Il giocatore
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Il giocatore - Fëdor M. Dostoevskij
Introduzione
Il primo sforzo, per chi vuol intraprendere la lettura, o la rilettura, de Il giocatore, è sicuramente quello di accantonare la memoria del volto, inondato di malsani sudori, di Gregory Peck, che fu protagonista di una celebre riduzione hollywoodiana di questo romanzo dostoevskiano. Riduzione che, negli ultimi anni, non è raro ritrovare, e con una certa frequenza, se ci si avventura col telecomando nell'intrico catodico del pomeriggio o della notte. Ai tycoons del cinema statunitense, almeno nel loro periodo d'oro, in realtà è sempre interessato, per propaganda o per convinzione, immortalare sul grande schermo il mito della dissipazione, della deboscia russa, sulla scorta del modello fissato da Fredde March con la sua interpretazione del conte Vronskij a fianco di un'algida Greta Garbo-Anna Karenina. In tal senso era inevitabile che, prima o poi, gli scaltri sceneggiatori delle majors approdassero a Il giocatore, il romanzo che per eccellenza porta impresse le stimmate della «sregolatezza» dostoevskiana. L'autore, che aveva appena ultimato Delitto e castigo, si trovò costretto a scriverlo in meno di trenta giorni, nell'ottobre del 1866, per tener fede a un impegno preso con l'editore Stellovskij. E un impegno capestro: la mancata consegna entro il primo novembre di un lavoro inedito avrebbe automaticamente consentito all'editore di stampare, per nove anni e senza pagamento dei diritti, tutte le opere, edite o inedite, dello scrittore moscovita. Per guadagnar tempo, Dostoevskij risolse di assumere una giovane stenografa, Anna Grigor'evna Snitkina, di cui si innamorò rapidamente e che si affrettò a sposare qualche mese più tardi. Non solo: i nuovi coniugi, pressati dai creditori, furono obbligati, mentre il romanzo appariva a stampa, nel 1867, a riparare all'estero, dando il via a una peregrinazione durata ben quattro anni. Fino al 1871, altalenando tra Germania e Svizzera, con una puntata anche in Italia, lo scrittore, frequente vittima di attacchi epilettici, riprese a giocare, dilapidando così i pochi proventi della sua attività letteraria.
Molti hanno così finito per identificare Aleksej Ivanovič, il giocatore, con lo stesso Dostoevskij, alimentando la leggenda «dannata» dello scrittore russo incapace di porre un qualsiasi freno alle sue irruenti passioni. Il fraintendimento sembrava poi giustificato dalla genesi stessa del romanzo. Già nel 1863 l'autore aveva progettato una meditata ricognizione della figura del giocatore russo, da diluire all'interno di un più esaustivo esame dei suoi rapporti con la madrepatria. L'incombere della scadenza del primo novembre 1866 costrinse invece Dostoevskij a ridurre all'essenziale quella sua vecchia idea, affiancando al protagonista un personaggio femminile, Polina Aleksandrovna, che ricordava fin troppo quell'Apollinarija Suslova, con cui egli stesso aveva avuto una relazione a dir poco turbolenta.
Senza contare il fatto che Il giocatore, nato in lotta contro il tempo, risponde sì alla fretta editoriale, ma sembra, e molto più significativamente, dominato da un 'urgenza interiore, quasi venisse offerto al lettore come una sorta di individualissima resa dei conti. Si prendano le incongruenze della narrazione, che non sono certo poche (titoli nobiliari che cambiano disinvoltamente, conversazioni contraddette, denari di cui non si riesce a tenere un conto preciso, albe luminose che si traducono, e a distanza di poche righe, in mattinate piovosissime, e via dicendo): malgrado la loro clamorosa evidenza, non inceppano mai il ritmo del racconto, contribuiscono semmai a scansare impasses che avrebbero ritardato la corsa verso uno scioglimento sempre annunciato e sapientemente rinviato fino all'epilogo. Indubbiamente, eccezion fatta per il capitolo parigino, il sedicesimo, tanto debole da sconfinare nel facile macchiettismo, tutto il romanzo è giocato sul filo di una tensione che finisce col giustificarsi in sé e col trasformarsi da mezzo a fine dell'intera narrazione. Lo stesso io narrante, colto in diverse fasi della stesura di suoi immaginari appunti, riferisce volta per volta gli avvenimenti, rimanendo però inconsapevole delle loro conseguenze e del loro esito finale. In questo Aleksej Ivanovič si differenzia nettamente dai protagonisti dei grandi monologhi delle Memorie dal sottosuolo (1864) e de La mite (1876). Questi ultimi già hanno vissuto l'«evento» e sfidano l'immaginario interlocutore con l'esibizione del loro punto di vista. Il giocatore invece viene sempre colto prima di poter fissare la sua interpretazione, non sfida il lettore, ma è a sua volta sfidato da eventi assolutamente imprevedibili. Lo stesso epilogo non scioglie il suo destino: diviso tra la volontà di raggiungere la sua Polina in Svizzera (e Polina lo ama, ormai gli è stato rivelato senza ombra di dubbio) e il desiderio di mettersi in viaggio soltanto dopo aver restaurato la sua dignità di uomo mediante un'altra vincita al gioco, Aleksej Ivanovič rinvia ogni scelta a un domani che altro non può essere se non una perpetua iterazione dell'oggi.
Tra i molti interpreti del romanzo, chi maggiormente ha colto il lato terribile di questo mondo interiore mai dominato, neppure in virtù della semplice coerenza rispetto a un proprio punto di vista, e invece continuamente minacciato da un imponderabile che ne turba, soltanto con l'annuncio, la sostanziale immobilità, è stato Sergej Prokof'ev. Nel 1929 il musicista mise in scena a Bruxelles un'opera tratta dal romanzo dostoevskiano, cui aveva lavorato, in prima stesura, e accollandosi anche la stesura del libretto, già intorno al 1915. Ebbene, questa versione operistica espunge gli ultimi due capitoli del romanzo e salva massimamente l'unità di luogo, elevando l'immaginaria stazione termale di Roulettenburg a teatro di esistenze che non riescono a pensarsi, e, in fondo, nemmeno a riconoscersi, se non elevando a proprio centro il potere salvifico della roulette. E la partitura difende all'estremo l'irresolutezza con cui Aleksej Ivanovič si racconta nel romanzo. Non a caso il suo «tema» è definito vocalmente da una melodia che sale tra mille asperità verso l'acuto e poi scivola con un semitono discendente, a testimoniare la tensione verso un irraggiungibile che è tale soltanto perché è impossibile da pensare. o meglio: lo si potrebbe pensare a patto di astrarre dalla roulette e con ciò ridefìnire il proprio centro. Ma, se nel romanzo, come si è visto, il protagonista resta invischiato nel suo disegno di arrivare a Polina tramite il tavolo da gioco, nel finale dell'opera la scissione tra i due centri possibili dell'esistenza si radicalizza: Polina scaglia in faccia ad Aleksej Ivanovič il frutto della sua vincita e fugge, mentre l'attonito giocatore riesce soltanto a ripetere la magica combinazione che gli ha consentito di sbancare il casinò («Venti volte di fila è venuto il rosso!») e il coro fuori scena riproduce il clamore degli spettatori di tale mirabolante impresa.
Tensione, si diceva. Ma definire meramente autobiografica tale tensione altro non sarebbe che operare un'intollerabile riduzione. Del resto già nel 1861 Dostoevskij aveva dato prova, con le Memorie da una casa di morti, di saper trasfigurare gli elementi della propria biografia. Il racconto della sua esperienza carceraria ha solo superficialmente un carattere documentario, anche se la pubblicazione dell'opera probabilmente contribuì alla riforma penitenziaria del 1863. La grandezza dello scrittore moscovita sta nella sua capacità di costruire una efficace rappresentazione della dimensione infernale, dimensione che si sgancia immediatamente dal suo concreto referente autobiografico e si impone come uno dei possibili ambiti della generale vicenda umana. Non è un caso che quel lavoro del 1861 sia stato considerato, nel Novecento, ineluttabile punto di riferimento di tutta la letteratura concentrazionaria sovietica, che ha invece ignorato altre opere di quegli stessi decenni sul medesimo argomento. In Dostoevskij non vi è mai nulla di documentario: anche quando spoglia i personaggi dei suoi romanzi maggiori di ogni attributo psicologico per farli muovere come uomini-idea, niente gli preme meno di una rappresentazione di quelle idee. In Dostoevskij invece tutto è pretesto, tutto è strumento per giungere a cogliere, attraverso successive approssimazioni, l'autentica configurazione dell'esistenza. E questo passaggio dal pretesto alla verità è il luogo sul quale hanno prosperato le più feroci critiche al suo indirizzo, tutte critiche che muovono da una concezione «leggera» della letteratura e non tollerano che si possa tentare un simile salto senza aver preventivamente la certezza di approdare in terra sicura. Se Vladimir Nabokov è il più celebre spregiatore di Dostoevskij, spetta a Milan Kundera il dubbio merito di aver genericamente liquidato come «sentimentalismo» questo incessante tentativo di superare i pretesti via via offerti e di aver condannato l'esito di tale procedimento al pari di un invischiamento nella melassa. Ma, d'altro canto, quando si parte dall'assunto della leggerezza dell'essere, è inevitabile che si provi ostilità preconcetta nei confronti di chi l'essere lo crede non soltanto grave, ma perfino passibile di una sua definizione radicata nella verità.
Pretestuoso è il carcere nelle Memorie da una casa di morti, massimamente pretestuosa è la roulette ne Il giocatore. Il suo compito, una volta sgombrato il campo da ogni romantica riflessione sul torbido animo slavo, è quello di porsi come strumento di abissale e radicale differenziazione tra russi da una parte ed europei dall'altra. Nulla ha la roulette del compiacimento psicologico-sentimentale, essa anzi viene imposta come una delle forme metaforiche assunte dall'idea russa. E solo in questa luce che si comprende tutta l'importanza del romanzo: Il giocatore è la prima sistemazione narrativa di quella riflessione sull'Europa che Dostoevskij aveva iniziato nel 1863, pubblicando le Note invernali su impressioni estive, resoconto del primo viaggio all'estero dell'autore dell'estate precedente. E senza tale sistemazione non si comprendono appieno i successivi sviluppi della riflessione europea, che approda nel 1875 a L'adolescente, per poi proseguire lungo le pagine del Diario di uno scrittore fino alla celeberrima orazione su Puškin, tenuta un anno prima della morte. Una sistemazione infine che recupera appieno tutta la forza polemica delle Note, relegando in posizione secondaria l'interesse per la figura del «russo all'estero» che era invece dominante nel già citato progetto del '63 de Il giocatore.
Non che il problema dell'emigrazione russa in Occidente sia assente dal romanzo: le figure del generale e della nonna stanno là a dimostrarlo. Ma è indubbio che pecchino di un certo bozzettismo, di cui si accorse anche Prokof'ev, il quale condannò la prima a non uscire mai dal dominio del ridicolo e approfittò della seconda per trasferire in musica tutta la nostalgia maturata nei suoi quasi dieci anni di volontario esilio (tanto è vero che nell'opera la nonna sembra un personaggio più Puškiniano che dostoevskiano). Il giocatore dà poi l'impressione con le sue primissime righe di voler muovere proprio dalla satira della grandeur russa in territorio straniero (quel pranzo di gala subito organizzato non appena acquisita anche una minima disponibilità finanziaria). Ma è tema che ripiega subito sullo sfondo: una volta a tavola, per vincere una situazione imbarazzante, Aleksej Ivanovič non trova di meglio che porre il problema di come i russi siano malvisti in Europa in virtù della propaganda negativa fatta su di loro da polacchi e francesi.
Poche pagine, quindi, sono più che sufficienti a Dostoevskij per aggiustare il tiro, per aggredire il tema che più gli sta a cuore. Non va dimenticato che il romanzo nasce alla metà degli anni Sessanta del decennio scorso, un decennio che segnò definitivamente la conclusione del periodo del rapporto Russia-Europa come influsso dell'Occidente, inteso in senso passivo o attivo: l'Europa divenne un qualcosa d'altro, con cui il rapporto non era più di dipendenza, ma essenzialmente di conflittualità. A tale mutamento di percezione non fu estranea la guerra di Crimea, ma il vero momento di frattura, di inversione, fu l'insurrezione polacca del gennaio 1863. Il nuovo confronto tra il «borioso polacco» e il «saldo russo» di Puškiniana memoria ripropose alla intelligencija russa temi che la «prima situazione rivoluzionaria» degli anni 1859-61 aveva in qualche modo messo in secondo piano. Fu soprattutto per questo motivo, a causa cioè della subitanea riscoperta di tensioni e di aporie che erano illusoriamente sembrate risolte una volta per tutte, che pensatori, pubblicisti e politici russi si impegnarono nel confronto con la questione polacca esasperandone i termini e trasformandolo in un'autentica guerra ideologica.
Dostoevskij naturalmente assimilò molti dei tratti di questa atmosfera. Stanno a testimoniarlo i tronfi pan e i polaccuzzi parassiti e imbroglioni che punteggiano le pagine de Il giocatore. Ma la sua riflessione, pur nutrendosi dei temi proposti dall'attualità, presenta forti elementi di originalità. Nello scrittore moscovita infatti il problema del rapporto Russia-Europa è strettamente legato a quello del rapporto tra intelligencija russa occidentalizzata e popolo ortodosso. Nel periodo che va dal 1859 al 1875 tale nodo viene costantemente riproposto con forza, ma anche con una certa incapacità di soluzione. Personaggio chiave in tal senso è il Versilov de L'adolescente: russo europeizzato, riesce a comprendere la forza della «zolla» russa (počva), ma ancora si distingue, o meglio si contrappone al pellegrino Makar Ivanovič. Ma lo stesso Aleksej Ivanovič è in fin dei conti la classica rappresentazione del raznočinec, dell 'intellettuale russo di provenienza non nobiliare, che non trova una sintesi adeguata tra la tradizione ortodossa e le tentazioni europeizzanti fino a cadere nella perdizione del gioco. Soltanto la roulette, soltanto la vincita gli offrono la possibilità di soggiogare l'altro, l'Europa: scarsa è la fiducia nelle autentiche e autoctone qualità russe, massimo è il disprezzo verso i caratteri europei. De Grieux, mister Astley e il barone altro non rappresentano se non le epitomi dei caratteri nazionali di Francia, Inghilterra, Germania. Nello schematismo del tratteggio è già presente la consapevolezza della peculiarità dell'Europa, il continente condannato senza appello per esser la patria dell'arbitrio, dello sviluppo delle libere individualità. Non a caso Il giocatore è coevo di Delitto e castigo, dove nel sogno finale di Raskol'nikov compaiono quelle «trichine» che, penetrando nel corpo umano, impediscono al contagiato di giudicare il bene e il male, pur convincendolo di essere l'unico depositario della verità. Ma ci vorranno altri nove anni, perché Versilov si senta finalmente portatore dell'idea russa e sappia anche definirla, in opposizione ai caratteri europei, come «la conciliazione generale delle idee», fenomeno incomprensibile là dove, come in Occidente, regnano soltanto «le dispute e la logica».
Aleksej Ivanovič, di Versilov, è solo un antesignano, fors'anche pallido. Gli manca ancora il coraggio, come pure Versilov farà, di gridare che unicamente essendo russi si può essere europei, perché l'Europa è terra di conciliazione e non di divisione. La sua esperienza della Russia si riduce alla vanagloria degli émigrés e al rimbambimento della nonna: non c'è neppure simpatia per il maggiordomo Potapyč che non capisce la necessità di vagabondare per quell'«estero» di cui tanto si parla. È certo però che, senza la sconfitta di Aleksej Ivanovič, non si darebbe Versilov. Se il giocatore non rendesse evidente l'impossibilità di dominare l'Europa restando sul suo terreno, non si arriverebbe alla consapevolezza di Versilov che il terreno dell'Europa è impraticabile perché assolutamente e paradossalmente non europeo, mentre genuinamente europea è l'idea russa che definisce l'ambito spirituale e culturale del Vecchio Continente. Non a caso Il giocatore si inscrive nel medesimo orizzonte di Delitto e castigo: in entrambi i casi si ha di fronte la disillusione di poter raccontare la «storia della rinascita di un uomo». Aleksej Ivanovič perde tutto, compreso l'amore di Polina Aleksandrovna, proprio perché pensa di poter vincere a quella roulette che dell'idea russa è solo una metafora. Il giocatore è ancora un ingenuo: desidera sbancare il casinò, ma esclusivamente per conseguire uno status che lo elevi al rango di quella «forma squisita» di cui De Grieux è naturalmente portatore in quanto francese. Non capisce, il povero Aleksej, che quella forma può esser facilmente liquidata, non ponendosi nei suoi confronti schiavi di un complesso di inferiorità, bensì demolendola dall'alto della superiorità russa.
Non lo capisce, Aleksej, perché, in realtà, è lo stesso Dostoevskij a non capirlo ancora: sarà solo la grande esperienza narrativa de L'idiota, di tre anni successiva, a far maturare nello scrittore moscovita la consapevolezza della necessità di dichiarare guerra aperta al nichilismo, all'occidentalismo, al liberalismo in senso lato e di sferrare un formidabile attacco al progresso in nome dell'aspirazione religiosa. Eppure il sottile filo di questa riflessione comincia a dipanarsi proprio in quell'ottobre del 1866: Polina Aleksandrovna è infatti la leggerissima traccia che unisce Il giocatore a L'idiota, dove Nastas'ja Filippovna eredita, amplificandole, alcune caratteristiche del suo modello, o meglio del suo bozzetto. Le due hanno molte caratteristiche in comune, principalmente quella di erigersi a indiscusse protagoniste della narrazione con scene in cui rifiutano di metter in gioco sentimenti e carnalità in cambio di denaro. Lo fa Polina, buttando in faccia ad Aleksej Ivanovič i cinquantamila franchi che questi ha vinto alla roulette per riscattarla da De Grieux (accade nel capitolo quindicesimo del romanzo, quello che Prokof'ev trasformò nel formidabile quadro terzo del quarto atto della sua opera, dove Polina esplode nel tremendo «Comprami adesso tu! Comprami tu! Vuoi?»). Lo fa Nastas'ja Filippovna, scagliando nel fuoco i centomila rubli che Rogožin ha portato per lei, per averla (e Dostoevskij patì nella stesura di questa scena ben due crisi epilettiche). Entrambe hanno poi la straordinaria capacità di capire al volo l'ineluttabile pulsione alla sconfitta dei loro innamorati-antagonisti e di sapersi drammaticamente fare da parte, quando i destini precipitano, anche per colpa delle loro studiatissime bizze amorose. La differenza sostanziale è che, mentre Nastas'ja Filippovna è un personaggio a tutto tondo, nettamente delineato nella sua fisionomia, Polina Aleksandrovna vive nelle pagine de Il giocatore come fosse sdoppiata. A definirla contribuiscono i suoi sempre misteriosi comportamenti, ma anche il punto di vista che su di lei esprime Aleksej Ivanovič, il quale ha disperatamente bisogno di elevarla a paradigma dell'ingenuità delle signorine russe troppo sensibili alla forma francese. Ed effettivamente tale artificio retorico appanna un pò' la grandezza di questa donna che finisce col cedere a De Grieux solo per leggerezza, e manca la nobiltà del sacrificio. Ne L'idiota, ampiamente più meditato, Dostoevskij non si lascerà fuorviare e farà in modo che Nastas'ja Filippovna scelga il brutale Rogožin, sentendosi indegna del principe Myškin, la cui santità reputa da salvaguardare a ogni costo. Lo stretto collegamento tra questi due personaggi femminili sta comunque a segnalare che i due romanzi nascono all'interno di una medesima evoluzione tematica.
Dalla, peraltro eccessiva, prestanza di Gregory Peck nei panni cinematografici di Aleksej Ivanovič alla grande riflessione dostoevskijana sull'Europa e sulla Russia, il passo può sembrare lungo. E probabilmente lo è. Ma Il giocatore, pur essendo un romanzo che si lascia leggere tutto d'un fiato, è, senza lasciarlo trasparire, uno snodo di molti temi cari a Dostoevskij. Nel 1880, l'anno stesso in cui lo scrittore moscovita attribuiva a Puškin una sorta di fondazione del carattere russo dominato dalla panumanità, il noto critico francese E.-M. De Vogué ebbe un incontro col Dostoevskij al culmine della popolarità e ne riportò questa affermazione: «Noi abbiamo il genio di tutti i popoli, e in più il genio russo; dunque, noi vi possiamo capire, mentre voi non potete capire». Non si tratta di una manifestazione di orgoglio nazionalistico. Si tratta ancor oggi della definizione di un problema che l'Europa affronta discontinuamente, a seconda delle ricorrenze storiche. Un problema comunque che da almeno un paio di secoli affascina il pensiero europeo.
MAURO MARTINI
Nota biobibliografica
CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE
Fëdor Michajlovič Dostoevskij nasce a Mosca nel 1821. Suo padre, Michail Andreevič Dostoevskij, presta servizio all'ospedale dei poveri