Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

La regola del Numero Sette
La regola del Numero Sette
La regola del Numero Sette
Ebook382 pages5 hours

La regola del Numero Sette

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

In una remota località sulla Terra, un solitario Guardiano vaga alla ricerca del diario proibito di colui che un tempo era suo protetto. Localizzato dopo anni di ricerche e ora nelle sue mani, il Guardiano decide di leggerlo un’ultima volta prima di distruggerlo per sempre affinché non vi siano testimonianze degli avvenimenti passati. Quel manoscritto recita:

“Mi chiamo Hector Nykol, crononauta a capo della missione per il Rinascimento. Mi trovo a dover chiedere scusa a tutta l’umanità, poiché quello che sta succedendo all’intero universo è solamente colpa mia.”

Nello spostamento temporale che non poteva ammettere errori, qualcosa è andato storto: costretto alla fuga da una tirannica epoca, il viaggiatore temporale Hector Nykol si ritrova catapultato nel più remoto passato della Terra, un tempo in cui i viaggi spaziali erano solamente pindarici sogni e dove il Periodo della Decadenza, quello che lui e Aiam Sevange avevano il compito di impedire, stava appena prendendo piede.

Ma come si può interferire nel passato ed evitare paradossi che condannerebbero per sempre l’Uomo e il Tempo che lo circonda?

Pianeti lontanissimi, epoche remote e scenari apocalittici. La partita per il futuro si gioca sulla scacchiera del Tempo.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateApr 29, 2020
ISBN9788831666220
La regola del Numero Sette

Read more from Marco Eletti

Related to La regola del Numero Sette

Related ebooks

Science Fiction For You

View More

Related articles

Reviews for La regola del Numero Sette

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    La regola del Numero Sette - Marco Eletti

    Irons

    1

    L’az­zur­ro e ter­so cie­lo po­me­ri­dia­no fu mac­chia­to dal­la lun­ga scia di un ae­reo di li­nea in vo­lo ad al­ta quo­ta. Una ti­mi­da lu­na era già sor­ta, pron­ta a de­por­re un so­le an­co­ra al­to e splen­den­te, de­ci­sa ad af­fer­ra­re le re­di­ni del­la se­ra a del­la not­te.

    In lon­ta­nan­za, ol­tre le sa­go­me se­ghet­ta­te del­le mon­ta­gne, il pae­sag­gio cam­bia­va ra­di­cal­men­te e il de­ser­to ari­do e roc­cio­so ce­de­va il po­sto al ver­de del­le col­li­ne che an­da­va­no ad ab­brac­cia­re un va­sto e in­con­ta­mi­na­to la­go.

    Il Guar­dia­no con­ti­nua­va a spo­star­si lun­go il fian­co del­la mon­ta­gna fra mil­le dif­fi­col­tà; una pa­re­te sul­la qua­le gli uni­ci ap­pi­gli era­no of­fer­ti da po­che spor­gen­ze, e la roc­cia sot­to i suoi pie­di era tan­to fria­bi­le che ad ogni pas­so ri­schia­va di pre­ci­pi­ta­re giù per lo stra­piom­bo.

    A par­te il rom­bo lon­ta­no dell’ae­reo, la val­la­ta era av­vol­ta nel si­len­zio più to­ta­le. Il Guar­dia­no ini­zia­va ad ave­re se­ri dub­bi sul luo­go che ave­va de­ci­so di esplo­ra­re e più vol­te si era chie­sto se stes­se se­guen­do la pi­sta giu­sta.

    Que­sto fin­ché il mi­su­ra­to­re di ra­dia­zio­ni tem­po­ra­li non cap­tò l’in­ter­fe­ren­za.

    Den­tro di sé sa­pe­va che non avreb­be fal­li­to nel tro­va­re la giu­sta lo­ca­li­tà, poi­ché la men­te di Hec­tor Ny­kol non ave­va po­tu­to men­ti­re nem­me­no quan­do l’ave­va ana­liz­za­ta all’in­sa­pu­ta dell’uma­no, in un di­strat­to guiz­zo di pen­sie­ri che egli non avreb­be do­vu­to far af­fio­ra­re.

    L’og­get­to cui sta­va dan­do la cac­cia non do­ve­va tro­var­si in quel Tem­po pas­sa­to co­sì re­mo­to da es­se­re di­men­ti­ca­to per­si­no dai lo­ro pre­ci­si e det­ta­glia­ti ar­chi­vi sto­ri­ci. Il Guar­dia­no avan­zò di qual­che me­tro e lo sbi­lan­cia­men­to sul sen­so­re del­la trac­cia tem­po­ra­le ra­dioat­ti­va au­men­tò d’in­ten­si­tà. Era pro­prio in quel­la grot­ta, un luo­go di scar­sa im­por­tan­za, sco­no­sciu­to al­la mag­gio­ran­za del­le per­so­ne da mol­ti se­co­li. Ter­re­mo­ti, inon­da­zio­ni, guer­re... ognu­na di que­ste co­se ave­va da­to il suo con­tri­bu­to nel­lo spo­sta­men­to di quel li­bro, e an­che se c’era vo­lu­to mol­to tem­po ora il Guar­dia­no era sod­di­sfat­to. Una sod­di­sfa­zio­ne vir­tua­le.

    Lo tro­vò nel lu­gu­bre buio nel­la pro­fon­di­tà del­la grot­ta do­po una ve­lo­ce esplo­ra­zio­ne, tra ter­ra, fan­go e de­tri­ti, e lo af­fer­rò con le pos­sen­ti ma­ni. Ora che fi­nal­men­te ne era en­tra­to in pos­ses­so, gli re­sta­va so­lo un’ul­ti­ma co­sa da fa­re: di­strug­ger­lo.

    Ma pri­ma vo­le­va leg­ge­re quel­le pa­ro­le, una fu­ga­ce sbir­cia­ta per riu­sci­re a con­vin­cer­si che lui, in pas­sa­to, fos­se sta­to l’uni­co nel tor­to e tut­ti gli al­tri nel­la ra­gio­ne. Non era riu­sci­to a per­sua­der­si in tut­ti quei se­co­li, per­ché mai le pa­ro­le di Ny­kol scrit­te su un pez­zo di car­ta avreb­be­ro do­vu­to sor­ti­re un ef­fet­to di­ver­so da quel­le pro­nun­cia­te a vo­ce a suo tem­po?

    Il cro­no­nau­ta Hec­tor Ny­kol, pre­so dal­la fret­ta di scri­ve­re, non ave­va con­si­de­ra­to una co­sa fon­da­men­ta­le: tut­ti quei po­po­li che per ca­so ave­va­no avu­to fra le ma­ni quel­lo scrit­to, non era­no riu­sci­ti a com­pren­der­lo sia per mo­ti­vi lin­gui­sti­ci (gli idio­mi del pas­sa­to era­no trop­po di­ver­si fra lo­ro no­no­stan­te la lin­gua del fu­tu­ro ne fos­se sta­ta una di­ret­ta di­scen­den­te) sia per i con­te­nu­ti dif­fi­ci­li da in­ter­pre­ta­re. Ny­kol era sta­to trop­po ot­ti­mi­sta.

    Il Guar­dia­no si mi­se a se­de­re su un mas­so pia­neg­gian­te e aprì il pic­co­lo li­bro. Ri­co­nob­be su­bi­to la cal­li­gra­fia di Ny­kol, la per­so­na che avreb­be do­vu­to pro­teg­ge­re. Pur­trop­po per Ny­kol, pe­rò, la sua pro­te­zio­ne ve­ni­va do­po una co­sa an­co­ra più im­por­tan­te.

    Pre­go chiun­que ab­bia ini­zia­to a leg­ge­re que­ste pa­gi­ne di non fer­mar­si e lo spro­no a sfor­zar­si di ten­ta­re di ca­pir­ne il con­te­nu­to, per­ché ogni pa­ro­la che scri­ve­rò qui sa­rà d’im­por­tan­za vi­ta­le per tut­ti noi, per tut­to il ge­ne­re uma­no.

    Ini­zie­rò a sten­de­re que­sto me­mo­ria­le sa­pen­do che, mol­to pro­ba­bil­men­te, non è la pri­ma vol­ta che lo fac­cio e che non sa­rà nem­me­no l’ul­ti­ma. Quan­te al­tre vol­te l’avrò già scrit­to? E quan­te al­tre lo scri­ve­rò an­co­ra? Le pa­ro­le che ap­pa­io­no su que­sti fo­gli so­no co­me le let­te­re sul­la sab­bia in ri­va al ma­re: al­la pri­ma on­da­ta ven­go­no can­cel­la­te.

    In que­sto ca­so l’on­da ma­ri­na è un mu­ta­men­to pro­ba­bi­li­sti­co in­con­trol­la­to sul no­stro sno­do tem­po­ra­le. Poi­ché que­sto mes­sag­gio, no­no­stan­te il suo con­te­nu­to, non è da con­si­de­rar­si clas­si­fi­ca­to, cer­che­rò di es­se­re il più chia­ro pos­si­bi­le per chiun­que lo leg­ge­rà, spe­cial­men­te per gli abi­tan­ti dell’era Pri­ma del­la De­ca­den­za (sen­za di­men­ti­car­mi del­la gen­te del pe­rio­do Do­mi­ni).

    Il mio no­me è Hec­tor Ny­kol, e de­vo chie­de­re scu­sa a tut­ta l'uma­ni­tà poi­ché quel­lo che sta suc­ce­den­do all’in­te­ro uni­ver­so è so­la­men­te col­pa mia. Un er­ro­re re­la­ti­va­men­te pic­co­lo che ha man­da­to in ri­don­dan­za ci­cli­ca l’in­te­ro si­ste­ma (ov­ve­ro l’equi­li­brio del co­smo) co­strin­gen­do­lo in una cur­va spa­zio-tem­po­ra­le chiu­sa, un cir­co­lo vi­zio­so dal qua­le non si può più usci­re. Fra i tec­ni­ci dell’Agen­zia e i crea­to­ri del­la Mac­chi­na è co­no­sciu­to co­me Er­ro­re del ca­ne (da quel che ho ca­pi­to la de­no­mi­na­zio­ne si ba­sa su un an­ti­co det­to, un cer­to ca­ne che gi­ran­do in ton­do pro­va a mor­der­si la co­da), ma il ter­mi­ne cor­ret­to per que­sto av­ve­ni­men­to è Er­ro­re di ri­don­dan­za ci­cli­ca.

    Non mi re­sta mol­to tem­po e sa­rò bre­ve. Cer­che­rò di an­da­re con or­di­ne nel spie­gar­vi il co­me, il per­ché, ma so­prat­tut­to il quan­do tut­to ciò ha avu­to ini­zio. Sap­pia­te so­lo che non s’è trat­ta­to di un ca­pric­cio del ge­ne­re uma­no per sa­pe­re in an­ti­ci­po il vin­ci­to­re di una ga­ra spor­ti­va o per ri­me­dia­re a er­ro­ri amo­ro­si e fal­li del­la vi­ta quo­ti­dia­na, ben­sì ci sia­mo tro­va­ti co­stret­ti ad agi­re in que­sto mo­do non aven­do al­tre pos­si­bi­li­tà di fron­te a noi.

    Un at­ti­mo di pa­zien­za e fa­rò lu­ce su ogni co­sa.

    Era­va­mo ap­pe­na usci­ti dal­la Gran­de Guer­ra, il con­flit­to che ave­va de­ci­ma­to il ge­ne­re uma­no. Do­ve­va­mo ri­co­strui­re per tor­na­re a pro­spe­ra­re co­me raz­za più evo­lu­ta e in­tel­li­gen­te, por­re le ba­si per una nuo­va so­cie­tà che avreb­be im­pe­di­to al­tre bar­ba­rie. De­ci­dem­mo che la Gran­de Guer­ra, di cui noi abi­tan­ti dei Mon­di In­di­pen­den­ti era­va­mo sta­ti vit­ti­me in­di­ret­te, sa­reb­be sta­to l’ul­ti­mo con­flit­to com­bat­tu­to fra gli uo­mi­ni, e che la fi­ne dell’era del­la De­ca­den­za nel­la qua­le ci tro­va­va­mo sa­reb­be sta­ta scan­di­ta dal­le lan­cet­te dell’ap­pren­di­men­to e del­la co­no­scen­za.

    Tro­vam­mo la pa­ce e la tran­quil­li­tà du­ran­te que­sti se­co­li, di­men­ti­chi di ogni con­flit­to. Le uni­che ar­mi che ac­cet­tam­mo di por­ta­re con noi fu­ro­no i no­stri so­gni e le no­stre spe­ran­ze di ri­co­stru­zio­ne e di ar­mo­nia con ciò che ci cir­con­da­va.

    Ma non tut­to an­dò co­me pre­vi­sto: l’era del­la De­ca­den­za per­du­ra an­co­ra a ben set­te­mi­la an­ni dal­lo scop­pio del­la Gran­de Guer­ra, e la pa­ce per­pe­tua tro­va­ta dall’Uo­mo, uni­ta al sa­pe­re che da sem­pre va ad ar­ric­chi­re le sue men­ti, non sem­bra po­ter por­re un fre­no al de­cli­no che ha gio­ca­to d’an­ti­ci­po su di noi. Se­con­do i Fi­lo­so­fi del no­stro tem­po è co­me se l’Uni­ver­so aves­se pre­so at­to di ave­re una pro­pria co­scien­za, de­ci­den­do di in­via­re un apo­ca­lit­ti­co mes­sag­ge­ro per li­be­rar­si dell’uma­ni­tà or­mai di­ven­ta­ta un far­del­lo trop­po pe­san­te da por­ta­re sul­le pro­prie spal­le, in un co­smo pro­ba­bil­men­te ric­co di al­tre for­me di vi­ta da far cre­sce­re e pre­ser­va­re.

    Il no­stro viag­gio nel tem­po per con­tra­sta­re e im­pe­di­re l’igno­ta apo­ca­lis­se era una sfi­da al­le leg­gi stes­se dell’Uni­ver­so; l’uni­ca àn­co­ra di sal­vez­za ri­ma­sta all’uma­ni­tà per sal­var­si dall’estin­zio­ne.

    Do­ve­te sa­pe­re che pri­ma del­la crea­zio­ne del­la Mac­chi­na del tem­po de­fi­ni­ti­va c’era­no di­ver­se li­nee di pen­sie­ro ri­guar­dan­ti i viag­gi tem­po­ra­li.

    I pri­mi ap­par­te­ne­va­no al­la scuo­la di pen­sie­ro del pro­fes­sor Coo­ros (fon­da­ta dal no­to Ed­mun­dus H. Coo­ros) e ri­te­ne­va­no che ciò ch’è sta­to è sta­to, e ciò che sa­rà de­ve an­co­ra ac­ca­de­re. Per lo­ro il Tem­po evol­ve e ten­de so­la­men­te al fu­tu­ro, per­ciò l’uni­co viag­gio nel tem­po pos­si­bi­le era il viag­gio re­la­ti­vo. Es­so si ba­sa­va su an­ti­chis­si­me teo­rie re­la­ti­vi­sti­che di un ta­le El­lei­stein (voi do­vre­ste co­no­scer­lo me­glio di me, spe­ro di aver­lo scrit­to giu­sto, stia­mo par­lan­do dell’an­ti­co pe­rio­do an­te­ce­den­te la De­ca­den­za) che tie­ne con­to del­la ve­lo­ci­tà lu­ce e del tem­po re­la­ti­vo: quan­do un’astro­na­ve ac­ce­le­ra sfio­ran­do la sem­pre co­stan­te ve­lo­ci­tà del­la lu­ce (ve­lo­ci­tà as­so­lu­ta) il tem­po a bor­do di es­sa ral­len­ta ten­den­do a va­lo­ri pros­si­mi al­lo ze­ro. Se per gli os­ser­va­to­ri ester­ni pas­sa­no no­vant’an­ni, per gli oc­cu­pan­ti dell’astro­na­ve che viag­gia a ve­lo­ci­tà lu­ce ne pas­se­ran­no so­la­men­te un­di­ci. L’espe­ri­men­to fu ese­gui­to nell’an­no 1150 do­po la De­ca­den­za ed eb­be suc­ces­so: i di­la­ta­ti (co­sì fu­ro­no chia­ma­ti gli oc­cu­pan­ti del­la na­ve spe­ri­men­ta­le Coo­ro­slight) al lo­ro ar­ri­vo nel 1250 d.D. si tro­va­ro­no in un mon­do del tut­to di­ver­so, evo­lu­to di ol­tre un se­co­lo dal­la lo­ro par­ten­za. Non so­lo i lo­ro cor­pi era­no ri­ma­sti più gio­va­ni, ma an­che le lo­ro men­ti e le lo­ro no­zio­ni: ave­va­no rag­giun­to il fu­tu­ro, ma al con­tem­po era­no ri­ma­sti bloc­ca­ti nel pas­sa­to del lo­ro viag­gio.

    L’espe­ri­men­to ave­va avu­to suc­ces­so e, a quel che si sa, Ed­mun­dus H. Coo­ros fu il pri­mo ad aver com­ple­ta­to gli stu­di per por­ta­re a ter­mi­ne l’ope­ra­zio­ne in ma­nie­ra con­cre­ta. Pec­ca­to che, es­sen­do mor­to cin­que­cen­to an­ni pri­ma, non aves­se po­tu­to as­si­ste­re al­la riu­sci­ta dell’espe­ri­men­to. Ma an­che se Coo­ros ave­va ra­gio­ne e l’idea del pro­ces­so di Di­la­ta­zio­ne por­ta­ta avan­ti dai suoi epi­go­ni fun­zio­na­va, il suo pro­get­to ri­ce­vet­te cri­ti­che da mol­ti scien­zia­ti del­la co­mu­ni­tà poi­ché non po­te­va con­si­de­rar­si un ve­ro e pro­prio viag­gio nel tem­po, ben­sì una spe­cie d’iber­na­zio­ne, un pro­lun­ga­men­to del­la vi­ta che non in­flui­va su nul­la se non su chi vo­le­va ve­de­re co­me sa­reb­be sta­ta la ci­vil­tà un se­co­lo o mil­le an­ni do­po (cer­to, per chi so­prav­vi­ve­va a un viag­gio co­sì lun­go). In fon­do si cer­ca­va di svi­lup­pa­re il viag­gio nel tem­po non tan­to per bal­za­re nel fu­tu­ro (co­sa ri­te­nu­ta im­pos­si­bi­le da tut­ti, an­che dai cri­ti­ci di Coo­ros, poi­ché il fu­tu­ro de­ve sem­pre an­co­ra ar­ri­va­re), ma per in­ter­ve­ni­re sul pas­sa­to, ov­via­men­te in me­glio.

    Ma do­ve ri­ma­ne­va scrit­to il pas­sa­to? Ar­ri­ve­rò an­che a que­sto.

    Re­stan­do in te­ma di stu­di e pio­nie­ri dei viag­gi tem­po­ra­li, ve­ni­va la scuo­la del dot­tor Ta­le­te H. Va­lius, che par­la­va di sfrut­ta­re i bu­chi ne­ri, spez­zar­li, com­pri­mer­li su astro­na­vi, man­dar­li in luo­ghi lon­ta­ni, crea­re tun­nel spa­zia­li e poi at­tra­ver­sar­li... In po­che pa­ro­le era una scuo­la di pen­sie­ro Coo­ros de­ten­tri­ce di un pro­get­to mi­glio­ra­to. Pec­ca­to che le na­vi e le cap­su­le del pro­get­to Va­lius non sia­no mai tor­na­te dai lo­ro bu­chi ne­ri. Era sta­to più fa­ci­le spez­za­re i bu­chi ne­ri e crea­re i cu­ni­co­li spa­zio-tem­po­ra­li an­zi­ché at­tra­ver­sa­li. Do­po­tut­to era­no sta­ti av­ver­ti­ti sui ri­schi che cor­re­va­no nell’at­tra­ver­sa­re un bu­co ne­ro. Lì den­tro si tro­va so­la­men­te sin­go­la­ri­tà e gra­vi­tà in­fi­ni­ta; un luo­go dal qua­le non esi­ste ri­tor­no. Quan­to era­no si­cu­ri dei lo­ro cal­co­li i va­liu­sa­ni...

    Esi­to del pro­get­to Va­lius: fal­li­men­to to­ta­le. Uni­co la­sci­to: un mo­nu­men­to ai cen­to­tré ca­du­ti eret­to nel­la cit­tà di Pyont­maic, sul pia­ne­ta Eu­spe­zia.

    Ve­ni­va­no poi i se­gua­ci del pro­fes­sor Mi­let Da­ne­tia, che ti­ra­va­no in bal­lo la più scon­ta­ta pro­ble­ma­ti­ca dei viag­gi nel tem­po: An­che viag­gian­do in­die­tro nel tem­po di un so­lo se­con­do di­ce­va Da­ne­tia "si crea una di­ra­ma­zio­ne tem­po­ra­le che istan­ta­nea­men­te crea un uni­ver­so al­ter­na­ti­vo a quel­lo di par­ten­za. Er­go, viag­gian­do nel pas­sa­to, il cro­no­nau­ta non si tro­ve­rà più nel suo uni­ver­so (dal qua­le pro­ba­bil­men­te spa­ri­rà), ben­sì in una li­nea di uni­ver­so ugua­le a quel­la da cui pro­vie­ne, ma con la dif­fe­ren­za che qual­cu­no (egli) è ar­ri­va­to dal fu­tu­ro. So­lo il fat­to che la cap­su­la di Da­ne­tia ar­ri­vi in un de­ter­mi­na­to pas­sa­to ne de­via il con­ti­nuum spa­zio-tem­po sem­pli­ce­men­te per­ché pri­ma non esi­ste­va. Il pro­ble­ma del pro­fes­sor Da­ne­tia è sem­pre sta­to quel­lo di rea­liz­za­re la sud­det­ta mac­chi­na del tem­po: per viag­gia­re" nel fu­tu­ro il pro­fes­sor Coo­ros sfrut­ta­va la di­la­ta­zio­ne tem­po­ra­le (non con­si­de­ra­ta un viag­gio nel tem­po); ma per an­da­re nel pas­sa­to a co­sa ci si po­te­va ag­grap­pa­re? Da do­ve par­ti­re? Co­sa si po­te­va smuo­ve­re? Da­ne­tia è sta­to co­lui, in­sie­me al­la sua squa­dra, ad av­vi­ci­nar­si al­la so­lu­zio­ne. Ciò che li ave­va sem­pre bloc­ca­ti era pro­prio la ba­se del lo­ro pen­sie­ro: uni­ver­si tem­po­ral­men­te pa­ral­le­li al no­stro. Mai di­mo­stra­ta la lo­ro esi­sten­za, al­me­no in un no­stro even­tua­le me­ta­ver­so. Per­tan­to i suoi cal­co­li si ba­sa­va­no sul nul­la.

    Tra­la­scian­do al­tre cor­ren­ti di pen­sie­ro mi­no­ri e qua­si pri­ve di si­gni­fi­ca­to, la vit­to­ria nel­la co­stru­zio­ne del­la Mac­chi­na (quel­la con la em­me ma­iu­sco­la) fu dei se­gua­ci del­la scien­zia­ta Al­ba Ka­za­ki. Io so­no un ka­za­ko, co­me d’al­tron­de lo so­no tut­ti i cro­no­nau­ti. Da­ne­tia ci ave­va vi­sto lun­go, ma la dot­to­res­sa Ka­za­ki c’ave­va vi­sto an­cor più lun­go.

    Per­ché mai si chie­de­va la scien­zia­ta "de­vo­no esi­ste­re uni­ver­si pa­ral­le­li e li­nee tem­po­ra­li al­ter­na­ti­ve, quan­do pos­sia­mo muo­ver­ci li­be­ra­men­te nel no­stro uni­ver­so?" – co­sì di­ce­va ma an­co­ra non ave­va spie­ga­to il co­me po­te­va. E con­ti­nua­va: Spo­stia­mo lu­ne, va­ria­mo l’or­bi­ta di pia­ne­ti, pos­sia­mo rag­giun­ge­re i con­fi­ni estre­mi dell’uni­ver­so (in real­tà sud­det­ti con­fi­ni non esi­sto­no, ma è più fa­ci­le far­vi ca­pi­re co­me fun­zio­na­no i viag­gi nel tem­po che spie­gar­vi do­ve fi­ni­sce l’uni­ver­so... in­fi­ni­to), "e al­lo­ra per­ché non pos­sia­mo muo­ve­re lo spa­zio-tem­po e con es­so l’uni­ver­so?"

    Ma un con­to era smuo­ve­re pia­ne­ti e stel­le dal­le lo­ro or­bi­te, un al­tro smuo­ver­li dal lo­ro con­ti­nuum spa­zio-tem­po. Co­me af­fer­ra­re quel tes­su­to che è il Tem­po e de­for­mar­lo?

    Ka­za­ki tro­vò la so­lu­zio­ne in un pen­sie­ro vec­chio tan­to quan­to l’uma­ni­tà: l’iper­cu­bo. Poi­ché es­sen­do l’uni­ver­so co­sti­tui­to da quat­tro di­men­sio­ni (per l’ap­pun­to la quar­ta di­men­sio­ne è il Tem­po), ba­sta tro­va­re que­sta di­men­sio­ne e spo­star­la. In fin dei con­ti, le tre di­men­sio­ni ca­no­ni­che pos­so­no es­se­re spo­sta­te a pia­ci­men­to co­sì co­me po­te­te spo­sta­re una ma­ti­ta da un pun­to all’al­tro del­la vo­stra scri­va­nia. Poi­ché im­ma­gi­no che sia­te sem­pre riu­sci­ti a spo­sta­re qua­lun­que co­sa con i mez­zi ap­pro­pria­ti, quan­do si par­la del Tem­po (quel­lo con la T ma­iu­sco­la) è la stes­sa co­sa: com­pli­ca­ta quan­do all’ini­zio non si sa co­me fa­re, ma un sem­pli­ce (e pe­ri­co­lo­so) gio­chet­to do­po aver­lo ca­pi­to.

    Mol­ti de­gli stu­dio­si che ave­va­no fal­li­to nel­lo sco­pri­re un me­to­do per viag­gia­re nel tem­po pri­ma del suc­ces­so ka­za­ko ri­te­ne­va­no il Tem­po so­la­men­te una di­re­zio­ne astrat­ta, im­pal­pa­bi­le, un al­lun­ga­men­to co­stan­te dell’Ades­so in cui la pro­va dell’esi­sten­za del Pri­ma era da­ta so­la­men­te dai ri­cor­di di ognu­no di noi. E io mi stu­pi­sco an­co­ra di una vi­sio­ne co­sì an­tro­po­cen­tri­ca da par­te di scien­zia­ti e pro­fes­so­ri, per­ché un pia­ne­ta, una stel­la o una ga­las­sia non pos­so­no ave­re ri­cor­di es­sen­do so­la­men­te en­ti­tà ina­ni­ma­te e quin­di, se­con­do il lo­ro pen­sie­ro, sen­za es­se­ri vi­ven­ti non esi­ste­reb­be il Pas­sa­to. Il Tem­po è una di­men­sio­ne, una real­tà nel­la qua­le ci muo­via­mo, e non lo si può li­qui­da­re af­fib­bian­do­gli l’ap­pel­la­ti­vo di di­re­zio­ne so­lo per­ché ci ri­cor­da una frec­cia che pun­ta sem­pre lun­go la stes­sa di­ret­tri­ce. Esi­ste si­ni­stra e de­stra sul pia­no uni­di­men­sio­na­le, ci ag­giun­gia­mo so­pra e sot­to in un pia­no bi­di­men­sio­na­le, aven­ti e in­die­tro in un uni­ver­so tri­di­men­sio­na­le, e un an­da­men­to po­si­ti­vo-ne­ga­ti­vo nel­lo spa­zio qua­dri­di­men­sio­na­le.

    La quar­ta di­men­sio­ne è ciò che noi sa­re­mo, che l’uni­ver­so sa­rà, è ciò che sia­mo ora e che sia­mo sta­ti in pas­sa­to. Se non vi fos­se un flus­so po­si­ti­vo nel­la quar­ta di­men­sio­ne, tut­to sa­reb­be im­mo­bi­le. Ci sen­tia­mo li­be­ri in un uni­ver­so a tre di­men­sio­ni, ma il no­stro mas­si­mo gra­do di li­ber­tà lo rag­giun­gia­mo quan­do ci muo­via­mo in uno spa­zio qua­dri­di­men­sio­na­le.

    La cap­su­la di Ka­za­ki, chia­ma­ta la Mac­chi­na (co­lei che ge­ne­ra un tun­nel tem­po­ra­le at­tra­ver­so un tes­se­rat­to – o iper­cu­bo – e ne può af­fer­ra­re tut­te e quat­tro le di­men­sio­ni), fu il pri­mo ve­ro viag­gio nel tem­po da par­te dell’Uo­mo. Il pri­mo Tuf­fo du­rò cir­ca 62 cen­te­si­mi di se­con­do, e fu il re­gi­stra­to­re a bor­do del­la Mac­chi­na stes­sa a for­nir­ne la pro­va.

    La Mac­chi­na era riu­sci­ta a man­da­re in­die­tro nel Tem­po... l’in­te­ro Uni­ver­so. Nien­te pa­ra­dos­si del non­no o stu­pi­dag­gi­ni del ge­ne­re: con l’ener­gia for­ni­ta da una stel­la e lo sfrut­ta­men­to dell’iper­cu­bo si po­te­va fa­re tut­to ciò che si vo­le­va. So­lo il viag­gia­to­re pe­rò, che ov­via­men­te non è in­fluen­za­to dal viag­gio tro­van­do­si den­tro il tun­nel tem­po­ra­le nel­la bol­la ester­na (per­do­na­te l’os­si­mo­ro, ester­no si ri­fe­ri­sce ri­spet­to al viag­gio nel tem­po, e di con­se­guen­za il set­to­re ester­no è pro­prio den­tro al­la Mac­chi­na) si ren­de con­to del viag­gio a ri­tro­so, que­sto poi­ché l’Uni­ver­so vie­ne tra­sci­na­to nel Tuf­fo ri­vi­ven­do il suo esi­ste­re, e nes­su­no può ac­cor­ger­se­ne. Co­me po­treb­be­ro?

    Il ri­sul­ta­to ci fu, e la Mac­chi­na ven­ne usa­ta per viag­gi sia a ri­tro­so nel tem­po sia avan­ti quan­do si vo­le­va tor­na­re all’epo­ca na­ti­va (il pun­to di par­ten­za) tra­mi­te l’uso del­le cro­no­boe (il li­mi­te mas­si­mo nell’avan­za­men­to tem­po­ra­le in avan­ti). L’ener­gia, co­me già det­to, era pre­le­va­ta da una stel­la dal­la qua­le ne as­sor­bi­va­mo una por­zio­ne per ogni viag­gio che fa­ce­va­mo.

    Con l’ot­te­ni­men­to del tan­to at­te­so ri­sul­ta­to ven­ne fon­da­ta l’Agen­zia per il Ri­na­sci­men­to, di­ret­ta re­spon­sa­bi­le dei viag­gi tem­po­ra­li, pre­sie­du­ta da un nu­me­ro va­ria­bi­le di Sag­gi e aper­ta al con­tri­bu­to di tut­ti. L’obiet­ti­vo di tut­to ciò: viag­gia­re a ri­tro­so nel tem­po e sco­pri­re la cau­sa sca­te­nan­te del­la Gran­de Guer­ra che ha por­ta­to al­la di­stru­zio­ne del­la Ter­ra e de­gli in­se­dia­men­ti uma­ni sub-co­smi­ci, la­scian­do so­lo i pia­ne­ti Al­ma­dar ed Eu­spe­zia co­me uni­ci mon­di abi­ta­ti dal­la raz­za uma­na.

    Do­po ol­tre set­te­mi­la an­ni dall’ini­zio dell’era del­la De­ca­den­za si po­te­va fi­nal­men­te sco­pri­re la ve­ri­tà. E, so­prat­tut­to, tro­va­re un aiu­to fon­da­men­ta­le per la no­stra cri­ti­ca si­tua­zio­ne.

    Ma do­ve­va­no es­se­re adot­ta­te del­le pre­cau­zio­ni: se chi tor­na­va in­die­tro nel tem­po pro­vo­ca­va un in­ci­den­te ac­ci­den­ta­le, po­te­va de­via­re per sem­pre il fu­tu­ro. Non è un pa­ra­dos­so, è la real­tà. L’Agen­zia im­po­ne del­le re­go­le fer­ree per il cor­ret­to Ri­na­sci­men­to e van­no ri­spet­ta­te... an­che se non è sem­pre sta­to co­sì, e si pen­sa che sia pro­prio uno di que­sti sba­gli la cau­sa sca­te­na­te del­la Guer­ra. Ma, ri­pe­to, non ci so­no pa­ra­dos­si nei viag­gi tem­po­ra­li e ora ve lo fa­rò ca­pi­re.

    Tut­ti voi co­no­sce­te già la teo­ria del Pa­ra­dos­so del non­no: se un cro­no­nau­ta uc­ci­de suo non­no nel pas­sa­to, que­sto viag­gia­to­re non na­sce­rà mai, non viag­ge­rà mai nel pas­sa­to e quin­di non uc­ci­de­rà suo non­no. Per­ciò co­sa suc­ce­de, nel­la real­tà, se io va­do in­die­tro nel tem­po e uc­ci­do mio non­no? Che lui mo­ri­rà, ma io con­ti­nue­rò a esi­ste­re in quel las­so di tem­po. Si chia­ma Pre­sa di po­si­zio­ne: mio non­no muo­re e io con­ti­nuo a vi­ve­re pren­den­do­ne il po­sto, e po­trò co­mun­que tor­na­re al mio tem­po poi­ché già esi­ste­vo al mo­men­to del viag­gio. Ov­via­men­te si trat­ta di un’azio­ne il­le­ga­le e in­sen­sa­ta­men­te da fol­li.

    So co­sa vi sta­te chie­den­do: tut­to ciò va be­ne con una per­so­na in­si­gni­fi­can­te, ma co­sa suc­ce­de se an­dan­do in­die­tro nel tem­po uc­ci­des­si la dot­to­res­sa Al­ba Ka­za­ki? Pre­met­ten­do che non esi­ste nul­la di in­si­gni­fi­can­te nei viag­gi nel tem­po, vi fac­cio que­sto pic­co­lo esem­pio: sup­po­nia­mo che io ri­por­ti in­die­tro il tem­po all’An­no Do­mi­ni 2000 e che la mia cap­su­la crei uno spo­sta­men­to d’aria in una zo­na de­ser­ti­ca. Que­sto spo­sta­men­to po­treb­be da­re vi­ta a una trom­ba d’aria che fi­ni­rà con l’an­nul­la­re il de­col­lo di al­cu­ni vo­li da un ae­ro­por­to vi­ci­no. Que­sto può sia cau­sa­re dei ri­tar­di nel­le par­ten­ze sia de­via­re gli at­ter­rag­gi in un al­tro ae­ro­por­to. Pren­dia­mo una pas­seg­ge­ra dell’ul­ti­mo ca­so, la qua­le non co­no­sce­rà mai un uo­mo che si tro­va­va all’ae­ro­por­to di de­sti­na­zio­ne ori­gi­na­le, non s’in­na­mo­re­rà mai di lui e non avrà mai un fi­glio che non di­ven­te­rà mai un pre­si­den­te che ha fat­to sto­ria. Di con­se­guen­za non si sca­te­ne­rà mai una guer­ra det­ta­ta dall’in­sta­bi­li­tà so­cia­le e per­ciò la Ter­ra e al­tri pia­ne­ti non sa­ran­no di­strut­ti e la raz­za uma­na non ri­schie­rà l’estin­zio­ne. Ma a que­sto pun­to, se tut­to pro­ce­de be­ne, è inu­ti­le crea­re una mac­chi­na del tem­po e quin­di non si avrà nes­sun viag­gia­to­re che mo­di­fi­ca il pas­sa­to.

    Tut­ta­via se quell’in­con­tro si ve­ri­fi­cas­se quel bam­bi­no po­treb­be co­mun­que mo­ri­re al­la na­sci­ta sen­za in­flui­re sul­la vi­ta del­le per­so­ne con cui avreb­be a che fa­re, ma il do­lo­re stra­zian­te che ac­com­pa­gne­reb­be i ge­ni­to­ri po­treb­be por­ta­re a una rot­tu­ra del lo­ro rap­por­to. Uno di lo­ro po­treb­be en­tra­re in una cri­si de­pres­si­va an­zi­ché com­pie­re gran­di co­se, o for­se le fa­rà lo stes­so ma con mol­ta me­no mo­ti­va­zio­ne e ci vor­rà un po’ più di tem­po per ve­de­re il ri­sul­ta­to.

    Sul­la li­nea del Tem­po esi­sto­no due ti­pi di even­ti: quel­li chia­ve e quel­li neu­tra­li. I pri­mi pos­so­no in­fluen­za­re la sto­ria, men­tre i se­con­di pos­so­no in­fluen­za­re so­lo bre­vi pe­rio­di che non mu­ta­no il cor­so de­gli even­ti. Ma ca­pi­re­te da voi quant’è dif­fi­ci­le sta­bi­li­re qua­li con­se­guen­ze avrà un even­to crea­to da un viag­gia­to­re tem­po­ra­le e, se­con­do noi, non sem­bra esi­ste­re un mu­ta­men­to sen­za con­se­guen­ze, per­ciò qua­si ogni even­to è con­si­de­ra­to un fat­to chia­ve. Il più del­le vol­te può ac­ca­de­re una va­ria­zio­ne tem­po­ra­le in­no­cua ma una di­gres­sio­ne mas­si­ma è sem­pre die­tro l’an­go­lo e i suoi ef­fet­ti, per quan­to as­sen­ti all’ini­zio, po­treb­be­ro ri­ve­lar­si an­che do­po un mil­len­nio.

    Viag­gia­re a ri­tro­so nel tem­po per piaz­za­re un sas­so­li­no in mez­zo al de­ser­to si­gni­fi­ca non por­ta­re gran­di cam­bia­men­ti per evi­ta­re il ri­schio di enor­mi di­gres­sio­ni, ma ap­pun­to si­gni­fi­ca non fa­re nul­la. Ri­cor­da­te inol­tre che la na­sci­ta o man­ca­ta ve­nu­ta di av­ve­ni­men­ti e per­so­nag­gi ri­le­van­ti per la sto­ria di­pen­de qua­si sem­pre da per­so­ne o fat­ti all’ap­pa­ren­za in­si­gni­fi­can­ti.

    Cer­to la real­tà è mol­to più com­ples­sa e po­trei sta­re qui ore e ore a cer­ca­re di spie­gar­ve­la; il mio in­ten­to era so­lo quel­lo di far­vi ca­pi­re che viag­gia­re nel tem­po e ten­ta­re di mo­di­fi­ca­re gli av­ve­ni­men­ti del pas­sa­to è un az­zar­do trop­po al­to per­ché pos­sa es­se­re fat­to per l’in­te­ro Uni­ver­so. Il tes­su­to del­la quar­ta di­men­sio­ne, il Tem­po, po­treb­be la­ce­rar­si e strap­par­si du­ran­te lo spo­sta­men­to se ve­nis­se usa­ta trop­pa po­ten­za – an­che se ciò non si è mai ve­ri­fi­ca­to e ri­ma­ne tut­to­ra una sem­pli­ce teo­ria.

    Se qual­cu­no viag­gias­se a ri­tro­so e im­pe­dis­se la na­sci­ta del­la dot­to­res­sa Ka­za­ki, lei non svi­lup­pe­reb­be la mac­chi­na del tem­po...? Esat­to, di­ver­reb­be una do­man­da: se Ka­za­ki vie­ne uc­ci­sa dal cro­no­nau­ta, vuol di­re che ave­va già rea­liz­za­to la mac­chi­na e che quin­di la tec­no­lo­gia esi­ste già, ma, tor­nan­do nel fu­tu­ro, la dot­to­res­sa Ka­za­ki non sa­rà mai esi­sti­ta. Per­tan­to in un viag­gio con in­ter­fe­ren­za c’è il no­van­ta­cin­que per cen­to di pro­ba­bi­li­tà di di­gres­sio­ne di tor­na­re in un fu­tu­ro di­ver­so e, per que­sto mo­ti­vo, nes­su­no de­ve in­ter­fe­ri­re sul­la li­nea tem­po­ra­le ma può e de­ve so­la­men­te os­ser­va­re fin­ché non si sa­rà cer­ti che il Ri­na­sci­men­to pos­sa es­se­re at­tua­to.

    Per quan­to sem­bri stra­no, il mi­glior po­sto in cui viag­gia­re in­die­tro nel tem­po con una pro­ba­bi­li­tà nul­la di cam­bia­re il cor­so de­gli even­ti è il pe­rio­do an­te­ce­den­te all’estin­zio­ne di mas­sa dei di­no­sau­ri sul­la Ter­ra. Se­con­do il pen­sie­ro dell’Agen­zia, si po­treb­be fa­re qua­si ogni co­sa in quel pe­rio­do poi­ché un enor­me aste­roi­de spaz­ze­rà via ogni azio­ne com­piu­ta fi­no a quel mo­men­to. Ma se si di­strug­ges­se l’aste­roi­de pri­ma che ster­mi­ni i di­no­sau­ri, che co­sa suc­ce­de­reb­be? Be’, se v’in­te­res­sa sa­per­lo e vo­le­te rab­bri­vi­di­re, una se­zio­ne non uf­fi­cia­le dell’Agen­zia ha ten­ta­to que­sto in­co­scien­te espe­ri­men­to dai ri­sul­ta­ti tre­men­da­men­te af­fa­sci­nan­ti.

    Un qual­sia­si cam­bia­men­to può ge­ne­ra­re un qual­sia­si nuo­vo uni­ver­so al­ter­na­ti­vo nel­la li­nea de­gli even­ti. A vol­te mi pon­go la do­man­da: qual è il ve­ro Tem­po? Se si mo­di­fi­ca un even­to nel pas­sa­to al­te­ran­do co­sì il fu­tu­ro, nes­su­no sa­prà mai che un cro­no­nau­ta ha fat­to ciò. Un so­lo uo­mo po­treb­be crea­re qual­sia­si per­cor­so tem­po­ra­le de­si­de­ri. Per que­sto l’Agen­zia in­via i suoi Guar­dia­ni in­sie­me ai cro­no­nau­ti.

    I Guar­dia­ni: ro­bot uma­noi­di dall’aspet­to me­tal­li­co e sche­le­tri­co, ca­pa­ci di as­su­me­re le fat­tez­ze di qual­sia­si uma­no gra­zie al­la pel­le sin­te­ti­ca che li ri­ve­ste. Crea­tu­re li­gie al do­ve­re il cui uni­co com­pi­to è far ri­spet­ta­re le di­ret­ti­ve dell’Agen­zia stes­sa.

    Ora che vi ho spie­ga­to co­me stan­no le co­se, co­sa suc­ce­de al di fuo­ri del vo­stro li­mi­ta­to mon­do nel qua­le cre­de­te di vi­ve­re in un flus­so co­stan­te e ri­pe­ti­ti­vo di azio­ni gior­na­lie­re, qua­si... ri­don­dan­ti, pos­so dir­vi che co­sa ho com­bi­na­to.

    Co­me ho già spie­ga­to l’obiet­ti­vo dell’Agen­zia (e di tut­ta la Ri­ma­nen­za, noi so­prav­vis­su­ti dei mon­di di Al­ma­dar ed Eu­spe­zia) era quel­lo di viag­gia­re in­die­tro nel Tem­po (ora che si ave­va­no le pos­si­bi­li­tà e le cer­tez­ze di po­ter con­ta­re su uo­mi­ni li­gi al do­ve­re) fi­no al pe­rio­do in cui i ven­ti del­la Gran­de Guer­ra ini­zia­ro­no a sof­fia­re, par­la­re con i rap­pre­sen­tan­ti del­le va­rie ar­ma­te e fa­zio­ni, e spie­ga­re lo­ro co­sa ac­ca­drà.

    Per que­sta mis­sio­ne, o me­glio la mis­sio­ne, tut­to ciò che ha im­pe­gna­to la Ri­ma­nen­za per mil­len­ni, fui scel­to io, Hec­tor Ny­kol, per la mia espe­rien­za do­po cin­quan­ta­due viag­gi tem­po­ra­li di so­la os­ser­va­zio­ne, quin­di li­gio al do­ve­re fi­no all’os­so. Con me s’im­bar­cò Aiam Se­van­ge, mio gran­de ami­co e Scien­zia­to del pia­ne­ta Al­ma­dar. Per an­ni, in­sie­me a cen­ti­na­ia di sto­ri­ci, ave­va­mo stu­dia­to e cer­ca­to di com­pren­de­re le cau­se sca­te­nan­ti del­la Gran­de Guer­ra che ave­va de­sti­na­to il ge­ne­re uma­no a im­boc­ca­re la stra­da del­la De­ca­den­za.

    Os­ser­vam­mo ge­ne­ra­zio­ni di uo­mi­ni dar­si bat­ta­glia e l’ama­ta Ter­ra ve­ni­re di­strut­ta co­me rap­pre­sa­glia all’at­tac­co che ave­va cau­sa­to la di­stru­zio­ne to­ta­le del­le Li­be­re co­lo­nie ex­tra­mon­do. Al­ma­dar ed Eu­spe­zia, gli uni­ci pia­ne­ti ri­ma­sti neu­tra­li dal con­flit­to in­sie­me a Re­my­sis, fu­ro­no per se­co­li la spe­ran­za per pro­fu­ghi, di­ser­to­ri, scien­zia­ti, pa­ci­fi­sti e tut­ti co­lo­ro che ri­pu­dia­va­no la guer­ra. Ma fu pro­prio la no­stra aper­tu­ra a tut­to e a tut­ti, uni­ta all’atro­ci­tà del­la guer­ra, a spin­ge­re l’uma­ni­tà sul ba­ra­tro dell’estin­zio­ne.

    All’epo­ca, mi­liar­di di mor­ti mar­ci­va­no nel­la Ga­las­sia; de­gli 81 mon­di ex­tra­so­la­ri abi­ta­ti 79 era­no an­da­ti di­strut­ti, la Ter­ra bru­cia­va in­ghiot­ti­ta dal­le fiam­me del­la ven­det­ta in­sie­me all’in­te­ro si­ste­ma so­la­re e su di noi, i So­prav­vis­su­ti, si ab­bat­té la pe­sti­len­za. Qual­cu­no – mol­to pro­ba­bil­men­te uno dei so­prav­vis­su­ti dell’ul­ti­mo, gran­de at­tac­co che po­se fi­ne al­la Gran­de Guer­ra – por­tò con sé qual­co­sa di sco­no­sciu­to, or­ren­do e ter­ri­bil­men­te le­ta­le che sbar­cò sui no­stri mon­di; una ma­lat­tia che i me­di­ci bat­tez­za­ro­no pro­fes­sio­nal­men­te Exon­to­vi­rus, che i ri­cer­ca­to­ri chia­ma­ro­no SD­SV (Sin­dro­me da di­stru­zio­ne sper­ma­to­zoi­ca vi­ra­le) e che le mas­se iden­ti­fi­ca­ro­no con il no­me di Apol­lu­mi, lo Ster­mi­na­to­re: un vi­rus igno­to, un es­se­re sen­zien­te che in­fet­ta e mu­ta il DNA del­lo sper­ma ma­schi­le im­pe­den­do­ne la fe­con­da­zio­ne da par­te dell’ovu­lo fem­mi­ni­le; un tas­so di ri­pro­du­zio­ne vi­ra­le fra i più al­ti mai re­gi­stra­ti nel­la no­stra sto­ria.

    Per que­sto mo­ti­vo nel lon­ta­no fu­tu­ro ci stia­mo estin­guen­do: non pos­sia­mo più ri­pro­dur­ci. Una sin­dro­me che sta por­tan­do al­la scom­par­sa non so­lo di noi es­se­ri uma­ni, ma di qual­sia­si for­ma di vi­ta sui no­stri mon­di, dai mam­mi­fe­ri ai ret­ti­li fi­no ai più pic­co­li in­set­ti. Al­cu­ni scien­zia­ti al­ma­da­ria­ni era­no riu­sci­ti a iso­la­re il bat­te­rio e a stu­diar­lo, ma al con­tem­po ave­va­no fat­to una scon­vol­gen­te sco­per­ta: il vi­rus Apol­lu­mi è un or­ga­ni­smo vi­ven­te... non ter­re­stre! Una for­ma di vi­ta or­ga­ni­ca alie­na. L’uni­ca mai in­con­tra­ta pri­ma di al­lo­ra.

    Giun­ti a ta­le sco­per­ta gli eu­spe­zia­ni re­le­ga­ro­no Al­ma­dar a una se­ve­ra qua­ran­te­na, ma trop­po tar­di: l’epi­de­mia di ste­ri­li­tà era di­la­ga­ta con una pro­li­fe­ra­zio­ne in­cre­di­bi­le, e i fo­co­lai dell’in­fe­zio­ne era­no at­ti­vi al­lo stes­so mo­do sia nel­le più po­po­lo­se cit­tà sia nel­le re­mo­te lo­ca­li­tà. Te­ne­re di­vi­si gli uni­ci due mon­di

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1