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Il Voce
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Il Voce

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Qui sono raccolte tutte le parole scritte per IL, mensile de Il Sole 24 Ore, e per La Voce, quotidiano italiano. Rileggendo questi brani per ripubblicarli esplodo in questa esclamazione, quasi una interiezione, un trafiggente punto esclamativo: "Ma che maestria! Non la mia, la maestria di questi Direttori che pubblicarono queste mie parole, avendole anche lette".
LanguageItaliano
Release dateMay 4, 2020
ISBN9791280095015
Il Voce

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    Il Voce - Pasquale Panella

    IL

    (2012-2017)

    Dare i numeri a parole

    Quel ragazzino

    Quel ragazzino, quando si dice «lo capirebbe un ragazzino», sono io quel ragazzino. Eccomi qua. Chiamatemi Pippì. Fatemi capire cosa c'è da capire, io capisco. Ascolto la gente, la gente sa tutto. Come si dice? Il mondo è un Grand Hotel, il mondo è una stazione, chi va e chi viene. Ecco, io mi aggiro da quelle parti come un ladro di bagagli culturali. Apprendo da chi si esprime con proprietà di linguaggio, che per me è un magnifico furto. Poi rivendo tutto, faccio sfoggio nei bar, dico per esempio «flessione di consapevolezza» ma anche «fende trasversalmente il Paese» con esiti da brivido sulla pelle dei presenti come fosse seta, o tela ai tempi di Fontana, un signor pittore buonanima, precursore del quadro odierno. Mezzo ubriaco calo il carico: «Grandi assunzioni, sì, grandi assunzioni di responsabilità». Fa effetto e, come i fagioli in una zuppa mescolata, tutti gli occhi ruotano verso di me nella broda oleosa delle tristissime 19:27, l'ora derelitta. Gli occhi dei miei contemporanei, in questi ultimi tempi, sono legumi: fave, ceci, lenticchie, piselli affaticati. Cosa mi significa? Sono specchi dei tempi queste zuppe in scodella, questi sguardi, queste pupille in umido, lessate. Una aggiornata pozza di Narciso sulla quale ci si sporge ma poco rapiti: cadere di tra il derapato origano, ma insomma! Siamo arrivati a questo? Sì, siamo arrivati. Nei tempi passati, naufragare nella propria immagine era dolce come in mare. Oggi è salato, fa smorfiare le labbra, è un attentato alla bellezza. Cosa conta nella mitologia ovvero nella vita, che della mitologia è causa e esito? Cosa conta? Lo specialismo, la capacità d'essere uno e non tutti, ecco cosa conta. Oggi tutti sanno tutto, ognuno è tutti, basta un click, come si dice tra gli esperti di rumoristica applicata all'esistenza. Una volta era: non tocchiamo questo tasto. Ora è: come tasto son toccato da una vasta esecuzione. Un tempo l'essere era umano, era «estesa possibilità», era «da qui all'eternità», era Burt Lancaster e Deborah Kerr mescolati a sabbia e mare, a tutti i granelli, a tutte le gocce, panici in un bacio. Oggi «essere» non è più infinito, oggi essere è: «Chi sei adesso?», un quesito presente. La massa è finita. Punto e basta. E allora siilo: un punto, mitologico e consapevole. Consapevole che il punto non esiste in natura. Abbiamo, tutti, questa spada di Adamo e questa mela di Eva sulla testa.

    Io mi voglio confessare

    Io mi voglio confessare, / o rubrica di giornale, / griglia di confessionale. È una poesia. La frase con le barre, dico, è una poesia. La barra è un segno grafico che qui significa separazione di verso da altro verso. Ma anche unione: verso più verso più verso = componimento. Le lineette parallele e orizzontali significano: uguale. Tutti lo sanno. E i due punti? Spettacolo. Significano: ecco a voi, voilà. Sono più comprensibili i segni che le parole. Ma i segni non si leggono, si guardano. E non si dicono perché pare brutto. Né si gesticolano come le orrende virgolette con le dita. La parola uguale – eccole le virgolette, ciglia ammiccanti che infatti significano: bada, occhio! – non vale il segno =, le lineette. Per inciso, il trattino, questo: –, significa proprio per inciso, un infradetto. Uguale, a parole, è un compromesso tra diversità. Si può parlare di uguaglianza parziale ma non di identità. Solo in matematica 1 è 1; 1 è uguale uguale a un altro 1, papale papale. Questo ci insegna la matematica: che 1 è esattamente un altro 1, paro paro (anche se dispari). Una parola non è mai uguale nemmeno a se stessa. Belle per questo, come no, le parole inesatte e vaghe. E adesso che l'ho detta non facciamola tanto lunga e appiccicosa, la cosa. E 1 è anche 2, dice la matematica, anzi di più, sì, di più, in quanto 2 è 1+1, uno due volte, due uno, che scritto a numeri vicini e appassionati sarebbe 21, ossia ventuno, già diceria, letteratura, che è dar numeri maliziosi. Solo zero non è uno o, meglio, è uno che non c'è ma ci sarà; va visto come la scritta «Torno subito utile». Preso a solo è il più convincente assente, in compagnia fa i danni o le fortune, decuplica, centuplica, millanta eccetera. Pare niente ma, tomo tomo, monta in coda a una cifra e la fa subito tonda, gonfia, feconda. Era questo che volevo confessare? No, tutto quanto fin qui scritto è digressione, è fuori tema. Cosa confesso? Che, finito di scrivere, sono felice, voglioso di parlare senza fine e senza un fine. E allora parlo parlo (adesso sto parlando) e, qualsiasi cosa dica, mi pare di star dicendo tutto, tutto. In modo molto ilare, una magnifica confessione. Tra le parentesi (che sono labbra supine) sussurro confidenze. Poi, ecco i puntini puntini, così: ..., che nelle fiabe significano vissero a lungo, pieni di sé ossia di felicità e contentezza. Chi? Essi puntini... noi. Ma mi ascolti?

    Siamo capaci di questa viltà

    Siamo capaci di questa viltà: a parole, ovvero dando fiato al senso, sappiamo fare dell'altra persona una pezza. L'altro: chi non è noi perché è peggio di noi. Che, al suo posto, sapremmo. Cosa? Tutto. Cosa fare e non fare, come e quando, dove e perché. Raggiungiamo l'altro con un'armata di parole e gli sbricioliamo il pavimento sotto. Le parole termiti, no? Chi non è un termitaio di parole? Chi? Tolte le nostre pizze e pazzie del sabato, tolte le nostre lussurie chiassose come un ridicolo crollo di pentole, tolte le nostre vacanze disperatamente assolate, siamo o non siamo fango modellato, termitai dritti in piedi? Lo siamo. In una vita umanamente media (è stato calcolato) ci esce di bocca un numero di parole pari al numero di termiti circolanti in un termitaio: parole operaie, parole guerriere, parole prima alate e poi non più, parole riproduttrici, parole sterili, parole a sei zampe e due antenne, parole sciamanti, parole esalanti a 53 gradi centigradi. Che cosa è un libro? È cellulosa invasa da parole, che della cellulosa si nutrono. E allora? Ancora parliamo? Sì, ancora. Siamo termitai. Ma questo è ovvio. Il punto, qui, è un altro: l'altro, appunto. A parole l'altro è un manico di scopa, divorabile. Ma senza parole? A pensamenti cos'è? È ossessione. Nel pensiero, nell'intimo, nella coscienza, in silenzio, fuor di chiacchiera, sospettiamo che l'altro sia meglio di noi. Così ci pare. Finché parliamo dell'altro siamo sterminatori. Ma quando, vili e soli, pensiamo l'altro, allora noi siamo gli sterminati. L'altro, nel nostro pensiero, non solo è irraggiungibile, è ammirevole, sia in ignominia sia in dignità. Ma come fa? Questa domanda ci percuote come una mazza il gong. Come fa a fare così bene il ladro, così bene l'onesto, così bene il laido, così bene il virtuoso, così bene lo stronzo? Come nelle tragedie trionfa, come nelle tragedie crolla. È tragico, sì, è grande. Ma noi andiamo incontro ai comici con il sorriso già pronto. Perché? Perché il comico è un fesso. È l'io trapassato da invidie, non è che un simile. Il riso è perfido, nasce da una illusione criminale, da un assassinio impunito: ammazzare la noia ossia noi. Facciamo pena ridendo. Le battute, come colpi di mazza, ci smascellano. Amiamo questa repressione. Non afferriamo che noi, punitivi. Il segreto di ogni tiranno? Essere l'altro che sfugge ammonendo da lungi: «Siate voi me». Altro che storie.

    La parola cantata

    La parola cantata è estasi della scrittura, il canto è momento estatico. Non un canto che dica qualcosa ma un canto che dica niente. Dire qualcosa è piaggeria, lusinga servile, blandimento dei consenzienti, edificati astanti, servili anch'essi. È reciproca resa, è servaggio pubblico nonché servaggio igienico per ostentato lindore morale. Dire niente significa questo: che, se niente è niente, niente è come non detto. O meglio: niente è che non è. Possiamo cassare. Tolto niente a dire niente, non resta che dire. Allora, dire niente è veramente dire. Senza complemento oggetto di interesse. Tolto l'oggetto, tutto è alleggerito. Tutto è un uscir da sé, dalla calcolata avvedutezza, dal buonsenso conveniente, insomma da ipocrisia e opportunismo. Di questo passo, se niente è che non è, allora dire niente sarà dire che non è quel dire. Sarà canto. E cantare quel dire che non è quel dire è estasi. La parola sarà visione. A posto, anche questa è fatta. Andiamo avanti. Che altro c'è? Il pensiero. Cos'è? Uno stagno che riflette. Cosa? La ranocchia vanitosa prima del tuffo. Motti, moralità, sentenze: sono ranocchie, fanno i tuffi, con spruzzi e cerchi eccentrici, e buchi nella lenticchia d'acqua, il velo verde. La legge: un corpo tuffato nell'acqua provoca in essa uno scompiglio, che contrasta il tuffo secondo i propri mezzi: le gocce numerose, gli schizzi frattali. Insomma, il detto è contraddetto dallo specchietto d'acqua cerebrale, infranto. Comprendere è avversare. Che voglio dire? Niente, come il vento. La mia frase è un soffione, il pappo del tarassaco, una sfera di piume. Scossa, si spande. Spinta dal vento arriva qua, è una frase a sestante. Cos'è il sestante? È uno strumento che serve a misurare l'angolo di elevazione di un corpo celeste sopra l'orizzonte, secondo il principio della doppia riflessione tra specchio mobile e specchio fisso, un giochetto che si fa con un occhio solo e un piccolo cannocchiale. Questo sì che significa riflettere, e si naviga precisi. Tu pensa a far scorrere l'indicatore che punta su un arco graduato, e fai toccare al corpo celeste l'orizzonte, dico a me. Altra frase a effetto, anche questa a sestante, frase che non significa niente. E dove sono? L'indicatore, che si chiama linea di fede, me lo dice: tu (che sarei io) sei qui. È incredibile. Sì la fede, quell'orientamento oltre i sensi e l'intelletto.

    Mi globalizzo

    Mi globalizzo, sì, ossia sono io il mondo. O ho capito male? Globale... vecchio termine che palpeggio come un seno giovane, una boccia prima della giocata di volo. Anzi lo maneggio con voluttà antica, come fosse una cucchiara per il sugo, succhiata in punta per la prova, cocente, del sapore. E mescolo in me il mondo. Io sono il sugo di tutto e, guarda un po', dandomi una rimestata, mi foggio addosso un segno spiralesco di galassia. Son sugo denso, l'assorbo in un sol rosso quel senso di galassia in superficie. Ma torniamo alla modestia d'esser mondo. Mi capisci? Non sto parlando con te. Dico a me: mi capisci? La bella foglia, larga, di basilico, sollevata da una bolla rovente, ha un sussulto, una loquela, parla per me, saggia: un boh che è un bah che è un beh che è un buah. Ha detto tutto. L'aroma è convincente. Come so di sale? Vado avanti a pizzichi, a prese, a quanto basta. Ecco: quanto basta. Il sale, inteso come sapidità e sapienza, è la legge. La seconda, dopo quella di gravità. Quanto basta? Bella domanda, che vale sia per il massimo sia per il minimo. Vale per l'infinito e per l'infinitesimale. L'infinito è quanto basta, il poco è quanto basta. Hai poco? Hai quanto basta d'infinito. Una presa di sale tra due dita è già una presa di potere. Posso andare contro il mio potere? Non posso né voglio, l'assaporo. Il peperoncino è il mio cuore pungente, il mio cuore che quando batte forte sulla lingua mi fa anche lacrimare. Sì, sono gaudente ma commosso e severo. Ho gli occhi della mucca per il fieno: spaghetti per me, steli. Sempre roba di campi falciati. Sugo, basilico, sale, peperoncino, il filo d'olio, l'aglietto: sono io tutto questo, tutto questo diventa me perché me ne nutro, inglobo, globalizzo, sono il mondo. Sono antico: ho fame tre volte in un giorno. Sono uno ma trino nei pasti. Sono solo e so anche restarci. Mi cucino da me, nel senso che cucino me stesso nel sugo ch'io sono, nel mio brodo. Tutti evitano i luoghi comuni, io li realizzo. Domani è un altro giorno me lo sbrodolo addosso come un bambino le stelline, la pasta astrale. Sputo universo. Ora pare che il mondo migliore sia il mondo perduto in passato. E più non l'offra il futuro. Ognuno la farebbe finita subito se la sua fosse la fine di tutti. Sta bene! Resteremo soli, io e le divinità sugose: i maccheroni. Di questa pasta son fatto. E già bolle l'Olimpo. Mi butto giù, lassù. Poi il ragù.

    Non ho invidie

    Non ho invidie. Peggio: ho comprensioni. Chi sono io? Nessuno ossia non sono un comico satirico. Lo fui in passato (come figura, non come persona) quando, su tutto, avevo quel coraggio di schifare il pubblico, il tiranno plateale. Al presente (il presente, questa illusione diversiva dal corso della Storia) dovrei servirlo con franchezza. Sì, non lo nego, oggi il comico satirico è sincero, stupidamente. Stupidamente è un avverbio, un

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