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Le più belle fiabe popolari italiane
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Le più belle fiabe popolari italiane

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A cura di Cecilia Gatto Trocchi

Le fiabe italiane sono tra le più ricche di fantasia e di creatività dell’intera produzione mondiale. Presentiamo in questa antologia un’accurata selezione delle favole popolari di tutte le regioni d’Italia, una tradizione culturale che si compone di migliaia e migliaia di racconti magici, in origine resi e tramandati spesso nei dialetti, straordinariamente espressivi; perle di rara bellezza, veri e propri tesori letterari, cominciando da quel capolavoro di tutti i tempi che è Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, napoletano, costituito da storie meravigliose di fate, orchi, magie, incantesimi, principesse rapite e animali fantastici, in cui spesso irrompe il realismo della vita quotidiana con effetti gradevoli e bizzarri. La letteratura popolare ha attinto da Giambattista Basile intrecci famosissimi: il Gatto parlante a cui l’orfano fa le scarpe, il Bianco Viso che giace come la Bella Addormentata nella foresta, la Gatta Cenerentola abbandonata e sola che sposa il re… I nostri capolavori fiabeschi sono spesso ignorati; costituiscono invece un patrimonio culturale di eccezionale valore di cui dobbiamo riappropriarci, specialmente oggi, quando non esistono più momenti di raccoglimento privati, e la televisione e i social network invadono il nostro tempo libero. Leggendo, raccontando, citando una fiaba popolare, riscopriamo speranza e ottimismo. Infatti, come dice una canzone siberiana, «un popolo che non racconta più fiabe è destinato a morire di freddo».

Cecilia Gatto Trocchi

(Roma, 1939-2005) è stata docente di Antropologia culturale presso le università Roma Tre e La Sapienza e ha diretto l’Osservatorio dei fenomeni magico-simbolici (Roma Tre). Ha compiuto ricerche in Africa, America Latina, India, verificando le tematiche magico-simboliche, le mitologie e i rituali. Esperta di tradizioni popolari, si è occupata di novellistica e letteratura etnica. Ha pubblicato studi sul pensiero simbolico, l’etno-medicina, le religioni, l’arte, la magia, i miti e le leggende. Socio fondatore della Società Italiana per lo Studio di Psicopatologia e Religione, è stata anche consulente scientifico della rivista di psichiatria «Psiche Donna». Autrice di Viaggio nella magia, Nomadi spirituali, Civiltà e culture, Le Muse in azione, con la Newton Compton ha pubblicato Leggende e racconti popolari di Roma, Storie e luoghi segreti di Roma, La magia, I tarocchi e Le più belle leggende popolari italiane.
LanguageItaliano
Release dateNov 12, 2013
ISBN9788854157286
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    Le più belle fiabe popolari italiane - Cecilia Gatto Trocchi

    444

    Prima edizione ebook: settembre 2013

    © 2003 Newton & Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-5728-6

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    Le più belle fiabe

    popolari italiane

    A cura di Cecilia Gatto Trocchi

    Newton Compton editori

    A mio figlio Massimiliano

    Introduzione

    Un mondo incantato

    Nella ridente isola di Bali, quando si prepara uno di quei sontuosi funerali che mandano in sollucchero gli antropologi, accade un fatto straordinario: i parenti e gli amici del morto si raccontano l’un l’altro delle fiabe. Sono comuni storie di magia come la nostra Bella addormentata o Le melagrane: il fatto curioso è che vengono narrate ininterrottamente ventiquattr’ore su ventiquattro per tre o quattro giorni di seguito. Non è che i familiari del defunto abbiano bisogno di distrarsi: le fiabe allontanano i demoni che intricandosi nella trama delle parole, delle frasi, delle storie (tutte costruite una dentro l’altra a scatole cinesi, come le Mille e una notte) si perdono nel dedalo delle narrazioni e non possono nuocere all’anima del morto.

    Simili ai labirinti dei parchi inglesi, le storie contengono fiabe nelle fiabe, per cui entrando nell’una ci si imbatte nell’altra e si passa ad ogni svolta da una trama all’altra, per giungere infine al centro dello spazio narrativo, un centro che corrisponde al posto occupato dalla salma nel cortile interno della casa. A questo spazio i demoni non possono accedere perché non sanno svoltare; battono il capo vanamente contro il labirinto di fiabe costruito dagli intrepidi narratori che creano una sorta di fortificazione difensiva, un muro di parole che funziona come le interferenze nelle trasmissioni radiofoniche.

    La narrazione delle fiabe non diverte, non istruisce, non rende migliori né serve per passare il tempo, ha un compito ben più ardito: grazie al fitto intrecciarsi delle parole protegge le anime dal male.

    È di vitale importanza che le fiabe della tradizione popolare italiana non vengano dimenticate. Contro la globalizzazione dell’immaginario recuperiamo la nostra cultura favolistica.

    Si tratta di migliaia e migliaia di racconti magici, spesso nei dialetti nostri straordinariamente espressivi, perle di rara bellezza, veri e propri tesori letterari, sconosciuti ai più, che occorre recuperare al più presto e raccontare di nuovo ai bambini e forse anche agli adulti, cominciando da quel capolavoro di tutti i tempi che è Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, napoletano. Da una ricerca da me condotta, risulta che i bambini conoscono pochissimo le fiabe della tradizione italiana. Su migliaia di racconti di magia, i bambini conoscono a memoria non più di dieci fiabe, e alcune di esse solo in parte.

    Lasciamo vivere la magia della parola, della nostra parola che riallaccia una relazione forte e amorevole con i nostri figli e nipoti. Se non vi è più il focolare di una volta, se la televisione ci sovrasta, si può sempre ritagliare uno spazio serale per raccontare una fiaba, senza altro supporto della nostra voce.

    Ho più volte verificato che si amano le fiabe misteriose, surreali, inquietanti, che mettono paura purché raccontate dalla viva voce umana. In un mondo dagli incerti confini come il nostro, il messaggio della fiaba deve venire direttamente dagli adulti, perché nella voce umana è presente una vera magia, una sorta di comunione emotiva, che sconfigge l’incomunicabilità tra le generazioni.

    La più grande perdita culturale per l’infanzia è di non poter più apprendere racconti fantastici dalla viva voce di genitori, parenti, maestri. In famiglia la trasmissione orale era il momento di maggiore coesione, momento in cui si dimenticavano i dissapori, si rinsaldavano i legami e la solidarietà. I genitori di oggi si giustificano perché non hanno tempo da dedicare al racconto di fiabe per i bambini. Preferiscono le voci metalliche delle videocassette. Eppure è necessario trovare tempo per i figli, perché il tempo che si dedica è la misura dell’amore.

    Prima di andare a letto il tempo potrebbe essere impiegato da genitori, nonni o zii (ammesso che siano presenti) a narrare storie di magie e meraviglie, a ricordare le storie amate nell’infanzia o a leggerne appositamente. I racconti di magia non sono confinati nel mondo infantile, tutti li apprezzano se ben raccontati, con la mimica e l’arte giusta del narrare. Andiamo a scuola di recitazione e di conversazione per rendere le nostre serate libere dalla schiavitù assolutista della televisione.

    I racconti di R.M. Rilke, Le storie del Buon Dio, sono stati scritti dall’autore per i grandi, con l’obbligo che essi le raccontino ai bambini. Nel prodigio della narrazione si ricrea il tempo perduto, si lotta anzi contro il tempo che tutto divora. Il significato più bello del narrare fiabe è quello che fa da cornice alle Mille e una notte. Il sultano crudele, tradito nel suo amore, vuole uccidere ogni mattina la donna con cui ha dormito. Ma la dolce e astuta Sherazctde comincia a raccontare una favola e, all’alba, non rivela il finale. Il sultano curioso le salva la vita e ascolta per altre mille notti le fiabe d’amore che sconfiggono la morte e ci regalano il tempo.

    Molto brillantemente Giambattista Basile identifica le ragioni del narrare nell’introduzione al suo Lo cunto de li cunti: «Non è cosa più appetitosa del mondo, femmine mie rispettabili, che il sentire fatti altrui, né senza ragion veduta un gran filosofo (Aristotele) mise l’ultima comicità dell’uomo nell’ascoltar racconti piacevoli. Perché porgendo l’orecchio a cose di gusto, svaporano gli affanni, si dà lo strappo a pensieri fastidiosi e si prolunga la vita».

    Le azioni terapeutiche e catartiche del raccontare non potevano esser meglio identificate nelle parole del narratore di fiabe napoletane.

    Gli studiosi e gli orchi

    La fiaba di magia pone una serie di interrogativi a cui la moderna filologia tenta di proporre delle risposte. Quali sono gli elementi specifici di quell’insieme di messaggi comunicativi che chiamiamo fiabe? Chi sono o chi sono stati i produttori, i mediatori e i consumatori, nel passato e nel presente, di questo stile narrativo?

    Si tratta di problemi ben noti agli specialisti, che hanno determinato intense polemiche e accesi scontri metodologici. La fiaba è stata oggetto di studi polimorfi e ha dato luogo a una pletora di interpretazioni: se ne è evidenziata la potenzialità complessa e la pluralità di significati che di volta in volta vengono privilegiati nell’interpretazione.

    Ma una storia articolata ed esaustiva del raccontare è a tuff oggi ancora carente. È comunque noto alla riflessione antropologica che in secoli diversi e in ogni tipo di cultura persone di ogni rango e professione si sono riunite insieme per narrarsi dei fatti. In ambito agropastorale (come ho potuto ancora constatare in alcune zone del Friuli, del Lazio, delle Marche, della Puglia) l’atto sociale del raccontare comprendeva storie realmente accadute, avventure, leggende, vite di santi, facezie, aneddoti e storie di magia.

    Prima del diciottesimo secolo non abbiamo demarcazioni fisse per i vari generi di storie narrate che vengono chiamate favole, fiabe, racconti e leggende. La fiaba aveva meno popolarità del racconto avventuroso o leggendario, delle storie quotidiane, delle vicende d’amore, delle scoperte di tesori, di storie di paura o di morte.

    Ma a quando, allora, risale l’invenzione della fiaba come genere?

    Tale nozione distintiva si fa strada faticosamente e segue l’aria dei tempi. In Europa la fiaba acquistò una sua dominanza solo verso la fine del Seicento, grazie ad una moda ben precisa, la cosiddetta Mode de fées; le fate invadono la corte di Luigi XIV negli ultimi trentanni del suo regno.

    Il primato spetta all’Italia: già lo Straparola con Le piacevoli notti (1550-1553) aveva introdotto la fiaba di magia nella sua raccolta e Lo Cunto de li Cunti (1636) del Basile è esclusivamente un intreccio di racconti meravigliosi: tra fate e orchi, magie e incantesimi, principesse rapite e animali fantastici, il lettore entra in una remota atmosfera di sogno in cui l’autore fa spesso irrompere il realismo della vita quotidiana con effetti gradevoli e bizzarri.

    Circa mezzo secolo più tardi, Charles Perrault darà alle stampe a Parigi le Histoires ou Contes du temps passe avec des moralités, concludendo e nobilitando con un’opera dalle tinte forti (che attinge alle tradizioni popolari e contadine) la mania delle fiabe che aveva contagiato le dame della corte di Luigi XIV.

    Ma il genere fiaba rimane ancora confuso con leggenda, favola, narrazione fino a tutto il Settecento. Abbiamo la testimonianza del pedagogista C.G. Salzman, che inserisce nella descrizione di un viaggio che fa da Dresda alla Turingia, una dissertazione sul problema delle storie di magia relative alla montagna del Kuffhàuser. Queste vicende sono chiamate racconti avventurosi, leggende, o fiabe e riguardano Federico Barbarossa che dorme nell’antro della foresta attendendo un grande risveglio.

    Più avanti, dopo aver ascoltato altre storie di magia relative alla montagna incantata, i figli di Salzman esclamano: «Nostro padre ci racconta solo delle fiabe» e il pedagogista si compiace del fatto che i figli sappiano distinguere la realtà dalla fantasia, contrapponendoli, come nuovi figli della ragione (siamo nel 1778), ai suoi amici d’infanzia che come lui raccontavano storie sulla Montagna Incantata, sulla caccia selvaggia, sugli uomini neri, sugli uomini invisibili, credendoli tutti veri.

    Salzman pone l’accento sulla differenza tra ragione e superstizione e non si cura di problemi tipologici: le vicende di magia vengono indistintamente definite come storie, fiabe o racconti.

    Il Settecento non aveva ancora una codificazione dei generi narrativi di fantasia. Tale codificazione nacque nel cuore del Romanticismo tedesco: con la riesumazione di testi medievali si fece strada la necessità di trovare categorie filologiche e contenitori tipologici in cui inserire il materiale narrativo. E quando i poeti romantici avranno elaborato un nuovo stile alla maniera del popolo, sarà anche possibile inventare nuovi generi letterari e poetici.

    La fiaba, come si viene delineando a partire dal 1812, attraverso un lento processo culturale, è quindi un prodotto generato da una necessità filologica e da una possibilità letteraria.

    Il racconto di magia si configura come una costruzione letteraria che i ricercatori e i traduttori hanno estrapolato dalla grande massa della narrativa popolare, attribuendo ad essa il ruolo di regina. Si determinarono allora categorie e si formularono definizioni volte a distinguere la fiaba dalla leggenda, dalla saga, dal mito, dalla favola moraleggiante.

    La fiaba è stata estrapolata dalla immensa massa della narrativa popolare; i temi e motivi fiabeschi spesso derivano dalle inesauribili miniere dell’epica medioevale, dalle leggende dei santi, dalle compilazioni umanistiche e rinascimentali, dalle prediche barocche, dalle dissertazioni illuministiche, dai calendari e libretti popolari. Contemporaneamente nasce la riflessione sui racconti di magia: da allora per più di un secolo ricercatori, filologi, antropologi e folkloristi hanno polemizzato circa. l’origine delle fiabe e si sono dedicati a decifrare significati nascosti" nel tessuto della narrativa popolare.

    Il primo esame dell’origine delle fiabe risale alla seconda edizione di Kinderund Hausmarchen (1856) dei Grimm.

    Insigni studiosi come Max Miiller e Andrew Lang studiarono le fiabe popolari. Secondo il Lang non sono le fiabe a derivare dai miti della natura, dalle personificazioni del sole, dell’aurora, della tenebra: esisterebbe un patrimonio popolare di narrazioni più arcaiche, da cui avrebbero attinto sia il mito che la fiaba. L’interesse del Lang per i primitivi apre una nuova via per lo studio della favolistica: racconti molto simili a quelli indoeuropei vengono raccolti in Africa, a Samoa, nella Nuova Guinea, nell’America Settentrignale e Centrale.

    Nei loro studi sulla favolistica, gli antropologi inglesi ebbero il pregio di dare carattere di universalità alle loro ricerche, occupandosi sia delle fiabe europee, sia dei racconti dei popoli primitivi. A loro si deve anche il passaggio dallo studio di un personaggio allo studio dei motivi, la cui combinazione rappresenta l’ossatura dei racconti di magia.

    Antropologi e folkloristi hanno sottolineato la complessità del problema riguardante la distribuzione degli elementi culturali all’interno della favolistica. L’opera di Franz Boas, ad esempio, pone correttamente il problema della favolistica primitiva. L’antropologo americano aveva studiato a fondo i racconti degli indiani Kwakiutl della costa settentrionale del Pacifico, ponendoli in relazione all’insieme della vita sociale e culturale collettiva. il Boas non si pone il problema delle origini di un motivo fiabesco; ne studia piuttosto le varianti e le diverse versioni, confrontandone gli esiti nelle differenti aree culturali.

    Il Boas rileva che la formazione dei racconti è estremamente complessa e che spesso risulta da processi di disintegrazione e di ricostruzione dei materiali narrativi. Tale complessità è simile per le fiabe e per i miti: «I dati a disposizione, mostrano un continuo flusso di materiali dalla mitologia alla fiaba e viceversa, senza che alcuno dei due gruppi possa vantare una priorità».

    Il Boas sottolinea anche che gli elementi minimi del racconto sono i motivi che si combinano e ricombinano incessantemente, dando origine al racconto nel suo insieme.

    Intanto in area russa lo studio dei motivi era stato iniziato dal Veselovskij che aveva individuato nei motivi vaganti il tessuto vivente della cultura che procede con scambi e interscambi dal mito alla leggenda e alla novella, senza distinzione tra letteratura e folklore, tra poesia e narrativa. Da allora l’analisi della fiaba ebbe due anime, una diretta a evidenziare il funzionamento della macchina narrativa in termini più astratti e nelle sue concatenazioni logico-formali; l’altra volta a decifrare i temi e i motivi narrativi in termini psicologici, storici, simbolici.

    V. J. Propp nella Morfologia della fiaba (1929) identifica le funzioni narrative come qualcosa di simile ai motivi, cioè alle azioni di un personaggio che rendono possibile il proseguire della narrazione, come ad esempio: «Scheletro senza morte rapisce la principessa». Dopo aver comparato tutte le funzioni isomorfe, il Propp passa dal concreto all’astratto e il motivo perde il suo contenuto specifico per diventare il predicato di un attore: l’aggressore (Scheletro senza morte) provoca un danneggiamento (rapisce la principessa). Il folklorista russo costruisce così un inventario di 31 funzioni a cui è possibile ridurre tutte le narrazioni di magia: le fiabe hanno quindi un’unica struttura, anzi sono un’unica, grande fiaba universale.

    Questa analisi formale doveva essere la premessa per una successiva ricerca storica, che il Propp attuò con il suo testo Le radici storiche delle fiabe di magia del 1946.

    Diverse sono le istituzioni storiche ed etnografiche a cui il Propp si riferisce: egli spazia dalle credenze dei popoli primitivi della Melanesia, dell’Africa e delle Americhe, ai rituali egizi, assiri, greci... Egli sostiene che la fiaba trattiene in sé relitti e residui culturali antichi come il tempo degli dèi. Con una intuizione che condivide con Roman Jakobson, il Propp paragona il folklore al linguaggio, che non è stato inventato, ma nasce e si evolve (indipendentemente dalla volontà degli uomini) con caratteristiche sistemiche regolate da morfologia, grammatica e sintassi...

    Il Propp afferma di non essere sorpreso che le fiabe del mondo sì assomiglino tutte: la somiglianza rimanda a costanti regolari nel folklore che non sarebbero altro che un caso particolare delle regolarità storiche dovute a forme simili di produzione della cultura materiale... Eppure in un altro testo il Propp si sorprende della persistenza di temi e motivi nelle situazioni storiche più diverse: analizzando la storia di Edipo alla luce del folklore, egli si chiede come mai in un unico intreccio si sia potuta riflettere la vita degli allevatori zulù, dei nomadi berberi, dei montanari caucasici, dei Greci e dei barbari. Le forme di produzione dei beni economici hanno poco a che fare con l’attività fantastica.

    Le fiabe italiane hanno la stessa struttura e gli stessi motivi vaganti delle fiabe del mondo intero, e frequentemente gli stessi temi. Il tipo Il reuccio fatto a mano si trova nella raccolta del Basile, in tutta l’Italia meridionale, nel Mediterraneo, in Romania... Il motivo dell’Amor di sale si trova in tutto il mondo, come il tipo dei Doni dei folletti ai due gobbi (vedi Fiabe del Friuli), presente persino in Giappone. Il tema dello sposo animale è così frequente da essere documentato ovunque, specialmente se lo sposo ha forma di serpente e risale al motivo che fa da incipit alla fiaba di Apuleio Amore e Psiche.

    Giustamente Max Lüthi sostiene che «la patria delle fiabe è il mondo».

    C’era una volta

    «C’era e non c’era», kam ma kam è l’incipit delle favole arabe: si tratta di una parola magica che evoca un mondo che c’è eppure non c’è, un universo parallelo dove si può finire semplicemente andando al mercato o portando alla nonna un bel cestino... Un giorno una vecchia strega costrinse un povero droghiere a cercare la Bella del Tempo... Lui entrò nel palazzo di marmo, traversò il giardino delle meraviglie: kam ma kam, c’era e non c’era la Bella del Tempo, fu vista e non fu vista. L’anima tornò indietro stordita... Questo è il mondo delle fiabe, cui si accede per i sentieri del sogno, e che, malgrado manomissioni, elaborazioni e sintesi arbitrarie, non ha perduto il suo fascino e il suo mistero.

    Anche se tradotta, elaborata, riassunta, de storicizzata, decontestualizzata, la fiaba di magia (quella che il Propp tanto chiaramente aveva individuata) continua ad attirare sia entusiasti lettori, sia zelanti ricercatori. Si continua a cercare un messaggio nascosto nei racconti di fate, sia esso psicoanalitico, o mitico, o rituale, o semplicemente narratologico.

    Perché le fiabe continuano a piacere, anche se si riferiscono a situazioni culturali arcaiche, a universi irrimediabilmente perduti? Innanzitutto le fiabe evocano un mondo diverso, dove non vigono le stesse leggi che reggono il mondo e la vita quotidiana. Il tempo è quello magico del kam ma kam, lo spazio è quello lontano lontano, l’imprevisto e l’inesplicabile diventano accettabilissimi, ogni cosa può essere se stessa e anche qualcos’altro... Nella fiaba russa l’eroe incontra una strana capanna che, posta su zampe di gallina, ruota su se stessa. Questo ruotare rappresenta il passaggio dal mondo reale al regno altro e diverso.

    Max Liithi ha messo in evidenza alcune caratteristiche del mondo fiabesco che corrispondono in modo sorprendente a quelle dei sogni. Il mondo fiabesco è unidimensionale, non si ha la sensazione di trovarsi di fronte a livelli differenti di realtà, proprio come nel processo psichico primario si è immersi in un’unica dimensione; manca la prospettiva, perché si è dentro le cose, e non le si contempla dall’esterno; non esistono nella fiaba rapporti deprimenti: l’odio si tramuta in amore, il brutto nel bello, il povero nel ricco, la cenere in splendore... Viene così simboleggiato il dinamismo interiore della psiche che si dispone a far fronte alle difficoltà inerenti al mutare delle situazioni interne ed esterne: una disposizione che permette al soggetto di crescere. La crescita non avviene una volta per tutte, le regressioni sono sempre possibili, ifantasmi e le ansie profonde possono riaffiorare...

    Questa particolare omologia del racconto fiabesco con il mondo dell’immaginazione riguarda non i contenuti, ma le modalità formali. La fiaba, per esprimersi, deve tradursi in parole, deve diventare discorso, e poi racconto.

    È necessario definire le differenze tra mondo psichico interiore e fiaba: si tratta di due sfere da mettere a confronto, di due livelli diversi. Perché se è vero che la fiaba rispecchia il processo psichico, pure non coincide con esso: la fiaba è racconto, è espressione autonoma di alcune realtà interne e, come racconto, ha leggi e articolazioni proprie.

    Nell’atto di raccontare si ricrea uno spazio nuovo, speciale, magico, perché, come diceva R. M. Rilke, «nella nostra voce niente di reale può accadere» e quindi in essa «tutto diventa favola».

    L’universo del racconto fiabesco suscita interpretazioni che definirei senza fine: il significato viene per così dire regalato, conferito alla sfera immanente del racconto. Spesso nelle fiabe in cui compare il viaggio e la ricerca con un percorso pieno di avventure e di pericoli, il protagonista ricerca il bello e il bene che ha perduto.

    L’interpretazione univoca delle fiabe si dimostra riduttiva: mi sembra che si possa assumere utilmente la posizione teorica che K. Kerenyi adottava di fronte al mito. Lo studioso ungherese esortava «a lasciar parlare i miti e a prestar loro semplicemente ascolto». Ciò che si può afferrare della fiaba è proprio il racconto, il suo livello immanente.

    Quello che accade ai protagonisti delle fiabe è sempre incredibile: anche i primitivi sanno bene che ciò che si verifica nel racconto fiabesco possiede i connotati dell’irrealtà; rispetto al mito, che contiene narrazioni di carattere sacrale, le favole sono considerate finzioni menzognere.

    Perché narrarle allora? Per Velemento alchemico individuato come innocenza del divenire. La fiaba è il mondo della perenne trasformazione: alla fine di ogni storia il protagonista ha sempre mutato di stato, ha sempre compiuto un’esperienza fondamentale. Le trasmutazioni sono l’elemento comune dell’universo fiabesco. L’alchimia del racconto di magia offre lo spunto per rendere dinamica la realtà interna. L’innocenza del divenire, il mutare di stato, la perenne trasformazione raccontano la grande favola di una possibilità sempre presente, di un nuovo ordine, di una nuova organizzazione della realtà o della possibilità ancora più suggestiva di un improvviso tuffo nel mistero...

    La fiaba diventa parabola della vita stessa da cui trarre un insegnamento. La morale della fiaba non è quella appiccicata alla fine del racconto: la morale della fiaba è in tutto il percorso narrativo, in cui la stasi è considerata sicuramente la rovina. Il procedere verso un fine (che è un lieto fine) è presentato come l’unica salvezza.

    La fiaba popolare, insegnando l’innocenza del divenire, è antidepressiva in quanto propone che, invece di piangersi addosso, occorre muoversi, agire, e fare qualcosa perché questo è sempre positivo. Nel traversare la foresta dei sortilegi, nell’affrontare il pericolo, nel superare le prove dolorose o difficili, il protagonista acquista qualcosa, ed è sempre migliore rispetto al passato.

    Penso alla possibilità dinamica a cui alludeva Friederich Schiller, quando scrisse: «Ho trovato un significato più profondo nelle fiabe che mi furono narrate nella mia infanzia che nella realtà quale mi è insegnata nella vita».

    Occorre allora ipotizzare che lo schema iniziatico sia una struttura profonda dell’avventura e del suo racconto? Ogni eroe che porta a termine imprese difficili, che sconfigge gli esseri malevoli, che supera delle prove dolorose e terribili ripropone lo schema implìcito delle iniziazioni rituali per una probabile convergenza di significati: il percorso narrativo segue il modello del percorso iniziatico. Tale ipotesi è altrettanto misteriosa dell’idea di una derivazione delle fiabe dì magia dalle cerimonie dell’iniziazione, ma potrebbe corrispondere ad una struttura profonda dell’immaginario a cui sarebbero isomorfi i modelli immanenti della narrativa.

    Il rapporto percorso-di-iniziazione/percorso-narrativo spiegherebbe la fortuna della fiaba in ambito infantile e anche la pregnanza letteraria del racconto dì magia visto come il grado zero della funzione narrante. Grandi narratori e grandi poeti ricordano il loro debito nei riguardi delle fiabe.

    Charles Dickens riconobbe il profondo impatto formativo che i personaggi e gli eventi meravigliosi delle fiabe ebbero su di lui. Dickens comprese che la ricchezza d’immagini delle fiabe aiuta i bambini meglio di qualunque altra cosa nel loro compito più difficile: quello di raggiungere una coscienza matura adatta a fronteggiare la dura realtà.

    E il poeta Louis Mac Neice osservava: «Le fiabe autentiche significarono sempre molto per me come persona, anche quando frequentavo la scuola pubblica, dove ammettere una cosa simile significava perdere la faccia. Contrariamente a quello che molti affermano oggi, la fiaba, almeno quella classica e popolare, è qualcosa di molto più consistente della comune novella naturalistica».

    Critici letterari come G.K. Chesterton e C.S. Lewis capirono che le fiabe sono esplorazioni spirituali, che rivelano «la vita umana come è vista o sentita o intuita dall’intimo».

    Ipersonaggi delle fiabe non sono ambivalenti: essi sono o buoni o cattivi, o belli o brutti, o stupidi o intelligenti e tale polarità permette meglio il processo di definizione del mondo in un momento logicamente antecedente a tutte le complicazioni e le sfumature di una vita adulta.

    Nella fiaba i valori sono espressi con una chiarezza disarmante: l’apparenza non ha nessuna importanza rispetto alla reale essenza, dato che in un ranocchio può celarsi un principe meraviglioso e sfortunato, o sotto il sudiciume del pollaio una bellissima e saggia ragazza. la gentilezza e la bontà sono sempre ripagate bene mentre la scortesia viene punita; l’amicizia e la fedeltà sono sacre, al punto che il protagonista sacrifica per esse la sua vita... Ma il valore sommo dei racconti di fate resta l’Amore: nel tipo narrativo Amore e Psiche, Psiche ha perso il suo Amore, si sottopone alle prove più dolorose e umilianti pur di ricongiungersi a lui...

    In un mondo dagli incerti confini, il messaggio della fiaba ha dato un senso (cioè una direzione e un significato) alle avventure e alle vicissitudini dei suoi personaggi: nel traversare la foresta dei sortilegi, nel compiere imprese diffìcili la meta è sempre presente al protagonista e la costellazione dei valori positivi lo guida meglio della stella polare... Un universo narrativo così compatto non può soggiacere alle mode o ai programmi pedagogici razionale ggianti, la necessità del racconto di magia è provata dalla persistenza e dalla continuità dei suoi temi e dei suoi motivi in arte, in musica, in letteratura.

    Il racconto di magia finisce con il cogliere qualcosa di profondo e di insondabile che momentaneamente e fulmineamente si cala nella breve storia quotidiana. La favola avvicina a «verità remote e insondabili profondità», come affermava il rabbi Nachman di Breslav, che bruciò i suoi dotti scritti teologici e affidò tutto il suo sapere mistico a tredici favole di magia.

    In una frase del Mahabarata, poema epico indiano, si afferma: «Ascoltate le fiabe, sono meravigliose e permettono di salvarsi l’anima».

    CECILIA GATTO TROCCHI

    Fiabe della Valle d’Aosta

    di Tersilla Gatto Chanu

    La fata del lago

    ¹

    Nella conca di Prêz si possono rilevare le tracce di un antichissimo lago, la cui memoria si perde nel tempo.

    Neppure i più vecchi lo videro con i loro occhi; ma, per sentito dire, raccontavano che, nei tempi dei tempi, sulle sue rive ridenti d’erbe e fiori viveva in una grotta una fata.

    Con la gente non era né buona né cattiva; ma si prendeva cura del lago, così che le acque, sempre limpide e pure, donavano piacevole frescura ai boschi circostanti e, defluendo, irrigavano campi e prati, che erano verdi e rigogliosi.

    Della fata i montanari conoscevano soltanto la voce, perché, quando era felice, cantava, ed il suo canto dolcissimo si spandeva per tutta la vallata. Si diceva che fosse assai bella, ma nessuno l’aveva mai accertato coi suoi occhi, poiché la fata non voleva essere vista ed evitava la presenza umana, spesso trasformandosi in serpe, per nascondersi meglio.

    Un giorno due pastorelli, che sedevano tranquilli al riparo di una roccia, udirono levarsi un canto a non molta distanza da loro.

    «È una donna che canta», disse il maggiore. «Ma non conosco donna che sappia cantare così.»

    La voce s’avvicinava. I ragazzi rimasero immobili in ascolto, trattenendo persino il respiro. Quando la melodia si spense, nessuno dei due si azzardava a parlare, per timore di rompere l’incanto.

    Ed ecco che la fata sbucò da un cespuglio, avvolta come in un manto dai lunghi capelli dorati. I pastorelli non avevano mai visto una creatura di tanta bellezza, né chioma così lucente, né occhi simili a quelli, del colore del cielo specchiato nell’acqua.

    «È la fata del lago», bisbigliò il più piccino.

    «Sssst!», lo zittì l’altro, timoroso di spaventarla.

    Troppo tardi: la fata si era accorta della loro presenza.

    Si coprì anche il volto con i biondi capelli e fuggì verso il lago, così rapida e leggera che l’erba non si piegava neppure sotto i suoi passi.

    Seguendo il primo impulso, i pastorelli la inseguirono; ma la persero in breve di vista e, giunti sulla riva, si fermarono, per cercare una traccia che non poterono trovare.

    A un tratto, sull’altra sponda del lago, scorsero una grossa serpe dalle squame d’oro che brillavano al sole. Non sapevano che ci fossero serpenti così grandi: fuggirono spaventati, rinunciando a cercare la fata.

    Per giorni e giorni non si sentì più cantare in riva al lago. Ma spesso chi si trovava a passare di lì avvistava la serpe, che tosto si sottraeva agli sguardi con guizzo repentino.

    Un giorno un cacciatore di Fontainemore la sorprese mentre si sporgeva da una pietra sull’acqua per contemplarvisi, come in uno specchio.

    Era lì, immobile, senza alcun sospetto, distesa sulla roccia, con le sue scaglie dai bagliori d’oro.

    L’uomo imbracciò il fucile e sparò un colpo.

    Colpita a morte, la serpe si lasciò scivolare nel lago.

    In breve le onde ribollirono di sangue. Poi, lentamente, il livello dell’acqua calò. I flutti presero a defluire nel torrente Pacolla, e di lì si riversarono nel Lys, tingendolo di rosso.

    Con la fata serpe morì anche il suo lago.

    Sorgenti fino allora abbondanti si inaridirono all’improvviso.

    La conca del Prêz si prosciugò e tutto, attorno, intristì a poco a poco. Sulle rive scomparve ogni traccia di vegetazione; lungo il declivio, non più irrigato, il suolo si fece arido e brullo.

    ¹ Fonte: J.-J. CHRISTCLLIN, Légendes et récits recueillis sur les bords du Lys, Aoste 1970, pp. 53-54.

    Il gatto nella stalla

    ²

    Vivevano una volta, su a Chamois, due vecchi, soli con le loro bestie. Vivevano tranquilli, come chi si vuol bene ed aspetta, ogni giorno, il domani. Quando scendeva il buio, si mettevano a dormire vicini, sulla paglia, e si scaldavano i piedi l’un l’altro; e le mucche, nella stalla di sotto, dormivano quiete anche loro.

    Ma, una notte, la moglie si svegliò di soprassalto.

    «Marito mio, ho udito non so che tramenio, laggiù dabbasso: senti le bestie come sono irrequiete? Mi hanno svegliata con i loro muggiti. Qualcosa le spaventa: ed io non oso muovermi, ho paura.»

    «Amica mia, di che vuoi avere paura? Ci sono io, vado giù a vedere.»

    Scese la scala, con il lume in mano; si guardò attorno, attento.

    Ogni cosa al suo posto: chiusa la porta, sbarrate le finestre... Ma le mucche gemevano, legate alla catena, coi grandi occhi pieni di sgomento.

    «Che diamine succede, questa notte? Mi avete svegliato la moglie: e per cosa? To’, mica avrete paura di questo gattaccio!».

    Perché c’era un gatto, nella mangiatoia; e miagolava, ma così piano che si sentiva appena: un gatto nero nero, che il vecchio non aveva visto mai. Lo cacciò fuori, e le bestie tornarono tranquille. Ma, la notte dopo...

    «Che cosa capita ancora, moglie mia? Senti anche tu quello che sento io?»

    «Rumore di catene strascinate, muggiti soffocati di paura...».

    «È ancora il miagolio! Quell’animale è tornato nella stalla: vado a buttarlo fuori.»

    «Aspetta: non ti sei chiesto come ha fatto ad entrare? Era tutto ben chiuso, avevo controllato... È una strega, ti dico, non lasciarmi qui sola.»

    «Le mucche piangono, devo andare a vedere.»

    Il vecchio scese con il lume in mano, si guardò attorno...

    Il gatto nero girava tra le bestie, tutte bagnate di freddo sudore; il loro sguardo era un lago d’orrore.

    «Vattene, vattene via!», gridò l’uomo, spalancando la porta.

    Se ne andò, senza farselo dire due volte: e, nella stalla, tutto tornò quieto. Ma il vecchio ci sentiva un non so che di strano, come se quella bestia vi avesse lasciato qualcosa. Aguzzò gli occhi... ed infine le vide: certe lunghe catene, agganciate alle travi del soffitto, che ancora dondolavano, nell’ombra.

    «Che cosa significa questo? Ora le stacco», disse, deciso.

    Ma una forza maligna lo gettava per terra, se solo allungava le mani a toccarle. Provò anche la donna, e anche lei fu respinta. Tentarono, tentarono ancora, nel corso del giorno, ma invano.

    Quando scese la notte, si misero a letto, col cuore agitato da oscuri presagi; e si tenevano stretti l’un l’altro, nel buio.

    «Vedrai che non capita niente», diceva il vecchio, per farsi coraggio.

    E lei assentiva, tremando. «Hai ragione: è tutto silenzio là sotto.»

    Ma, a mezzanotte, si levarono forti i muggiti e la casa fu tutta un tramestio. La moglie si strinse più forte al marito, per non lasciarlo andare. E porgevano orecchio, tutt’e due, agli strani e scomposti rumori.

    «Ascolta: che cosa senti, ora?»

    «Stridore di lame affilate...».

    «Che altro ancora?»

    «Lamento di mucche sgozzate...».

    «Miagola, miagola quella bestiaccia nera, mi gela tutto il sangue nelle vene. No, resta qui, non scendere da basso. Lasciala stare, non mandarla via...».

    «Mandarla via? Questa volta l’ammazzo.»

    Ma non riusciva a mettere giù i piedi.

    «Amica, amica mia, le gambe mi si son fatte di pietra.»

    «No, non è niente, ne sono sicura. Prova a muoverle, adesso: ti aiuto. Senti? Tutto è finito, là sotto; non c’è più neppure un fruscio...». Scesero insieme, tenendosi per mano, col lume acceso, guardandosi intorno. Il gatto se n’era già andato, passando chissà dove, forse su dal camino; ma ora le catene, agganciate alle travi del soffitto, reggevano gli scheletri spolpati delle mucche. La carne se l’era portata via quella bestiaccia nera, per mangiarsela al sabba, insieme alle altre streghe.

    Un sabba, in un’incisione di C. Chessa del 1889.

    ² Fonte: Fondo BETEMPS. Ripreso da: T. GATTO, Caccia alla strega, Aosta 1983, pp. 106-107.

    La fata del monte Colombéra

    ³

    C’era una volta a Réchanté una fata, che viveva, con il suo orchetto gobbo, in una delle grotte del vallone.

    La fata era splendente di bellezza, ed aveva i capelli d’oro fino. Un contadino della vallata perdutamente se ne innamorò: non faceva che pensare a lei, e della moglie non gl’importava più.

    La fata, lusingata, gl’insegnò il sentiero che portava al suo antro, e lì l’attendeva ogni sera, per trascorrer la notte con lui.

    A lungo pianse la sposa abbandonata, nel grande letto vuoto; poi prese a vagare nel buio lungo il torrente di Réchanté, chiamando il marito infedele.

    Il lamentoso grido giunse fino alla grotta, e la fata se ne infastidì. Sciolse il nastro d’oro con cui raccoglieva i capelli, e lo diede all’amante.

    «Porta questa cintura in regalo a tua moglie, per consolarla d’averla lasciata: appena se la sarà legata a vita, tutti i tristi pensieri svaniranno.»

    L’uomo, tornato a casa, diede alla sposa il nastro della fata.

    «Legalo a vita», le raccomandò.

    Ma lei, ben sapendo da chi l’aveva avuto, chiese consiglio a un’anziana comare.

    «Prova prima a passarlo attorno a un tronco», consigliò saggiamente la vecchia.

    La donna legò il nastro d’oro attorno a un annoso castagno: e, sull’istante, l’albero si mise a tremar dalle radici, come scosso da un vento furioso; le foglie s’accartocciarono, staccandosi morte dai rami, ed ampie crepe nerastre spaccarono la scorza.

    Soltanto allora il contadino capì quale fosse l’intento dell’amante.

    «Buon Dio!», esclamò inorridito. «Quella strega voleva farmi uccidere mia moglie!».

    L’abbracciò forte, per farsi perdonare, e non l’abbandonò mai più.

    La fata restò di nuovo sola con suo figlio, nella grotta sul monte Colombéra.

    L’orchetto era gobbo e sbilenco, e il suo volto era pieno di rughe, come una mela vizza a primavera.

    La madre, stanca di vederselo davanti così brutto, mise gli occhi su un bimbo del paese, biondo e grassoccio che era uno splendore. Lo rapì, per tenerlo con sé, e abbandonò sotto un castagno, su un mucchio di foglie, il nanetto sgraziato.

    Lo trovarono, di lì a qualche po’, due ragazze che passavano nel bosco; videro che si reggeva a stento sulle gambe malferme e, prese da pietà, lo portarono a casa, gli diedero da mangiare e cercarono di sapere chi fosse. Ma Forchetto non rispondeva ad alcuna domanda, non c’era verso di fargli aprire bocca.

    «Parlerà, parlerà», disse l’anziana comare. «Cercate in tutte le case quanti gusci d’uovo vi sia dato trovare; allineateli tutt’attorno alla pietra del focolare, e sedete il gobbetto su uno sgabello, davanti al camino acceso.»

    Fecero come la vecchia aveva detto. Ed ecco che l’orchetto, scuotendosi dal suo torpore, gridò nel dialetto di Perloz:

    «Nella mia vita vidi i campi arati

    tre volte già sostituire i pineti;

    già tre volte rinacquero gli abeti

    sopra le verdi distese dei prati:

    ma non conosco questo strano gioco

    di metter tanti gusci attorno a un fuoco».

    L’intero paese assisteva alla scena, ed a quelle parole trasecolarono tutti.

    «Possibile che sia vecchio come dice? Che abbia visto davvero tante cose?», si domandavano l’un l’altro, sbalorditi.

    «Le ha viste, le ha viste!», disse la vecchia comare. «Non può essere che il figlio della fata.»

    «Com’è che l’ha perso nel bosco».

    «Non l’ha perso, ora è chiaro come stanno le cose: l’ha lasciato di proposito, scambiandolo col bambino che ha rubato.»

    Quel bambino, i genitori l’avevano cercato a lungo, disperati, aiutati dalla gente del paese; ma non se n’era trovata alcuna traccia e, per finire, s’era pensato fosse caduto in un burrone.

    Streghe partono dalla loro casa attraversa la cappa del camino (xilografia del 1570).

    «Ma allora, se nostro figlio ora sta con la fata, come potremo portarglielo via?», domandò la madre.

    «Il modo c’è, ascoltatemi bene», decretò la comare. «Prendete l’orchetto, e salite con lui alle grotte. Quando sarete arrivati vicino, bastonate il gobbetto di santa ragione, perché strilli forte e lo senta la fata. Uno di voi tenga d’occhio l’entrata delle caverne, per vedere da quale esce fuori, e, appena lei correrà a difendere il figlio, entri dentro a riprendersi il bambino.»

    «Ma uscirà?»

    «Uscirà, uscirà», assicurò la vecchia. «Ama suo figlio persino lo stregone.»

    Accadde proprio come aveva detto. Sotto i colpi, Forchetto incominciò a piangere e a gridare, e la madre si precipitò in suo aiuto, non sapendo resistere al richiamo.

    Così il bimbo rapito tornò a casa. Ma a Perloz, ormai, la fata del Colombéra li aveva tutti ostili: sicché decise di abbandonare il rifugio del monte, per cercare un paese dove vivere in pace col suo orchetto.

    Addensò in cielo le nubi, e scatenò un temporale. Quando le acque del torrente di Réchanté furono gonfie, vi si sedette sopra con il figlio, lasciandosi trasportare dai flutti, giù giù fino al Lys, e poi verso la Dora.

    A Pont-Saint-Martin i contadini, assiepati sulle rive, attendevano, col terrore negli occhi, l’onda devastatrice della piena.

    Bella cd altera, la fata del Colombéra li guardava, come dall’alto di un trono; guardava il ponte ormai prossimo, a valle.

    «Lo abbatterà, sarà la sua vendetta», dicevano i paesani.

    Ad un tratto una voce si levò sul fragore del torrente:

    «Piega il capo, bellezza! Lasciaci il nostro ponte».

    La fata sorrise alla lode. L’ira le cadde dal cuore: e concesse la grazia. Reclinò la testa, e passò sotto l’arcata, lasciando intatto il ponte.

    Giunta alla Dora, incominciò a cantare.

    Il canto si perse lontano, nel mormorio dei flutti che ormai scorrevano placidi nel piano.

    ³ Fonte: J.-J. CHRISTILLIN, Légendes et récits recueillis sur les bords du Lys, Aoste 1970, pp. 16-20.

    Il Dente del Gigante

    Tanti tanti anni fa la valle d’Aosta era infestata da spiriti malvagi d’ogni specie, che causavano continui disastri. Tendevano agguati ai viandanti, schiacciandoli sotto enormi massi che rotolavano lungo i fianchi dei monti, o toglievano loro la terra sotto i piedi, per farli precipitare in un burrone; stracolmavano laghi e torrenti, dando poi stura d’improvviso alle acque, che travolgevano messi rigogliose, mutando fertili terre in forre desolate; erano capaci persino di scalzare una becca, per seppellire sotto il suo crollo un paese. La gente viveva in un continuo terrore, perché ogni giorno quegli esseri maligni inventavano qualcosa di nuovo, per dare sfogo al loro istinto perverso.

    Un giorno qualcuno portò la notizia che in un paese lontano viveva un mago sapiente, capace di imporsi con le sue arti magiche alle forze del male. Andarono dunque a chiamarlo, perché liberasse la valle dagli spiriti che continuavano ad imperversare, senza che alcuno potesse ostacolarli in qualche modo. E tanto lo supplicarono che infine, impietosito, accondiscese a seguirli.

    Quando fu a Pont-Saint-Martin, dove ha inizio la valle, il mago si fermò e, tratto fuori il suo libro di magia, vi lesse incomprensibili parole.

    Gli spiriti cattivi dei dintorni subito gli si fecero attorno, docili al suo comando, mentre dalla valle del Lys, attratti dall’irresistibile richiamo, i geni dei monti scendevano a frotte, uscendo come un nugolo di corvi da boschi e da radure, sbucando dagli anfratti rocciosi e abbandonando le gore tenebrose dei torrenti.

    Il mago impose a tutti di seguirlo, e riprese il cammino, di tanto in tanto pronunciando le sue formule fatate.

    Le potenze maligne sbucarono a caterve dalla valle di Champorcher e da quella di Ayas, e a Montjovet si unì alla schiera, con spaventoso clangore, l’orda malvagia che affluiva dalla vallata del Marmore.

    Quando giunse ad Aosta, il mago attese che dalla Coumba Frèida scendesse la nuvola nera che vi si andava formando; poi riprese il cammino verso

    Il Monte Bianco e la valle di Courmayeur. Litografìa di J. D. Harding del 1828.

    l’alta valle, tra il tumultuoso volo degii spiriti, che, man mano gonfiandosi, aveva finito con l’oscurare il cielo.

    Ubbidendo al richiamo, i geni del male scesero da Cogne, Valsavarenche e Rhémes; lo stuolo della Valgrisenche si congiunse alla schiera, che s’ingrossò ancora a La Salle e La Thuile.

    A Courmayeur, dopo avere chiamato i dispettosi folletti dell’Allée Bianche e della vai Ferret, il mago convogliò la turba tumultuante verso la gigantesca prigione che l’attendeva, nel deserto di ghiacci del Monte Bianco. Ad uno ad uno gli spiriti vi entrarono, piegandosi ad un’invincibile forza: e dietro l’ultimo si richiuse, per sempre, la porta di roccia.

    Da allora, l’ardita torre del Dente del Gigante regge all’urto dei geni cattivi, che disperatamente, invano, tentano di uscire, spezzando l’incantesimo del mago.

    ⁴ Fonte: J.-S. FAVRE, «La légende de la Dent du Géant», in Le Ramoneur, 1898, pp. 76-7.

    Il pane di Natale

    Era la sera della vigilia di Natale, e le campane suonavano allegre, per chiamare in chiesa i fedeli.

    Da Magnéaz uomini e donne s’erano già tutti avviati, per assistere alla messa della Mezzanotte Santa, che veniva celebrata ad Ayas, quando Rosa Vescoz, sbrigate le ultime faccende, potè uscire di casa.

    «Prenderò per la strada più corta», si disse, incamminandosi di buon passo, la ragazza. «Non voglio certo arrivare, proprio oggi, quando già la funzione è incominciata.»

    La scorciatoia per cui aveva deciso di passare fiancheggiava, a un certo momento, un vecchio mulino abbandonato, attorno al quale si raccontavano paurose storie di diavoli, di streghe e di fantasmi. Di notte, soprattutto, la gente girava alla larga, temendo brutti incontri; ma Rosa sapeva di non avere peccati sulla coscienza, e perciò andava avanti senza alcun timore. Appressandosi a quel punto, tuttavia, si segnò, recitando a fior di labbra una giaculatoria in suffragio delle anime purganti.

    In quel preciso istante, un grosso serpente le si parò dinanzi.

    Per quanto giovane, Rosa conosceva serpi di varia specie, e sapeva distinguere bene la piccola vipera velenosa ed infida dall’orbettino innocuo che ama la frescura delle fonti. Ma non aveva mai visto alcun rettile simile a quello che, rizzandosi verso di lei, in mezzo al sentiero, le sbarrava il cammino, avvolto come in un alone da una debole luce rossastra.

    Rosa capì quel che doveva fare.

    «Se sei dalla parte di Dio, anima in pena», disse con voce ferma e chiara, «parla; poi, fatti da parte e lascia che io passi.»

    «Cerco la pace, Rosa: abbi pietà di me!», rispose il serpente.

    «Dimmi, dunque, come posso aiutarti a raggiungere il Cielo.»

    «Quando distribuiranno in chiesa il pane benedetto, serbane un piccolo pezzo per me; e poi passa di qui anche al ritorno, e mettimelo in bocca, perché possa nutrirmene anch’io, che, in vita, lo sprecai con leggerezza. Ti aspetterò in questo stesso punto: e, ti assicuro, sarai ben ricompensa^ del tuo coraggio e della tua bontà.»

    «Farò quel che mi hai chiesto per amore di Cristo Bambino», ribattè Rosa, «ma non mi aspetto alcuna ricompensa.»

    Senza aggiunger parola, la serpe si scostò per lasciare passare la ragazza, che riprese la strada a passo svelto.

    Come aveva promesso, quando in chiesa distribuirono il pane benedetto, ne serbò un pezzo dentro il fazzoletto, ed uscita dalla messa trovò il serpente che l’aspettava, sulla strada del vecchio mulino. Gettò il boccone nelle sue fauci spalancate... ed ecco che accadde un fatto prodigioso: abbandonata la pelle squamosa del rettile entro la quale espiava la sua pena, l’anima, in veste di bianca colomba, si librò a volo, puntando dritta al cielo.

    Rosa Vescoz rincasò con il cuore leggero, e trascorse un Natale felice. Quanto alla ricompensa che le era stata promessa, la ricevette davvero, perché la vita fu generosa con lei: ebbe un marito, una casa spaziosa e... due dozzine di robusti figlioli.

    ⁵ Fonte: E. DEL MONTECHIARO, «Le cento leggende dei cento paesi valdostani», in Augusta Praetoria, 12 giugno 1940, 18a puntata.

    Storie di draghi

    C’era in valle, nei tempi dei tempi, un gigantesco drago, con un bel paio d’ali per volare di vetta in vetta nel cuor della notte, ed un unico occhio di diamante incastonato nel mezzo della fronte, che brillava anche più di una stella.

    Dal prezioso tesoro il drago si separava soltanto per pochi istanti al giorno, quando, allo scoccar del mezzodì, tuffava il testone nell’acqua della fonte – sempre la stessa – a cui si recava per bere; allora deponeva la gemma su un gradino della roccia dalla quale la sorgente sgorgava, per rimetterla gelosamente al suo posto, non appena la sete era placata.

    Da chissà quale incalcolabile tempo si ripeteva puntualmente quel rituale, quando per caso un pastore assistette, non visto, alla scena: ed il diamante gli sembrò così bello che lo prese la brama di averlo, né ebbe pace, finché, pensa e ripensa, non mise a punto un piano per entrarne in possesso. Studiò le abitudini del drago e, colto il punto debole della sua difesa, andò da un fabbro ad ordinare una botte di ferro.

    «La voglio spessa, irta all’esterno di chiodi acuminati, e così grande da poterci star comodo dentro; con uno sportello per cui passi il braccio, che si possa richiuder dall’interno, e due catene saldate dove il diametro è più largo, per poterla agganciare dove voglio.»

    Il fabbro seguì le disposizioni appuntino, e costruì una botte che sembrava una siepe di lance.

    Di buon mattino il pastore la trasportò alla fonte dove il drago veniva ad abbeverarsi a mezzogiorno; con le catene la legò alla roccia, e vi si chiuse dentro, lasciando aperto solo uno spiraglio dello sportello, per poter veder fuori.

    Ignaro dell’insidia, il drago giunse, puntuale come sempre; posò il diamante al suo solito posto ed affondò nell’acqua il muso ingordo.

    Quando volle riprendere la gemma, troppo tardi s’accorse del tranello: la mano che se n’era impadronita già scompariva dalla finestrella, che si chiudeva con rumor di ferro.

    Con un urlo di rabbia disperata, sputando fuoco dalle enormi fauci, il drago allora si buttò sulla botte, cadendovi sopra con tutto il suo peso. Gli aculei gli s’infissero nel petto, aprendo orridi squarci tra le squame.

    Folle d’ira e dolore, ripetutamente la fiera con selvaggio furore ripartì all’assalto, ogni volta allargando le ferite da cui zampillava il suo sangue, senza riuscire a smuovere la botte.

    Dal suo sicuro rifugio, il pastore l’aizzava:

    «Batti, cozza, azzanna, giostra: il ferro è forte e salde le catene».

    Il drago, ormai, arrancava a fatica; ma continuò la lotta disperata, fino a che gli rimase un fil di vita. Poi s’accasciò in un lago di sangue: ed al pastore rimase il suo tesoro.

    Presso il ponte di Morettaz si leva una roccia di forma tondeggiante, nella quale, dai tempi più remoti, si aprono grotte e cunicoli tortuosi, scavati dai ghiacci.

    In una di quelle cavità s’era stanziato un terribile e mai sazio drago, il quale non solo divorava quanti gli venivano a tiro, uomini ed animali, ma, di tanto in tanto, spinto dalla fame, lasciava la tana per risalire il vallone a caccia di preda, spargendo dovunque il terrore.

    Poiché più nessuno osava uscir di casa, i maggiorenti si riunirono ad esaminare il problema e trovargli una qualche soluzione. Fu stabilito che un banditore percorresse il paese, per invitare i più coraggiosi ad affrontare il mostro: il suo uccisore avrebbe avuto una forte ricompensa.

    L’impresa era audace e disperata; ma un uomo di Perloz, di nome Vignai, decise ugualmente di tentarla. Armato dunque di una lunga spada, s’awenturò sul sentiero che scendeva al ponte, verso la roccia dove il drago attendeva la preda. Giunto ormai nei pressi della tana, il contadino, infilata sulla punta dell’arma una pagnotta appena uscita dal forno, la protese al mostro, accostandosi a lui a passi cauti.

    Allettato dalla fragranza del pane, il rettile vi si gettò sopra a fauci aperte, e Vignai con prontezza gli spinse a fondo la lama nella gola.

    Ferito a morte, il drago si abbatté al suolo, emettendo ruggiti spaventosi. Ebbro di vittoria, l’uomo ritrasse la spada, e ripetutamente la conficcò fino all’elsa nell’orribile corpo.

    Dagli squarci aperti tra le squame un nero fiotto di sangue colò lungo la lama, inondando il braccio dell’incauto eroe.

    Vignai morì col drago, bruciato dal terribile veleno.

    Ma il suo nome fu tramandato alla storia.

    Ai tempi in cui nessuno si era ancora addentrato nel vallone di Loo, un gigantesco drago viveva indisturbato nella folta foresta che lo ricopriva fino in cima alle vette.

    Un giorno, alcuni boscaioli decisero dì rifornirsi lì di legname, ed incominciarono ad abbattere alberi e ad accatastarli, per farli scivolare a valle, in inverno, sulla neve gelata. Erano da non molto al lavoro, quando dal profondo del bosco si levarono spaventosi ruggiti. Agghiacciati dalla paura, i taglialegna precipitosamente abbandonarono il campo, ben decisi a non far più ritorno nel vallone.

    Ma l’idea che un mostro avesse lì la sua tana incominciò ad angustiare gli animi a tal punto che si preparò una spedizione armata per snidarlo. Avvistato il drago, anche ai più coraggiosi mancò però l’ardire di affrontarlo: e la paura crebbe a dismisura.

    I gressonari, allora, tennero consiglio, e deliberarono che l’intero vallone di Loo sarebbe appartenuto a chi avesse sgominato quel mostro.

    Spinti dall’allettante prospettiva, parecchi tentarono l’impresa: qualcuno riuscì a stento a salvarsi con la fuga, qualche altro cadde preda dell’orribile rettile, finendo soffocato tra le spire della sua coda o maciullato dalle sue terribili fauci.

    Sette uomini di Champsil e Loomatto si accordarono, infine, per abbattere la belva, senza correre rischi. Per sette anni, a turno, ingrassarono un toro, nutrendolo solo di latte. Quando fu grosso e forte, gli blindarono le corna di ferro e, trascinatolo a forza fino alla foresta del vallone di Loo, lo spinsero nel folto.

    Non erano ancora rientrati in paese, e già si era iniziato il terribile scontro, e i muggiti possenti del toro si mescolavano alle orribili urla del drago, rimbombando per finterà vallata.

    Nessuno dormì, quella notte.

    Fino all’alba riecheggiò nella valle il fragore della lotta ingaggiata nel Loo. Poi fu silenzio. Ma i sette attesero ancora. Soltanto quando il sole fu ben alto nel cielo, s’avventurarono cautamente nel bosco.

    Del toro non v’era più traccia: il drago ingordo se l’era divorato dalla testa alla coda.

    Ma l’orrido mostro giaceva, ora, in un lago di sangue, soffocato dalle corna blindate, che gli si erano infisse in gola di traverso, come gli ideatori del piano avevano previsto.

    Così i sette si divisero le terre del vallone.

    ⁶ Fonte: J.A. CHRISTILLIN, Légendes et récits recueillis sur les bords du Lys, Aoste 1970, pp. 26-27, 149-150, 221.

    Lupi

    Ce n’erano, un tempo, di lupi in valle d’Aosta! Vivevano a branchi, nei boschi, o si aggiravano isolati nei pressi di stalle e di ovili, sempre in agguato, sempre pronti a lanciarsi sulla preda e sbranarla.

    Scorrazzavano per tutta la vallata, assalivano pecore e capre e, all’occasione, si buttavano sopra i cristiani. Di qualche viandante, sorpreso dalle fiere, non si ritrovavano, a volte, che gli abiti intrisi di sangue. E se ne raccontavano di storie...

    Questa è della valle del Lys.

    C’era un uomo – lo chiamavano der Ronker – che possedeva una casa ai piedi della Ranzola, al limite del bosco. Ci abitava ben poco, in verità. Durante la brutta stagione lasciava la valle e faceva l’ambulante, girovagando con la sua merce di paese in paese. D’estate saliva con una piccola mandria a Skerpie, in Valdobbia, e vi restava, assieme alla figlia, fino ad autunno inoltrato.

    Un anno, prese ad aggirarsi intorno alla baita un lupo di eccezionale grandezza. Compariva all’improvviso, a qualsiasi ora del giorno; di notte faceva risuonare il suo ululato per tutta la vallata.

    Der Ronker aveva un cane da guardia forte e coraggioso, che più d’una volta aveva affrontato la fiera a corpo a corpo, sostenendone l’assalto. Il padrone accorreva in suo aiuto, imbracciando lo schioppo, e costringeva la belva alla fuga; ma non era mai riuscito a colpirla.

    «Se non l’ammazzo, un giorno o l’altro quella bestiaccia mi porta via un vitello», si lamentava, curando le ferite del suo cane.

    Ma il lupo non faceva la posta ai vitelli: teneva sempre d’occhio la ragazza. Una volta che la sorprese sola nella baita, l’aggredì, e dilaniò orrendamente il suo corpo, divorandole il seno. Il padre, a sera, rincasando col cane, trovò i poveri resti in una pozza di sangue.

    «Ti ucciderò, maledetto!», promise a se stesso, ricomponendo le spoglie straziate.

    Ma, compiuto l’atroce delitto, la belva era scomparsa dalla valle.

    L’uomo riprese tristemente la sua vita: girava con le sue mercanzie nella brutta stagione, d’estate saliva alla baita con le mucche.

    Passarono così alcuni anni. Una sera d’inverno der Ronker si trovava in Germania. Era appena entrato in una locanda, dove aveva intenzione di passare la notte, quando il cane, che gli era inseparabile compagno nei suoi viaggi, si avventò sull’albergatore con un ringhio furioso. A stento il padrone gli impedì di azzannarlo alla gola. Il viso dell’uomo si era fatto di un pallore mortale.

    «Non so davvero che cos’abbia preso a questa bestia», si scusò l’ambulante. «Si direbbe che abbia con voi qualche conto in sospeso.»

    L’altro annuì, asciugandosi con la mano il sudore che gl’imperlava la fronte.

    «Ci siamo scontrati in Valdobbia.»

    «In Valdobbia?! Siete stato in Valdobbia?». domandò insospettito il mercante.

    «Per mia e per vostra disgrazia, purtroppo. Ma sedete, vi prego: perché è una storia lunga, quella che adesso dovrete ascoltare. Tanto tempo è passato, da quando ebbe inizio. Ero giovane, allora; giovane e certo inesperto. Fatto sta che feci un torto a due streghe, che si vendicarono, trasformandomi in lupo. Come lupo vivrai, mangiando solamente carne viva, mi dissero, né lascerai queste spoglie, finché non riuscirai a divorare il seno a una fanciulla. Per anni ed anni andai per le campagne e per i boschi, torturato dal freddo e dalla fame, senza avere l’ardire di accostarmi a una casa o a un paese. Poi, quell’estate, in Valdobbia, vi vidi salire alla baita assieme a vostra figlia, e incominciai a spiarvi, perché dovevo sorprenderla sola. Avevo orrore del delitto che stavo per commettere, ma fui costretto a farlo, per togliermi di dosso quella pelle. Tornato uomo, fuggii lontano, per dimenticare. Ma ora vedete, il destino! Voi siete qui, e il vostro cane, al fiuto, mi ha riconosciuto. In Valdobbia faceva buona guardia e, quando c’era lui, la vostra ragazza era al sicuro. Ci siamo azzuffati tante volte, ho sentito l’odore del suo sangue. Non avrei mai pensato di incontrarlo ancora, né che, in ogni caso, mi avrebbe smascherato. Ma ora sono contento che la cosa sia andata così, perché mi sono liberato del mio greve segreto.»

    Quel lupo era un uomo, ma come fare a saperlo?

    Ce n’erano tanti di lupi assetati di sangue! Proprio per quello piacevano al diavolo e alle streghe. Quando passava la seun-goga, ce n’era sempre in

    Carrettieri sulle Alpi, in un’incisione del 1878.

    mezzo qualcuno che ululava, e a volte lasciava le impronte delle zampe sul terreno, mescolate con quelle delle altre bestie immonde in cui si era trasformata quella mala genìa.

    Così la gente si ritirava presto, la sera, per non far brutti incontri. Ma poteva capitare che uno fosse sorpreso dalle tenebre, mentre era per strada: e non c’era davvero di che stare allegri.

    Una volta, un tale di Torgnon rincasava con un carico di vino. Aveva fatto tardi oltre il previsto, e non aveva con sé né un fucile né quell’accetta particolare che era l’arma più adatta per difendersi dall’attacco improvviso di una fiera: e si chiamava, appunto, scure del lupo. Era una piccola ascia con la lama dal taglio diritto, che aveva sopra l’impugnatura un gancetto di ferro, grazie al quale poteva essere appesa alla cintura o al colletto della giubba o del mantello, dietro la nuca. La lama, che all’attaccatura misurava circa quattro centimetri, si allargava di un altro paio all’estremità, dove una piccola croce patente traforava il metallo.

    Quanti, per una ragione o per l’altra, erano costretti a star fuori casa la notte e i giovanotti che passavano da una frazione all’altra, per trascorrere in compagnia le lunghe sere d’inverno, portavano sempre la scure con sé. Ma quell’uomo di Torgnon quella volta non l’aveva presa.

    «Che Dio me la mandi buona!», pensava, incitando il suo mulo.

    Mancava ormai poco al paese, quando improvvisamente da un bosco sbucò fuori un lupo a sbarrargli il cammino. Fermo in mezzo al sentiero, con gli occhi che brillavano nel buio, rimase a fissare il viandante, pronto a scagliatisi contro.

    Il mulo arretrò spaventato; all’uomo le gambe si piegarono in due. Era così sconvolto che non sapeva più quel che faceva. Incominciò a parlare alla belva, quasi ci fosse una qualche possibilità di convincerla a lasciarlo passare col suo vino.

    «Fermo lì, stammi a sentire. Facciamo un patto, lupo: tu ti tiri da parte buono buono, e io, come arrivo a Torgnon, ti do il montone. Sì, il montone... Parola mia! Lì ne hai da mangiare, è bello grasso, è la bestia più in carne della stalla. Su, da bravo, fatti in là, ti prego: ti assicuro che ci guadagni nel cambio... Che cosa posso dirti ancora, lupo... La mia casa è la prima del paese... ormai ci siamo: non farmi del male.»

    Parlava, parlava; e la fiera lì, ferma ad ascoltare. A un tratto, quasi avesse davvero capito ed accettasse il baratto, si tolse dalla strada e, una volta che l’uomo fu passato, prese a seguirlo passo passo, finché giunse al villaggio. Lasciò che entrasse in casa, e restò ad attendere nell’aia, senza dare alcun segno di impazienza.

    Come fu nella stalla col suo mulo, l’uomo tirò un gran sospiro di sollievo; non gli pareva vero d’essere tutto intero.

    «Questa volta l’ho scampata bella: non so come ho fatto a salvarmi la pelle.» E raccontò alla moglie, per filo e per segno, la storia del lupo cui aveva promesso il suo montone.

    «Non avrai intenzione di darglielo davvero», disse la donna, vedendolo avvicinarsi all’animale.

    «Certo che glielo do: quello era il patto. Mi ha lasciato passare, senza farmi un sol graffio, ed avrebbe potuto sbranarmi. Non ti pare che gli debba qualcosa?»

    «Se stupido è stato, che stupido rimanga. Adesso, qui, non può più farti nulla. E quella bestia vale dei bei soldi.»

    «Valga quello che vuole: ogni promessa è debito», tagliò corto il marito, spingendo il montone fuori dalla stalla. E rimase a guardare il lupo che se lo portava via nella notte.

    Di lì a qualche giorno, quel buon uomo dovette di nuovo mettersi in strada, per sbrigare ad Aosta certi affari. Era ancora in vista di Torgnon, quando si vide venire incontro uno che non era del posto e teneva a cavezza una vitella così ben pasciuta che anche solo guardarla era un piacere.

    «Giusto voi cercavo», disse lo sconosciuto, «perché, quando ho un debito da saldare, non mi piace tirarla per le lunghe. Ritirate nella stalla questa mucca: ve la do per ripagarvi del montone che mi avete lasciato l’altra notte.»

    Naturalmente, anche quella volta c’era di mezzo una strega. Per un malefìcio quel tale, trasformato in lupo, era condannato a rimanere bestia, finché qualcuno non l’avesse, sotto quelle spoglie, trattato come se fosse un vero uomo: il che era accaduto, quando il contadino gli aveva proposto un patto, e aveva poi mantenuto la promessa fattagli nel bosco.

    Insomma, nell’affare ci guadagnarono tutt’e due. Quello di Torgnon, però, s’era preso uno spavento da non dimenticarsi facilmente: e si guardò bene dal farsi ancora sorprendere per strada dalla notte.

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