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101 cose da fare a Milano almeno una volta nella vita
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101 cose da fare a Milano almeno una volta nella vita

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Una cosa è certa su Milano: è una città che cambia sempre. È la città della moda, la città degli affari, mobile e in continua evoluzione. È come una donna altera ma accessibile, orgogliosa ma di mente aperta, gran lavoratrice, schiva eppure capricciosa, inafferrabile a volte. Ma se riuscirete a stringerla fra le braccia la scoprirete generosa e bella, pulsante di passioni segrete e nascoste, nient’affatto frenetica e ansiogena, ma viva, forte e coraggiosa. I 101 itinerari e percorsi qui presentati sono dedicati ai turisti di passaggio, perché possano sperimentare il vero volto di Milano al riparo dalle banalità, ma rappresentano anche un gustoso invito per tutti coloro che da sempre ci vivono, perché possano essere conquistati dal suo fascino segreto.

Premio Milano Donna 2010

MILANO COME NON L’AVETE MAI VISTA!

ECCO ALCUNE DELLE 101 ESPERIENZE:
Perdersi tra meandri e leggende nella cattedrale gotica più bella del mondo
Trovarsi di fronte di punto in bianco uno stormo di fenicotteri rosa
Godersi la quiete del Quadrilatero del Silenzio
Amoreggiare al Monte Stella
Contare le colonne di San Lorenzo Maggiore
Giocare al telefono senza fili in Piazza Mercanti
Capire cos’è davvero il Codice da Vinci all’Ambrosiana
Prendere parte a un’Ultima Cena molto speciale
Visitare il museo all’aperto della Milano Liberty di Porta Venezia


Micol Arianna Beltramini
nasce in Sardegna, si trasferisce a Milano qualche mese dopo, e per ventott’anni la odia. Poi veleggia verso Roma, comincia a scrivere 101 cose da fare a Milano almeno una volta nella vita e, manco a farlo apposta, si scopre innamorata della città della Madonnina. Il libro, un’insolita guida sentimentale alle esperienze più autentiche e originali da vivere a Milano, ha un grande successo, rimane per mesi tra i titoli più venduti all’ombra del Duomo e ad oggi conta ben dodici edizioni. Nel 2006 Micol ha pubblicato la raccolta di racconti Vienimi nel cuore e nel 2009 la favola-romanzo Cornflake.
LanguageItaliano
Release dateDec 1, 2010
ISBN9788854125421
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    101 cose da fare a Milano almeno una volta nella vita - Micol Arianna Beltramini

    SEDERSI DA QUALCHE PARTE E LEGGERSI QUESTO PUNTO

    Quando, come e da chi venne fondata Milano? Nessuno sa dirlo con precisione. È quasi certo che non sia stato un popolo italico, il che spiega forse il motivo per cui i milanesi vengono percepiti come alieni o strani – evviva gli eufemismi – in qualunque altra parte d’Italia. A meno che non siano stati gli Etruschi, che poi tanto italici a ben vedere non erano, e si tratta comunque della versione meno accreditata. Ma procediamo con ordine e vediamo di passare in rassegna, con un po’ di ironia, le diverse ipotesi.

    La prima leggenda, analogamente a quella di Roma, ha a che fare con un animale. Certo il contesto è un po’ meno epico e serio, come dire, un po’ più ridicolo. Correva l’anno 623 avanti Cristo, e capitan Belloveso, con la sua schiera di Galli, scendeva in Italia per sottometterci e conquistarci. Avuta facilmente la meglio su un popolo quasi interamente contadino, Belloveso si trovò in condizione di dover fondare una nuova città, ed ebbe la felice idea di interrogare gli dèi sul da farsi. Con il criptico ma indiscusso senso dell’umorismo che tanto spesso li contraddistingue, gli dèi emisero il loro verdetto: la città andava fondata nel punto in cui fosse stata rinvenuta una scrofetta coperta a metà di lana bianca. Immaginate le facce dei poveri Galli nel momento in cui il capitano diede loro l’annuncio. Con tutto ciò si misero in marcia, e gira di qua e gira di là, nella classica radura ai margini del bosco, finirono per imbattersi in quel che stavano cercando: la scrofetta semilanuta, che sempre secondo questa versione del mito suggerì a Belloveso il nome da dare alla nuova città (medio-lanum).

    La seconda leggenda è quella cui accennavamo qualche riga sopra parlando di Etruschi. Due fra i loro capitani, Medo e Olano, si aggiravano per il Nord Italia con le stesse poco pacifiche intenzioni di Belloveso; a un certo punto giunsero nella solita radura tra due fiumi, in cui non videro nessuna scrofetta ma che sembrò loro adatta a tirarci su l’accampamento; in capo a un paio di mesi si sentirono a casa e decisero di stanziarsi un po’ più seriamente. Medo si occupò delle costruzioni, Olano delle fortificazioni; diedero così vita a una città in continua espansione che battezzarono senza troppo sforzo di fantasia, facendo comunella di nomi. La terza versione è poco leggendaria, più noiosa e quindi più probabile: non fu Belloveso a fondare Milano ma gli Insubri, popolazione indoeuropea che bazzicava nel Nord Italia un migliaio di anni prima, secolo più secolo meno, e che con tutta probabilità aveva impiantato in loco un insediamento chiamato Alba, più tardi conquistata da Belloveso che fece poco più che cambiarle il nome. Nome che potrebbe avere una terza radice, anche in questo caso noiosa e plausibile: medius , in mezzo a, e lanum, pianura o acqua a seconda dell’origine, gallica o gaelica, del termine; il nome Milano indicherebbe quindi semplicemente quella benedetta radura o pianura circondata da corsi d’acqua su cui tutte le versioni, scrofetta lanuta o meno, sembrano concordare.

    Curiose anche le leggende legate al simbolo di Milano, che anche in questo caso non è unico: diverse dominazioni hanno lasciato diverse impronte, come l’aquila bicipite austriaca (Torre dell’Imperatore, Palazzo della Stampa in via Soncino), o, dicevamo, la scrofa semilanuta (Palazzo della Ragione, piazza Mercanti). Il più famoso (e più sfruttato) di tutti è però senza dubbio il biscione (Castello Sforzesco, Loggia degli Osii), presente, fra l’altro, sui simboli di Alfa Romeo, Inter e Fininvest (in questo caso l’uomo in bocca al serpente è sostituito da un fiore, oh leggiadra ironia).

    Ma cos’ha veramente in bocca il serpente? Un giovinetto? Un saraceno? E sta davvero mangiandoselo, o non sta piuttosto evitando di farlo? Le storie in proposito si sprecano e per lo più riguardano i Visconti, che pagarono fior di bardi per cantare (inventare?) le gesta della loro stirpe. Capitò così curiosamente che la paternità del biscione se la spartissero in tre: Ottone, Azzone e Uberto Visconti. Pare che il primo intorno al 1100 affrontasse in guerra il tremendissimo saraceno Voluce, che nessuno mai aveva battuto e la cui insegna guerresca era un serpente che divorava un uomo, e non dite che non vi aveva avvisati. Ovviamente Ottone ebbe la meglio su Voluce: lo ammazzò, lo spogliò delle insegne e le riportò a casa facendole proprie, solo sostituendo il fanciullo divorato con un saraceno, cioè semplicemente dipingendolo di rosso (come nel simboletto dell’Alfa Romeo).

    Azzone invece, un nome una garanzia, ancor prima di diventare signore di Milano si prese sulle spalle la guerra contro i fiorentini, e nel 1323 tornava bel bello dall’impietosissima battaglia. Narra la leggenda che a un certo punto, stremato per la lunghissima cavalcata, smontò da cavallo e si addormentò lì dov’era, togliendosi solo l’elmo. Al risveglio fece per rimetterselo e sentì come un sibilo; volse gli occhi in su e vide una biscia (ma le scritture dicono vipera) che affacciata a una fessura della visiera (doveva essere una bestia enorme!) guardava in giù con occhi cattivi. Per niente impressionato il prode Azzone restituì lo sguardo, tolse l’elmo e lo appoggiò a terra: valutata dal basso la superiorità dell’avversario la saggia biscia ritenne opportuno, per quella volta, sbisciolare via. Il condottiero immortalò l’episodio sul proprio stemma; come a dire che di fronte a lui persino i serpenti diventavano agnelli, tanto che a ficcar loro un ragazzetto in bocca per reverenza non lo divoravano nemmeno.

    La terza leggenda ha per protagonista un antenato e rispetto alle altre risale a circa mille anni prima. Il buon Ambrogio aveva da poco tirato le cuoia, e profittando della sua dipartita una bestia diabolica sul genere Loch Ness aveva preso dimora a Milano. Nonostante la grotta del mostro si trovasse fuori dalle mura cittadine più di un malcapitato era già finito tra le sue grinfie, masticato, ingollato e digerito a dovere. Diversi cavalieri, in cerca di onore e imprese gloriose, avevano invano tentato di abbattere il salamandrone; la città languiva, il commercio pure e i poveri milanesi non sapevano più dove sbattere il capo. Finché all’orizzonte non comparve l’Eroe con la E maiuscola: Uberto Visconti. Nel livore di un alba d’inverno si diresse verso la tana del mostro, giusto in tempo per vedere la Nessie brianzola catturare un fanciullo e apprestarsi a mangiarselo. In due giorni durissimi la bestia fu uccisa e il fanciullo salvato, e il nuovo vessillo fu fin troppo facile da scegliere.

    E ora che sapete qualcosa di più o di meno, a seconda dei punti di vista, sulle origini e il simbolo di questa città, preparatevi a conoscerla, corteggiarla e amarla come una donna, altera ma accessibile, orgogliosa ma di mente aperta, gran lavoratrice, severa, schiva, inafferrabile a volte ma, se riuscite a stringerla tra le braccia, gene-rosa e bellissima, viva di passioni segrete e nascoste, viva, soprattutto, che non vuol dire frenetica e ansiogena, ma viva, forte, coraggiosa e intatta. Viva.

    2.

    PERDERSI TRA MEANDRI E LEGGENDE NELLA CATTEDRALE GOTICA PIÙ BELLA DEL MONDO

    Non c’è nemmeno bisogno di spiegarvi come arrivare in piazza Duomo, da sempre il cuore di Milano, da cui parte la numerazione civica e, a raggiera, le principali direttrici stradali: passano di qui la metropolitana rossa, la gialla, dodici tram e sei autobus; davvero non rischiate di mancarla. La facciata sembra sempre meravigliosa finché non si è fatto un giro tutt’intorno; a quel punto ci si rende conto che la fronte – come accade, lo vedremo, per il novanta per cento delle chiese milanesi – è in realtà la parte meno scenografica, meno riuscita dell’edificio. Costruita su ordine di Napoleone, evidentemente disturbato dal-l’aspetto provvisorio della cattedrale, la facciata fu cominciata nel 1805 e completata nel 1813; non sorprende che tanta fretta non abbia portato gli stessi risultati del resto dell’edificio, iniziato nel 1386 e, si può tranquillamente dire, mai terminato. Il numero di aneddoti e leggende che gravitano intorno al Duomo è pressoché infinito. Vale comunque la pena soffermarsi almeno su due fattori. Il primo: fin dalle sue origini il Duomo è stato dedicato a figure femminili. Il suo vero nome, riportato in facciata, è Santa Maria Nascente. Il primo edificio ad avere qui le sue fondamenta era dedicato a una misteriosa vergine nera, da Cesare identificata con Belisama, dea madre celtica; in seguito fu riedificato e dedicato a Minerva, quindi a Santa Tecla, quindi a Santa Maria Maggiore. Questi ultimi erano in effetti due diversi edifici che si spartivano lo spazio dove oggi sorge la cattedrale. Santa Maria Maggiore, più pic-cola, era chiesa hyemalis; Santa Tecla, di precedente edificazione, era chiesa aestiva. Ognuna aveva il suo proprio battistero: Santa Tecla aveva San Giovanni alle Fonti, in cui Sant’Ambrogio aveva battezzato Sant’Agostino la notte di Pasqua del 387, e in cui si battezzavano solo i maschi; Santa Maria Maggiore aveva Santo Stefano alle Fonti, consacrato esclusivamente al battesimo delle femmine. Volontà divina o muliebre destino, fu proprio Santa Tecla a sparire con tutto il suo battistero: un incendio la rase al suolo nel 1075, lasciando in piedi solo le fondamenta (tuttora visitabili). Santa Maria Maggiore fornì invece la base per la chiesa successiva, cominciata nel 1386 per intercessione dell’arcivescovo Antonio da Saluzzo; e qui veniamo al secondo punto di cui sopra, su cui pare giusto fermarsi un momento a riflettere. Il Duomo è a tutti gli effetti la chiesa dei milanesi, da loro voluta e solo grazie a loro edificata. Fu infatti il popolo a chiederla a gran voce, e a continuare a sovvenzionarla nel corso dei secoli per mezzo di generosissime donazioni di privati. Un certo Gian Galeazzo Visconti ci mise il marmo, quei meravigliosi blocchi bianchi venati di azzurro e di rosa che dal lago Maggiore arrivavano in città navigando lungo il Ticino e il Naviglio Grande, fino a depositarsi nel laghetto di Santo Stefano, sopravvissuto, come diremo altrove, unicamente nella toponomastica.

    Proprio dalle vicende di quei blocchi nasce una delle interiezioni più usate in tutta Italia, nonché uno dei modi di dire più tipici del lombardo. Essi riportavano infatti la sigla AUF, ad usum fabricae, che serviva a esentarli, come da accordo coi Visconti, dalla tassa di trasporto e dal dazio di entrata. Detta sigla diede origine all’interiezione auf!, poi declinata in uffa!, segno d’impazienza per una lunga attesa; e al modo di dire a ufo, che indica attività svolte senza compenso o cose ottenute senza spesa. Ma diamo un po’ i numeri, come si suol dire, e rendiamoci conto delle misure di questa meraviglia di marmo, giustamente assurta a simbolo dell’intera milanesità. Il Duomo è lungo centocinquantasette metri e largo tra i sessantasei e i novantadue; l’area interna è di circa dodicimila metri quadri, per una capienza di circa quarantamila persone (metà di San Siro, e senza anelli!). Conta ben centoquarantacinque guglie, di cui la più alta raggiunge i centonove metri; e ben tremilacentocinquantanove statue, senza contare i novantasei giganti dei doccioni e le miriadi di mezze figure nelle cornici dei finestroni. Impressionati? E ancora non sapete tutto. All’interno, le immense colonne su cui poggia la volta sono cinquantadue; ben trentanove finestroni e vetrate, originali tranne quelle dell’abside, narrano storie di santi e dell’antico testamento. Non è né utile né necessario soffermarsi ulteriormente su cifre o dettagli; lasciatevi semplicemente impressionare dalla magnificenza, dallo splendore di ogni singolo dettaglio, mentre finisco di raccontarvi due o tre cose, giusto perché non vi sfuggano. La prima campata a destra, ad esempio, presenta diversi dettagli gustosi. Vi si trova la lapide che sancisce, in milanese, l’inizio dei lavori: El Principio Del Domo di Milano Fu Nel Anno 1386. Alzando gli occhi vedrete un foro attraverso cui penetra un filo di luce; tenetelo a mente, ci torneremo più tardi. Proseguite ammirando crocifissi, sarcofagi, altari; giungete nel transetto, e ammirate il capolavoro di Marco d’Agrate, nonché statua prediletta dalla sottoscritta: il San Bartolomeo Scorticato, capolavoro anatomico, massa di muscoli e tendini che porta sulle spalle, a mo’ di mantello, la propria pelle. Nel presbiterio, al culmine della volta, osservate un gran tabernacolo a croce raggiata; pare che dal 1461 vi sia contenuto uno dei chiodi della croce di Cristo, miracolosamente ritrovato dal solito Ambrogio nella bottega di un fabbro. Come nella storia di Pinocchio, il fabbro, per quanto vi battesse sopra, non riuscì a scalfirlo neanche di un millimetro. Tale chiodo è protagonista di una delle più singolari cerimonie liturgiche milanesi: a settembre, in occasione della festa dell’Esaltazione della Croce, uno strano marchingegno – una specie di cesto in lamiera rivestito di cartapesta e decorato con angeli avvolti in vaporose nubi – solleva l’arcivescovo e cinque canonici fino alla custodia del chiodo, posta a quarantacinque metri di altezza; pare che dietro all’ingegnosa macchina, detta Nivola, vi sia nientepopodimeno che Leonardo. Tramite una gradinata marmorea è possibile accedere alla bellissima Cripta; dal retrocoro, previo pagamento di un euro, allo Scurolo di San Carlo e al Tesoro del Duomo. Nel transetto sinistro, risalendo, si trova l’immenso Candelabro Trivulzio, anche detto Albero in virtù dei suoi sette bracci. Squisita opera di artista francese del XII secolo, in bronzo, alto più di cinque metri, introduce e presiede alla cappella della Madonna dell’Albero, così chiamata proprio in virtù dell’immenso candelabro. Proseguendo verso l’uscita, un’altra singolare sorpresa: i segni zodiacali lungo il pavimento, terminanti nel Capricorno, a parete. Si tratta della meridiana del Duomo, anche detta Gnomone; a mezzogiorno esatto la luce filtra attraverso il foro della prima campata a destra, fermandosi a illuminare il segno corrispondente a quel periodo dell’anno. L’ultimo Capricorno indica il solstizio d’inverno. Unico segno riportato tre volte (due a terra e una a parete), alcuni hanno voluto vedervi una raffigurazione del diavolo: considerando la quantità di raffigurazioni sataniche disseminate dentro e fuori la cattedrale non si vede perché una in più dovrebbe far differenza. Prima di uscire, in controfacciata, trovate la scala che conduce alle fondamenta di Santa Tecla e del battistero di San Giovanni alle Fonti, cui accennavamo sopra; visitateli, se vi ispirano, poi uscite all’aperto. Pensavate di aver finito? Vi aspetta tutto il perimetro della cattedrale, con le sue mille statue e prospettive da capogiro, l’intricato arabesco delle sue guglie, dei suoi contrafforti, delle sue vetrate in negativo. Vi sfido a trovare almeno queste tre chicche: la sirenetta di Andersen che si impala su uno spigolo, la statua di Primo Carnera, il ratto con la testa mozzata. Il resto del giro, vedrete, non sarà meno magico. Una sola avvertenza: ogni tanto guardate anche di fronte a voi. Sbattere il muso, circumnavigando il Duomo, è più probabile di quanto crediate.

    3.

    TOCCARE IL CIELO CON UN DITO SULLA CIMA DEL DUOMO

    Inizialmente pensavo di accorpare tutte le informazioni inerenti la cattedrale in un unico punto, ma poi mi sono resa conto che le terrazze del Duomo sono un’esperienza di tipo completamente diverso. Persino l’accesso è a sé stante; si può tranquillamente andar su senza visitare la chiesa, anche in minigonna, volendo. È l’altra anima del Duomo, in un certo senso meno sacra, in un altro, se possibile, ancora più mistica. Partiamo dalle informazioni base. L’accesso alle terrazze si trova sul lato che dà sulla Rinascente. Si può scegliere di farla a piedi o in ascensore. Non è impossibile farla a piedi, e costa un po’ meno; le scale però sono coperte, quindi non aspettatevi di veder nulla durante la salita. Disponendo di due euro in più, vi consiglio l'ascensore: tanto arrivando su troverete ben altri motivi per restare senza fiato. Certo sarebbe bello poterci arrivare su scope volanti, come in Miracolo a Milano, lo splendido, surreale film di De Sica. Passare dalla miseria di certa periferia alla meraviglia classica delle guglie della cattedrale, di notte, quando non c’è nessuno. Va detto tuttavia che le terrazze del Duomo non sono quasi mai terribilmente affollate. Soprattutto se ci si sale durante la settimana, in orari lavorativi, la prima cosa che colpisce è proprio il silenzio, l’aria di pace che vi si respira. È un effetto che il Duomo raggiunge per mezzo di diverse variabili. Anzitutto i colori; quel marmo così elegante, che non è grigio ma bianco e rosato, dalle romantiche venature azzurre, soprattutto nei punti in cui è appena stato pulito. Poi, lo spazio. Al tetto, ampio, aperto in mezzo al cielo, si accede attraverso corridoi stretti, percorribili solo da una persona alla volta, fiancheggiati dalle grandi vetrate della cattedrale. Fa impressione pensare che durante la guerra dette vetrate siano state rimosse da una popolazione affezionata e prudente; fa impressione soprattutto in retrospettiva, perché si sarebbero senz’altro schiantate visto lo scempio compiuto dai bombardamenti in galleria. Poi, appunto, il silenzio. Per uno strano effetto sonoro sul Duomo non sembra esserci rumore. È anche vero che nessuno urla: la voce vien fuori bassa, ovattata, quasi un bisbiglio. Il luogo, indubbiamente, ispira e impone un certo rispetto. Cosa che è particolarmente evidente nell’assenza totale di scritte sui muri. Eppure in giro ci sono in tutto tre guardie, non sarebbe un'impresa impossibile. Però non succede. Si procede guardandosi intorno, senza parlare. Un percorso pressoché obbligato conduce dall’ascensore al terrazzo principale. La vista a destra affaccia sulla piazza; lasciatela come chicca finale prima di scendere. Camminate sul terrazzo in pendenza; giratelo in lungo e in largo. Arrivate fino in fondo ed esplorate la parte di guglia disponibile. Saliteci, se volete; potete farlo. Poi spostatevi di nuovo al centro del tetto. Contemplate la bellezza delle guglie su cui si rifrange il sole, la Madonnina così vicina, così abbagliante. Cercate dettagli, piccole cose vostre, da portarvi dentro come souvenir. Se volete, giocate alla statua su uno dei pilastri. Guardatevi intorno: siete circondati da statue che guardano nel sole. Pare un’accolita di dei e semidei. Sembrano tutti bellissimi. Scendendo, dicevamo, andate a sbirciare la piazza dalla facciata: i famigerati e orribili piccioni sembrano formiche da quest’altezza. Non si fa caso, camminandoci sopra, a quanto sia bella anche solo la pavimentazione, regolare e simmetrica come un mosaico. Un tempo, paradossalmente, era luogo più moderno: vi si trovavano i capolinea di tutti i tram, e il palazzo di fronte, detto della Pubblicità per via dei cartelloni al neon che ne coprivano la facciata, suggeriva atmosfere londinesi, da Piccadilly Circus; «nella notte si accendono parole», chiosava poeticamente Umberto Saba. Chissà di chi fu l’idea di spegnere tutto a fine anni Novanta. Del paesaggio di allora resta la Galleria, sulla destra, e via Mercanti, su cui affaccia la bellissima Loggia. Sull’altro lato, cominciati nel 1939, si possono ammirare invece i palazzi gemelli dell’Arengario; quello di sinistra, in fase di ristrutturazione, dovrebbe ospitare entro la fine dell’anno il nuovo Museo del Novecento. A proposito di luci e modernità, di recente, in occasione di una mostra a Palazzo Reale, qualcuno ci aveva montato sopra una scritta al neon: Everything’s gonna be alright. Vien da pensare una cosa così, mentre si scende dal Duomo. Andrà tutto bene. Finché sarà in piedi, finché ci si potrà salire, andrà proprio tutto bene.

    4.

    DARSI ARIE DA DANDY IN GALLERIA

    Se Milano fosse uno scrigno la galleria Vittorio Emanuele, o più semplicemente Galleria, sarebbe tra i suoi tesori più preziosi. Situata come un’ancella alla destra di Santa Maria Nascente, meglio nota come Duomo nonostante il nome in facciata, sorprende e affascina già a partire dall’arco, magnifico invito a entrare, che lascia intravedere l’interno come una sottogonna una caviglia ben tornita. Si comincia a progettare la Galleria intorno alla metà dell’Ottocento. L’idea di base è più civettuola che funzionale: collegare il Duomo alla Scala attraverso una via porticata che funga da vetrina e da promenade, in cui passeggiare roteando il bastone e al tempo stesso andare per negozi, prendere un aperitivo, cenare dopo l’Opera. Il progetto viene affidato a Giuseppe Mengoni, architetto bolognese affascinato dalle meraviglie in ferro e vetro dell’Esposizione Universale di quegli anni; strutture leggere come ali di uccello, aperte sull’azzurro del cielo, come acquari. Si decide quindi per una struttura a croce con copertura in ferro e vetro, sul modello delle stazioni parigine costruite nello stesso periodo. In una decina d’anni l’interno è pronto; la Galleria viene inaugurata nel 1867, sotto un infausto auspicio che pochi conoscono o menzionano: la morte del Mengoni, schiantatosi cadendo dalle impalcature proprio il giorno prima dell’inaugurazione. La sua creatura è però bellissima, scintillante, già ricca di locali che arriveranno fino ai giorni nostri: tra questi il Savini, ristorante ufficiale del dopo Scala, che avrà tra i suoi frequentatori Toscanini e la Callas, Quasimodo e Marinetti; il Biffi, antica e lussuosa confetteria di Sua Maestà; e il mitico Camparino Bar Zucca, oggi Caffè Miani Zucca in Galleria, in perfetto stile liberty, irrinunciabile appuntamento per l’aperitivo domenicale. Così Milano inizia a godersi la sua Galleria, o il suo salotto buono come viene subito ribattezzata. All’incrocio tra i bracci c’è un ampio spiazzo ottagonale sormontato da una cupola, luminosissimo; le signore passano e ripassano in gran frusciar d’abiti e cappellini, ridacchiando e additando il famosissimo stemma del toro con gli attributi bene in vista. Pare che il controverso animale fosse stato messo lì apposta dal Mengoni per schernire le milanesi, un po’ frigide ai suoi occhi; e che le meneghine invece di offendersi ci avessero preso gusto, e non mancassero di toccare col piede o con la mano i gingilli dell’animale ogni volta che passavano di là. Alcune arrivarono addirittura a sedercisi sopra. I benpensanti inorridirono, e fecero sostituire le parti incriminate con una placca d’acciaio, evidentemente senza riuscire a fermare il via vai, che continua fino a oggi: si punta il tacco là dove non batte il sole e si compie un mezzo giro su se stessi, assicurandosi in tal modo il ritorno, un giorno, a Milano. Oggi MacDonald’s e Savini (ha perso un po’ dell’antico smalto ma è ancora esclusivo e caro come il fuoco) si spartiscono la ristorazione dell’ottagono con equanimità e ironia. Sempre nello spiazzo si trovano l’ingresso posteriore della Ricordi-Feltrinelli, tra i megastore più grandi d’Italia, e il negozio della Swarovski, che ogni anno a Natale allestisce proprio al centro dell’ottagono un enorme albero di cristallo. Ancora da non mancare, nel resto della Galleria, gli showroom di Prada, Vuitton e Gucci; gli argenti di Bernasconi, dal 1919; le cravatte di Cadé, dal 1926; e soprattutto, ultime due chicche, la libreria d’arte Bocca, dal 1930 in Galleria ma dall’Ottocento a Milano, nello splendido spazio che è già in sé un’opera d’arte (il pavimento è formato da centodue quadri rivestiti di cristallo, il soffitto è affrescato dai Pignatelli); e Borsalino, a Milano dal 1857, che affaccia sulla Scala un’intramontabile collezione di cappelli, in barba alle mode del momento. Passeggiate, meravigliatevi, non perdetevi nulla. State il più

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