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Racconti dell'età del jazz
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Racconti dell'età del jazz
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Racconti dell'età del jazz

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About this ebook

Introduzione di Walter Mauro
Traduzione di Bruno Armando
Edizione integrale

Sono gli anni Venti, gli anni “dell’età del jazz”: anni di lustrini e paillettes, di feste e improvvisazioni musicali, anni vissuti a folle velocità all’insegna di un progresso inarrestabile, e culminati poi con la drammatica crisi economica del 1929. Con i suoi romanzi, primo fra tutti Il grande Gatsby, Fitzgerald fu insieme protagonista e cantore di quest’epoca, del sogno americano e della sua effimera, fragile consistenza. Pubblicata per la prima volta nel 1922, questa raccolta contiene affreschi sull’amoralità e gli eccessi che derivano dalla ricchezza (come in Il diamante grosso come l’Hotel Ritz), storie di un cristallino e toccante realismo (come Primo maggio) e fantasie narrative (come il celebre Il curioso caso di Benjamin Button, da cui è stato tratto l’omonimo film interpretato da Brad Pitt).

«Gli occhi del signor Button seguirono il dito puntato, e questo fu ciò che vide. Avvolto in una voluminosa coperta bianca, e parzialmente infilato in una culla, sedeva un vecchio di circa settant’anni.»



Francis Scott Fitzgerald

nacque a St. Paul, Minnesota, nel 1896. Iniziò a scrivere giovanissimo, fin dai tempi della scuola. Pubblicò il suo primo romanzo nel 1920. Seguirono alcune raccolte di racconti e infine Il grande Gatsby (1925), che basterebbe da solo ad assicurare allo scrittore un posto di rilievo nella narrativa americana. Dopo avere goduto di uno straordinario successo, morì quasi dimenticato a Hollywood nel 1940. Di Fitzgerald la Newton Compton ha pubblicato Il grande Gatsby, Belli e dannati, Racconti dell’età del jazz e Tenera è la notte.
LanguageItaliano
Release dateDec 16, 2013
ISBN9788854128460
Racconti dell'età del jazz
Author

Francis Scott Fitzgerald

Francis Scott Fitzgerald (Saint Paul, 1896-Hollywood, 1940) es considerado uno de los más importantes escritores estadounidenses del siglo XX y el portavoz de la generación perdida. El gran Gatsby se publicó por primera vez en 1925 y fue inmediatamente celebrada como una obra maestra por autores como T. S. Eliot, Gertrude Stein o Edith Wharton.

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    Racconti dell'età del jazz - Francis Scott Fitzgerald

    Le mie ultime maschiette

    Jelly-bean

    Questa è una storia del Sud, si svolge nella piccola Lily of Tarleton, Georgia. Sono profondamente affezionato a Tarleton, ma, non so perché, quando scrivo una storia su questa cittadina, ricevo lettere che mi attaccano senza mezzi termini. Jelly-bean, pubblicato sul «Metropolitan», ha attirato la sua bella parte di critiche feroci.

    È stata scritta in circostanze strane poco dopo la pubblicazione del mio primo romanzo; inoltre, è il primo racconto che ho scritto avvalendomi di un collaboratore. Visto che non ero capace di svolgere l’episodio dei dadi, mi sono rivolto a mia moglie, che, da ragazza del Sud, era presumibilmente un’esperta della tecnica e della terminologia di questo grande e particolare passatempo.

    I.

    Jim Powell era un Jelly-bean¹. Per quanto desideri farne un personaggio affascinante, sento che sarebbe disonesto illudervi su questo punto. Era nato Jelly-bean e sarebbe morto Jelly-bean, lo era al novantanove e tre quarti per cento ed era pigramente cresciuto per tutta la stagione dei fannulloni, che poi è ogni stagione, giù nella terra dei fannulloni molto sotto la linea Mason-Dixie.

    Ora, se date del Jelly-bean a uno di Memphis probabilmente tirerà fuori una bella corda robusta dalla tasca per impiccarvi al palo del telegrafo più vicino. Se date del Jelly-bean a uno di New Orleans probabilmente farà un ghigno e vi chiederà chi porta tua sorella al ballo del Mardi Gras. Il particolare appezzamento di terra che ha prodotto il protagonista di questa storia si trova tra quelle due città – una piccola cittadina di quarantamila abitanti che sonnecchia da quarantamila anni nella Georgia del Sud e che ogni tanto si stiracchia e borbotta qualcosa su una guerra che è avvenuta un tempo, da qualche parte, e che tutti gli altri hanno dimenticato da un bel po’.

    Jim era un Jelly-bean. Lo riscrivo perché suona bene – proprio come l’inizio di una fiaba – come se Jim fosse simpatico. In qualche modo lo ritrae con un viso rotondo e appetibile, con foglie e verdure che gli spuntano da sotto il cappello. In verità, Jim era alto, magro e curvo per le ore passate sui tavoli da biliardo; al nord, senza tante discriminazioni, l’avrebbero chiamato sfaticato. Jelly-bean è il termine diffuso in tutta la non disciolta Confederazione per indicare chi passa la vita a coniugare il verbo oziare in prima persona singolare – io ozio, ho oziato, ozierò.

    Jim era nato in una casa bianca su un angolo verde, aveva quattro colonne usurate dal tempo sul davanti e una gran quantità di intelaiature a tralicci che chiudevano allegramente un giardino fiorito bagnato dal sole. In origine gli abitanti della casa bianca avevano posseduto il terreno vicino e quello dopo e quello dopo ancora, ma questo era successo così tanto tempo prima che perfino il padre di Jim lo ricordava appena. Lui, in effetti, aveva sempre considerato la cosa di scarsa importanza tanto che quando stava morendo per un colpo di pistola partito durante una rissa si dimenticò perfino di dirlo a Jim, che aveva cinque anni e moriva di paura. La casa bianca diventò una pensione gestita da una signora di Macon dalle labbra tirate, che Jim chiamava zia Mamie e che detestava con tutta l’anima.

    Arrivò a quindici anni e andò alle superiori, aveva una massa arruffata di capelli neri ed era spaventato dalle ragazze. Odiava casa sua dove quattro donne e un uomo non smettevano di chiacchierare, estate dopo estate, di appezzamenti appartenuti un tempo alla tenuta Powell e di quali fiori sarebbero spuntati prossimamente. A volte i genitori di alcune ragazzine, ricordandosi della madre di Jim e credendo di vedere una somiglianza coi tratti materni, lo invitavano alle feste, ma le feste lo rendevano timido e lui preferiva stare seduto su un asse d’automobile nel garage di Tilly a dondolarsi o a esplorarsi la bocca con un filo di paglia. Si guadagnava la paghetta facendo dei lavoretti ed è per questo che aveva smesso di andare alle feste. Alla sua terza festicciola, la piccola Marjorie Haight aveva sussurrato, indiscretamente e facendosi sentire da tutti, che lui a volte faceva il fattorino del droghiere. Così, invece del two-step e la polka, Jim aveva imparato a lanciare i dadi facendo uscire i numeri che voleva lui e aveva ascoltato le storie salaci di lanci che erano avvenute nel circondario negli ultimi cinquant’anni.

    Arrivò a diciotto anni. La guerra scoppiò e lui si arruolò come mozzo e lucidò ottoni nell’arsenale di Charleston per un anno. Poi, tanto per cambiare, andò al nord a lucidare ottoni nell’arsenale di Brooklyn per un anno.

    Quando la guerra finì tornò a casa, aveva ventuno anni, i calzoni troppo corti e troppo stretti. Le scarpe con le fibbie lunghe e strette. La cravatta era un’allarmante cospirazione di viola e rosa meravigliosamente intrecciati, e sopra c’erano due occhi di un azzurro slavato simile a un pezzo di una buona, vecchia stoffa troppo esposta al sole.

    Nel crepuscolo di un pomeriggio di aprile quando un tenue grigiore si era diffuso per i campi di cotone e sopra la cittadina afosa, lui era una figura indistinta appoggiata a uno steccato, fischiettava e fissava l’alone della luna sopra le luci di Jackson Street. Il cervello stava ripetutamente cercando di risolvere un problema che l’aveva tenuto impegnato per un’ora. Jelly-bean era stato invitato a una festa.

    Al tempo in cui tutti i ragazzi avevano detestato le ragazze, Clark Darrow e Jim erano stati compagni di banco a scuola. Ma, mentre le aspirazioni sociali di Jim erano morte nell’aria untuosa del garage, Clark si era alternativamente innamorato e disamorato, era andato al college, aveva preso a bere, smesso e, in breve, era diventato uno dei belli del paese. Ciononostante tra Clark e Jim era rimasta un’amicizia che, sebbene saltuaria, era molto salda. Quel pomeriggio la vecchia Ford di Clark aveva rallentato di fianco a Jim, che era sul marciapiede e, così d’improvviso, Clark l’aveva invitato a una festa del circolo campestre. L’impulso che l’aveva spinto a farlo non era meno bislacco dell’impulso di Jim ad accettare. Quest’ultimo era probabilmente un’inconsapevole noia, un semi terrorizzante senso d’avventura. E adesso Jim stava meditando sulla faccenda con aria seria.

    Cominciò a canticchiare, tenendo pigramente il ritmo con il lungo piede sulla lastra di pietra del marciapiede finché non cominciò a ballonzolare a tempo con il motivetto cantato a bassa voce:

    One smile from Home in Jelly-bean town,

    Lives Jeanne, the Jelly-bean Queen.

    She loves her dice an treats’em nice;

    No dice would treat her mean².

    S’interruppe e calpestò il marciapiede con un ritmo galoppante.

    «Maledizione!», mormorò a mezza voce. Ci sarebbero stati tutti – la vecchia gente, la gente alla quale, grazie alla casa bianca, venduta da tempo e al ritratto dell’ufficiale in divisa grigia sul camino, Jim avrebbe dovuto appartenere. Ma quella gente era cresciuta assieme in una piccola cerchia chiusa che si era sempre più ristretta con l’allungarsi delle gonne delle ragazze e dei pantaloni dei ragazzi, che erano improvvisamente arrivati alle caviglie. E per quella società di nomi di battesimo e di dimenticati amoretti infantili Jim era un estraneo – un amico dei poveri bianchi. Gran parte degli uomini si degnava di conoscerlo; lui si toccava il cappello davanti a tre o quattro ragazze. Tutto lì.

    Quando il crepuscolo si fu addensato in una cornice azzurra per la luna, s’avviò verso Jackson Street, attraverso la calda e piacevolmente eccitante cittadina. I negozi stavano chiudendo e gli ultimi clienti sciamavano verso casa, quasi come sospinti dalle sognanti evoluzioni di una giostra che girava lenta. Poco più avanti, una fiera all’aperto creava un fastoso vicolo colmo di baracchini multicolori e contribuiva alla serata con una miscela di musica – una danza orientale su un organetto, una melanconica trombetta di fronte alla tenda degli orrori, un’allegra edizione di Back Home in Tennessee su una pianola.

    Jelly-bean si fermò in un negozio e comprò un colletto. Poi girellò verso il bar Soda di Sam, dove trovò le solite tre o quattro macchine di una sera d’estate parcheggiate di fronte e i negretti che correvano avanti e indietro con limonate e gelati.

    «Ciao, Jim».

    Era una voce al suo fianco – Joe Ewing seduto in un’automobile con Marylyn Wade. Nancy Lamar e un uomo sconosciuto erano sul sedile di dietro.

    Jelly-bean si toccò il cappello in fretta.

    «Ciao Ben…»; poi, dopo una pausa quasi impercettibile. «Come va?».

    Proseguì camminando piano verso il garage dove aveva una cameretta al piano di sopra. Il suo Come va? era stato rivolto a Nancy Lamar, alla quale non parlava da quindici anni.

    Nancy aveva una bocca come il ricordo di un bacio, occhi ombrosi e capelli corvini ereditati dalla madre nata a Budapest. Jim la incontrava spesso per strada mentre camminava con le mani in tasca a mo’ di maschietto e sapeva che con la sua inseparabile Sally Carrol Hopper aveva lasciato una scia di cuori infranti da Atlanta a New Orleans.

    Per un fuggevole istante Jim desiderò di saper ballare. Poi rise e quando raggiunse la porta cominciò a cantare sottovoce:

    Her Jelly Roll can twist your soul,

    Her eyes are big and brown,

    Sh’s the Queen of the Queens of the Jelly-beans…

    My Jeanne of Jelly-bean Town³.

    II.

    Alle nove e mezza, Jim e Clark s’incontrarono di fronte al bar Soda e s’avviarono verso il circolo campestre nella Ford di Clark. «Jim», chiese Clark con tono indifferente, mentre sferragliavano attraverso la notte che profumava di gelsomino, «che fai per sopravvivere?».

    Jelly-bean rifletté un momento.

    «Be’», disse infine, «ho una stanza sopra il garage di Tilly. Ogni tanto lo aiuto con le macchine nel pomeriggio e lui me la lascia gratis. A volte guido uno dei suoi taxi e tiro su un po’ di grana. Mi sto un po’ stufando di ’sta solfa però».

    «Tutto qui?»

    «Be’, quando c’è molto lavoro lo aiuto tutto il giorno – il sabato di solito – e poi ho un’entrata che di solito non racconto. Forse non te lo ricordi ma io sono il campione di dadi di questa cittadina. Ormai mi fanno tirare solo con il bicchierino perché una volta che tocco un paio di dadi, i dadi rotolano solo per me».

    Clark fece un ghigno d’apprezzamento.

    «Io non ho mai imparato a fargli fare quello che voglio ai dadi. Mi piacerebbe che tu giocassi con Nancy Lamar qualche giorno e le portassi via tutti i soldi. Gioca coi ragazzi e perde più di quanto suo padre possa permettersi di darle. Ho saputo che ha dovuto vendere un bell’anello per pagare un debito il mese scorso».

    Jelly-bean non commentò.

    «La casa bianca di Elm Street è ancora tua?».

    Jim scosse la testa.

    «Venduta. A un bel prezzo, anche se non stava più nella parte buona della città. L’avvocato mi ha detto di mettere i soldi in azioni Liberty. Ma la zia Mamie è andata fuori di testa e gli interessi se ne vanno per mantenerla alla casa di cura Great Farms».

    «Ehm!».

    «Ho un vecchio zio al nord e mi sa che posso andare da lui se divento troppo povero. Bella fattoria, ma non ci sono abbastanza negri per farla andare avanti. Mi ha chiesto di andare ad aiutarlo ma non credo mi convenga molto. Troppo isolato, porco cane…». S’interruppe d’improvviso. «Clark, volevo dirti che ti sono grato per avermi invitato, ma sarei più felice se fermassi qui la macchina così me ne torno a piedi in città».

    «Scemenze!», grugnì Clark. «Ti fa bene uscire. Non devi ballare… ti metti sulla pista e ti dimeni».

    «Ferma», esclamò Jim a disagio. «Non mi portare da nessuna ragazza per poi lasciarmi lì a ballare».

    Clark rise.

    «Perché», continuò Jim disperato, «se non giuri scendo qui e me ne ritorno gambe in spalla a Jackson Street».

    Si misero d’accordo dopo qualche discussione che Jim, al sicuro dalle donne, si sarebbe goduto lo spettacolo in un divanetto nascosto dove Clark l’avrebbe raggiunto quando non ballava.

    Così alle dieci Jelly-bean se ne stava con le gambe accavallate e le braccia conserte, cercando di sembrare a suo agio, educatamente disinteressato alle danze. In cuor suo era combattuto tra una timidezza paralizzante e un’intensa curiosità per tutto quello che accadeva attorno a lui. Vide le ragazze emergere una a una dal guardaroba, lisciarsi e ripulirsi come uccelli colorati, sorridere al di sopra delle spalle incipriate agli accompagnatori, lanciando rapide occhiate al salone per capire chi c’era e contemporaneamente per vedere la reazione alla loro entrata, e poi, sempre come uccellini, le vide volare ad accoccolarsi tra le sobrie braccia dei loro accompagnatori in attesa. Sally Carrol Hopper, bionda e dagli occhi strabici, comparve fasciata del suo amato rosa, ammiccante come una rosa appena dischiusa. Marjorie Haight, Marylyn Wade e Harriet Cary, tutte le ragazze che aveva visto bighellonare a Jackson Street a mezzogiorno, adesso, arricciate, imbrillantinate e delicatamente illuminate dalla luce che scendeva dall’alto, erano delle miracolose e bizzarre figurine di Dresda, rosa, azzurre, rosse e dorate, fresche di fabbrica e non ancora completamente asciutte.

    Era lì da mezzora, per niente contento delle allegre visite di Clark, che erano sempre accompagnate da un «Ciao bello, come butta?» e una pacca sul ginocchio. Una dozzina di maschi gli avevano parlato o si erano fermati per un momento accanto a lui, ma sapeva che erano tutti sorpresi nel vederlo lì e gli sembrò che un paio ne fossero anche risentiti. Ma alle dieci e mezza l’imbarazzo d’improvviso lo abbandonò, fu scosso da un interesse che lo lasciò senza fiato… Nancy Lamar era uscita dal guardaroba.

    Era vestita d’organza gialla, un abito con un centinaio di freschi svolazzi, con tre file di balze e un gran fiocco di dietro, tanto che emanava una luce gialla e nera come una specie di lampadario fosforescente. Jelly-bean spalancò gli occhi e gli si formò un groppo in gola. Nancy restò per un attimo sulla porta finché il suo accompagnatore non accorse. Jim lo riconobbe come lo sconosciuto che era seduto con lei nella macchina di Joe Ewing quel pomeriggio. La vide mettersi le mani sui fianchi, dire qualcosa sottovoce e ridere. Anche l’uomo rise e Jim provò un’improvvisa fitta di dolore, un nuovo strano dolore. Era passato un bagliore tra la coppia, un raggio di bellezza da quel sole che l’aveva scaldato fino a quel momento. D’improvviso Jelly-bean si sentì come un’erbaccia nell’ombra.

    Un minuto più tardi Clark gli si avvicinò, gli occhi illuminati, radioso.

    «Ciao bello», esclamò senza molto originalità. «Come butta?».

    Jim rispose che buttava come s’era aspettato.

    «Vieni con me», ordinò Clark. «Ho qualcosa per rendere la serata interessante».

    Jim lo seguì goffamente attraverso il salone su per le scale fino allo spogliatoio dove Clark tirò fuori una fiaschetta con del liquido giallo.

    «Del buon whiskey di grano stagionato».

    Arrivò del ginger ale su un vassoio. Un nettare potente come del buon whiskey di grano stagionato meritava qualcosa meglio del seltz.

    «Dì un po’», esclamò Clark senza fiato, «non è bellissima Nancy Lamar?».

    Jim annuì.

    «Troppo bella», convenne.

    «È addobbata alla grande stasera», continuò Clark. «Vedi il tipo che è con lei?»

    «Quello grosso? Coi pantaloni bianchi?»

    «Sì. Be’, è Ogden Merritt di Savannah. Il suo vecchio fa i rasoi Merritt. Quel tizio è pazzo di lei. Le è stato appresso tutto l’anno. Lei è svitata», continuò Clark, «ma mi piace. Piace a tutti. Ma fa cose pazzesche. Di solito ne esce viva ma la sua reputazione è piena di cicatrici per tutte le cose che ha fatto».

    «Ma va?», Jim gli passò il bicchiere. «Buono ’sto grano».

    «Non male. Oh, se è svitata. Tira ai dadi anche! E come le piace bere. Le ho promesso che dopo gliene do un po’».

    «È innamorata di questo… Merritt?»

    «Ma che ne so. Sembra che tutte le ragazze migliori qui intorno sposino dei tizi e se ne vadano via».

    Si versò dell’altro whiskey e con cura rimise il tappo alla bottiglia.

    «Ascolta, Jim, devo andare a ballare e ti sarei molto grato se t’infilassi la bottiglia in tasca visto che non balli. Se qualcuno mi vede che ho da bere me lo viene subito a chiedere e in un attimo sono gli altri che si divertono».

    Dunque Nancy Lamar stava per sposarsi. Il bocconcino della città stava per diventare proprietà privata di un individuo coi pantaloni bianchi – e tutto perché il padre coi pantaloni bianchi faceva dei rasoi migliori del suo vicino. Mentre scendevano le scale Jim trovò la cosa inspiegabilmente deprimente. Per la prima volta in vita sua provò una tenerezza vagamente romantica. Un’immagine di Nancy cominciò a prendere forma nella sua mente – Nancy che camminava come un maschio allegro e spensierato per la strada, ricevendo un’arancia come omaggio da un adorante fruttivendolo, che faceva mettere un intruglio su un mitico conto aperto al bar di Sam, che radunava una folla di spasimanti e che poi si allontanava in macchina per un pomeriggio di baldoria.

    Jelly-bean uscì sul portico e si piazzò in un angolo deserto e buio tra la luna sul prato e l’unica porta illuminata della sala da ballo. Lì trovò una sedia e, accendendosi una sigaretta, si lasciò trasportare dalle spensierate fantasticherie che gli erano abituali. Adesso però era una fantasticheria resa sensuale dalla notte, dal caldo sentore di madidi piumini da cipria infilati nelle ampie scollature e da mille ricchi aromi che fluivano dalla porta spalancata. La stessa musica, resa indistinta dalle alte note di una tromba, diventò calda e sfumata, un languido sottofondo allo strusciare di tante scarpe e scarpette.

    D’un tratto il quadrato di luce gialla che cadeva dalla porta fu oscurato da una figura. Una ragazza uscì dal guardaroba e restò sul portico a non più di tre metri di distanza. Jim sentì un’imprecazione soffocata porca miseria e poi lei si voltò e lo vide. Era Nancy Lamar.

    Jim balzò in piedi.

    «Come va?»

    «Ciao…», pausa, esitò e poi s’avvicinò. «Oh, sei… Jim Powell».

    Lui fece un leggero inchino, cercando di scovare una frase qualunque.

    «Tu credi», disse in fretta lei, «cioè… sai niente di gomme da masticare?»

    «Cosa?»

    «Ho della gomma sotto le scarpe. Un qualche o una qualche deficiente totale ha gettato la gomma per terra e io l’ho calpestata».

    Jim arrossì senza ragione.

    «Sai come toglierla?», chiese lei petulante. «Ho provato con un coltello. Ho provato con tutti gli stramaledetti oggetti che ho trovato in guardaroba. Ho provato con acqua e sapone, e perfino col profumo e ho rovinato il mio piumino per la cipria per cercare di toglierla».

    Jim considerò la faccenda un po’ agitato.

    «Be’… magari potrebbe andare della benzina…».

    Le parole gli erano appena uscite di bocca che lei lo afferrò per la mano e lo tirò di corsa in basso, attraverso un’aiuola fiorita e poi al galoppo verso un gruppo di macchine parcheggiate nel chiaro di luna, vicino la prima buca del campo da golf.

    «Prendi la benzina», gli ordinò lei senza fiato.

    «Cosa?»

    «Per la gomma, no? Devo toglierla, non posso ballare con la gomma sotto le scarpe».

    Jim, obbedendo, si voltò verso le macchine e cominciò a ispezionarle con l’intento di trovare il desiderato solvente. Avesse chiesto un cilindro, avrebbe fatto del suo meglio per strapparne uno.

    «Qui», disse Jim dopo qualche minuto di ricerca. «Eccone una che è facile. Hai un fazzoletto?»

    «È rimasto di sopra, bagnato. L’ho usato per acqua e sapone».

    Jim si frugò con cura nelle tasche.

    «Mi sa che non ce l’ho neanche io».

    «Accidenti! Be’, possiamo aprire il tappo e lasciare che coli per terra».

    Jim svitò il tappo; cominciò a sgocciolare.

    «Di più».

    Jim obbedì. Lo sgocciolio diventò un fiotto e formò una pozza untuosa luccicante e che rifletteva una dozzina di tremule lune.

    «Ah», sospirò contenta, «falla uscire tutta. L’unica cosa da fare è entrarci dentro coi piedi».

    Disperato, Jim girò del tutto il tappo e la pozza d’improvviso s’allargò in minuscoli rivoletti in tutte le direzioni.

    «Così va bene. È quello che ci voleva».

    Alzandosi la gonna entrò con grazia nella pozzanghera.

    «Questa la toglie, lo so», mormorò lei.

    Jim sorrise.

    «Ci sono tante altre macchine».

    Uscì delicatamente dalla pozza di benzina e cominciò a sfregare le scarpe contro il predellino. Jelly-bean non si trattenne più. Si piegò in due con una gran risata e dopo un secondo Nancy si unì a lui.

    «Sei qui con Clark Darrow, vero?», chiese mentre ritornavano verso la veranda.

    «Sì».

    «Sai dov’è adesso?»

    «A ballare, mi sa».

    «Il vigliacco. Mi ha promesso una bevuta».

    «Be’», disse Jim, «allora sei a posto. Ho qui la sua bottiglia».

    Gli fece un sorriso radioso.

    «Mi sa che hai bisogno di un po’ di ginger ale», aggiunse.

    «Non per me. Solo la bottiglia».

    «Sicura?».

    Rise sprezzante.

    «Credimi. Posso bere qualunque cosa può bere un uomo. Sediamoci».

    S’appollaiò sul bordo di un tavolo e lui s’accasciò in una sedia di vimini accanto a lei. Lei tirò via il tappo, portò la fiaschetta alle labbra e prese una lunga sorsata. Lui la guardò affascinato.

    «Ti piace?».

    Scosse la testa senza fiato.

    «No, ma mi piace come mi fa sentire. Credo che sia così quasi per tutti».

    Jim convenne.

    «A mio papà piace anche troppo. Il bere se l’è preso».

    «Gli uomini americani», disse Nancy seria, «non sanno bere».

    «Cosa?», Jim era sbigottito.

    «In effetti», continuò disinvolta, «non sanno fare niente molto bene. L’unica cosa che rimpiango della mia vita è non essere nata in Inghilterra».

    «In Inghilterra?»

    «Già. L’unico rimpianto della mia vita».

    «Ti piace là?»

    «Sì. Immensamente. Non ci sono mai stata di persona ma ho conosciuto tanti inglesi che erano qui nell’esercito. Uomini di Oxford e di Cambridge – sai, sono come da noi Sewanee e l’Università della Georgia – e naturalmente ho letto un sacco di romanzi inglesi».

    Jim era interessato, sbalordito.

    «Mai sentito di lady Diana Manner?», chiese lei eccitata.

    No, non l’aveva mai sentita nominare.

    «Be’, era come vorrei essere io. Scura, come me, capisci, e matta come un cavallo. È la ragazza che è salita con un cavallo sulla scalinata di non so quale cattedrale o chiesa e da allora tutti i romanzieri hanno fatto fare le stesse cose alle loro eroine».

    Jim annuì educatamente. Era fuori dalla sua

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