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Tutti i romanzi, le novelle e il teatro
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Tutti i romanzi, le novelle e il teatro

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I Malavoglia • Mastro-don Gesualdo • Sulle lagune • Una peccatrice • Storia di una capinera • Eva • Tigre reale • Eros • Il marito di Elena • Dal tuo al mio • Tutte le novelle • Tutto il teatro e gli inediti per il teatro e per il cinema

A cura di Sergio Campailla
Edizioni integrali

Questa raccolta dell’opera di Verga vuole essere uno stimolo a rileggere un grande narratore che non solo fu il principale esponente di uno stile letterario e di un’epoca che tanto hanno influito sulle generazioni successive, ma che maturò una lezione artistica e morale di insostituibile valore. Dai grandi romanzi, testimonianza di quel travaglio quotidiano e di quella lotta disperata per la sopravvivenza che sembrano sospingere i più deboli verso un destino ineluttabile, il destino dei Vinti; ai romanzi brevi che tratteggiano i caratteri di un’umanità sempre dolente negli affetti e nei sentimenti; alle novelle che seguono la vita quotidiana dei personaggi più vari «fra le scene della vita»; alle messe in scena teatrali come Cavalleria rusticana alle sceneggiature inedite per il cinema: il cammino letterario di Giovanni Verga testimonia tutta la sua originalità e modernità. Al contrario infatti dell’amico e mentore Capuana che rimase aderente al Naturalismo, egli se ne distacca per usarlo solo come metodo, non come modello, e approda a un linguaggio per il quale accetta il termine “Verismo” inteso solo come necessità di «far vedere vivi e reali i personaggi come li incontriamo nella vita». I suoi personaggi «vivi e reali», attraverso un cammino epico, dalla disperazione e rassegnazione di fronte alla sorte che li schiaccia, riescono infine a parlare anche il linguaggio della rivolta e della denuncia sociale.

Giovanni Verga

nacque nel 1840 a Catania, dove trascorse la giovinezza. Nel 1865 fu a Firenze e successivamente a Milano, dove venne a contatto con gli ambienti letterari del tardo Romanticismo. Il ritorno in Sicilia e l’incontro con la dura realtà meridionale indirizzarono dal 1875 la sua produzione più matura all’analisi oggettiva e alla resa narrativa di tale realtà. Morì a Catania nel 1922. Di Verga la Newton Compton ha pubblicato I Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, Storia di una capinera, Tutte le novelle e Tutti i romanzi, le novelle e il teatro.
LanguageItaliano
Release dateDec 16, 2013
ISBN9788854141858
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    Tutti i romanzi, le novelle e il teatro - Giovanni Verga

    387

    Prima edizione ebook: maggio 2012

    © 1992, 2011 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella Postale 6214

    ISBN 978-88-541-4185-8

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    Giovanni Verga

    Tutti i romanzi, le novelle e il teatro

    I Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, Sulle lagune, Una peccatrice,

    Storia di una capinera, Eva, Tigre reale, Eros, Il marito di Elena,

    Dal tuo al mio / Tutte le novelle

    Tutto il teatro e gli inediti per il teatro e per il cinema

    A cura di Sergio Campailla

    Edizioni integrali

    Newton Compton editori

    Gli occhi di Malpelo

    Può succedere talora che i cattivi maestri, come i cattivi padri, siano più efficaci dei buoni. La loro eredità in negativo, infatti, può essere così forte che chi è costretto a raccoglierla impara e interiorizza con un metabolismo diverso. E i maestri di Verga sono stati non cattivi, ma pessimi. Antonino Abate era suo lontano parente, fondò a Catania un istituto privato di istruzione, fu poeta in proprio: vulcanico e invasato, scrisse opere come II Venerdì santo del'49 in Catania, Il Progresso e la Morte, Napoleone il Grande, la Camerilla. Liberale, si beccò una pallottola borbonica all'addome, che divenne un oggetto di culto per i volenterosi allievi. Restando nelle maglie larghe del parentado, fu lui a mettere nelle mani di Verga i libri di un'altra autorità in materia, Domenico Castorina, il quale aveva dato prova del suo talento esordendo con un poema epico nientemeno che sulla distruzione di Cartagine e per questo, dopo il precedente di Vincenzo Bellini spedito a Napoli, fu ricompensato dal Comune di Catania con la sovvenzione di una trasferta in Alta Italia; qui concepì macigni come il Napoleone a Mosca, il Buonaparte in Egitto, I tre alla difesa di Torino e a Torino, dopo alterna ma soprattutto avversa fortuna, morì preco-cemente. L'arcaicità, gli abbagli di ortografia e di sintassi, la retorica di stampo classico, la sopraffazione continua nei confronti della lingua italiana: di tutto ciò Federico De Roberto ha fornito esempi, in una ricostruzione affettuosa quanto, a tratti, esilarante.

    Siccome sia Antonino Abate che Domenico Castorina furono salutati come geni, si vede che la Sicilia del tempo non era la Cacania di cui parlerà Robert Musil. Non si creda che siano fantasmi del passato, e basta. Il catanese Mario Rapisardi, coetaneo e concorrente letterario di Verga e suo rivale in amore, salutato anche lui come un genio, per ritardo culturale a me sembra appartenere, con i debiti adeguamenti, alla razza degli Abate e dei Castorina.

    Perché faccio questo discorso in apertura ? Perché una domanda legittima può essere: da dove viene Verga e quale cultura ha alle spalle? Agli inizi del XX secolo Giovanni Gentile ha tentato ad altro proposito di fare un bilancio storico con II tramonto della cultura siciliana e si sa quanto siano arrischiate queste classificazioni e periodizzazioni, quali malintesi si nascondano nella successione variabile di albe e di tramonti, di lumi e di oscurità. Ma mi pare certo che in Giovanni Verga si debba individuare il profilo di un capostipite e che da lui nasca la letteratura siciliana moderna e contemporanea, che occupa un posto così rilevante nella cultura nazionale. Peraltro non vanno persi alcuni segnali impliciti: i sullodati Antonino Abate e Domenico Castorina erano parenti, si erano distinti nella carriera letteraria, Castorina era andato nel Nord, e vi era morto. In altre parole, davano quello che potevano dare, e soprattutto alimentavano una leggenda, che per l'immaginario è una vena aurifera. Retorici ma generosi, avevano assolto alla funzione di modelli da imitare, anche di vita, in una Sicilia arretrata che si affacciava all'evento epocale dell'unificazione, attizzando un fuoco in giovani menti predisposte. Qui si colloca Verga, con la sua storia personale e il suo destino.

    Un problema ritornante nel dibattito è questo: perché Verga? Molti si sono trovati in quella congiuntura storica, molti in quegli anni e dopo hanno affrontato il viaggio nel Nord, ma a lui è toccato di scrivere I Malavoglia, Rosso Malpelo, La Lupa ecc. Il che è un modo per entrare nella sociologia dell'opera letteraria, con le sue necessità e i suoi condizionamenti, ma senza accontentarsene in tutto, cercando invece uno spiraglio in una zona imprevedibile, che poi è lo spazio parallelo e segreto dell'arte. Quale che sia la risposta, risulta chiaro come Verga abbia avuto, e non possa non aver avuto, un itinerario difficile, da autodidatta, con tappe incerte, con ricadute, e soprattutto con una stagione d'esordio esemplare a rovescio.

    Se qualcuno portasse in lettura un manoscritto come Amore e Patria, ma anche come I Carbonari della montagna, la reazione probabile e giustificata sarebbe quella di un sano scetticismo, come di fronte a un giovane che sta sbagliando mestiere. Invece lo sconsiderato Antonino Abate spinse il suo allievo ad andare avanti e a dare alle stampe i suoi parti letterari, ed ebbe ragione. La favola dimostra che non bisogna mai sputare sentenze e che i giochi non sono mai fatti e che, chissà, un giorno si potranno fare, a Dio piacendo. Ebbe ragione non nel senso che quei testi meritavano consenso e dignità di pubblicazione, perché anzi Amore e Patria dorme a tutt'oggi inedito, nonostante l'avidità onnivora di ricercatori acchiappafantasmi, e I Carbonari della montagna si presta come terreno fertilissimo per il critico che voglia maramaldeggiare. Ma ebbe ragione inopinatamente e a tempi lunghi, perché trasmise una scintilla: e quel fuoco che ne nacque fu in primo luogo un gran falò di carte da bruciare, un rinnegare se stesso, un ricominciare faticoso da capo, su una strada nuova, che avrebbe potuto anche risultare senza sbocchi.

    Verga parte da lontano, da una Sicilia antica e medievale dove, come commenta incuriosito e un po' snob lo straniero Lawrence, non ci sono strade per veicoli provvisti di ruote e dunque non ci sono nemmeno veicoli per percorrere le strade. L'immobilismo è condizione dell'esistenza. Il motore dell'aspirante scrittore è, con parola oggi impronunciabile, la gloria, più concretamente il successo: nei beni materiali e naturalmente con le donne. Le prime opere verghiane appaiono in questo senso imbarazzanti per trasparenza autobiografica. E il caso di Una peccatrice, pubblicata nel 1866: ne è protagonista Pietro Brusio, controfigura del giovane Verga, autore di due o tre drammi rappresentati al teatro di Siracusa e subito dimenticati e poi del Gilberto, portato in scena a Napoli, che gli vale un'immediata cooptazione da parte dell'aristocrazia sociale e intellettuale. Gli vale anche l'innamoramento di Narcisa Valderi, moglie del conte di Prato: esattamente lo scopo per cui si è dato la briga di scrivere, indirizzando opportunamente i suoi sforzi al teatro, luogo deputato di notorietà tra letteratura e vita. Verga allora non ha mai visto alcuna contessa di Prato, o simili, di cui si scalda la testa; e Narcisa più che la donna è lui. Quello che importa è che la donna sia settentrionale, e anche contessa. Siamo agli amori da balcone, secondo la definizione di uno che se n'intendeva, Brancati. Difatti Pietro Brusio va a contemplare dal marciapiede il profilo della donna che trapela da dietro la finestra, in chiaroscuro, e si inventa tutto ciò di cui ha bisogno. Già i titoli degli altri romanzi giovanili, Eva, Tigre reale, Eros, raccontano questa ossessione del femminino. La contessa di Prato, come le sue consorelle, è truccatissima, e il dramma è sbarazzarsi degli orpelli, alla lettera denudarla. Per giunta la malattia imperversa, con una concessione morbosa e per gusto kitsch.

    Lo schema sottostante si conferma in Eva: il protagonista Enrico Lanti si infiamma per una ballerina sul palcoscenico, ossia si fissa sul simbolo sessuale prescelto da una collettività eccitata. Ma anche questa volta la conquista della donna determina un logoramento e una caduta del mito amoroso; sicché, con una simmetria un po' meccanica, è la donna a sua volta a trovarsi adoratrice non corrisposta. In ogni caso, ecco la lezione che va ricavata, il delirio amoroso è inversamente proporzionale al grado di conoscenza realistica; e l'amante, per non sciupare il suo ideale e rialimentare le stanche emozioni, si risolve ad arretrare e a recuperare distanza.

    A conti fatti, c'è pochissimo eros, a dispetto delle dichiarazioni verbali, e troppa letteratura. Il protagonista si trova in una posizione sbagliata, cioè letteraria: Pietro Brusio in Una peccatrice scrive drammi teatrali. Enrico Lanti in Eva è un pittore che, per esprimere la sua infatuazione per la donna divina che si è esibita sul palcoscenico, ricorre alla penna invece che al pennello; ed è grazie a quelle pagine, pubblicate da un amico giornalista come appendice teatrale, che gli riesce di accedere ai favori delVamata. Anche il brillante e fatuo Giorgio La Fedita di Tigre reale ha, come i confratelli che lo hanno preceduto, peccati letterari: questa volta, un volume di versi da addebitarsi all'esuberanza e all'improntitudine dei vent'anni.

    La dialettica è quella tra immaginazione e realtà: costa sacrifici enormi, sul piano storico ed esistenziale, collocarsi nell'ordine del letterario; ma ancor più diffìcile è liquidare la cortina fumogena, per mirare al nòcciolo. L'opera più interessante del periodo giovanile è a mio giudizio Storia di una capinera, che diede la prima fama a Verga, anche se in una dimensione sentimentale e rosa: qui ancora la protagonista Maria si fa scrittrice, sia pure di lettere ad un'amica e perciò senza ambizioni artistiche e sociali, secondo gli stereotipi del romanzo epistolare ottocentesco. Ma è creatura ingenua e inerme, che non chiede il massimo ma il minimo. Le sue tenerezze a volte smancerose e i suoi vezzi fiorentineggianti sono quelli di una signorina romantica abituata a tenere il diario; ma nella sua gabbia scattano i simbolismi della repressione e dell'esclusione, dell'isolamento e del sogno d'evasione. Verga si pone dal punto di vista di una donna, e questo lo aiuta a controllare e convogliare i meccanismi di identificazione, a ritrovare solidarietà a un livello più profondo. Gli altri personaggi sono dei prevaricatori, Maria è una monaca costretta, una vittima della società; e Storia di una capinera esce infatti dall'intimismo per sfociare nel documento e nella denuncia sociale.

    Ed è un'altra figura femminile che traghetta Verga sui territori prima invisibili della realtà: Nedda, bozzetto rusticano del 1874, racconto di una raccoglitrice di olive votata alla miseria e alla sofferenza, segna questo spartiacque, e la fiamma del camino dinanzi a cui indugia sonnolento lo scrittore borghese nella pagina di preambolo, è il fuoco metaforico dove vanno a bruciare le chimere giovanili, le velleità di un apprendistato che a quel punto, sui trentaquattro anni, avrebbe potuto anche essere quello di una carriera già conclusa e trasformata in mestiere.

    Così non è stato; e non è agevole spiegare il passaggio da quel primo al secondo tempo della narrativa verghiana. Un tormentone della critica è stato valutare se sia intervenuta una svolta e una conversione, o se invece questa svolta sia apparente. Un interprete sofisticato come Giacomo Debenedetti ha giocato tutto il suo prestigio nel sostenere la tesi di Verga scrittore senza conversione. E sicuramente, chi pensasse a una sorta di illuminazione di uno scrittore che muore e risorge, lasciando alle spalle la zavorra del passato; chi contrapponesse la materia borghese dei romanzi fiorentini-milanesi e quella siciliana e rusticana come un'alternativa di temi e di tempi, rimarrebbe ben lontano dal concreto contraddittorio della scrittura, dalla verità complessa delle ambivalenze. Il passato non è mai una zavorra, e senza quelle tappe introduttive, quelle esperienze e quegli errori, Verga non sarebbe mai diventato una stella di prima grandezza. Il che è persino ovvio. Ma bisogna poi aggiungere che una volta scoperta la nuova strada, Verga non abbandona definitivamente la vecchia, e invece procede - come ha pittorescamente indicato Asor Rosa - «a spina di pesce». Un romanzo in ritardo come II marito di Elena porta la data del 1882, coevo ai Malavoglia; Nedda è ripresentata in coda a una raccolta quale Primavera e altri racconti; persino una raccolta compatta e innovativa come Vita dei campi si trascina un relitto quale II come, il quando e il perché. Verga non rinuncia consapevole a certi argomenti e a certi toni, ma li ripropone quando si credeva che l'autore dei Malavoglia non potesse più intrattenere alcun rapporto con essi. Al contrario, con sorprendente incoerenza o coerenza il suo impegno è di tornarvi, valorizzando un metodo, che ormai si illude di possedere.

    Il metodo è quello veristico, replica italiana al naturalismo francese dei Goncourt e dell'ammiratissimo Zola, come già prima da Sue e dal romanzo d'appendice francese provenivano in buona parte le suggestioni della produzione borghese e psicologica. E dalla Francia che arrivano le novità per gli intellettuali siciliani, almeno sino a Pirandello, che approderà a Bonn. Si discute quale sia stato l'apporto del naturalismo, se si tratti di collaborazione in positivo o di collaborazione in negativo. Ma Verga, autore non intellettualistico, ha mostrato sempre diffidenza per le formule di scuola, preferendo alla fine parlare di verità piuttosto che di verismo.

    Quali che siano le accentuazioni critiche, chiunque sente che è intervenuta una maturazione profonda, senza cui Verga non occuperebbe il posto che occupa nella letteratura italiana dell'Ottocento. La morte della madre, una crisi esistenziale a cui evidentemente era predisposto, una saturazione di se stesso e uno svuotamento che diventa per altro verso una liberazione e una catarsi: Verga, dopo aver immaginato e inseguito ciò che non conosceva, per un vizio sublimante ereditato da una cultura e da una tradizione, scopre ciò che gli sta attorno, scopre che ciò che sta davanti agli occhi è la cosa più difficile da vedere. Impersonalità e impassibilità, teorizzate con maggiore o minore problematismo, costruiscono un argine contro il dilagare dell'io e la focosità meridionale. È l'affiorare di un sommerso storico, l'agnizione della realtà degli umili, dopo e oltre Manzoni: dei pescatori, dei contadini, dei muratori, della povera gente, degli attori anonimi di un'esistenza sconfitta. E, anche, la rivelazione del Sud, una nuova carta d'identità collettiva, a ridosso del processo di unificazione politica e sulla ribalta nazionale, con una reazione di stupore pari a quella che in Europa si diffonde alla lettura di Tolstoj, di Dostoevskij, di Turgenev, che aprono le porte dell'universo russo e dei servi della gleba.

    Ciò che si ha da sempre davanti agli occhi è la cosa più difficile da vedere. Ma per riuscirvi, bisogna andarsene, entrare in una realtà diversa, istituire un raffronto, distillare il senso di colpa, sperimentare il pendolarismo fra tentazioni di tradimento e nostalgia. Verga deve uscire dall'isola, acquisire una prospettiva per capire se stesso e la sua terra. E da Milano che gli sarà possibile scrivere le pagine decisive, mentre a Catania potrà operare una verifica ai ricordi e rinnovare le motivazioni. Per la sua rappresentatività, egli inaugura il viaggio, il viaggio dello scrittore siciliano, dal Sud al Nord: un viaggio che è fuoriuscita dalla placenta e dai confini dell'isola, che è sempre emigrazione e presuppone il tempo e la corsia del ritorno. Di questo processo, sia pure per un segmento isolato, sarà 'Ntoni Malavoglia il giovane l'eroe negativo, tanto più figura portatrice di messaggio in quanto la sua coscienza infelice si formerà come peccato e inattesa emergenza.

    In questa zona ancora incerta, nel guado tra due sponde, è la funzione della novella Fantasticheria, cartone dei futuri Malavoglia, il cui rapporto con il romanzo è stato in anni recenti contestato ma che rimane documento polemico di un travaglio, annuncio di una rivoluzione in atto: ad una nobildonna corteggiata, provvista di cospicua rendita, che visita il paese da turista e da esteta, Verga trova il coraggio di argomentare l'altra verità, in un rovesciamento delle parti, con un'ambiguità che da questo istante lo lascia gelosamente reazionario sul piano privato, ma aperto e scardinante nelle pieghe più interne della sua scrittura.

    Nasce così il ciclo dei Vinti, con laboriosa gestazione, risposta alle grandi architetture francesi, in particolare alla Comédie Humaine di Balzac e ai Rougon-Macquart di Zola, ma soprattutto progetto di revisione e visione globale dell'esistenza. Influenzato dal positivismo e dalle teorie di Darwin che erano nell'aria, ma soprattutto affidandosi alla propria intuizione di artista, Verga si accinge a edificare la sua cattedrale, dalle fondamenta sino al vertice, dalla base dei pescatori Malavoglia che tentano l'avventura con un commercio di lupini, al salto di classe di un mastro arricalito, via via ai livelli alti della società, all'élite dell'aristocrazia della politica dell'arte. Verga organizza la strategia dei passaggi, dal paesino di Aci Trezza a Vizzini a Palermo a Roma a Firenze, nella composizione di un ramificato albero genealogico. Non ha il rigore scientifico di un Taine teorico della razza, dell'ambiente, del momento, ma è scrittore convinto di possedere alcune chiavi: l'economicità del reale e le leggi del determinismo, l'unità del mondo e la violenza che lo governa.

    Il progetto è palesemente troppo ambizioso e Verga arriva a scrivere soltanto i primi due romanzi della programmata pentalogia, quelli legati alla terra, alla radice, al fondamento: alla Sicilia in quanto luogo di genesi e di epifania. Rimette in piedi ciò che prima era capovolto, costruisce dal basso, racconta i suoi personaggi nella necessità degli istinti di natura. Dalle sue pagine si configura una filosofia del corpo, la relazione tra l'uomo e l'animale, lo scandalo della catena alimentare, la violenza della storia: questa filosofia, empirica ma sostanziale, del pesce grosso che mangia il pesce piccolo, tradotta in un intreccio di situazioni narrative e in un sistema linguistico e simbolico, ho cercato di ripercorrere nel mio volume Anatomie verghiane, a cui rinvio.

    Più Verga scava in basso, più risulta profondo. La parabola dei Malavoglia mette in luce che lo sforzo è quello di passare dalla condizione infida del mare a quella solida e stabile della terra; il Mastro-don Gesualdo mostra la successiva acquisizione di porzioni di terra, che il padre di Gesualdo misura infatti a gran passi, per risarcimento e difesa futura. Ma esiste un livello più basso di quello stesso dei Malavoglia, che pure costituisce lo zoccolo: ed è quello di Rosso Malpelo, dove un ragazzo vive un'esperienza eccezionale, sottoterra, in una cava di rena, emarginato ed elio fobico, terminale della gerarchia di potere e proteso alla rivolta. Basterebbe confrontare il bestiario della Capinera con quello di Rosso Malpelo, come del resto con quello della Lupa, per rendersi conto del mutamento di registro avvenuto, della soglia conoscitiva e linguistica valicata. Rosso Malpelo, analfabeta e maestro sapienziale, ha collaudato una regola, che è poi quella del suo autore: guardare e vedere. «Vedi!», dice al suo allievo, il compagno Ranocchio, davanti alla carcassa dell'asino grigio, in un esperimento a cielo aperto, mentre si precipitano dalla campagna i cani e già si nota più famelica e vincente la cagna nera, in un impressionante spettacolo darwiniano di lotta e selezione. Per questa rivelazione Malpelo, giovane vecchio, giudica che sarebbe meglio non essere mai nati; al contrario Mazzarò nella novella La Roba, vecchio che fa dimenticare di essere stato giovane, avendo risolto il problema delle risorse fondamentali vorrebbe non morire mai, mentre la terra conquistata gli ricasca addosso, si confonde col corpo in un abbraccio mortale, all'altro estremo, in una corrispondenza drammatica, che conferma l'indistruttibilità della struttura.

    Come si può desumere da questi pochi esempi, le novelle di Vita dei campi e delle Rusticane disegnano insieme ai due romanzi un campo interattivo, scaturite da una comune fonte d'ispirazione: figure di un coro, voci di un popolo, di cui Verga si fa testimone e storico, per virtù d'arte. Egli narra della sua Sicilia, ma l'isola detemporalizzata si dilata a significazioni simboliche ampie, ritaglia un mondo che è non più solo provincia, ma il Mondo. Di qui la sua statura internazionale, anche se la specificità del radicamento e l'irrepetibilità dell'impasto linguistico e del sostrato dialettale ne hanno reso difficile l'esportazione oltre i confini.

    Dopo il Mastro-don Gesualdo, che esce in volume nel 1889, si chiude la stagione aurea della narrativa verghiana. L'autore segue varie sollecitazioni, ha cercato in Per le vie di adattare i princìpi del verismo al contesto milanese, si concentra e si disperde in raccolte di novelle qua e là interessanti, ma inevitabilmente minori e destinate a rimanere nell'ombra. Il nodo da sciogliere, la prova del nove, resta la prosecuzione del ciclo dei Vinti. Resta cioè la stesura della Duchessa di Leyra, perché L'Onorevole Scipioni e L'Uomo di lusso appartengono al regno di utopia.

    Occorre a tal proposito correggere un equivoco. De Roberto afferma di aver pubblicato «quanto egli lasciò del romanzo»; e dopo aver riprodotto il primo capitolo e il frammento del secondo, ribadisce che a quel punto «la penna cadde di mano al grande artista». Ed è ciò di cui è lecito dubitare. Al grande artista la penna cadde di mano, oppure preferì strappare i fogli scritti? Dalla risposta a questo interrogativo dipende l'interpretazione del silenzio verghiano nell'ultima fase. Verga nella prefazione ai Malavoglia aveva contratto un pubblico impegno. Dopo la definitiva redazione del Mastro, la vena gli si inaridisce, ma non sino a estinguersi: nel 1891 dà alle stampe I ricordi del capitano d'Arce, nel 1894 la raccolta di Don Candeloro e C.i, nel 1902 i bozzetti della Caccia al lupo e della Caccia alla Volpe, dal 1903 al 1906 è impegnato nella duplice stesura scenica e romanzesca di Dal tuo al mio. Verga, insomma, è scrittore ancora attivo: scrittore che in cima ai suoi pensieri letterari ha La Duchessa di Leyra. Una spigolatura dall'epistolario non lascia dubbi in merito: per anni e anni, tra interruzioni e riprese, egli si dedica al terzo romanzo del ciclo. Accumula appunti e consulta materiali anche riservati come il Memorandum redatto da tal nobiluomo napoletano, o inediti al pari del Diario Lobianco; visita Palermo e frequenta le case esclusive dell'aristocrazia locale. E già questi elementi qualificano una differenza: non gli bastano più Aci Trezza o Vizzini, conosciute da sempre a meraviglia, non gli è più sufficiente Vosservazione diretta di contadini e pastori delle sue contrade. Deve invece rimettersi in viaggio, non più giovane, con l'animo dell'intellettuale che va alla ricerca di documenti umani e registra processi verbali. E questo può essere Federico De Roberto, ma non Giovanni Verga, il quale - ormai lo sappiamo — sino ad ora si era trovato attorno a sé ciò di cui aveva bisogno e si era allontanato per mettere a fuoco le immagini già impresse nella memoria.

    La Duchessa di Leyra rimane il grande incompiuto dell'opera verghiana. Vi attese però lungamente il suo autore; sicché, se ne sopravvive non più che un primo spezzone, la ragione va vista in una consapevolezza estetica, che sceglie la rinuncia, una rinuncia che culmina nell'autocensura. Verga ormai ritornava alla materia dei romanzi giovanili, ma vi ritornava con una personalità mutata, come uno che ha compiuto un intero giro di pista. Aveva qualcosa in meno nel suo bagaglio: il cerebralismo, la fervorosa sensualità, l'ubriacatura dei romanzi francesi alla Sue. In più, come ho detto, aveva, o si illudeva di avere un metodo. In una lettera del luglio 1899 al suo fedele traduttore Rod faceva un bilancio nei seguenti termini: «Se dovessi fare a voi, amico, e non pel pubblico le mie confessioni letterarie, direi soltanto questo: - che ho cercato di mettermi nella pelle dei miei personaggi, vedere le cose coi loro occhi ed esprimerle colle loro parole -, ecco tutto. Questo ho cercato di fare nei Malavoglia e questo cerco di fare nella Duchessa in altro tono, con altri colori, in diverso ambiente».

    Troppe alternative. La pelle dei personaggi: la pelle di Padron 'Ntoni e di 'Ntoni il giovane, va bene; la pelle di Rosso di Jeli di Mazzarò e di Gesualdo, va bene. Ma la pelle della duchessa? E infatti lo scrittore così continuava quella sua confessione a Rod: «E qui cade acconcio quel che disse Goncourt che le scene e le persone del popolo sono più facili a ritrarsi, perché più caratteristici e semplici - quanto complicati e tutti esprimentesi per sottintesi sono le classi elevate, massime se si deve tener conto di quella specie di maschera e di sordina che l'educazione impone alla manifestazione degli stessi sentimenti, e alla vernice quasi uniforme che gli usi, la moda, il linguaggio quasi uniforme nella stessa società tendono a rendere pressoché internazionale in una data società. E massime nel mio metodo - che Dio m'assista per questa Duchessa/». Dove è sentita come superiore difficoltà quella che nella prefazione ai Malavoglia era asserita come obiettiva diversità:

    A misura che la sfera dell'azione umana si allarga, il congegno della passione va complicandosi; i tipi si disegnano certamente meno originali, ma più curiosi, per la sottile influenza che esercita sui caratteri l'educazione, ed anche tutto quello che ci può essere di artificiale nella civiltà. Persino il linguaggio tende ad individualizzarsi, ad arricchirsi di tutte le mezze tinte dei mezzi sentimenti, di tutti gli artifìci della parola onde dar rilievo all'idea, in un'epoca che impone come regola di buon gusto un eguale formalismo per mascherare un'uniformità di sentimenti e d'idee.

    Ma anche queste difficoltà si appianano e si superano, se l'artista ha l'ispirazione, che non può nascere senza la giusta disposizione di spirito. Anche le classi elevate hanno avuto i loro cantori: Proust ha immortalato l'aristocrazia parigina, Tolstoj ha rappresentato con eguale efficacia il mondo della nobiltà e quello del popolo. Ed è appena il caso di evocare il nome di D'Annunzio, la sua predestinazione a ricoprire un ruolo, sino al divismo. Il giovane Verga si aspettava una cooptazione dall'élite sociale di cui narrava i fatui splendori; mentre lo scrittore maturo, che scopriva il realismo doloroso della vita, aveva uno sguardo di pietà per i reietti che sopportavano con dignità il carico della loro pena, ma già non dissimulava distacco e impazienza per gli esponenti parassitari dei ceti privilegiati. Nel Mastro-don Gesualdo si apre una galleria di segno tendenzialmente espressionistico, una grande ritrattistica a forti colori, a scalpellature sbalzate, che colpisce i fantasimi Trao, il marchese Limoli, la turba delle sorelle Zacco e Margarone, lo stesso sfinito duca di Leyra....

    Verga si trova in sostanza riawiluppato nei ceppi di cui aveva fatto tanta fatica a liberarsi; mentre ormai ha più gli interessi dell'ortolano che dell'uomo di lettere. Si occupa della trasposizione teatrale delle sue opere, che portano profitto, della controversia giudiziaria contro Mascagni e l'editore Sonzogno per la tutela dei diritti di Cavalleria rusticana, si occupa dei nipoti e della famiglia, lui che non ha voluto mai sposarsi. Il suo materialismo gli si avvolge attorno, proteggendolo e chiudendolo. Il silenzio di Verga, che vivrà una vecchiaia robusta sino al 1922, cronologicamente coetaneo di Freud, di Proust, di Joyce, dei nuovi maestri dell'avanguardia, ma irrimediabilmente consegnato all'Ottocento, si carica di significati inquietanti e suona come una sfiducia per i valori della letteratura, che tanto entusiasmo avevano acceso all'origine.

    SERGIO CAMPAILLA

    Cronologia della vita e delle opere di Verga

    1840. Giovanni Carmelo Verga, discendente dal ramo cadetto dei baroni di Fontanabianca, nasce a Catania in via Sant'Anna 8, il 2 settembre, da Giovanni Battista Verga Catalano e da Caterina Di Mauro Barbagallo. Il capostipite della famiglia, di piccola nobiltà terriera, originaria di Vizzini, era un de Vergas, venuto in Sicilia al tempo dei Vespri siciliani (1282), e lo stemma del casato era un fascio di verghe strette dal braccio di un guerriero, donde il soprannome Viria a detta dello stesso scrittore. Giovanni Battista ebbe sei figli: Giovanni (morto prematuro), Giovanni Carmelo (lo scrittore), Mario. Pietro. Teresa e Rosa.

    1846. Verga riceve un'educazione tradizionale privata: ha come primo maestro Francesco Carrara e poi due religiosi, don Carmelino Greco e don Carmelo Platania.

    1851. Frequenta la «scuola fantasiosa del fantasioso don Antonino Abate», scrittore mediocre di idee liberali, che influenzerà le sue opere giovanili. Nella stessa famiglia Verga esisteva tuttavia un importante precedente letterario, Domenico Castorina, lontano cugino, vanto della cultura catanese, che col romanzo Itre alla difesa di Torino aveva superato per fama i limiti dell'isola. La prima stagione narrativa del Verga risente anche di questo modello.

    1853. Tra il '53 e il '57 la sua educazione è completata dalle lezioni di latino di don Mario Tonisi e di filosofia del padre Antonino Maugcri; suo compagno è Mario Rapisardi, il futuro poeta anticarducciano e anticlericale, che gli sarà amico e nemico in altri momenti della sua vita.

    1854. La famiglia Verga, a causa di una epidemia di colera, si trasferisce nella proprietà di Tebidi che, insieme a Mangalavite e a Passanitello, sarà lo sfondo delle opere della maturità ispirate al vero.

    1856-57. È di questi anni il primo amore di Verga, Maria Passanisi, un'educanda della badia di San Sebastiano in Vizzini, dove era monaca Rosalia, zia dei giovane. De Roberto, in Storia della «Storia di una capinera», la descrive come una «bellezza pallida e bruna», il cui ricordo ispirerà allo scrittore l'opera omonima.

    1857. Tenta le prime esperienze letterarie con il romanzo Amore e Patria, il cui manoscritto reca sulla prima pagina la data del 23 dicembre 1856.

    1858. Si iscrive alla Facoltà di Legge dell'Università di Catania, ma frequenta con maggiore successo i salotti della buona società catanese.

    1859-60. Esordisce come giornalista e fonda con alcuni amici, tra cui Nicola Niceforo e Antonino Abate, il settimanale «Roma degli Italiani» ( 1860), che durerà circa tre mesi.

    1860. Segue con entusiasmo le vicende della il guerra d'indipendenza e della spedizione dei Mille, arruolandosi nella Guardia Nazionale. Ma nel '62, deluso nelle speranze liberali, si dimetterà.

    1861. Collabora ad altri giornali e fonda con Niceforo «L'Italia contemporanea».

    1862. Nel giorno dell'armistizio di Villafranca (11 luglio 1859) comincia a scrivere il suo secondo romanzo storico, I Carbonari della montagna, che verrà pubblicato presso la tipografia Galatola di Catania, tra il '61 e il '62. in quattro tomi.

    1863. Tra il 13 gennaio e il 15 marzo, in ventidue puntate, nelle appendici del periodico fiorentino «Nuova Europa», dopo due estratti nell'agosto del '62, esce il romanzo Sulle lagune, ambientato nella Venezia del 1861. Il 5 febbraio 1863 muore il padre. La tutela dei figli è affidata al fratello don Salvatore.

    1864. Dirige a Catania «L'Indipendente», poi diretto, a partire dal decimo numero, da Antonino Abate.

    1865-66. Si reca nel maggio del '65 a Firenze, capitale del Regno d'Italia. Viene introdotto nei circoli fiorentini da due scrittori siciliani di fama. Capuana, critico della «Nazione», e Rapisardi, che lo presenta a Francesco Dall'Ongaro, docente di letteratura drammatica all'Università di Firenze, patriota e dantista. In casa Dall'Ongaro conosce Giselda Fojanesi, futura moglie di Rapisardi, per la quale nutrirà una breve ma tempestosa passione negli anni dall'80 all'85. In agosto invia al Concorso drammatico governativo, promosso in Firenze dalla «Società di incoraggiamento all'arte teatrale», la commedia Inuovi Tartufi (datata, in un abbozzo autografo, 14 dicembre 1865), rimasta inedita fino al 1982. L'opera non ebbe neppure una menzione da parte degli esaminatori.

    1866. Presso l'editore Negro di Torino pubblica il romanzo Una peccatrice.

    1867. Ritorna in Sicilia, dove un'epidemia di colera lo costringe a soggiornare in una villa di campagna a Sant'Agata Li Battiati e a Trecastagni.

    1869. Dall'aprile si trasferisce a Firenze, in via dell'Alloro 11, dove, tra il giugno e il luglio, scrive la Storia di una capinera e lavora al romanzo Eva, abbozzato a Catania. In settembre compie il viaggio di ritorno con Giselda Fojanesi, poiché la giovane maestrina toscana è stata chiamata a insegnare presso l'Educandato femminile del Convitto provinciale di Catania. In questo stesso periodo scrive il testo teatrale Rose caduche (pubblicato soltanto nel giugno 1928).

    1869-70. Nell'agosto del '69 scrive il primo atto dell'Onore, che resterà incompiuto.

    1871. Il successo arriva con la pubblicazione di Storia di una capinera, presso l'editore Lampugnani (l'opera era già uscita a puntate, nel '70, sul giornale «La Ricamatrice»).

    1872. Si trasferisce a Milano, dove si lega d'amicizia con Arrigo Boito, con Giacosa e con Rovetta. Lo impegna molto il lavoro di revisione del romanzo Eva, offerto per tre anni a vari editori, e finalmente ai fratelli Treves, nella cui villa a Belgirate lo scrittore è spesso ospite.

    1873. Presso Treves esce il romanzo Eva.

    1874. Il 15 giugno nella «Rivista italiana di scienze, lettere ed arti» pubblica Nedda, bozzetto siciliano, poi raccolto in un estratto di 61 pagine dall'editore Brigola. Nel giugno l'editore Brigola pubblica il romanzo Tigre reale, scritto negli anni precedenti. Alla fine dell'anno compare Eros, che conclude i romanzi di cornice mondana e aristocratica.

    1877. Pubblica, presso Treves, la raccolta Primavera e altri racconti.

    1878. Ha inizio la relazione con la contessa milanese Paolina Greppi Lester, che si prolungherà fino al 1905. Tra il 1878 e il 1880 compone due delle sue opere più significative: la raccolta di novelle Vita dei campi e il romanzo IMalavoglia. Nelle lettere all'editore, al fratello Mario e all'avvocato Salvatore Paola Verdura (21 aprile 1878) è già abbozzato il disegno dell'intero ciclo La Marea, poi IVinti, con le note affermazioni teoriche di adesione al verismo. Il 5 dicembre muore la madre.

    1879. Su «Il Fanfulla della domenica» pubblica la novella Fantasticheria, ispirata al breve soggiorno di Paolina Greppi ad Aci Trezza, in cui abbozza il nucleo dei Malavoglia.

    1880. Nella «Rivista minima» appare la novella L'amante di Raja con lettera-prefazione all'amico Salvatore Farina, in cui Io scrittore enuncia la sua particolare interpretazione della tesi dell'impersonalità. In primavera vede la luce la raccolta di novelle Vita dei campi, comprendente Fantasticheria, Jeli il pastore, Rosso Malpelo, Cavalleria rusticana. La Lupa, L'amante di Gramigna, Guerra di Santi, Penlolaccia.

    1881. In febbraio, nelle edizioni Treves, escono IMalavoglia, con una prefazione datata 19 gennaio, nella quale Verga, tracciando l'intero disegno dei Vinti, fissa i titoli definitivi in cinque romanzi: / Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, La Duchessa di Leyra, L'Onorevole Scipioni, L'uomo di lusso. I Malavoglia ricevono critiche sfavorevoli, tranne quella di Capuana. Verga incontra a Roma Dina Castellazzi contessa di Sordevolo, che diverrà più tardi sua amante e resterà legata a lui fino alla morte.

    1882. Pubblica la novella Pane nero per l'editore Giannotta di Catania. Nel maggio si reca a Parigi col fratello Mario e vi incontra Eduard Rod, il quale tradurrà / Malavoglia col titolo Maeurs siciliennes (Scene di vita siciliana). In giugno si reca a Londra per vendere una preziosa collezione di monete (deve pagare le ipoteche sui terreni di famiglia). Lavora alle Novelle rusticane, alcune delle quali escono nella «Rassegna settimanale», nel «Fanfulla della domenica», in «Fiammetta» e nella «Rivista minima».

    1883. Presso l'editore Casanova di Torino, in gennaio, pubblica Novelle rusticane, comprendenti Il Reverendo, Cos '? il Re, Don Licciu Papa, Il Mistero, Malaria, Gli orfani, La Roba, Storia dell'asino di S. Giuseppe, Pane nero, I galantuomini, Libertà, Di là del mare. Alterna i soggiorni a Vizzini (l'ambiente delle Rusticane) con viaggi a Milano e pubblica, presso Treves, Per le vie, il cui primo titolo è Vita d'officina, una raccolta novellistica d'ambientazione milanese. In novembre torna a Catania, riallaccia la relazione con Giselda Fojanesi, e mentre comincia a lavorare al Mastro-don Gesualdo, in pochi giorni trasforma la novella Cavalleria rusticana nell'omonimo bozzetto drammatico in un atto. Il 19 dicembre Rapisardi scopre la lettera di Verga indirizzata a sua moglie Giselda datata 14, e lo sfida a un duello che non si farà.

    1884. Il 14 gennaio, al Teatro Carignano di Torino, per la Compagnia di Cesare Rossi, interpreti Flavio Andò (Turiddu), Eleonora Duse (Santuzza), Tebaldo Checchi (Alfio), va in scena con successo Cavalleria rusticana. Pubblica Drammi intimi per l'editore Sommaruga di Roma, raccolta comprendente / drammi ignoti, La Barberina di Marcantonio, Tentazione, La chiave d'oro, L'ultima visita, Bollettino sanitario.

    1885. Il 16 maggio, al Teatro Manzoni di Milano, va in scena In portineria, tratta dalla novella Il canarino del N. 15: sfavorevole l'accoglienza del pubblico e della critica.

    1886. Trascorre molti mesi a Roma e lavora all'abbozzo di un dramma tratto dalla novella / drammi ignoti. Al Valle di Roma, il primo dicembre, interpreti Flavio Andò, Eleonora Duse e Teresa Bernieri, si replica con successo In portineria. Il 29 luglio viene rappresentato a Catania, all'Arena Pacini, il poema sinfonico Cavalleria rusticana con musiche di Giuseppe Perrotta.

    1887. Soggiorna molti mesi a Roma per un affare di prestiti con le banche. Collabora a vari giornali con novelle (Nanni Volpe), e il motivo dei poveri diavoli diventa il filo conduttore della raccolta Vagabondaggio, pubblicata a Firenze per l'editore Barbèra. A fine estate torna a Vizzini.

    1888. Soggiorna tra Catania e Vizzini e segue la pubblicazione di Mastro-don Gesualdo, che appare in 11 puntate (dal primo luglio al 16 dicembre) su «La Nuova Antologia».

    1889. Completa per Treves Mastro-don Gesualdo. Inizia la relazione con Dina di Sordevolo.

    1890. Comincia l'anno a Vizzini «come uccello ferito che cerca il bosco» e lavora a I ricordi del capitano d'Arce che usciranno nel '91. Il 17 maggio, al Teatro Costanzi di Roma, ottiene un grande successo la prima dell'opera Cavalleria rusticana, su libretto di Targioni-Tozzetti e Menasci, musica di Pietro Mascagni, interpreti Gemma Bellincioni e Tito Stagno. Avvia la causa contro Mascagni e Sonzogno e attraversa un periodo di difficoltà finanziarie, mentre prepara anche un'altra raccolta. Don Candeloro e Ci per Treves.

    1891. Escono per Treves I ricordi del capitano d'Arce, che riutilizzano anche alcune novelle rielaborate dei Drammi intimi. Vince la causa contro Mascagni e Sonzogno. In ottobre si reca in Germania, a Francoforte, per mettere in scena al Lessing Theater Cavalleria rusticana, a cui fa quasi da regista, con successo.

    1894. Pubblica presso Treves Don Candeloro e Ci, una raccolta di dodici novelle. A Roma, dove si reca per brevi soggiorni, avviene il suo celebre incontro, insieme a Capuana, con Émile Zola.

    1896. Il 26 gennaio, al Teatro Gerbino di Torino, interpreti Flavio Andò e Virginia Reiter, va in scena La Lupa, accompagnata da successo e polemiche. Treves pubblica in volume unico i drammi La Lupa, In portineria, Cavallerìa rusticana.

    1897. Trascorre l'inverno a Catania, e in estate fa un lungo viaggio in Svizzera. Sul giornale «Le Grazie» appare, il primo gennaio, la novella Caccia al lupo.

    1898. Si propone di terminare entro l'anno La Duchessa di Leyra, e non si muove da Catania, tranne in agosto per recarsi a St. Moritz-Bad, a Mendrisio e a Pallanza, ospite di Giacosa.

    1901. Lavora a due bozzetti teatrali, Caccia al lupo e Caccia alla volpe, rappresentati il 22 novembre al Teatro Manzoni di Milano con la Compagnia Reiter-Pasta.

    1902. Escono in volume i due atti unici Caccia al lupo e Caccia alla volpe, tradotti in francese entro l'anno. Trascorre la villeggiatura in Svizzera, sui laghi, con Dina di Sordevolo e lavora alla stesura di Dal tuo al mio.

    1903. Il 30 novembre, al Teatro Manzoni di Milano, viene messo in scena il dramma in tre atti Dal tuo al mio.

    1905. In tre puntate, dal 16 maggio al 16 giugno, esce su «La Nuova Antologia» il roman zo Dal tuo al mio, rielaborazione del dramma omonimo.

    1906. Esce in volume, presso Treves, il romanzo Dal tuo al mio.

    1913. Cura la riduzione cinematografica di quattro suoi lavori: La Lupa, Tigre reale. Caccia al lupo, Storia di una capinera.

    1915. Si dichiara interventista e fedele ai princìpi del nazionalismo.

    1918. Sempre più stanco lavora alla Duchessa di Leyra, che brucerà nel caminetto di casa.

    1919. Scrive l'ultima novella, Una capanna e il tuo cuore, pubblicata postuma da De Roberto (12 febbraio 1922, su «L'Illustrazione italiana»). Collabora con De Roberto alla trasposizione librettistica della Lupa (per la musica di Pietro Tasca), che andrà in scena solo nel 1932, a Noto.

    1920. L'ottantesimo compleanno dello scrittore viene celebrato al Teatro Valle di Roma con un discorso di Luigi Pirandello, alla presenza di Benedetto Croce, ministro della Pubblica Istruzione. Il 3 ottobre viene nominato da Giolitti senatore del Regno, e risponde con un laconico telegramma. Rifiuta le nozze a Dina di Sordevolo, che nella lettera del 18 ottobre si mostra delusa ma rassegnata.

    1922. Nella notte tra il 24 e il 25 gennaio viene colpito da trombosi cerebrale. Muore il 27 gennaio, alle 10,20, nella casa catanese di via Sant'Anna 8, assistito dai nipoti e da De Roberto, il quale pubblicherà su «La Lettura» del primo giugno due capitoli inediti della Duchessa di Leyra. Viene sepolto nel cimitero di Catania, nel viale degli uomini illustri.

    Bibliografia

    Edizioni

    Principali raccolte: I grandi romanzi, a cura di F. CECCO e e. RICCARDI, con pref. di R. BACCHELLI, Milano, Mondadori, 1972; Tutte le novelle, a cura di e. RICCARDI, ivi 1979; Le novelle, a cura di G. TELONI, Roma, Salerno Editrice, 1980, 2 voll.; Le novelle, a cura di N. MEROLA, Milano, Garzanti, 1980, 2 voll.; Tutti i romanzi, a cura di E. GHIDETTI, Firenze, Sansoni, 1983; Opere, a cura di G. TELLINI, Milano, Mursia, 1988. Per i testi teatrali: Tutto il teatro, a cura di N. TEDESCO, Milano, Mondadori, 1980; Teatro, a cura di G. OLIVA, Milano, Garzanti, 1987.

    Tra le edizioni di singoli romanzi: Mastro-don Gesualdo, edizione critica a cura di e. RICCARDI, Milano, Fondazione Mondadori, 1979; I Malavoglia, testo critico e note a cura di M. PIERI, con un ritratto di Verga di G. BUFALINO, Milano, Tea, 1990.

    Per l'epistolario: Lettere al suo traduttore, a cura di F. CHIAPPELLI, Firenze, Le Monnier, 1954; Lettere d'amore, a cura di G. RAYA, Roma, Ciranna, 1971; Lettere a Luigi Capuana, a cura di G. RAYA, Firenze, Le Monnier, 1975 (ma ora si veda, a cura dello stesso, il Carteggio Verga-Capuana, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1984); Lettere sparse, a cura di G. FINOCCHIARO CHIMIRRI, Roma, Bulzoni, 1979; Lettere a Paolina, a cura di G. RAYA, Roma, Fermenti, 1980; Carteggio Verga-Treves, a cura di G. RAYA, Roma, Herder, 1986.

    Nell'Edizione nazionale, a cura della Fondazione Verga di Catania e pubblicata da Le Monnier di Firenze per conto del Banco di Sicilia, sono finora usciti i seguenti volumi: Vita dei campi, a cura di e. RICCARDI, 1987; Drammi intimi, a cura di G. ALFIERI, 1987; I Carbonari della montagna-Sulle lagune, a cura di R. VERDIRAME, 1988; Tigre reale, a cura di M. SPAMPINATO BERETTA, 1988; I ricordi del Capitano D'Arce, a cura di s. RAPISARDA, 1882; Tigre reale, voi. n, a cura di M. SPAMPINATO BERETTA, 1993; Don Candeloro e Ci, a cura di E. CUCINOTTA, 1995; Dal tuo al mio, a cura di B. BASILE, 1997.

    Studi

    Per la conoscenza della vastissima bibliografia critica: G. SANTANGELO, Storia della critica verghiana, Firenze, La Nuova Italia, 1954, rist. 1973; G. RAYA, Bibliografia verghiana (1840-1971), Roma, Ciranna, 1971; P. PULLEGA, Leggere Verga, Bologna, Zanichelli, 1973; Interpretazioni di Verga, a cura di R. LUPERINI, Roma, Savelli, 1975; E. GHIDETTI, Verga. Guida storico-critica, Roma, Editori Riuniti, 1979, rielaborata e aggiornata in i. GHERARDUCCIE. GHIDETTI, Guida alla lettura di Verga, Firenze, La Nuova Italia, 1994.

    Per la biografia: F. DE ROBERTO, Casa Verga, a cura di e. MUSUMARRA, Firenze, Le Monnier, 1964 (articoli e saggi pubblicati postumi negli anni 1920-25); N. CAPPELLANI, Vita di Giovanni Verga, Firenze, Le Monnier, 1940; G. CATTANEO, Giovanni Verga, Torino, Utet, 1969; G. RAYA, Vita di Giovanni Verga, Roma, Herder, 1990.

    Tra le guide alla conoscenza dell'autore e dell'opera: S. ZAPPULLA MUSCARÀ, Invito alla lettura di Verga, Milano, Mursia, 1977; e. GRECO LANZA, Incontro col Verga, Catania, Greco, 1978; G. MAZZACURATI, Verga, Napoli, Liguori, 1985; Il punto su Verga, a cura di V. MASIELLO, Roma-Bari, Laterza, 1986; V. GUARRACiNO, Guida alla lettura di Verga, Milano, Mondadori, 1986; N. MEROLA, Verga, Firenze, Giunti-Lisciani, 1993.

    Contributi critici più significativi: L. CAPUANA, Verga e D'Annunzio, a cura di M. POMILIO, Bologna, Cappelli, 1972 (interventi degli anni 1872-1898); F. CAMERONI, Interventi critici sulla letteratura italiana, a cura di G. VIAZZI, Napoli, Guida, 1974 (riunisce parte degli articoli su Verga pubblicati in vari anni del secolo scorso); E. SCARFOGLIO, Il libro di Don Chisciotte, Roma, Sommaruga, 1885, poi Milano, Mondadori, 1925; U. OJETTI, Alla scoperta dei letterati, Milano, Bocca, 1899; B. CROCE, Giovanni Verga [1903], in La letteratura della nuova Italia, m, Bari, Laterza, 1922; R. SERRA, Le lettere, Roma, Bontempelli, 1914, rist. a cura di M. BIONDI, Milano, Longanesi, 1974; F. TOZZI, Giovanni Verga e noi [1918], in Realtà di ieri e di oggi, Milano, Alpes, 1928; L. RUSSO, Giovanni Verga, Napoli, Ricciardi, 1920, nuova ed. Bari, Laterza, 1934 (ulteriore ed., con l'aggiunta del saggio La lingua di Verga, ivi 1941 e successive ristampe); L. PIRANDELLO, Verga e D'Annunzio, a cura di M. ONOFRI, Roma, Salerno Editrice, 1993 (i saggi su Verga sono del 1920 e del 1931); D.H. LAWRENCE, Phoenix, London, Heinemann, 1936 (le pagine su Verga sono del 1922); G. RAGONESE, Giovanni Verga, Roma, Maglione, 1931; A. MOMIGLIANO, Dante, Manzoni, Verga, Messina, D'Anna, 1944; M. BONTEMPELLI, Una ribellione religiosa contro la storia [1940], in Introduzioni e discorsi, Milano, Bompiani, 1964; D. GARRONE, Giovanni Verga, pref. di LUIGI RUSSO, Firenze, Vallecchi, 1941; G. DEVOTO, I «piani del racconto» in due capitoli dei «Malavoglia» [1948], in Itinerario stilistico, Firenze, Le Monnier, 1975; N. SAPEGNO, Appunti per un saggio sul Verga [1945] e A proposito del teatro del Verga [1953], in Ritratto di Manzoni ed altri saggi, Bari, Laterza, 1961; A.M. CIRESE, Verga e il mondo popolare: un procedimento stilistico nei «Malavoglia» [1955], in Intellettuali, folklore, istinto di classe, Torino, Einaudi, 1976; V. 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Verga, I Malavoglia, Roma, Newton Compton, 2007; S. CAMPAILLA, Controcodice, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 2001; G. LO CASTRO, Giovanni Verga, Catanzaro, Rubettino, 2001; M. MUSCARLELLO, Gli inganni della scienza, Napoli Liguori, 2001; s. CAMPAILLA, Eros in Sicilia, in «Saeculorum Gymnasium», gennaio-dicembre 2002; S. CAMPAILLA, Anno 2002. Domande radicali nella letteratura siciliana, Caltanissetta-Roma, 2002; Verga da vedere, a cura di F. GALLO, S. ZAPPULLA MUSCARÀ, E. ZAPPULLA, Palermo, Regione Siciliana, 2003; Giovanni Verga: scrittore fotografo, a cura di R. MUTTI, introduzione di G. BEZZOLA, Novara, De Agostini, 2004; R. LUPERINI, Verga moderno, Roma, Laterza, 2005; S. CIGLIANA, L'immaginario di Verga: saggi critici con documenti dal laboratorio verghiano, Roma Salerno, 2006; F. LEONE, La lingua dei Malavoglia rivisitata, Roma, Carocci, 2006; Il teatro verista. Atti del Congresso, Catania 24-26 novembre 2004, Catania, Fondazione Verga, 2007; Prospettive sui Malavoglia. Atti dell'Incontro di studio della Società per lo studio della modernità letteraria, Catania, 17-18 febbraio 2006, a cura di GIUSEPPE SAVOCA e ANTONIO DI SILVESTRO, Firenze, Olschki, 2007; M. G. RICCOBONO, Donne, mari, cieli: studi su Verga e Quasimodo europei, Roma, Aracne, 2008; s. IANNELLO, Le immagini e le parole dei Malavoglia, Roma, Sovera, 2008.

    Si ricordano anche gli Atti dei convegni organizzati dalla Fondazione Verga di Catania: I romanzi catanesi, 1981; I romanzi fiorentini, 1981; I Malavoglia, 2 voll., 1982; Naturalismo e verismo, 1988; Il centenario del «Mastro-don Gesualdo», 1991.

    Le Concordanze verghiane sono state curate da G.P. MARCHI, Verona, Fiorini, 1970.

    I MALAVOGLIA

    Premessa

    Una serie di testimonianze epistolari documenta la gestazione, lunga e disseminata di incertezze, attraverso cui Verga, scrittore sino a questo momento noto per romanzi erotico-borghesi e soprattutto per la Storia di una capinera, arriva a definire l'impianto dei Malavoglia. Il 21 settembre 1875 egli scrive al suo editore:

    Caro Treves,

    Vi manderò presto Un sogno per l'Illustrazione Universale e in seguito Padron 'Ntoni, il bozzetto marinaresco di cui conoscete il principio, per il Museo delle Famiglie. Avrei potuto finirlo e mandarvelo anche prima, ma vi confesso che rileggendolo mi è parso dilavato, e ho cominciato a rifarlo di sana pianta, e vorrei riuscire più semplice, breve ed efficace. Spero che sarete contento.

    Queste righe sono, a posteriori, particolarmente notevoli. Nel 1874 Verga aveva pubblicato la novella Nedda sulla «Rivista italiana», sottovalutandone lui stesso la portata. La lettera a Treves dimostra come i futuri Malavoglia nascano da un iniziale bozzetto, alla maniera di Nedda: un bozzetto questa volta di argomento non contadino ma marinaresco, e che ha per titolo Padron 'Ntoni, incentrato dunque su un personaggio unico, al maschile. Informa anzi che Treves a quella data ne conosce già il principio, il che permette di risalire a quasi un anno prima, a una lettera di accompagnamento del 18 dicembre 1874 nella quale a Treves annunciava: «Eccovi la Novella; anzi una e mezza. Vi ho mandato anche il principio della seconda perché possiate farvi un'idea del genere diverso, e vedere liberamente se fa per voi. Il seguito della seconda ve lo porterò io stesso, quando l'avrò finita, venendo fra breve a Milano».

    Se vogliamo ricavarne le conseguenze, I Malavoglia sono nella cellula iniziale una mezza novella, poi un bozzetto marinaresco. Verga è assai cauto, e la sua cautela è determinata dal fatto che si avventura in un genere diverso. Cerca di darne un'idea all'editore, ma un'idea chiara non ce l'ha nemmeno lui. È cauto e anche insoddisfatto: sentimenti che con la consueta onestà non esita a confessare all'editore, il quale avrebbe potuto diffidare di un testo letterario di cui l'autore stesso non era contento. Dalla citata lettera del settembre 1875 risulta che quel testo gli pare «dilavato» e che ha cominciato a riscrìverlo di sana pianta, che manderà «presto» Un Sogno e, «in seguito», il bozzetto. Lo scrupolo verghiano e le novità dell'impresa sono inversamente proporzionali alla possibilità di rispettare la tabella di marcia, come tanti anni dopo succederà alla Duchessa di Leyra, che non vedrà mai la luce.

    Padron 'Ntoni, comunque, è il protagonista: il rappresentante di un mondo e l'indizio di una genesi. All'origine, c'è Padron 'Ntoni. L'intento di poetica dell'autore è di essere «più semplice, breve ed efficace».

    Ed ecco una nuova lettera, questa volta all'amico Salvatore Paola Verdura, in data aprile 1878:

    Ho in mente un lavoro, che mi sembra bello e grande, una specie di fantasmagoria della lotta per la vita, che si estende dal cenciaiuolo al ministro e all'artista, e assume tutte le forme, dalla ambizione all'avidità del guadagno, e si presta a mille rappresentazioni del gran grottesco umano [...]. Il primo racconto della serie, che pubblicherò fra breve, ti spiegherà meglio il mio concetto, se ci riesco. Per adescarti dirò che i racconti saranno cinque, tutti sotto il titolo complessivo della Marea [...].

    Ciascun romanzo avrà una fisionomia speciale, resa con mezzi adatti. Il realismo, io, l'intendo così, come la schietta ed evidente manifestazione dell'osservazione coscienziosa; la sincerità dell'arte, in una parola, potrà prendere un lato della fisionomia della vita italiana moderna, a partire dalle classi infime, dove la lotta è limitata al pane quotidiano, come nel Padron 'Ntoni, e a finire nelle varie aspirazioni, nelle ideali avidità dell'uomo di lusso (un segreto), passando per le avidità basse, alle vanità del Mastro-don Gesualdo, rappresentante della vita di provincia, all'ambizione di un deputato.

    Sono trascorsi circa due anni e mezzo, e il bozzetto non solo si è sviluppato nel respiro di un romanzo, ma questi non è più pensato come episodio singolo e invece si presenta come il primo tempo di un ciclo che ne conterà cinque e che a questa data porta il titolo complessivo di Marea. La fantasia che domina Verga è evidentemente legata al mare. Questa fantasia è esattamente una «fantasmagoria della lotta per la vita», dal livello più umile al più elevato, dal Padron 'Ntoni (il cui titolo si conferma) al Mastro-don Gesualdo all' Uomo di lusso. Nel Padron 'Ntoni la lotta è limitata al pane quotidiano, quello che si invoca nella preghiera del Padre Nostro.

    Nelle sue grandi linee il ciclo si è definito nella mente di Verga, il quale lavorando al suo primo romanzo non soltanto concepisce e svolge una storia, ma si preoccupa che questa storia stia all'interno di un disegno più generale, di cui deve condividere i caratteri e la pendenza.

    Il 24 agosto 1879, sul «Fanfulla della domenica» esce Fantasticheria, a metà tra la novella d'invenzione e il documento di poetica, annuncio e anche ballon d'essai, indirizzato a una dama del bel mondo, che tra Valtro incarna il ceto di lettori a cui in gran parte il romanzo dovrà rivolgersi. Fantasticheria alterna e contrappone una visione da vicino e una visione da lontano, una visione dall'esterno e una visione dall'interno. I personaggi sono individuabili, ma non ancora nominati. Il carismatico Padron 'Ntoni, per esempio, bisognerà riconoscerlo sotto queste deludenti ma realistiche spoglie:

    Vi ricordate anche di quel vecchietto che stava al timone della nostra barca? Voi gli dovete questo tributo di riconoscenza perché egli vi ha impedito dieci volte di bagnarvi le vostre belle calze azzurre. Ora è morto laggiù all'ospedale della città, il povero diavolo, in una gran corsìa tutta bianca, fra dei lenzuoli bianchi, masticando del pane bianco, servito dalle bianche mani delle suore di carità, le quali non avevano altro difetto che di non saper capire i meschini guai che il poveretto biascicava nel suo dialetto semibarbaro.

    In ragione del suo spessore teorico, Fantasticheria esplicitamente divulga alcune immagini fondamentali che non si troveranno in seno al romanzo: V'ideale dell'ostrica attaccata allo scoglio, la religione della famiglia, infine la morale del racconto chiaramente condensata: «Un dramma che qualche volta forse vi racconterò e di cui parmi tutto il nodo debba consistere in ciò: - che allorquando uno di quei piccoli, o più debole, o più incauto, o più egoista degli altri, volle staccarsi dal gruppo per vaghezza dell'ignoto, o per brama di meglio, o per curiosità di conoscere il mondo, il mondo da pesce vorace com'è, se lo ingoiò, e i suoi prossimi con lui». Morale che dimostra che la dinamica narrativa ormai sposta l'attenzione da Padron 'Ntoni a quello che conosceremo come 'Ntoni il giovane, colui che — quale ne sia la motivazione - ha la responsabilità di staccarsi dal gruppo".

    Qualche critico ha messo in dubbio l'attendibilità della novella, con obiezioni filologiche e brillanti verifiche sui dettagli (il treno ad Aci Trezza prima della battaglia di Lissa, il 20 luglio 1866, quando morì Luca Malavoglia) e ha richiamato in crisi il rapporto tradizionale con I Malavoglia, che invece mi pare vada nella sostanza conservato. Più rilevante semmai è che Verga dichiari di aver conosciuto a uno a uno gli «attori plebei» di quel dramma e di averli incontrati insieme alla nobildonna. Esisterebbero perciò ad Aci Trezza a uno a uno i componenti di una famiglia che ha ispirato la storia dei Malavoglia, romanzo a chiave. Ad ulteriore compromissione, Fantasticheria viene ripresa in volume nella raccolta di Vita dei campi, nell'agosto 1880, presso Treves.

    Tralascio altri documenti epistolari, da cui emergono i dubbi verghiani, i ripensamenti, le fasi della riscrittura. Nel gennaio del 1881 esce in anteprima sulla «Nuova Antologia» il brano Poveri Pescatori, che riproduce l'episodio della tempesta, e infine nel febbraio per le edizioni Treves esce il romanzo, accompagnato dalla celebre prefazione, scelta da Treves, con la data Milano 19 gennaio 1881, che definisce il ciclo una volta per tutte: I Malavoglia, dove si ingaggia «la lotta pei bisogni materiali»; il Mastro-don Gesualdo, dove ormai è in gioco V«avidità di ricchezze» nel quadro di una cittadina di provincia; quindi la «vanità aristocratica» nella Duchessa di Leyra; V«ambizione» nelVOnorevole Scipioni e l'estetismo sublime nell'Uomo di lusso. Il ciclo non si chiama più della Marea, anche se a riaffermare questa natura di flusso inarrestabile stanno le espressioni «corrente» e «fiumana». Che cos'è questa Marea? E «il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l'umanità per raggiungere la conquista del progresso», cammino «grandioso nel suo risultato, visto nell'insieme, da lontano». Il Verga lo dichiara alzando i toni, come concessione allo spirito del tempo, ma non deve esserne tanto convinto. Quello che domina il quadro è la «lotta per l'esistenza», che lascia per strada cumuli di Vinti, travolti come da una massa d'acqua, mentre levano in alto le braccia, in una successione di stragi, in una

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