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Cibo criminale
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Cibo criminale

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Il nuovo business della mafia italiana

Documenti inediti in un'inchiesta shock che fa tremare l'industria alimentare

Prodotti contraffatti e venduti come autentico made in Italy stanno invadendo i nostri mercati e quelli stranieri.
Mozzarella di bufala, “l’oro bianco della Campania”, ricavata da cagliate provenienti dalla Germania; concentrato di pomodoro spacciato come italiano ma ottenuto allungando passata cinese; prosciutti di Parma contraffatti; formaggi confezionati con scarti avariati, dannosi per la salute; olio proveniente da olive tutt’altro che nostrane. Molti dei prodotti simbolo del made in Italy e della dieta mediterranea, che ogni giorno vengono venduti in tutto il mondo, sono il nuovo business di mafia, camorra e ’ndrangheta. Si chiama agromafia ed è un fenomeno in crescita, come dimostrano le stime dell’EURISPES: 12,5 miliardi di euro di fatturato all’anno, mentre le falsificazioni del marchio italiano nel mondo producono un danno per 60 miliardi di euro. È la prima volta nella storia che, pur di fare affari, si rischiano avvelenamenti di massa. In gioco però non c’è solo l’alimentazione in senso stretto, ma anche una delle risorse più preziose del nostro Paese: la cultura e il valore del mangiare bene. In un mercato sempre più globale, con regole non omogenee, la criminalità è capace di sfruttare ogni smagliatura nei controlli, arrivando a incrinare uno dei pilastri dell’economia nazionale. Mara Monti e Luca Ponzi ricostruiscono, con documenti e sentenze, i traffici illeciti legati ai prodotti alimentari che ogni giorno portiamo in tavola.

Le organizzazioni criminali italiane hanno messo le mani anche sul cibo

«Oggi, sotto il profilo dell’agroalimentare (...) è come se ogni italiano avesse aggiunto un posto a tavola per la criminalità organizzata: c'è un criminale che oggi sta seduto attorno a noi e che gode del fatto che (...) paghiamo una parte di denaro in più rispetto a quanto dovremmo, a fronte di una qualità inferiore.»
Pietro Grasso

Alcune delle inchieste presenti nel libro

• La mafia dei prosciutti
• Quella bufala di mozzarella
• Olio sempre più lontano dal made in Italy
• Il racket dei formaggi inquinati
• L’oro rosso, i cinesi e la camorra
• Le mani della criminalità organizzata sui fondi comunitari


Mara Monti
è nata a Bologna dove si è laureata in Economia e ha conseguito un Master alla London School of Economics. Lavora come giornalista per «Il Sole 24 Ore». Prima di approdare al quotidiano dove si occupa di finanza, in particolare di casi giudiziari societari, ha lavorato a «Radio 24». È membro di IRPI (Investigative Reporting Project Italy), l’associazione italiana di giornalismo investigativo. Coautrice del libro Gialli finanziari, per la Newton Compton ha pubblicato L’Italia dei crack e - con Luca Ponzi - Cibo criminale.

Luca Ponzi
vive a Fidenza, in provincia di Parma. Giornalista prima alla «Gazzetta di Parma», ora alla sede RAI dell’Emilia Romagna, ha raccontato alcuni degli episodi di cronaca più importanti degli ultimi anni, dal crack Parmalat al rapimento del piccolo Tommaso Onofri. Nel 2012 ha pubblicato Mostri normali. Storie di morte e d’altri misteri, una raccolta di cold case avvenuti in Emilia Romagna dagli anni ’70 a oggi.
LanguageItaliano
Release dateDec 16, 2013
ISBN9788854153233
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    Cibo criminale - Mara Monti

    2013.

    1

    La mafia dei prosciutti

    Era agitato, molto agitato. Soprattutto dopo che l’uomo davanti a lui aveva mostrato un lungo coltello da macellaio. Così il primo colpo ha solo sfiorato il fianco sinistro della vittima. Ma non le ha lasciato il tempo di reagire. La Beretta calibro .7,65 ha vomitato altri quattro proiettili in rapida successione: uno si è conficcato nella coscia destra, due nella schiena. Prima di cadere l’uomo si è girato: negli occhi spalancati era rimasto solo stupore. L’assassino ha premuto di nuovo il grilletto: le ultime due ogive hanno centrato la gola e la spalla sinistra. È rimasto a faccia in giù tra i filari del Lambrusco a Poviglio, nella campagna di Reggio Emilia. Era la sera del 24 luglio 2002.

    Un lavoro ben fatto. Eppure Biagio Grassia, allora trentanovenne, non era un killer. Era solo un facchino, per giunta nemmeno troppo coraggioso. L’uomo ammazzato, Ismail Jaouadi, tunisino, aveva ventotto anni e un obiettivo molto chiaro: far soldi alla svelta in Italia. A fregarlo la smania di denaro e la convinzione che i 7 milioni di lire guadagnati ogni mese disossando prosciutti fossero troppo pochi per le sue qualità. Ismail non voleva faticare. Era molto sicuro di sé, pronto a litigare, con l’occhio lungo, ma si credeva troppo furbo. Così furbo da ricattare i titolari della DIMAC di Castelnuovo Rangone, la cooperativa di facchini che lo aveva assunto per lavorare nei prosciuttifici del Modenese.

    Il tunisino aveva scattato fotografie e girato video e con quelli aveva cominciato a pretendere denaro. Le foto ritraevano i suoi colleghi che durante la notte sbollavano i prosciutti, cioè toglievano i marchi di provenienza impressi sulle cosce, per sostituirli con altri timbri, facendone così aumentare il valore. In quel modo, la carne arrivata dalla Danimarca diventava olandese, più pregiata. Le grandi zampe dei maiali provenienti dalla Germania potevano addirittura trasformarsi in pregiato prosciutto di Parma.

    Anche Biagio, l’assassino, lavorava per la DIMAC. Non era così furbo come il tunisino, anzi, i medici che lo hanno visitato dopo l’arresto lo hanno definito di «livello intellettivo certamente meno che modesto e aggravato dall’ipoculturalizzazione. Clinicamente parrebbe attestarsi attorno alla gracilità mentale. Ancor più modesto appare il livello di sviluppo della personalit໹. Insomma un tipo fragile, che si faceva convincere facilmente, con quattro figli da mantenere, uno dei quali ammalato e bisognoso di cure costose. Chi ha deciso di eliminare Ismail Jaouadi lo ha scelto proprio per questo. Biagio era amico d’Ismail, si erano trovati spesso a dividere le ore pesanti nei macelli, ma al contrario della sua vittima aveva paura dei padroni, che tra un ordine e l’altro, gli raccontavano di violenza e di mafia². Perciò ha obbedito all’ordine di Gaspare Mattarella, presidente della cooperativa DIMAC, e di Mario De Luca, un altro socio importante della cooperativa, di ammazzare il tunisino: «Se non l’avessi fatto avrei perso il lavoro»³.

    È bastata una settimana al sostituto procuratore Lucia Russo e ai carabinieri del Nucleo investigativo di Reggio Emilia per risolvere il caso. Alle 11 del mattino del 31 luglio il pubblico ministero ha disposto il fermo di Gaspare Mattarella, trentacinque anni, originario di Mazara del Vallo, presidente della cooperativa DIMAC; Mario De Luca, trentatré anni, di Casal di Principe, socio incaricato di gestire gli operai; Antonino Erbini, trentadue anni, altro socio di peso nella DIMAC, l’uomo che dava esecuzione agli ordini del presidente e che godeva di stipendio, casa, telefono e auto pagati dalla ditta. Oltre, ovviamente, a Biagio Grassia. Per l’omicidio di Ismail ci sono colpevoli certi, condannati in via definitiva, ma la vicenda è tutt’altro che chiusa e noi continuiamo a mangiare prosciutti falsi.

    Il giorno dopo il delitto, dopo essere riusciti a identificare quel cadavere segnato dai proiettili, i carabinieri sono corsi alla casa dove Ismail abitava con una donna italiana, Barbara Consoli. Da lei hanno saputo che il tunisino, la sera prima, si era incontrato con Mario, un napoletano. Nulla di strano, sulle prime. Succedeva spesso che l’uomo uscisse la notte. Barbara, anche lei operaia nei macelli, non si era stupita nemmeno quando Ismail aveva portato con sé, in una borsa di plastica, due paia di guanti di cotone, di quelli utilizzati nei salumifici, e un lungo coltello da disossatore. Pensava ci fosse qualche straordinario da fare, un carico da preparare per una spedizione urgente. Il primo numero di telefono che la ragazza ha consegnato agli investigatori è stato quello di Gaspare Mattarella, il presidente della DIMAC, che Ismail era solito usare per qualsiasi emergenza. Tra le ultime chiamate dal cellulare del tunisino compariva invece il misterioso Mario, che si è scoperto essere Mario De Luca, altro socio della cooperativa. Sono così partite le intercettazioni.

    Un nordafricano con un coltello in tasca ammazzato a revolverate in una vigna non è una notizia che crei allarme sociale. Si pensa subito a un regolamento di conti nel mondo degli spacciatori di droga, a una partita non pagata, a uno sgarro. Gli stranieri i cui nomi comparivano nella memoria del telefonino di Ismail Jaouadi sono stati convocati in caserma e messi sotto torchio.

    Un particolare, però, insospettiva gli investigatori. Il morto indossava un doppio paio di guanti di cotone, infilati uno sopra l’altro. Il corpo era a ridosso della recinzione di un’azienda di trasformazione delle carni, la Korona. Sembrava fosse stato sorpreso nel tentativo di scavalcarla. Così, i primi a essere interrogati sono stati il custode e i proprietari del macello. A De Luca e Mattarella, i datori di lavoro di Ismail, è stata invece riservata qualche attenzione in più. Sono stati pedinati, per controllare chi incontravano più spesso, in orari strani e in posti appartati. È emerso il nome di Antonino Erbini, altro dirigente della cooperativa DIMAC, che ogni giorno andava a casa di un facchino, Biagio Grassia. Una volta catturato, Grassia ha raccontato ai giudici della Corte d’Assise di Reggio Emilia, nel suo modo abbastanza colorito, che cosa gli diceva Erbini: «Che io dovevo stare solo tranquillo e che prima o poi questa storia finiva. Lui veniva perché se n’era accorto che io non ci stavo più con la testa. Sembravo drogato, perché non era una cosa bella quella che avevo fatto. E lui mi controllava»⁴.

    Piangeva sempre, il facchino Biagio. Piangeva guardando i suoi quattro figli giocare, piangeva la notte invece di dormire. E piangeva anche durante l’incontro che aveva chiesto al cugino, che si chiama esattamente allo stesso modo: «Gli ho detto che avevo sparato a Ismail e che non ce la facevo più. Mi ha chiesto: E che decisione hai preso?. Io ho risposto: La mia decisione è andare dai carabinieri. E lui: Questa è l’unica soluzione. Però ho aggiunto: Voglio un’ultima cortesia da te, se mi puoi portare dentro a una chiesa, mi voglio confessare e poi chiamo i carabinieri»⁵.

    Non è riuscito a confessarsi con un sacerdote Biagio Grassia, perché i carabinieri che stavano sorvegliando il cugino si sono materializzati davanti a lui e l’hanno portato in caserma.

    Ha confessato al magistrato, quasi volesse liberarsi di un peso, l’omicidio di Ismail. Continuando a piangere, ha ripercorso ogni fase dell’esecuzione, dal primo appuntamento con Mario De Luca fino a quell’ordine impartito dal presidente Mattarella, uno a cui non si poteva dire di no. E poi i passi nella vigna silenziosa e buia, le detonazioni che hanno squarciato la notte, la fuga precipitosa davanti al morto. Per avvalorare le sue parole, ha fatto subito ritrovare la pistola, recuperata dai sommozzatori dei Vigili del Fuoco sul fondo di un laghetto a Castelvetro di Modena.

    Il pomeriggio del 24 luglio Mario De Luca lo ha convocato di fronte a un bar del paese. A luglio fa molto caldo, nella bassa padana. Il sole martella feroce l’asfalto e i campi, in giro non c’è nessuno, fino a sera. Solo qualche anziano resiste e gioca a briscola sotto le pale dei ventilatori, davanti a un bicchiere di bianco. De Luca non è sceso dall’auto, con un cenno ha chiamato il suo dipendente: «Mi fa entrare in macchina e dice che si deve ammazzare Ismail, e lo dovevo fare io»⁶. Il facchino ha iniziato a sudare, nonostante l’aria condizionata rendesse gelido l’abitacolo della Mercedes. Ha provato a opporsi. Non è un killer, non ha mai preso in mano un’arma. Ma è un debole e i giudici nelle varie sentenze hanno scritto che sembra non aver percepito appieno la gravità di quello che ha fatto. Per questo, nella piazza arroventata, è sembrato solo incredulo⁷.

    Mario De Luca ha guidato sino alla sede della DIMAC a Castelnuovo Rangone. Lui e Grassia sono sfilati davanti al bancone delle impiegate e sono saliti nell’ufficio più importante, quello del presidente Gaspare Mattarella, che li stava aspettando. Con lui c’era il suo uomo di fiducia, Antonino Erbini: «Lì accade che Mattarella mi disse che se io volevo lavorare con lui dovevo fare quello che dovevo fare». È questo il passaggio chiave della ricostruzione dei giudici, che hanno condannato i mandanti. È stato Mattarella, il grande capo della cooperativa DIMAC, a impartire l’ordine: «Ha detto: Dagli la pistola, a De Luca. Andammo a casa sua e ce l’aveva dentro un marsupio color marrone; l’ha aperta, ci ha messo dei colpi dentro e l’ha caricata»⁸.

    A questo punto, il destino di Ismail Jaouadi e quello di Biagio Grassia si sono intrecciati per sempre. Non si poteva più tornare indietro. Antonino Erbini si è seduto in auto a fianco di De Luca: tenevano loro l’arma. Biagio era sul sedile posteriore. Forse per tentare di attenuare le proprie responsabilità, ha raccontato di essere stato minacciato: «Io dicevo sempre a De Luca di no, di no, di no, di no, e lui rispondeva: Non ti preoccupare, noi ti diamo anche dei soldi. E io che cosa ne faccio dei soldi, non c’ho bisogno di soldi. Quando gli dissi questa parola, cominciò a minacciarmi di più e alla fine disse: O tu o lui»⁹. Sono passati a raccogliere Ismail.

    Sette colpi di pistola alle spalle

    Quel pomeriggio, Ismail Jaouadi aveva di nuovo litigato con Gaspare Mattarella nella sede della DIMAC. Aveva urlato contro la segretaria, era entrato e uscito più volte dagli uffici. Chiedeva di tornare a lavorare alla SUINCOM, la grande azienda di Castelvetro a cui la cooperativa forniva quasi tutta la manodopera e dalla quale il tunisino era stato allontanato dopo l’ennesimo scontro con i titolari. Per cercare di levarselo di torno, Mattarella gli aveva proposto un’attività extra, con cui raggranellare un po’ di soldi in più. Ismail sarebbe dovuto entrare di nascosto al macello Korona, dove era stato diverso tempo prima, per danneggiare i computer. Il presidente della cooperativa DIMAC gli aveva fatto credere di vantare un credito: doveva aiutarlo a recuperare il denaro e sarebbe stato ricompensato. Non era la prima volta che il tunisino si prestava ad azioni simili, non aveva scrupoli, per lui l’importante era guadagnare. Ma era una trappola, per attirarlo in un luogo isolato e chiudergli la bocca per sempre. Per uno strano caso del destino, era stato proprio Ismail Jaouadi a pretendere che ad accompagnarlo fosse Biagio Grassia: in una pausa della loro attività al macello Korona, qualche settimana prima, il facchino gli aveva mostrato il funzionamento dei sistemi d’allarme e spiegato come evitare i raggi delle fotocellule installate nel piazzale. Ismail era convinto che con Biagio sarebbe riuscito a non farsi scoprire. Chi lo voleva morto ha approfittato dell’occasione e ha trasformato Biagio Grassia in un killer. Un killer spaventato, ma comunque efficace. Seduto a fianco dell’uomo che avrebbe dovuto ammazzare, nell’auto di De Luca, non ha detto una parola. «Quando siamo arrivati a Poviglio, hanno fatto scendere me e Ismail»¹⁰. Prima che si allontanasse, dal finestrino il conducente gli ha fatto scivolare in tasca la semiautomatica. Grassia e Ismail si sono incamminati tra i filari. Era ormai buio. Il tunisino davanti, il siciliano alle sue spalle, diretti verso la rete che circonda il macello. In quel momento, Grassia avrebbe potuto ancora scegliere. Erano soli nel silenzio della campagna rotto dal frinire delle cicale. Vicino alla recinzione, Ismail si è fermato: «Ha estratto il coltello. Gli ho detto che cosa voleva fare e lui: Per tagliare i fili. Io pure ho avuto paura di questo coltello e gli ho detto mettilo via, se l’è rimesso in tasca». È stato l’ultimo gesto compiuto dal tunisino: «Ad un certo punto io ho sparato»¹¹.

    Grassia ha vuotato l’intero caricatore, poi si è messo a correre verso la strada, senza nemmeno accertarsi che l’uomo fosse morto. I suoi due complici l’hanno raggiunto in auto: «Quando sono arrivati, io non volevo entrare più in macchina, non volevo entrare perché avevo paura. Io dalla paura me la sono fatta anche sotto»¹².

    Era terrorizzato: aveva appena ucciso Ismail, temeva che lo condannassero alla stessa fine. Eppure, davanti ai giudici ha ripetuto fotogramma per fotogramma le sequenze di cui era stato protagonista. Aggiungendo un particolare fondamentale: «Quando sono entrato in macchina De Luca ha preso il telefono e ha detto: È partito, è partito, è partito».

    Con chi ha parlato? La risposta di Biagio Grassia pesa come un macigno nella sentenza di condanna resa definitiva dalla Cassazione: «E chi lo sapeva? Solo Mattarella lo sapeva!»¹³.

    Biagio Grassia ha raccontato la verità. La telefonata tra De Luca e Mattarella c’è stata, è certificata dai tabulati. Pochi secondi, sufficienti per comunicare l’esito della spedizione. Dopodiché Mario De Luca ha distrutto il suo cellulare e lo ha lanciato dal finestrino.

    I quattro sono stati arrestati e tutti condannati¹⁴. Il processo è servito per stabilire le responsabilità nell’omicidio di Ismail Jaouadi, ma quello che sconvolge è stata la scoperta del movente, che riguarda tutti noi consumatori: rischiamo di trovarci nel piatto prosciutto crudo diverso da quello che crediamo di aver comprato. Quando va bene, perché di qualità inferiore. È il business dei prosciutti sbollati: si sostituiscono i marchi di provenienza per modificarne il valore commerciale, ma accade anche che vengano spedite partite di merce avariata. Un affare colossale, da decine di milioni di euro ogni anno. I numeri del comparto del prosciutto, di cui i prodotti DOP come il Parma e il San Daniele rappresentano solo una parte, sono enormi. Nel 2011 in Italia sono state vendute 308.000 tonnellate di prosciutto crudo, per un valore di 2 miliardi e 258 milioni di euro e 288.000 tonnellate di cotto, per un totale di 1 miliardo e 900 milioni di euro¹⁵. Cifre che hanno attirato l’interesse della criminalità organizzata, sempre pronta a cogliere ogni opportunità d’investimento, a infiltrarsi nei settori più avanzati dell’economia legale, per guadagnare e per riciclare denaro. Le indagini successive al delitto hanno dimostrato anche strane attenzioni provenienti da Roma, telefonate in partenza da una linea intestata alla Presidenza del Consiglio, informative dei servizi segreti che parlano di mafia e riciclaggio. Tutto questo si nasconde dietro la falsificazione dei prosciutti e la morte di un macellaio tunisino.

    Ismail aveva capito che cosa stava accadendo, sapeva che la cooperativa DIMAC compiva operazioni illegali, si era reso conto che tutto ciò rendeva parecchi soldi. Ne voleva una parte per sé. È stato ucciso perché ricattava Gaspare Mattarella. L’ha detto, sin dal primo interrogatorio, la sua convivente: «Ismail mi ha raccontato di aver video ripreso all’interno del macello SUINCOM alcune operazioni di contraffazione di prosciutti, che consistevano nell’asportare il marchio autentico con apposizione di sigillo di loro proprietà […]. Non ho mai saputo dove Ismail tenesse queste videocassette che utilizzava per ricattare i proprietari di quella ditta, certamente non a casa mia»¹⁶. Ismail aveva le prove che si falsificavano i prosciutti e nell’ambiente tutti sapevano che le utilizzava per estorcere denaro ai suoi datori di lavoro. Aveva uno stipendio più alto dei suoi colleghi, arrivava a ricevere in busta paga anche 7 milioni al mese. Ma non gli bastava. Ogni volta che voleva qualcosa lo otteneva, si era fatto regalare un telefonino e un viaggio in Tunisia. Nei primi giorni di luglio si era fatto dare 7500 euro da Gaspare Mattarella senza alcuna apparente ragione¹⁷. Mattarella temeva che Ismail gli facesse perdere l’appalto alla SUINCOM, che rappresentava il più importante cliente della cooperativa DIMAC.

    Gli altri facchini, soprattutto tunisini amici di Ismail, hanno spiegato che il loro connazionale si vantava di essere pagato anche senza lavorare. Si sentiva sicuro, per questo litigava sempre, con i colleghi ma anche con i responsabili dei macelli. Ogni volta Mattarella doveva accorrere per calmarlo, promettendogli altro denaro. Dopo una lite con uno dei dirigenti della SUINCOM, erano intervenuti sia Mattarella che Mario De Luca. Ismail pretendeva 100 milioni di lire per il suo silenzio. Quella volta De Luca aveva perso la pazienza, aveva afferrato il tunisino per la giacca e gli aveva urlato in faccia: «Ti do cento», mimando

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