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L'Avaro
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Ebook218 pages2 hours

L'Avaro

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Cura e traduzione di Luigi Squarzina
Edizione integrale con testo francese a fronte

Questa commedia, concepita nel 1668, è indubbiamente fra le più famose di Molière. «L’Avaro, in cui il vizio distrugge ogni pietà che unisce il padre al figlio, è di una straordinaria grandezza e raggiunge un alto livello di tragicità»: anche Goethe al pari di tanti altri critici leggeva, dietro l’apparente comicità di Arpagone, il più ossessionato e ossessionante dei grandi protagonisti del teatro molieriano, il dramma di un uomo, prima vittima di se stesso e delle proprie angherie contro gli altri. Soppresso ogni sentimento umano tranne l’avarizia, odiato perfino dai propri figli, questo personaggio, ispirato all’Aulularia di Plauto, continua a essere uno dei più celebri e amati del commediografo francese.

«Ahimè, povero denaro mio, mio povero denaro, amico mio diletto, ti hanno portato via, ti hanno strappato a me! E ora che tu mi sei tolto, non ho più sostegno, più consolazione, più gioia! Per me è finita, non ho più scopo al mondo. Senza di te la vita è impossibile!»


Molière

Molière, il cui vero nome era Jean Baptiste Poquelin, nacque a Parigi nel 1622. Laureatosi in legge, abbandonò subito la professione di avvocato per il teatro. Dopo un lungo apprendistato in provincia, si conquistò la stima del pubblico e la protezione del re. Morì il 17 febbraio 1673, colto da un improvviso malore durante una replica de Il malato immaginario.
LanguageItaliano
Release dateDec 16, 2013
ISBN9788854130456
L'Avaro
Author

Molière

Molière was a French playwright, actor, and poet. Widely regarded as one of the greatest writers in the French language and universal literature, his extant works include comedies, farces, tragicomedies, comédie-ballets, and more.

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    L'Avaro - Molière

    279

    Titolo originale: : L'Avare

    Traduzione di Luigi Squarzina

    Prima edizione ebook: marzo 2011

    © 1994, 2011 Newton Compton editori

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-3045-6

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    Molière

    L’Avaro

    Cura e traduzione di Luigi Squarzina

    Edizione integrale con testo francese a fronte

    Newton Compton editori

    Introduzione

    1.

    Dal II secolo avanti Cristo al nostro XVIII secolo. Non è certo giusto ridimensionare, nella altalenante storia del teatro, un capolavoro plautino a modello di un capolavoro molieriano. Parliamo dell'Aulularia, fonte dell'Avaro. Nel nostro paese solatìo la degustazione della prima di queste due commedie sembra ormai non poter avvenire che all'aperto, in un teatro romano o greco o in una accogliente piazzetta, sia per scelta culturale intesa a ridare al testo un suo habitat sia per incentivazione turistica; mentre la penombra del palcoscenico è riservata ai chiaroscuri dell'animo di Arpagone. Già in questo si potrebbe vedere il riflesso condizionato, dicevo, di una ingiustizia storica, se la misura della giustizia la si potesse applicare alle scale di grandezza dell'arte. È la storia stessa che si è bizzarramente incaricata, per mezzo delle traversie in cui è incorsa l'eredità letteraria antica, di rendere superiore il miser all'avare proprio (e forse soltanto) in qualcosa dove Plauto, non per sua colpa, difetta, e cioè nel finale, o meglio nello scioglimento, che manca nella Aulularia così come essa è pervenuta a noi rendendola un'opera, se non monca, incompleta: non un ritratto pittorico sfigurato in modo irrimediabile dall'umidità, perché l'effigie del protagonista è ben conservata, ma piuttosto un romanzo senza l'epilogo che lo renderebbe più chiaro ma non migliore. Il finale dell'Avaro invece lo abbiamo tutto: e non dirò «purtroppo» perché vi vediamo pur sempre attuati dei procedimenti importanti della convenzione drammaturgica del tempo, ma semmai «troppa grazia». Da Pirandello in poi i finali bruschi, capovolgenti, sono entrati, con la «sorpresa» dei manifesti futuristi, nel nostro sangue di teatranti e di spettatori; non è questo però ad allontanarci dalla chiusa dell'Avaro.

    Ho parlato di «scioglimento», termine più esatto che non «finale». Nella vicenda creata da Plauto il vecchio protagonista, avido e sospettoso, pronto a dare la figlia a un proprio coetaneo pur di maritarla senza dote, scopre di essere stato derubato di una preziosa pentola piena d'oro, una inattesa eredità paterna che credeva di avere messo al sicuro (Euclione vuol dire «uno che chiude bene»); esterna il suo strazio nel grande monologo atteso dal pubblico del ii secolo avanti Cristo quanto poi, nelle tante imitazioni, dal pubblico di tutti i secoli; e può recuperare il tesoro, trafugatogli dal servo del giovane innamorato della figlia, solo a patto di aderire al giusto matrimonio. A quest'ultima situazione, andata persa, si può facilmente sopperire perché a Plauto non serve granché d'altro; Plauto non prevede, come fa Molière, la scoperta dello stato civile e patrimoniale dei giovani. È essa che nell'Avaro permette due felici matrimoni, ma non senza sottoporci a una sequela di rivelazioni ben poco godibili dopo il monologo/scena madre di Arpagone, anch'egli derubato del suo tesoro, frutto di usura, in una cassetta o scrigno, e anch'egli fermato mentre sta per dare la figlia a un anziano benestante. Rispetto a Plauto (anche rispetto al Plauto intatto) si ritarda così di molto l'applauso finale; esso è comunque anticipato dalle ovazioni che rimeritano immancabilmente gli interpreti di Arpagone per il loro monologo, come certo succedeva nell'Aulularia agli schiavi recitanti e poi agli hystriones professionisti e dopo la ripresa umanistica agli Accademici rinascimentali e ai comici dell'Arte, e come continua a succedere oggi sotto le stelle agli interpreti moderni che continuano a brancolare in cerca del ladro interpellando gli spettatori: «...Chi è stato?.. Io ne morrò...». Nel Vero amico, del 1750, il vecchio Ottavio, primo nella serie degli «avari» goldoniani, taglieggiatore dei bisognosi e restìo a dotare la figlia, si strapperà ugualmente i capelli: «Povero me! Son morto... Presto... Subito... Povero il mio scrigno... Povero il mio scrigno... Presto, aiuto...», anche se Goldoni nell'«Autore a chi legge» (scritto tempo dopo, quando ormai si era trasferito a Parigi) preferirà dirsi debitore dei buoni sentimenti di Diderot che non delle perversità molieriane. Soltanto Shakespeare ha privato della scena di strazio gli interpreti del suo Shylock, supremo degli usurai, derubato non meno degli altri dei gioielli nonché della figlia: le sue grida («I miei gioielli!... Mia figlia!... I miei gioielli!») sono riferite da due personaggi minori.

    Paradossalmente, dunque, la mancanza da cui è afflitto il testo dell'Aulularia quale noi lo possediamo è un elemento che può avvantaggiare Plauto su Molière: il finale latino, ridotto a quattro o cinque battute superstiti, ci appare scoppiettante e allegramente liquidatorio in confronto alle agnizioni a catena che aggravano il quinto atto dell'Avaro. Non neghiamo il fascino anche musicale di certi finali ritardati, prorogati, ripresi, variati prima di concluderli; sappiamo l'efficacia scenica dei «tormentoni»; ma le rivelazioni con cui Molière vuole tranquillizzarci sui buoni natali e sul cospicuo patrimonio sia di Valerio che di Mariana possono risultarci accettabili solo a patto di una stilizzazione che si risolva in una presa in giro della materia e dei personaggi e quindi in una accettazione metacomica, «in seconda fase», di tali meccanismi extra/ artistici. È solo grazie all'arte molieriana che essi non guastano l'impressione che lo spettatore ha ricavato fino a quel punto. Una impressione complessa, dovuta anche alle condizioni d'animo e pratiche in cui si trovava Molière mentre vi lavorava.

    2.

    Dal maggio 1664 al febbraio 1669. Per cinque eterni anni la vita di Molière ruota intorno a quella delle sue creazioni che gli ha cagionato le maggiori disavventure e infine gli ha maggiormente procurato fama: è il periodo che comincia con la prima presentazione del Tartuffe in una versione in tre atti a noi ignota, subito interdetto ma via via riproposto (1667) ribattezzandolo Panulphe ou L'Imposteur, forse riciclato, e sul punto di soccombere al moralismo ipocrita della «cabala dei devoti». Così la definirà Michail Bulgakov quasi trecento anni dopo dedicando al suo autore preferito una commedia e una biografia (e vedi, tratto in parte da esse, il testo/spettacolo di chi scrive, Il Tartufo ovvero vita amori autocensura e morte in scena del signor di Molière nostro contemporaneo, ed. del Teatro di Genova 1971). Goldoni, che nel 1751 scriverà un Molière in versi martelliani, nel relativo «L'Autore a chi legge» (del 1762) definirà il Tartuffo (sic) «la più bell'opera del decantato Molière» senza tralasciare di dire che «il carattere di tal impostore fu trovato in Italia, da chi presiede all'onestà dei Teatri, un po' troppo avvanzato; perciò fu sospesa la traduzione e la ^rappresentazione in italiano di tal Commedia».

    È solo grazie alla protezione di cui Luigi XIV degna l'autore, che nel 1669 si arriva alla recita della commedia nella veste definitiva in cinque atti, un trionfo mai più smentito. Ed è in questo lustro faticosissimo, mentre vengono alla luce Don Giovanni (anch'esso perseguitato) e Il Misantropo, che nasce nel settembre 1768 L'Avaro. Quello che sarà uno dei successi più sicuri di tutti i tempi viene giudicato sfavorevolmente. A noi preme sottolineare che Arpagone, il più ossessionato e ossessionante dei grandi protagonisti molieriani, viene concepito e prodotto al culmine di un periodo di lotte, di sconforto, di cadute e ricadute nella nevrosi e nella malattia (il personaggio è catarroso), e che la tragicità che quasi tutti, ad esempio Goethe, leggono in lui attraverso la comicità, il suo essere vittima di se stesso prima che delle vittime delle proprie angherie, segnala anche meglio di altre creazioni (compreso l'Alceste del Misantropo) il buco nero attorno a cui si avvitano gli astri di una galassia stupefacente per la sua capacità di attraversare lo spazio/tempo senza perdere nulla della sua luminosità gloriosa.

    Molière non pensava, credo, a bollare l'umanità nei sette peccati capitali a cui l'ortodossìa la riteneva fatalmente disposta. Certo il lussurioso Don Juan e l'accidioso Alceste si accalcano con Arpagone, eponimo dell'avarizia, negli anni tormentosi di cui abbiamo parlato. E certo quei vizi l'uomo Molière li riscontrava in sé, succube non solo del moralismo spigoloso e ambiguo che sapeva rendere ridicolo nella misantropia del suo Alceste, ma anche delle voluttà che doveva pur procurargli la giovane Armande Béjart moglie infedele, forse proprio perché infedele e per l'aura incestuosa del triangolo con la madre, Madeleine Béjart sua prima moglie. (È dell'Avaro che qui dobbiamo occuparci, ma interesserà sapere che Goldoni, teatrante ben più spinto nelle allusioni sessuali di quanto solitamente non si dica e lui stesso non ami dire di sé, fa sì che l'amico Leandro, per la storia Monsieur Chapelle, stuzzichi il suo Molière a proposito delle due Béjart: «Amico, l'occasione che cosa ti consiglia? / Sono del sangue istesso», e poi: «Dì quello che tu vuoi; la gente è persuasa / che, come sul teatro, tu fai le scene in casa.») E nel Seicento che Bruegel dà allo stampatore le vignette dei suoi Sette Peccati; nel Seicento, sessant'anni prima e nella anglicana Inghilterra, Ben Jonson aveva coniugato avidità e sensualità nel suo Volpone, cittadino della cattolica Venezia. Miser, però, come suona in modo per noi pungente il latino, l'uomo Molière non risulta che fosse, se nel 1761 gli attori della sua Compagnia, in difficoltà in quanto esclusi dalla sala del Petit Bourbon, rifiutarono le proposte vantaggiose di teatri sicuri come il Marais e il Bourgogne perché il loro «chef... joignait à un mérite et à une capacité extraordinaires une honnêteté et une manière obligeantes» ¹ . Ma la tinta tragica di cui si colora nell'incalzare degli effetti comici l'avarizia di Arpagone è la stessa sinòpia che traspare sotto quanto c'è di risibile e di fallimentare nella libidine precipitosa di Don Juan o nella mùtria di Alceste o sotto le figuracce di George Dandin cocu per la sua ambizione (la sua superbia, a voler stare fra i vizi); così come la vanità rende zimbello e sfruttato il Borghese gentiluomo o come la credulità e una famiglia turbolenta lasciano Orgone plagiatile dalla stregoneria di Tartufo e Argante cavia di medici la cui dottrina è ancora più «immaginaria» delle sue malattie.

    Tutto questo forse non è altro che il rifarsi e il trasfigurarsi di un attore geniale negato alle parti tragiche, quelle che da giovane, ma sempre, erano state l'ideale di Jean Baptiste Poquelin. Lette, viste e ascoltate così le scene di Arpagone, dalla rivalità cupa con il figlio alla insensibilità con cui è pronto a sacrificare la figlia fino al mirabolante monologo della cassetta rubata, non sono che tappe angosciose di una crisi che per non diventare insostenibile deve sciogliersi frequentemente nel comico e nel farsesco. Chiedere (plautinamente) al servo del figlio di mostrare «le altre» due mani, o imporre con trovata originale al cuoco/cocchiere di predisporre il castagnaccio fra i primi piatti di un pranzo, sono manifestazioni del titolare di un carattere alle prese con un impulso più forte di lui, tanto più esilaranti in quanto basterebbe poco a farle diventare oggettivamente dolorose, e soggettivamente già lo sono. Giovanni Macchia nel Silenzio di Molière (1975) parla di «una maschera in cui il dolore, dissimulato col riso, diventa smorfia atroce». È questa dialettica, sempre in atto, del coesistere nel cuore umano della sistole del carnefice e della diastole della vittima a imprimere alla commedia il marchio del grande teatro.

    LUIGI SQUARZINA

    Il loro «capo... univa a un merito e a una capacità straordinari una onestà e un modo di fare obbliganti».

    Nota biografica

    CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE

    Il giovedì 13 o il venerdì 14 gennaio 1622¹ nella «Maison aux Singes» o «Pavillon des Singes», rue Saint-Honoré, nacque Molière ovvero Jean- Baptiste Poquelin o Pocquelin, figlio di Jean Pocquelin o Pouguelin e di Marie Cressé o Cresé (fu battezzato il sabato 15: «Du samedi 15 janvier 1622, fut baptisé Jean, fils de Jean Pouguelin, tapissier, et de Marie Cresé, sa femme, demeurant rue Saint-Honoré...»). La famiglia era presumibilmente originaria del Beauvais (capoluogo Beauvais, una settantina di chilometri a nord di Parigi), stabilita nella capitale fin dal secolo precedente. Il nonno Jean Pocquelin (1566-1626) era commerciante, legato in seconde nozze alla figlia di un musicista, Agnès Mazuel; il padre, nato nel 1594, aveva comprato la ricca «Maison aux Singes» nel 1620 e sposato nel 1621 - «paroisse Saint-Eustache» - Marie Cressé figlia di un «marchand tapissier, bourgeois de Paris», donna per quei tempi non incolta. Acquistata la carica di «tapissier du roi» dal fratello Nicolas nel 1631, e provvisto del titolo onorifico di «écuyer», rimase vedovo nel 1632 e si risposò con la «tirannica» (?) Catherine Fleurette «fille d'un maître sellierlormier» nello stesso 1632 per rimanere nuovamente vedovo nel 1636. Morì nel 1669.

    Jean Baptiste, primo di sei figli, crebbe quindi in un ambiente di ricchi commercianti, borghesi e artigiani, molto amato (pare) dal nonno materno Louis Cressé, che avrebbe sollecitato in lui un primo interesse per il teatro. Studiò presso i gesuiti dell'aristocratico Collège de Clermont e se non ebbe Gassendi per maestro - il problema è se seguì i corsi di filosofia e se Gassendi fu a Parigi in modo che potessero incontrarsi; non si capisce però perché Grimarest avrebbe inventato una notizia di tal genere - suoi condiscepoli sarebbero stati, dopo il 1636, Bernier, Chapelle e Cyrano de Bergerac. Si avviò poi, come molti letterati di ogni tempo, per esercitare l'avvocatura: anche Le Boulanger de Chalussay conferma che era laureato in legge. Negli anni in cui si dibatteva la «querelle du Cid», cominciava la guerra contro la Spagna e gl'Imperiali (1635), nascevano Luigi XIV (1638) e Racine (1639), e Cartesio scriveva il Discours de la Méthode, il futuro Molière già frequentava probabilmente gli ambienti di un certo libertinismo erudito con gli stessi Bernier, Chapelle, Cyrano de Bergerac e l'abbé Le Vayer (figlio di La Mothe Le Vayer), meditava di tradurre o tradusse in parte Lucrezio, assisteva agli spettacoli di Scaramuccia dal quale, si dice, prese lezioni. Nel frattempo era destinato a succedere al padre nella carica di «tapissier du roi» (1637) e fu anche per questo che la famiglia cercò di allontanarlo da una attrice ventiduenne, Madeleine Béjart, «pupilla» del Duc de Modène. Ma il contatto con la famiglia Béjart, ovvero con il teatro attivo, decise altrimenti, galeotto Scaramuccia. Mentre si chiudeva l'epoca di Luigi xni e di Richelieu, Pocquelin sceglieva la scena cominciando quel tirocinio corrispondente, anche cronologicamente, all'ascesa di Luigi XIV.

    Molte sono le congetture sui primi passi di Pocquelin attore. Al principio del 1643 il padre aveva traslocato da rue Saint-Honoré nella casa «Saint-Christophe», pure di sua proprietà. Jean-Baptiste ne profittò per vendere al fratello Jean la carica di «tapissier du roi» (carica lucrativa e onorifica) ma conservando quella di «valet de chambre», e andò a vivere presso i Béjart, rue de

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