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L'anello
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Ebook354 pages5 hours

L'anello

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About this ebook

Thomas Rhide, un ex Navy Seal ora agente segreto impegnato nella lotta alla criminalità organizzata e il terrorismo internazionale, un uomo forte e coraggioso, intrepido e sicuro di se stesso, si trova in uno dei luoghi più belli e suggestivi del mondo: le isole Hawaii. Qui, sulle tracce di probabili terroristi, si troverà coinvolto in un omicidio dai risvolti internazionali. Il suo destino si incrocia a quello di Rachel, giovane e bellissima donna coinvolta suo malgrado in una storia tanto assurda quanto avvincente. Tra preziosi anelli maledetti, leggende d’altri tempi, assassini e attentati, scoppia la passione tra i due protagonisti.
LanguageItaliano
Release dateApr 17, 2020
ISBN9788835810315
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    L'anello - Alessandra Perugini

    epilogo

    capitolo 1

    Rachel si svegliò di buon umore, come sempre del resto nell’ultimo periodo. Fuori il sole dell’aurora splendeva leggero illuminando con sfumature dorate il pallido celeste del cielo estivo. I numeri luminosi sul display della radiosveglia sul comodino indicavano le sei e trenta del mattino, l’orario perfetto per alzarsi e iniziare la giornata con una benefica corsa sulla spiaggia.

    Scese dal letto con un balzo atletico, infilò una canotta leggera sopra gli aderenti leggins neri, comode scarpe da jogging e si chiuse in bagno.

    Prima di uscire fece una rapida tappa in cucina per scaldarsi una tazza di caffè, preparato la sera precedente, legò i lunghi e folti capelli scuri in una coda sopra la nuca, mise il fedele i-pod all’orecchio e si precipitò fuori per il consueto allenamento. Correre le faceva bene all’anima oltre che al fisico. Scaricava tensioni e stress, la metteva in pace con se stessa dandole un’esilarante sensazione di leggerezza.

    Il panorama da cartolina era un valido alleato: davanti ai suoi occhi una distesa sconfinata di soffice sabbia biancastra, ad est l’azzurro dell’oceano con le sue immense profondità, ad ovest una fila ininterrotta di palme alte e snelle dalle lunghe foglie verdi.

    La giornata era limpida. Piccole nuvole, macchie biancastre nel turchese, fluttuavano serafiche assumendo stravaganti forme, simili a bizzarri disegni, trasformando il cielo in un grande dipinto. Una fresca brezza si stava alzando da ovest; perfetto, quella sera pensò Rachel, quella sera il mare sarebbe stato animato da grandi cavalloni. Situazione ideale per surfare. Stava ancora prendendo lezioni, ma ormai riusciva a rimanere in equilibrio parecchio tempo cavalcando discrete onde senza cadere.

    Dominare le correnti dritta sulla tavola le dava un brivido unico, una sensazione di potenza che non aveva mai sperimentato prima. Si sentiva come una guerriera d’altri tempi alla conquista del mondo. In un certo senso le sembrava che se riusciva a non cadere, a tenere i piedi ben saldi nonostante la difficoltà, nella vita avrebbe potuto realizzare qualunque cosa desiderasse. Si sentiva potente, in grado di compiere grandi imprese. Adorava quello sport, seppur lo aveva scoperto solo di recente e il suo rammarico più grande era di non riuscire a dedicargli maggior tempo.

    Quando rientrò in casa, dieci chilometri dopo, era sudata fradicia e soprattutto affamata. Anche quella mattina avrebbe fatto una colazione pantagruelica. Avrebbe iniziato la dieta il giorno seguente. Forse. Lo sport le metteva una fame da lupi, ma le sviluppava i muscoli. Così anche se non dimagriva era sempre in forma smagliante. Sicuramente lontana dagli standard classici delle modelle curvilinee: il suo fisico era generoso ma tonico, fianchi sexy su lunghe gambe affusolate, glutei sodi e ventre piatto.

    Fece una doccia fredda, poi, con indosso solo l’accappatoio, si diresse in cucina. Sorseggiò la seconda tazza di caffè nero della giornata mentre preparava soffici pancakes che spolverò con abbondante sciroppo d’acero. Apparecchiò in giardino aggiungendo frutta fresca, yogurt con cereali e una spremuta d’arancia. Mangiò il tutto con calma, gustando fino all’ultimo boccone in completo relax, grata alla sorte che l’aveva condotta in un posto tanto magnifico.

    La sua vita era cambiata completamente nell’ultimo anno.

    Aveva lasciato la fredda Detroit, nel Michigan, per seguire Luke Benson, il suo compagno, negli alti grattacieli di New York dove, entrambi commercialisti, avrebbero lavorato nella Service Finance Benson la prestigiosa società finanziaria fondata dal nonno di Luke.

    Erano andati a vivere in un grande e luminoso attico di proprietà della famiglia Benson proprio sopra Central Park, due donne alle loro dipendenze si occupavano della pulizia della casa mentre Rachel, finito il lavoro, poteva dedicarsi indisturbata ai suoi hobby: palestra, centro benessere, shopping. Il tutto favorito da carte di credito che attingevano in un conto dalla generosa disponibilità.

    Rachel era molto fortunata, aveva tutto quello che si poteva desiderare. Ma, a volte, la realtà è ben lontana dall’apparenza. I ritmi del lavoro erano così serrati che a Rachel rimanevano ben poche energie e tempo da sfruttare per fare altro. Uscita dall’ufficio tornava sfinita nel suo appartamento, aspettava Luke che si fermava sempre oltre l’orario di chiusura, riscaldavano senza entusiasmo la cena che trovavano pronta in frigo per poi crollare esausti nel letto.

    Il weekend andava meglio: gli uffici chiusi concedevano a Rachel e Luke il tempo per romantiche passeggiate, mostre, cinema e cene con gli amici. Quella vita che sembrava perfetta, ma che di perfetto aveva solo l’aspetto, durò solo pochi mesi. Una sera Rachel, attardatasi per un puro caso in ufficio, aveva scoperto che Luke non faceva gli straordinari dietro calcoli che non tornavano, ma nelle braccia di Tessa, la sua segretaria. Gli incontri clandestini andavano avanti da diverse settimane e Rachel, scoperta la tresca, fece l’unica cosa sensata: lasciò a malincuore Luke, il lavoro, l’attico meraviglioso e la finta sicurezza dove stava annegando. Sola, senza entusiasmo e col cuore gonfio di delusione ricominciò da sola e da zero una nuova vita.

    Rinunciò ai lussi che la ricchezza dei Benson le offriva, alla promettente carriera che l’azienda di famiglia acquisita le garantiva, all’agiata e invidiabile movida newyorkese perché si era resa conto che era vuota superficialità.

    Era prigioniera di un sistema che l’aveva inglobata nei suoi ingranaggi senza che se ne fosse neanche accorta. La ricopriva di benefici effimeri per mai appagarla completamente. Era tutto vacua apparenza. Insulsa mondanità. Il suo bellissimo ragazzo non era innamorato di lei, era concentrato solo su se stesso: divertirsi, fare carriera e godere appieno delle cose che i tanti soldi, di cui disponeva, gli permettevano.

    Ma non era pronto al sacrificio, alla dedizione verso un’altra persona. Non era leale, non era sincero, non era fedele. E Rachel aveva bisogno di autenticità, di verità e di semplicità. Per questo prese solo le cose essenziali, quelle che entravano in una valigia, guardò il mappamondo e ad occhi chiusi scelse un posto. Un posto che riguardava solo lei, nel quale voleva vivere e nel quale sarebbe andata per un nuovo inizio.

    Le mani girarono ansiose sopra la sfera del piccolo globo che ruotava frenetica, toccando paesi vicini e lontani alla ricerca di una meta speciale. Alla fine si fermarono chiamate da una forza più grande della sola ragione, attratte da una calamita invisibile che le diceva che lì era la sua casa. Il sole, il caldo, il mare vinsero su tutto il resto e Rachel decise che si sarebbe trasferita alle Hawaii.

    Senza riflettere ulteriormente rispose ad un annuncio di lavoro, trovato su di una agenzia di collocamento on line, come bagnina di salvataggio in un esclusivo hotel di lusso di Honolulu. Affittò tramite internet un cottage vicino alla spiaggia, poi, incoraggiata dalla facilità con cui il web velocizzava l’organizzazione del trasferimento, partì senza rimpianti per l’isola di Oahu, lasciando Luke con poche parole. In fondo i suoi gesti si commentavano da soli, non c’era altro da aggiungere. Non ci furono pianti né scenate nel loro addio, si separano dopo cinque anni insieme come se si fossero appena conosciuti. E forse, a ben pensarci, non si conoscevano affatto.

    Ad Honolulu Rachel trovò finalmente la sua dimensione: aveva adorato quel luogo appena aveva appoggiato il piede sul suolo hawaiano, sentiva che lì sarebbe stata felice e vi avrebbe trascorso il resto della sua vita. Era scattato un amore a prima a vista.

    I primi giorni era affascinata dal contatto con la natura, si addormentava ascoltando lo sciabordio delle onde che, come una leggera ninna nanna, si infrangevano sulla battigia a pochi metri da casa sua. La mattina era lo stesso rumore ritmico delle onde, che salutavano la spiaggia dorata al sole nascente, a svegliarla. Alcune volte le arrivava il frastuono energico di un mare in burrasca, mentre altri giorni una quieta melodia del mare calmo e placido. Aveva in breve tempo imparato a conoscere i cambiamenti del tempo in base all’umore dell’Oceano.

    Adorava l’acqua, la sensazione di leggerezza che le dava essere immersa nel liquido caldo e ristoratore, un richiamo ancestrale alla vita intrauterina. Trascorreva molto del suo tempo libero in piscina. Era il suo sfogo, il suo relax, la sua evasione dal mondo. Era stata una provetta nuotatrice da ragazza collezionando diverse medaglie, così aveva deciso di trasformare un hobby in un lavoro per guadagnare qualcosa ai tempi dell’università e non gravare troppo economicamente sulla famiglia. Ora il brevetto di salvataggio le era tornato utile e le aveva permesso di ricominciare da zero. Il lavoro le piaceva molto, era sempre a contatto con turisti, gente spensierata e rilassata che voleva solo riposarsi e divertirsi. Niente a che vedere con quello che faceva prima: otto interminabili ore dietro una scrivania, chiusa nel grigio di un ufficio, incollata ad un monitor, contando numeri che facevano girare la testa.

    La paga era buona, seppur neanche lontanamente paragonabile a quella che aveva a New York, ma almeno aveva del tempo libero. Lavorava dalle dieci del mattino alle diciotto di sera con un’ora di pausa pranzo sei giorni su sette.

    Non poteva negare che i primi mesi erano stati duri: sola, lontana da casa, con la delusione della sua storia finita e il lutto per l’amore spezzato da rielaborare, senza nessuno a cui aggrapparsi. La città, seppur meravigliosa era estranea e non aveva nessun posto famigliare dove rifugiarsi nei momenti di crisi, né amici a cui rivolgersi quando la solitudine imperversava. Ma aveva un carattere forte, un’indole intraprendente e non era nel suo stile piangersi addosso. Era molto coraggiosa e non si arrendeva facilmente. Aveva deciso di vivere alle Hawaii e che sarebbe stata felice e l’avrebbe fatto, con o senza Luke. D’altronde neanche a Detroit aveva lasciato molto. Suo padre era morto quando era una bambina e ne serbava pochi sbiaditi ricordi.

    Sua madre Jane, una bellissima e affascinante donna, aveva mollato tutto per un nuovo amore volando in Texas e Rachel non se l’era sentita di seguirla. Lei era l’unico familiare che aveva, ma era una donna complicata.

    Nella vita aveva sempre fatto l’agente immobiliare conoscendo tanti uomini diversi. Incapace di stare sola, iniziava storie improbabili che puntualmente finivano male, lasciando strascichi di dolore che Rachel fin da piccola aveva imparato a consolare. A dispetto delle delusioni si era sposata un’infinità di volte, tanto che ormai ne aveva perso il conto. Nella sua vita c’erano state tante figure maschili, ma nessun vero riferimento paterno. Aveva conosciuto Luke nella prestigiosa università di Yale che aveva potuto frequentare grazie alle generose sovvenzioni di Robert Burke, secondo o terzo marito di Jane. A lei piaceva molto Robert, forse l’unico matrimonio che aveva approvato e l’unico patrigno col quale era riuscita a creare un buon rapporto. Nonostante il divorzio erano rimasti in contatto e si sentivano ancora ogni tanto. Rachel gli era molto grata, con lui aveva vissuto un periodo di pace e serenità, era stato l’unico uomo che le aveva dato l’illusione di vivere in una vera famiglia.

    Nonostante avesse quindici anni più di Jane era molto affascinante e forse era proprio per il suo essere una persona matura e un affermato uomo d’affari che aveva catturato la simpatia di Rachel e strappato il fatidico sì a Jane. Emanava un’aura di sicurezza e stabilità di cui entrambe le donne avevano disperatamente bisogno. Ricco amministratore delegato, dirigeva una grossa società di investimenti. Si erano conosciuti, innamorati e sposati nel giro di qualche mese. Era l’uomo perfetto da tanti punti di vista, ma aveva due grossi difetti: il primo era che viaggiava molto assentandosi spesso per lavoro, il secondo che non disdegnava la compagnia femminile tradendo la moglie. Jane aveva sempre fatto finta di non sapere, in fondo era migliore di tanti altri uomini con i quali era stata, viveva in una bella casa, aveva un sostanzioso conto in banca ed era un buon padre per Rachel. Finché un giorno per caso aveva conosciuto Charly e tutto era cambiato.

    Senza pensarci aveva mollato il marito fedifrago e aveva seguito il nuovo amore nella sua proprietà a Dallas, in Texas. Rachel non aveva mai capito né approvato le scelte di sua madre e quella volta non aveva neanche cercato un senso logico. Faticava a credere che la mondana Jane, abituata alla bella vita e alle comodità, ai cocktail party e ai tacchi alti, che aveva sempre vissuto in appartamenti cittadini fra cemento e smog, si adattasse alla salubre vita all’aria aperta, che lasciati teatro e centro benessere si dedicasse agli animali e alla natura aiutando Charly nei lavori del suo ranch. Ma l’aveva vista felice. Per la prima volta dopo tanto tempo le era sembrata in pace con se stessa. Forse amava Charly come a suo tempo aveva amato suo padre Todd morto troppo presto, scomparso in un incidente d’auto quando Rachel aveva solo quattro anni.

    Jane e Todd si erano innamorati da adolescenti sui banchi di scuola e da allora non si erano più lasciati, finché un giorno un ubriaco alla guida di un tir andò contro l’utilitaria di Todd uccidendolo sul colpo.

    Jane si era ritrovata sola a crescere sua figlia. Da allora si era buttata da una relazione all’altra collezionando una serie di insuccessi, legandosi sempre ad uomini che la facevano soffrire. Era passata dal compagno violento che la maltrattava all’ubriacone che spendeva tutti i loro risparmi nell’alcool, al delinquente finito in carcere per piccoli furti. Dopo ogni fallimento si illudeva di trovare la persona giusta per lei. Diceva a Rachel di credere nell’amore e per questo dava tutta se stessa in ogni nuova relazione gettandosi a capofitto in storie romantiche con ogni uomo che incontrava. Ma la realtà era che non riusciva a stare da sola. Sotto l’apparenza di una donna disinibita e disillusa si nascondeva un’anima fragile e insicura, aveva sempre bisogno di avere un compagno per sentirsi completa. Alta, magra, perfettamente curata, attirava una gran quantità di uomini ma finiva inevitabilmente per scegliere quelli sbagliati. Quelli che prima o poi l’avrebbero delusa.

    Aveva rotto col marito numero due o tre, di cui Rachel non si ricordava neppure il nome, quando era stato arrestato per bancarotta fraudolenta. Si erano ritrovate sul lastrico, con la casa pignorata e senza un soldo. Fortunatamente Jane aveva conservato il suo lavoro e il suo fascino ed erano riuscite a tirare avanti per un po’ tra numerosi stenti. Poi la svolta: Jane in una rigida mattina d’inverno, mentre infreddolita aspettava un taxi, aveva conosciuto Robert, che da gentiluomo aveva condiviso il suo con lei. Da allora le giornate di Jane si erano riscaldate al fuoco della passione e del denaro.

    Jane aveva subito ceduto al fascino del maturo uomo d’affari, in lui vedeva un uomo ricco e potente che le avrebbe risollevate da tutti i loro problemi. Rachel vedeva una stabilità e una sicurezza che raramente aveva avuto nella vita. Le era dispiaciuto molto quando avevano rotto, anche se capiva e rispettava le ragioni di sua madre.

    Ma non aveva voluto conoscere Charly. Non era sicura che sarebbe rimasto a lungo nelle loro vite e non voleva più commettere l’errore di affezionarsi troppo a qualcuno che presto se ne sarebbe andato. Inoltre, quando sua madre si era trasferita in Texas, lei si era già laureata e aveva scelto di andare con Luke a New York. Ormai la sua strada e quella di sua madre si erano per sempre divise. Per tutta la vita si erano fatte forza aggrappandosi l’una all’altra, ma ora dovevano imparare a camminare ciascuna sulle proprie gambe, contando unicamente con le proprie forze. Per Rachel era la prima esperienza, ma era forte e coraggiosa, Jane ormai era adulta e poteva farcela.

    Purtroppo le cose non erano andate come Rachel aveva sperato: Luke si era dimostrato un poco di buono e lei era decisa a non ripetere i fallimenti materni. Non avrebbe sprecato tempo ed energie con chi non la meritava. Lei bastava a se stessa, stava benissimo anche da sola, a differenza di sua madre non aveva bisogno di nessuno per sentirsi a posto.

    In realtà ad essere sinceri i segnali c’erano tutti, solo che accecata dall’amore non li aveva voluti vedere. Anche ai tempi dell’università Luke l’aveva tradita, ma lei lo aveva scoperto molto tempo dopo e aveva deciso di perdonarlo. Il lupo perde il pelo ma non il vizio e Luke a distanza di tempo aveva nuovamente ceduto alla tentazione.

    Ma Rachel non avrebbe ripetuto lo stesso errore due volte. Dopo cinque giorni trascorsi nella più totale disperazione, decise che il tempo del dolore era finito e che doveva ricominciare a vivere: si fece coraggio e lasciò tutto.

    Scelse un posto dove trasferirsi, spese i risparmi degli ultimi mesi per il trasloco e iniziò di punto in bianco una nuova vita. Il lavoro che aveva trovato al Beach Resort Paradise era stata una manna piovuta dal cielo, le aveva permesso di concretizzare quello che all’inizio era solo un’utopia e di riprendere il suo cammino.

    Guardò l’orologio mentre indossava i pantaloncini e la maglietta cachi col logo dell’hotel, un angelo azzurro sopra una nuvola bianca; le otto e trenta, doveva sbrigarsi o sarebbe arrivata in ritardo.

    Chissà come mai, si chiese, quella mattina si era sentita tanto nostalgica da ripercorrere il suo passato.

    Fortunatamente l’autobus era in orario e arrivò puntuale al lavoro.

    La piscina dell’hotel si stava popolando di volti nuovi e vecchi clienti, Rachel l’attraversò salutando le persone che già conosceva e scambiò due chiacchiere con i nuovi arrivati, preparandosi per la lezione di acquagym che avrebbe tenuto a breve, giusto per iniziare la giornata di vacanza con un po’ di carica.

    Ai turisti piaceva rilassarsi al sole, ma ogni tanto non disdegnavano un po’ d’attività fisica, e a Rachel spezzare i turni di sorveglianza con qualche esercizio l’aiutava a rendere il lavoro meno monotono e arrivare presto a sera, quando, smessa la divisa dell’hotel, poteva correre in spiaggia per la sua tanto attesa lezione di surf.

    capitolo 2

    Sono gli ibisco, l’ilima e le orchidee che profumano ed invadono l’aria inconfondibile dell’isola. Li si trova ovunque: a ridosso delle spiagge bianchissime che lambiscono un mare dai colori mozzafiato, nelle verdi vallate sotto gli alberi del koa, sui fianchi ripidissimi delle montagne dall’aspetto preistorico. Ormai erano tre mesi che viveva sull’isola. Aveva viaggiato molto nel corso degli anni, l’esperienza in marina gli aveva permesso di attraversare ogni angolo della terra, ma nessun luogo gli era sembrato più incantato e accogliente di quello che lo ospitava ora. Le candide e incontaminate spiagge di Lanikai, il glamour della mondana Waikiki, l’Oceano Pacifico di un azzurro così acceso da sembrare fluorescente. Un paradiso fatto di sabbia finissima, acqua trasparente e dal verde brillante delle palme che, costeggiando la spiaggia, si inerpicano sinuose sui sentieri immersi nella natura. Uno spettacolo impossibile da immaginare senza averlo visto con i propri occhi, sicuramente uno dei posti più suggestivi della terra. La sua vita ora era molto diversa da quella che aveva condotto nei lunghi anni trascorsi in Iraq e in Afghanistan, impegnato in difficili missioni di guerra. Quando ancora credeva che la guerra fosse la cosa giusta da fare, l’impresa più coraggiosa che un uomo potesse compiere. Allora dormiva in rudi alloggi da campo dove anche farsi una doccia era un lusso non sempre permesso. A volte l’acqua calda finiva prima che tutti i duemila soldati riuscissero a lavarsi, altre volte semplicemente non c’era acqua corrente.

    Le fredde razioni militari sostituivano i pasti caldi, le comunicazioni con il mondo esterno erano difficoltose e mancava ogni genere di intrattenimento. In queste condizioni i militari trascorrevano interi lunghi mesi prima di poter tornare qualche giorno a casa in licenza. Ma non avevano tempo per annoiarsi.

    In qualsiasi momento il campo base poteva essere attaccato dai terroristi. In alcuni periodi, quando questo rischio era particolarmente alto, dormivano col giubbotto antiproiettile sopra il pigiama e gli stivali pronti in fondo alla branda in modo da poter essere infilati all’istante. Ripensò a quella volta in cui Josh Patterson, un suo commilitone, si salvò la vita solamente perché per una scommessa aveva dormito al contrario: un proiettile vacante lo colpì alla gamba invece che alla testa. Il ricordo gli strappò un sorriso affettuoso subito ricacciato indietro dalla tristezza.

    Purtroppo due anni dopo aveva lasciato la vita terrena durante una licenza in New Jersey, mentre guidava ubriaco ad un mese dalla pensione. Si era salvato dalla guerra per morire in uno stupido, banale, incidente d’auto. Così era la vita. Ingiusta, ironica, insensata. In Afghanistan il clima era impietoso: al caldo soffocante dell’estate si alternava il freddo pungente dell’inverno, allora era difficile stabilire quando fosse meglio uscire in assegnamento. D’estate bisognava marciare chilometri su chilometri indossando i pesanti giubbotti antiproiettile sopra la spesse tute mimetiche, gli anfibi e zaini di trenta chili contenenti il proprio equipaggiamento, nonostante le temperature roventi. Nei giorni più torridi, quando il tasso di umidità era alle stelle, si sudava così tanto che i vestiti si incollavano al corpo, finché una volta evaporati tutti i liquidi corporei non rimaneva più sudore e la pelle diventava un secco e salato strato biancastro.

    D’inverno, al contrario, si marciava con le gambe affondate nella neve alta fino alla cintura, le mani tanto intirizzite da provare fitte di dolore lancinante ogni volta in cui si era costretti ad impugnare un’arma alla svelta senza aver avuto il tempo di infilarsi i guanti. Nonostante avessero elicotteri in dotazione camminavano in silenzio, ora dopo ora, lontani svariati chilometri dal loro obiettivo. D’altronde se fossero atterrati direttamente sul punto caldo il nemico, allertato dal rumore dei rotori, sarebbe scappato prima ancora del loro atterraggio. Al buio, per non essere visti. Privandosi del sonno per mimetizzarsi nell’ambiente, gravati dal peso delle armi e dell’equipaggiamento.

    Da quando aveva deciso di lasciare i Navy Seals, nelle sue giornate erano ritornate le comodità: poteva gustarsi dei lunghi momenti di riposo leggendo un libro e concedersi del meritato relax steso sul divano. Come aveva fatto negli ultimi mesi.

    Perché per Thomas Rhide, agente segreto con un passato da Navy Seal, il lavoro che stava svolgendo ora era di puro riposo. Ma non era tornato a fare sonni tranquilli. L’esperienza della guerra è devastante e totalizzante. Non importa quanto sei addestrato, allenato, preparato. Non importa quanto sei coraggioso, sprezzante del pericolo e forte di carattere. La guerra ti cambia. Lascia conseguenze che neanche il tempo può estinguere. Forse mitigare sì, ma l’orrore che hai vissuto e che hai sperimentato ti rimane impresso a fuoco marchiandoti l’anima.

    Eppure per Thomas quel periodo era stato il più significativo e intenso che potesse ricordare. Ripensava con nostalgia ai Seals suoi compagni e alle missioni che avevano compiuto. Ogni giorno rischiava la vita e nello stesso tempo non si era mai sentito vivo come in quei giorni. Perché essere un Seal non è solo un lavoro: è una struttura mentale, un modo di vedere e di essere. Plasma la propria identità diventandone una parte. A Thomas aveva permesso di mettere ordine nei suoi pensieri instabili e dare un senso ai suoi giorni. Un senso che fino a quel momento aveva faticato a trovare.

    Aveva vissuto in marina i dieci anni più impegnativi e veri della sua vita, ma se voleva arrivare alla pensione doveva trascorrere in quel mondo altri dieci lunghi anni. E Thomas non se la sentiva più. Non che lo preoccupassero le difficoltà, i sacrifici o le rinunce a cui ogni giorno si doveva sottoporre. Non che che avesse paura di morire, di rimanere ferito o, peggio essere ancora, di essere catturato e torturato, non era questo.

    Essere un Seal, un soldato in una delle unità d’élite più importanti della nazione, non ti permetteva di farlo a tempo perso, saltuariamente. O lo eri o non lo eri. O continuavi a spenderti per la patria giorno dopo giorno o mollavi tutto ricercando nuove sfide.

    Gli anni delle missioni avevano cambiato notevolmente il cuore di Thomas. Un ragazzo ribelle e inquieto cresciuto senza madre nella fredda Islanda, lasciata la casa paterna appena maggiorenne per cercare se stesso.

    A contenere i suoi demoni lo aveva aiutato suo nonno materno, in America, indirizzandolo verso la carriera militare. Nella fredda disciplina e nella pura logica del dovere aveva riscoperto la sua essenza, dato ordine ai suoi pensieri confusi e uno scopo alla sua vita tormentata. Nelle dure prove alle quali si era sottoposto per diventare un Seal aveva messo alla prova i suoi limiti. Nel superarli aveva costruito la sua identità soffocando il dolore selvaggio che gli ruggiva dentro da quando era bambino, riempiendo il vuoto che gli attanagliava le viscere fin da quando era venuto alla luce. Ma quei giorni erano lontani. Le esperienze che aveva vissuto, le persone con cui era entrato in contatto lo avevano cambiato e lui sentiva che era arrivato al capolinea.

    Aveva visto commilitoni, amici, morire durante gli scontri. Altri avevano riportato tremende ferite, i più sfortunati orrende mutilazioni con le quali avrebbero dovuto imparare a convivere. Lui era stato privilegiato, era ancora tutt’intero, anche se la sua mente era provata dagli orrori ai quali aveva assistito. Aveva capito che quello era il momento giusto per dire basta, per voltare pagina. Non sapeva più se le sue motivazioni erano ancora così forti, se credeva ancora così fermamente in quello che faceva da rischiare la propria vita e quella degli amici.

    La proposta di entrare nell’agenzia come agente speciale era stata un’occasione che non si era lasciato scappare. Bob Fisher, il suo attuale capo, era rimasto impressionato dal curriculum di Thomas, aveva bisogno di uomini come lui nella sua nuova squadra. Lo contattò mentre era in licenza facendogli la sua offerta. Dopo un periodo di estrema indecisione in cui stava valutando la cosa giusta da fare per la sua vita, Thomas decise di accettare. Così, smessa la divisa, continuò in un certo senso, a lavorare per la sicurezza nazionale.

    Era stato inviato alle Hawaii in seguito ad una brutta ferita ad una gamba riportata nella missione precedente. Necessitava di terapie specialistiche per riprendere la corretta funzionalità dell’arto e dopo due mesi di riposo e cure aveva avuto quell’assegnamento che gli permetteva di lavorare senza mettere troppo sotto pressione la gamba. Doveva controllare dei cittadini Americani di origine pachistana sospettati di far parte di organizzazioni terroristiche, che avevano scelto come base l’isola di Oahu.

    Si trattava di Ahmad

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