regno dirigere con millimetrica cura il proprio cavallo, manco a farlo di proposito, ad infilare un garretto in uno di questi avvallamenti, diciamo così, calcistici. Ruzzola il cavaliere dalla sella, il bell’animale si spezza una gamba e deve essere impietosamente soppresso. Come mai? Che è accaduto? Perché? Chi è stato? Scandalo! Per quei ragazzi distratti e irriguardosi l’area deve essere interdetta.
Ne sapeva ben qualcosa, lui, Umberto Malvano, quali filippiche gli era toccato di sorbirsi. Perciò adesso, cosa strana, non fiatava. Lasciava agli altri il compito di ricordare che, in fondo, l’intera questione si era risolta col compromesso di non scavare mai più buche di sorta. Già, in breve, la piazza era ritornata a disposizione, ma chi ci aveva messo del suo con la famiglia? «No, no; è bene controllarsi, senza lasciarsi andare – si ripeteva Malvano – perché in un attimo se a questi dai un dito ti prendono la mano».
Ottime ragioni aveva tuttavia il futuro avvocato Domenico Donna nell’indicare necessaria una scrupolosa preparazione dovendo affrontare il Campionato d’Italia
. Convenivano annuendo persino Secondi e Molinatti, poco propensi in genere a dilungarsi in tante parole. Si dicevano d’accordo Rolandi e Gino Rocca, Vittorio Varetti, Gioacchino Armano. Per Pio Crea quando di Juventus si trattava, non era mai problema e tutto doveva essere permesso.
Nell’attesa di poter disporre finalmente a tempo pieno del Velodromo Umberto I – l’impianto collocato proprio dietro all’Ospedale Mauriziano – con convinzione i ragazzi si erano infine ripresentati in piazza d’Armi attrezzati con cavalletti per sostenere le porte di gioco. Quando la necessità urge, l’ingegno si adegua. E la bella avventura era così proseguita.
Eliminati di misura nella fase locale del torneo nazionale, nello stesso anno i giovani juventini si prendono la soddisfazione di far man bassa di vari altri trofei: a Milano, la medaglia d’oro messa in palio dalla Società L’Esercito; a Torino, un bel servizio di scrittoio offerto dalla Ginnastica Magenta; ancora a Torino, la Coppa Ministero della Pubblica Istruzione
– un successo che verrà puntualmente ribadito nei due anni seguenti. Nel 1901 si impongono anche ad Asti, su di un lotto di numerose squadre liguri e piemontesi, aggiudicandosi il Gonfalone e la Medaglia del Municipio. Poi, precursori dei confronti internazionali, aggiungono un ulteriore merito organizzando un match contro la squadra svizzera del Montriond.
Non meno importanti proseguono intanto altre epiche partite disputate nella provincia piemontese. Specie nel pieno dell’estate era un bel modo per stare insieme, divertirsi e divulgare il football in sagre di paese, il più delle volte a costo di incredibili levatacce e trasferimenti in omnibus – il solo mezzo dotato della terza classe e, automaticamente, il più abbordabile. Lirette, infatti, continuavano ad essercene pochine nella cassa sociale juventina, anche se, da ultimo, questo aspetto non costituiva un contrattempo preoccupante. Con quel poco che avevano si organizzavano, vedendo di spassarsela nel migliore dei modi e le risate – quelle soprattutto – non mancavano mai. Come gli sfottò, i canti, gli scherzi. Un sano contorno di goliardie accompagnava sottobraccio indissolubile il loro entusiasmo sportivo. Ricordando quei giorni, si dice che Enrico Canfari ebbe a dire:
La Juventus ormai aveva un nome che poteva ben figurare sui cartelli delle feste patronali col ballo a salon
e la rottura delle pignatte
. Si racimolavano undici individui, non dico giocatori, tra i pochi soci rimasti a Torino e dintorni, si formava, con licenza parlando, una squadra e ci si esibiva a Chieri, Saluzzo, a Trino. A proposito di Trino vi dirò che per una mancata coincidenza fummo costretti, giunti a Chivasso, a farci prestare una diligenza…
È una miscela pressoché esplosiva quella che scaturisce da una calibrata dose di allegria ed un pizzico di senso di humor, travasati nella forza di una idea in cui si crede. Perché quando uomini giovani decidono di fare qualcosa di cui sono convinti, la norma testimonia che l’azione viene intrapresa sempre con vigore e grande energia. E in questo modo, ancora una volta, è andata pure per i nostri juventini.
Al primo ed agognato pallone di giallo cuoio, acquistato con fatica in via Barbaroux nel negozio Principe di Galles
del signor Jordan – un inglese dal prominente pizzetto, il quale si narra ne possedesse alcuni esemplari nascosti tra le pezze di stoffa pregiate – con l’andare del tempo altri se ne erano aggiunti nell’angolo-magazzino della sede, ben custoditi sotto chiave. Benché il tesoro non fosse più rappresentato da un unico campione, né, ormai, costituisse motivo di assoluta novità, ancora sempre e soltanto ai componenti della Direzione spettava l’onore di poterli rigonfiare, tutte le volte in cui l’operazione si rendeva necessaria. Una funzione che seguitava ad assumere i contorni dell’atto religioso, tanto veniva svolta con premurosa attenzione, nel rispetto anche del non trascurabile significato profano che andava attribuito al caro
costo delle magiche sfere. Ma stessa cura amorevole la Direzione continuava pure a manifestare nell’impegno in generale. Si era fatta in quattro per risolvere la questione campo e proseguiva, mettendocela tutta, al fine di organizzare una squadra all’altezza degli impegni intrapresi.
Nonostante tutto, il secondo approccio al campionato non sortisce esiti di gran rilievo. La squadra, pur dimostrando di saperci fare, nella fase locale, non riesce ancora a trovare un assetto convincente che le permetta di accedere, come vorrebbe, alla fase conclusiva. Ma è solo questione di mesi.
Con l’ingresso in seno alla Società di giovani provenienti da altri ambienti sociali, quali impiegati ed operai della sempre più fiorente industria, con l’inserimento in organico dei primi stranieri – uno svizzero ed uno scozzese, tecnici di una filanda – la Juventus va rafforzandosi senza, con questo, snaturare la sua caratteristica goliardica. E nel campionato del 1903 trova finalmente la soddisfazione di giungere alla partita finale, opposta per il titolo di Campione d’Italia all’invincibile Genoa, che fino a quel momento su cinque campionati disputati se ne era aggiudicati quattro. Vince, ancora una volta, il Genoa per 3-0 e si conferma la squadra principe. Alla Juventus si è però contenti lo stesso. Per gradi, alla maniera subalpina, a passi cadenzati e sicuri la marcia adottata consente di procedere spediti e fan bene sperare per il raggiungimento della vetta. Oltretutto, proprio da quest’anno, la squadra si è pure data una nuova divisa di gioco: lise e scolorite, non ne potevano più le gloriose camicie rosa di percalle. Vengono sostituite. Il fatto in sé non riterrebbe gran motivo di particolarità, non fosse che grazie a questo avvicendamento la Juventus riceve il simbolo che la contraddistinguerà nel mondo del calcio: in un pacco proveniente da Nottingham sono giunte infatti a Torino le maglie bianconere a strisce verticali. Sono le medesime indossate dai portacolori del Notts Country, la società che insieme al Nottingham Forest è la più in vista della città inglese.
Verosimilmente, lo storico episodio deve essere andato su per giù in questo modo. Da tempo frequentavano la Juventus alcuni inglesi. Fin dai primissimi giorni della piazza d’Armi, Canfari e soci avevano infatti condiviso belle ore di gioco con un gruppo di pionieri che insieme a Edoardo Bosio, al duca degli Abruzzi, avevano fatto conoscere il football in Torino. Erano, costoro, personaggi quanto meno pittoreschi: Jordan, Goodley, Savage, e non da ultimo Dobbie, un dentista sulla cinquantina che fra una volata e l’altra sul campo amava dissetarsi con generose sorsate di whisky. Favoriti da questi contatti, non era stato difficile trovare nel negozio di mister Jordan un vero, autentico pallone inglese, il primo – come già ricordato – acquistato dagli intraprendenti d’azeglini. Percorso del tutto analogo si era ripetuto per le casacche sociali, allorché John Savage – già giocatore del Nottingham Forest – aveva fatto notare agli juventini come fosse ormai necessario un corredo di gioco, diciamo, più professionale di quello adottato fino a quel momento. Se ne sarebbe incaricato lui personalmente – immaginiamo abbia detto – acquistando tutto il necessario per diretto tramite dall’Inghilterra. A sua volta, il negoziante di Nottingham cui era stato indirizzato l’ordinativo, pur di soddisfare all’istante la richiesta, aveva pensato bene di spedire il blocco di maglie di cui disponeva in quel frangente in magazzino, senza troppo badare a soddisfare la clientela oltre che dal punto di vista della celere evasione anche da quello, assai importante, dell’estetica. Così pare. Ed infatti l’inattesa ed imprevista divisa non era stata accolta con molto entusiasmo: sarebbero state di gran lunga più gradite e ben accette le rosse casacche del Nottingham. Smaltita la piccola delusione, col passare dei mesi, si cominciò a non fare più caso alla singolare combinazione di colori ed al loro conformarsi in strisce verticali. Anche perché, adesso, con la conquistata targhetta di vincente dell’ottavo campionato nazionale della storia, quella bianconera casacca si era imposta, facendosi insostituibile. Era diventata una bandiera.
L’idea mette radici
In premio una targhetta
1905. La Juventus raggiunge la vetta. Pareggia a Torino e in terra ligure col Genoa; batte due volte l’Unione Sportiva Milanese. Ottiene sei punti in classifica ed aspetta con ansia l’esito dell’ultimo incontro del Genoa, che è a quota quattro e deve affrontare sul suo campo i milanesi. Questi pareggiano 2-2 e la matematica assegna lo scudetto ai bianconeri. Ecco, tutti di fila, i campioni: Durante, Armano, Mazzia; Walty, Goccione, Diment; Barberis, Varetti, Forlano, Squire, Donna.
Han ben ragione di esultare una, due, tre volte gli juventini. Si sfoga in un gran cenone la loro festa, in applauditi discorsi rimpallati dalle bocche di ognuno. E riprende il canto:
Dare i calci avanti indietro
sì così così
sbagliar gol d’un solo metro
sì così così così.
Imparar bene l’ofsay
questo mai poi mai poi mai
e se il referee dà torto
fare il morto il morto il morto.
Sghignazzava sotto i baffi il portiere Durante alzando il calice «…e se il referee dà torto, fare il morto il morto il morto…», ripeteva soddisfatto in controcanto, disegnando in volto una impercettibile smorfia. Giusto il contrario dell’espressione determinata che d’abitudine sfoderava in campo, quando aggrottava rughe sopra ciglia cespugliose e, levato il cappello, lo sventolava in direzione del pubblico gridando a gran voce: «mi appello al popolo!». Un modo pittoresco, tutto personale, per dirsi non d’accordo con una decisione contraria ai suoi colori presa dal referee – come veniva chiamato l’arbitro stando alla classica dizione inglese. Urlava e si agitava di continuo, mostrava certi occhiacci neri da far paura, il tracagnotto Durante quando era alla difesa tra i pali. Poi rivestiva i panni borghesi e si ricalava nella vita artistica di tutti i giorni, fatta di tele e colori, di quadri solari.
Flemmatico, alto e biondo, il prossimo ingegnere Gioacchino Armano sapeva invece controllare con vera signorilità la sua forte carica agonistica ed era sempre in guardia, non appena scendeva in campo. Al suo fianco l’altro terzino, Mazzia, benché non tanto veloce, pareva trovare in certe… illuminate intuizioni sempre il modo di intercettare la palla, da qualunque parte si trovasse a transitare. Dove non bastava l’abilità, insomma, si arrivava col cuore. Walty, Goccione, Diment, da par loro, articolavano con fegato e tenacia la barriera difensiva. Goccione, per suo conto, sfruttava l’alta statura e di slancio saltava verso l’alto ad inzuccare ogni palla che arrivava dal cielo. Lo si può, non a torto, ritenere uno fra i primi centromediani della storia: Giovanni E. Goccione, impiegato della Società Assicurazioni Incendi di Torino.
Era organizzata in difesa, questa Juventus; mentre in attacco c’era più improvvisazione. Miravano alla porta a modo loro Barberis, Varetti, Squire e lo scaltro Donna. Gradiva affidarsi alle sortite in slancio di quel toro d’uomo che era Luigi Forlano, lunatico e mattacchione pure lui, non meno di Durante. Parlava e discuteva di continuo con tutti: avversari, compagni, pubblico. Poi decideva e stabiliva l’attacco. Erano affondi che venivano ben da lontano, se è vero che certe notti gli toccava di dormire sul pianerottolo di casa, perché il fratello più vecchio gli sbarrava l’uscio, stanco e irritato di continuare a sentirsi batter cassa per il football e la Juventus. La mattina presto però gli amici bianconeri correvano a soccorrerlo, lo massaggiavano e, svegliato dal torpore, gli offrivano colazione. Solo così riuscirono a convincerlo a salire sul treno con una speranza nel cuore: che anche quel giorno Forlano fosse, come si dice, di luna
, perché se così era mezza vittoria era già in saccoccia.
Qualificati commentatori, negli anni a venire, si ritrovano d’accordo nel dire che al tempo del primo scudetto juventino «a Genova si giocava classico, all’inglese; a Milano si giocava duro, alla svizzera; la Juventus di Torino giocava in difesa e, improvvisa, partiva all’attacco. Aveva gettato le basi per un nuovo modo di giocare: all’italiana».
Potrebbe sembrare arduo, se non addirittura esagerato, questo modo attuale di raccontare il gioco del calcio che, a ben guardare, sta muovendo appena i suoi primi passi. Eppure lo giustifica il suo rapido evolversi che proprio di questi tempi passa attraverso i primi veri confronti fra i diversi modi di interpretarlo, a seconda anche dell’impronta lasciata dai pionieri caposcuola, i quali, con toni e mentalità differenti, l’hanno divulgato nelle tante nostre città.
Infatti, benché fossero sei soltanto le squadre partecipanti a quell’ottavo campionato, le città all’avanguardia nel football erano ben rappresentate. Se a questo si aggiunge l’inaugurata formula di un girone finale con gare di andata e ritorno al quale prendevano parte le vincenti dei gruppi eliminatori regionali, si nota come vada a profilarsi nei contenuti e nell’intensità un torneo che sta diventando sempre più convincente.
Nella eliminatoria ligure i campioni in carica del Genoa dovettero impiegare tre partite per avere ragione dell’Andrea Doria; a Milano, il Milan, dopo un primo pareggio, venne eliminato dalla Unione Sportiva Milanese; mentre a Torino per rinuncia del F.C. Torinese si era qualificata la Juventus.
Del football hanno iniziato intanto ad occuparsi i giornali. Brevi notiziole, niente di speciale – si badi – un altro segno comunque di un fenomeno che sta imponendosi. Qualche attenzione in più al riguardo sembra concederla la «Stampa Sportiva», prima rivista illustrata sull’argomento fondata nel gennaio del 1901 da Nino Caimi, poi sostituito da Gustavo Verona. Scrive il giornale sportivo in data 9 aprile 1905:
La «Stampa Sportiva» è lieta di poter dare due fotografie del match Juventus-Genoa di domenica 2 aprile, match che doveva essere quello che avrebbe deciso il campionato. Invece le due squadre, che da tre anni si disputano accanitamente il primato in Italia, fecero ancora match pari… Un pubblico sceltissimo e numeroso quale non si ebbe mai in Italia per una gara di football gremiva domenica il Velodromo Umberto I. Non si può descrivere l’animazione, l’interesse che questo pubblico prese alla partita, che si sapeva decisiva per la classifica e che fu disputata con un accanimento feroce… Come cronaca tecnica nessuna squadra segnò un gol al suo attivo… I genovesi giocarono con mirabile energia, abituale del resto in questa squadra; la Juventus deluse in parte i suoi partigiani, che erano la gran maggioranza del pubblico, giocando con minor slancio ed assieme del solito; nella prima ripresa la lotta si svolse per lo più nel campo dei genovesi; nella seconda ripresa questi ebbero una lieve prevalenza… Il FBC Juventus, con due match vinti e due pari, ha ora sei punti all’attivo; Genoa ne ha quattro, ma se, come prevedesi, essa batterà a Milano il giorno 9, andrà anche essa a sei punti ed un match decisivo si renderà necessario.
Come ben sappiamo andò diversamente e lo stesso periodico – rivelatosi incauto nel giudizio – in maniera dimessa e in poche, concise righe informa il giorno 16 aprile che: «Domenica 9 ebbe luogo il nuovo incontro fra la prima squadra del Genoa Cricket e l’Unione Sportiva Milanese per il campionato nazionale. Le due squadre segnarono entrambe due gol. Così la squadra di Genova segna in totale cinque punti e quella di Milano un punto. Il Club Juventus di Torino vince così con sei punti per la prima volta il Campionato Nazionale».
A sigillo del conquistato traguardo, la società bianconera aggiunge nelle medesime ore un’altra targhetta: la vittoria della seconda squadra nel campionato delle riserve. Il dominio della Juventus, a questo punto, si può davvero definire assoluto. Fatto curioso, quando al termine della stagione trionfale le due formazioni si misurarono fra loro in una sfida in famiglia, ebbero la meglio le riserve per 2-1. Corbelli, Servetto, i fratelli Ajmone-Marsan, Federico Dick… giocavano altrettanto bene – si racconta – e facevano parte della formazione di rincalzo solo perché più giovani. È pur vero che si tratta ancora di un calcio acerbo e imprevedibile, eroico, smanioso nella passione. A lunghi passi o di corsa, non vi è giorno in cui non arrivino trafelati al campo i vari Corbelli e Colombo, Michela, Collino, i tre fratelli Ajmone-Marsan. E sovente al centro del prato già ritrovano un Mazzonis della miglior aristocrazia, impegnato nel raffinare
il passaggio o che chiede sponda a Moschino, di mestiere portalettere. Non vi sono distinzioni in Juventus quando si sta bene insieme. Provano il tiro in porta i vercellesi Bertinetti e Servetto, lo scozzese Diment, operaio specializzato in una filanda. Il pittore Durante si agita fra i pali e fa di tutto per respingere: se poi con una cannonata prova Forlano a superarlo, sgrana occhi di bragia, il simpatico baffuto portiere. Si spoglia di giacca e colletto inamidato della camicia Giovanni Goccione, mentre accenna ad un giovincello di nome Vittorio Pozzo, che ancora studia, col quale gli capita di dividere lunghe sgroppate in allenamento nella corsa: «Se mai se ne convince che l’atletica non è la sola – commenta con una punta di rammarico – questo è un altro adatto per il football». Dio solo sa quanto vedeva giusto. E ricordando questa amicizia, il futuro commissario tecnico della