Gli astronauti
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Book preview
Gli astronauti - Francesco Franceschini
GLI ASTRONAUTI
di Francesco Franceschini
Prima edizione: febbraio 2019
Tutti i diritti riservati 2019 ©BERTONI EDITORE
Via Giuseppe di Vittorio, 104 - 06073 Chiugiana (Perugia)
BertoniEditore
www.bertonieditore.com
info@bertonieditore.com
È vietata la riproduzione anche parziale e con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la copia fotostatica se non autorizzata
Francesco Franceschini
GLI ASTRONAUTI
Introduzione
Nel 2012, su suggerimento della mia editrice di allora, Fausta Di Falco, inaugurai un blog (sdraiatosuibinari.blogspot.com) senza sapere esattamente a cosa servisse e senza sospettare che mi avrebbe modificato un poco lo sguardo sul mondo, e iniziai a riempirlo di parole. Parole un po’ casuali, a onor del vero, storie senza nerbo, pallide avventure quotidiane; e anche il linguaggio era facile, poco pensato, poco strutturato. Poi son successe rivoluzioni e la vita mi si è capovolta, il che mi ha spinto indietro, sui sentieri della memoria: l’infanzia ma non solo, echi di tempi più recenti ogni tanto risuonano in quel che provo a raccontare. E la forma si è evoluta, si è arricchita – per quanto sono stato capace – di una robustezza che credo raggiunga almeno la decenza estetica.
A metà del 2018 ho superato le ottantamila visualizzazioni, e assieme a questo interesse non del tutto trascurabile mi sono reso conto che una buona percentuale dei post era proprio incentrata sulla scrittura della memoria – che per altro è anche il titolo del corso itinerante di narrativa che da qualche tempo io e chi lo ha pensato con me proponiamo ai cultori del passato.
Da lì al passo successivo – questo libro – l’evoluzione è stata naturale. Ho fatto perciò una scelta degli articoli che meglio hanno dato nobiltà ai miei ricordi e li ho divisi in quattro capitoli, in ordine vagamente cronologico: L’infanzia, I viaggi, Narni, Adesso.
Noterete, leggendoli in sequenza, come io torni spesso indietro, sui miei passi, per precisare, puntualizzare, o solo per quel vezzo tipico degli scrittori che non amano le cose eccessivamente lineari.
La piccola ambizione che ho è che il lettore che mi conosce possa commuoversi a ricordare volti, voci, gesti, situazioni, che sono antichi e che un tempo furono condivisi. E chi non mi conosce, possa far sue le mie memorie, e godersele teneramente, perché in fondo quello che abbiamo vissuto in tanti – pur lontani negli anni e nelle città – è un patrimonio condiviso che è bello trarre in salvo dalla distrazione del tempo.
Personaggi e interpreti:
Susi, mia figlia
Rita, mia madre
Pietro, mio padre
Sara, mia sorella
Gastone, fratello di Pietro
Clara, madre di Pietro e Gastone
Gino e Gina, genitori di Rita
Mara, Bruna ed Enrico, fratelli di Gina
Elio, marito di Mara
Mauro, figlio di Mara ed Elio
Silena, moglie di Enrico
Vanio, figlio di Silena ed Enrico
Edda, sorella di Rita
Giulio, marito di Edda
Benedetto, padre di Giulio
Annalita e Giuseppina, figlie di Edda e Giulio
Paolo e Luca, gli amici più antichi
E poi ce ne sono degli altri, che spero vi divertirete a scovare.
L’INFANZIA
Sulla Luna non ci sono mai stato
Oppure ci manca la commozione di un rito collettivo: per divincolarci da questa stanchezza, dico. Intorpiditi, come al risveglio pomeridiano dopo un pranzo esagerato, avremmo bisogno di un evento, un'eccitazione, un'attesa, che accomuni. Meglio se di notte, perché stare svegli tutti assieme è un fremito; meglio se d'estate, perché è già successo. Una cosa come quella volta lì: 20 luglio '69 - anno graficamente osceno e paradossalmente democristiano, cui diede una bella spallata - prima di piazza Fontana - l'equivoca informazione di Tito Stagno - Ha toccato! - in riferimento al pelo lunare. Bei tempi. E tempi che cavalcano il mio primo ricordo, lo sverginamento della memoria. Due anni e mezzo, contavo: praticamente un vecchio. Della frontiera violata di notte non ho racconti: dormivo senza presagi. Ma del mattino successivo - caldo, appiccicato - sì. Narni si accorse cambiata, come il resto del mondo. Negli sguardi delle persone potevi leggere una contentezza brilla, lo stupore come per un'avvenuta guarigione. Gli stessi cenni emotivi che rividi tredici anni dopo, ancora di luglio, per la Germania schiantata da una nazionale di feroci uomini medi. Ma lì ero meno innocente, già meno indifeso. Ecco invece la foto dell'infanzia: Il Messaggero retto in mano a scorno del vento; una posa, due, mille, ché Gastone non era mai soddisfatto.
E io che non capivo l'enormità del gioco, l'aggettivo memorabile che saltava di bocca in bocca, la frase Niente sarà più come prima. E il mare di papaveri e spini lunghi - dove ora c'è un parcheggio, sopra il circolo del tennis - che attraversai incurante delle serpi. E il ronzio delle cicale, mentre scendevamo ancora, e il caldo furente, verso mezzogiorno, fino al campo sportivo di terra battuta.
Il cancello si apriva con una spinta, il campionato ricominciava a ottobre, non c'erano idranti perché non c'era erba da far crescere. Nessun guardiano. Ancora Gastone che faceva Fellini, che faceva Kubrick. Girava, montava; la sera a casa sceneggiava e la mattina ricominciava. Quel giorno era contento, giuro che mi ricordo pure questo, scherzava: anche da bambino percepivo le emozioni mute della gente.
Era riuscito a entrare in quel rito collettivo che dicevo, aveva beccato l'epoca giusta. E sarà per questo - allora - che adesso siamo così orfani di emozioni insieme e così ostinati al vivere pratico, o rinunciatari, talora. Perché non siamo mai stati sulla luna.
Quaranta notti
La memoria di un narratore deve essere inquirente, per funzionare. Io nella testa ho Scotland Yard, e non c'è di che vantarsi - ma tant'è - per via che mi costringe ogni giorno a setacciare il passato alla ricerca di indizi - un brillìo di stagione, un evento gentile, una dolcezza da chi non credevo capace - che non ho ancora raccontato. Ecco per cui che alla luce opaca di novembre, che mi piove in casa come viaggiasse dall'Irlanda brumosa, apparecchio i ricordi e scovo quelli che sono ancora muti. C'è un perverso gusto, a farlo, e una mite presunzione. Tutte e due le emozioni riguardano me, non pretendo che le condividiate. Del resto, non sta in nessun vangelo che si debba scrivere ciò che la gente ha piacere a leggere: i cattivi narratori lo fanno. I buoni, incorrotti, hanno un ristorante - per restare nella metafora ghiotta - dove le pietanze il cliente non le sceglie: gli sono imposte. Salvo poi accorgersi - una volta morsicate - che non sono male. Prendo allora il mio taccuino blu e la matita comprata a Recanati e mi appunto quel che è più urgente, quel che non ha ancora avuto pace. Pace, sì, perché quando li scrivi rispettosamente i ricordi s'acquietano, e tu puoi passare ad altre smanie, altri sospiri. Oggi, come quarant'anni or sono, conto e contai quaranta notti a Natale. Non ha senso dire giorni: l'avvento si sgrana di ore notturne, come un rosario buio. È di notte che la stringa della cometa immaginata s'infiammava, come se Dio avesse sfregato un prospero su un pianeta scabro; che le fiamme del camino di via della Pigna proiettavano la mia ombra sul muro, e la trasformavano - sulla parete dietro la Necchi di Clara e di sua madre - in teste di folletti allungate; che Rita - quando pioveva l'universo, e fischiava - veniva a dirmi Ohi, stai ancora leggendo? È tardi
- ma amorevolmente, perché sapeva che il vecchio Scrooge per manifestarsi aveva bisogno di quella scena: una candela di sego, coperte buttate sulle gambe e spiriti lamentosi su per il comignolo. Poi - che c'entra? - tante volte ho raccontato quella assenza di morte che era il 25 dicembre dei miei pochi anni, e i giorni intorno. Ma è un discorso di particolari, di dettagli. Ogni tanto ne riaffiora uno che è ancora - appunto - muto, e se non mi sbrigo a farlo parlare scappa. Oggi tocca a un ripostiglio: ecco, la minuzia memore è lui, ci sono arrivato. Se vedeste la casa di Narni - e non è escluso che un giorno vi ci porti - capireste perché quella piccola cantina mi apra in cuore una tenerezza invincibile. Quand'ero ragazzino sapeva di vino sbrodolato per terra, sull'impiantito.
Gino ci impalcava l'albero davanti, in modo che fino all'undici gennaio - smontavamo tutto solo il giorno dopo la mia festa - quel bugigattolo era bloccato. Un guaio per i beoni; un sollievo per gli astemi: la gran parte di noi. Gino faceva l'albero e il presepio sul pianerottolo - dopo le quindici scale a salire, dalla Flaminia, e prima delle ultime tre a entrare in casa - e io la sera mi ci accucciavo davanti al buio - giusto le stelline intermittenti tingevano di verde, viola e azzurro la scatola del Bauli, vuota e messa lì per scena. Spezzavano l'incanto quelli che a mezzanotte - dopo che avevano chiamato l'ultimo giro di tombola - rincasavano, accendendo il corridoio per vedere dove mettere i piedi. E dicevano Ecco dov'era Francesco!
E ancora mia madre Ma stai seduto per terra? Ti raffreddi!
Li perdonavo tutti, per via che sapevo che il mattino dopo sarebbero tornati, e la meraviglia si sarebbe ricomposta. Fino al giorno in cui sono andati via per sempre e non mi hanno detto che era a quel modo.
Il piccolo ranger
Ciao pietre, ciao casa, ciao città. Rincollo tenerezze nuove e vecchie ogni volta che commetto l'empietà di salire a Narni, e annaspo nel tempo che tira sotto, che ha sabbie mobili al posto del pavimento. Sei fatto a fantasie - protestava Gino quando piantavo grane per la gazzosa e poi cambiavo idea. Una volta che ero con lui – ed ero sempre con lui - trovammo sul semicerchio di pietra davanti al Suffragio un albo del Piccolo Ranger, nuovo nuovo, e io credei d'esser nato con la camicia, e che la vita sarebbe stata un po' così, a grandi linee. Direi che si allenava a prendersi gioco di me già allora - la mia vita, invece; di me e del mio incauto ottimismo, delle lucciole scambiate per lanterne, e della fiducia malriposta. Pure, a ripensarlo oggi, ha una dolcezza, quel tempo, che squaderna. Sono tornato ieri nel rettangolo di giochi dove quella stagione sembrava per sempre: San Girolamo. È tutto in abbandono: i gradini rotti appena sotto il chiosco della donna zoppa, le radici degli alberi come dita di mostri aggrappate alla terra, il triangolo di cemento in mezzo a cui avevano piantato l'altalena. L'altalena non c'è più, sopravvive appena in certe foto stente e in un film che non so come riversare in dvd: nessun videomaker ci perde più tempo, oppure mi chiede una fortuna. Lo girò Gastone, naturalmente, e Gino faceva da comparsa al modo di Alfred