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Our Days
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Ebook423 pages5 hours

Our Days

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About this ebook

Pittsburgh, Pennsylvania  
Alex e Karen.
Due mondi che continuano a scontrarsi come oceani separati, passioni incontrollabili, lacrime e bugie. Troppo orgogliosi per ammettere che qualcosa in loro è inevitabilmente cambiato, per rendersi conto che nonostante tutto, l’unica cosa che riescono a pensare ogni volta che le cose precipitano è:"o con te, o con nessun altro."
LanguageItaliano
PublisherPubMe
Release dateApr 21, 2020
ISBN9788833664897
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    Our Days - Effe Scrive

    Io me lo leggo

    Collana editoriale,

    contatto: iomeloleggo@yahoo.com

    Direttrice: Monika M

    Effe Scrive

    Our Days

    I nostri giorni

    Prologo

    Pittsburgh, Pennsylvania

    Giugno 2009

    Un’estate come le altre, col caldo umido che ti appiccica i vestiti addosso; sulla riva del fiume Allegheny un nutrito gruppo di ragazzini ha trovato riparo dal sole rovente, scavalcando la recinzione di uno dei giardini sulla strada, con un gran vociare e tante risate. Lo fanno sempre, da due anni a quella parte.

    Sono rumorosi e spensierati, sdraiati al sole sugli asciugamani colorati, mentre una vecchia radio a batterie gracchia gli ultimi successi pop.

    Anche Alex è lì, fermo a pochi passi da loro, in bilico sulla sella di una grossa moto da cross. Si è appena acceso una sigaretta e li osserva, un po’ invidioso della spensieratezza che gli legge in viso e che lui non ha più da troppo tempo.

    Ha i capelli scuri, quasi a spazzola, la sfumatura alta dietro il collo e gli occhiali scuri calati sulla punta del naso. Se ne sta seduto lì con una Marlboro in bocca e l’aria da duro, mentre la sua Adidas sinistra tormenta il pedale delle marce.

    In realtà ha anche un sorriso fantastico ma non sono in molti ad aver avuto la fortuna di poterlo ammirare.

    Le fronde dei salici sotto cui si è rifugiato si muovono appena, sospinte da un leggero venticello: è il motivo per cui si trova lì, un po’ di fresco e di pace, che però in quel momento è disturbata dal continuo vociare dei suoi inaspettati vicini.

    Sbadiglia vistosamente, è annoiato, e mentre decide se restare o no, tre ragazze si alzano dai loro asciugamani, si avvicinano al vecchio molo e si tuffano in acqua una dietro l’altra. Quando riemergono, le bocche aperte a cercare l’aria che gli era mancata, ridono di gusto.

    Tornano sulla riva, un ragazzo le raggiunge e ne trattiene una mentre le altre tornano ai loro asciugamani, ormai fradice. Afferra la ragazza dai fianchi e si tuffa in acqua portandosela dietro, totalmente incurante delle sue deboli proteste.

    Alex conosce quel ragazzo, è suo fratello minore Mike, e conosce anche la maggior parte degli altri presenti, esclusa la brunetta con cui suo fratello si sta divertendo. Si sporge un po’ di più, per osservarla meglio, e chissà perché proprio lei ha catturato la sua attenzione. È piccola, quasi gracile nel suo costume di un verde sgargiante, con le forme acerbe di una ragazzina che sta per diventare donna. 

    Lei esce dall’acqua, torna sulla riva e si strizza i capelli gocciolanti tirandoli da un lato, scoprendo il collo morbido. Dice qualcosa alla sua amica, poi scoppia in una fragorosa risata. Accenna un passo di danza, muove appena i fianchi. Ha gli occhi verdi e anche un bel sedere, pensa lui.

    La brunetta fa qualche passo nella sua direzione, inconsapevole della sua presenza, arrivata a pochi passi da lui inizia a frugare in una borsa di paglia poggiata ai piedi del salice. Trova quello che cerca, sfila la sigaretta da un pacchetto consumato e se la porta alla bocca. La lascia penzolare tra le labbra, che si muovono piano nelle parole di una canzone appena ascoltata.

    Tanta calma lo colpisce e d’improvviso non ha più nemmeno voglia di fumare.

    Lei si volta, e lo vede, proprio mentre quella Marlboro ormai finita cade a terra. Verde contro verde per un attimo, poi lui sorride.

    «Ciao», dice e la sua voce è di velluto.

    «Ciao.»

    Il suo sguardo si sposta veloce su quell’inatteso spettatore con le braccia ricoperte di tatuaggi e un sorriso che non promette nulla di buono... e sorride.

    «Come ti chiami?», gli chiede lui.

    «Karen.»

    «Io sono Alex», continua, e nemmeno si accorge di essersi spinto al limite della sella.

    Lei sorride ancora.

    «Lo so chi sei. Sono amica di Mike.»

    Fa un lungo tiro dalla sua sigaretta, qualcuno chiama il suo nome dalla riva.

    «Arrivo!», e poi si volta per un attimo. «Allora ciao, Alex. Ci vediamo.»

    Torna dai suoi amici quasi correndo, si siede sull’erba senza dire niente. Si è guardata indietro per un attimo, mentre andava via… ma no, forse Alex l’ha solo immaginato.

    Guarda l’orologio, è tardi. E anche se non vorrebbe, deve proprio andare.

    Mette in moto e se ne va con una rumorosa sgommata, giusto per essere sicuro di essere guardato, risale la strada e sbuca sull’interstatale.

    Quanti anni poteva avere? Sedici, diciassette?

    Alex vorrebbe che fosse così, ma in realtà lei non ne ha ancora compiuti quindici e lui lo sa benissimo, perché ha la stessa età di suo fratello. È una bambina, forse troppo piccola anche per lo sguardo da uomo che lui le ha riservato.

    Alex ride, tra sè e di sè, e smette di pensarci. Torna ai suoi affari, alle sue donne, ai suoi guai... eppure per un po’, nei giorni successivi a quell’incontro, rivede quella ragazzina col suo costume verde e le fossette sulle guance, le mani poggiate sui fianchi snelli, che gli sorride con una strana luce negli occhi.

    1. Prima di lei

    Alex

    Un anno dopo.

    La mia vita era vuota e non mi dava più alcuna soddisfazione.

    Sette anni prima, quando ero ancora un ragazzino, mi ero messo insieme a Judy, la mia attuale fidanzata, con l’assoluta approvazione di mia madre e mia sorella. Loro credevano che il suo contegno, la sua intelligenza e i suoi modi educati avrebbero avuto su di me l’effetto di un calmante... o almeno, lo speravano vivamente.

    Non l’avevo sempre tradita, ma poi le cose erano cambiate. Io ero cambiato, e lei non se n’era resa conto.

    Se fosse stato per noia, per gioco, o semplicemente perché ero un bastardo non lo so, comunque sia non avevo più smesso.

    Passavo con lei i weekend in cui era libera dallo studio e presenziavo a quei terribili pranzi di famiglia. Sorridevo sarcastico, quando l’idiota di turno mi chiedeva:

    «A quando le nozze?», perché in realtà io non me lo immaginavo proprio, un futuro con lei.

    Avevo smesso di amarla molto tempo prima, ma con Judy avevo un debito. Uno di quelli che non ti togli con un favore in cambio e dei ringraziamenti, eppure lei non mi aveva mai chiesto niente. Credo che quello fosse il suo modo per affrontare la brutta situazione che si era creata quando avevo distrutto la mia vita, e la sua.

    La nostra era sempre stata una comitiva di sbandati e scappati di casa. Molti non avevano alle spalle storie familiari felici, né genitori che si preoccupavano per loro.

    Per me era un po’ diverso; anche se mio padre se n’era andato pochi mesi dopo la nascita di Mike e non era più tornato né io né Natalie, la mia insopportabile e petulante sorella maggiore, avevamo mai sentito la sua mancanza.

    Venivamo tutti da quartieri di periferia, comunque, quelli in cui nemmeno i turisti più coraggiosi si avventuravano. Homewood, Larimer, Lincoln.

    Passavamo le nostre giornate a fumare e prenderci a pugni, sdraiati sulle panchine sgangherate di qualche parco giochi, facendo soldi come potevamo... peccato non bastassero mai.

    La città era cresciuta sotto i nostri occhi: all’angolo dove prima c’era la drogheria avevano aperto un supermarket, la tavola calda in cui mia madre aveva lavorato per dieci anni era diventata un ristorante italiano alla moda. Nessuno riusciva più a trovare il vero cuore delle cose, e non ci riuscivamo nemmeno noi.

    A Downtown vecchi pub e edifici in disuso si alternavano a nuove costruzioni, hotel di lusso e catene di fast-food con gli archi dorati che brillavano sopra le nostre teste.

    Ma il vero cuore della città, il luogo che frequentavamo di più, era La Strip.

    Lì i negozi di alimenti etnici si affiancavano tranquilli a negozi di grosse catene di abbigliamento e ristoranti russi, cinesi, indiani. C’era un cinema e un club del sigaro, gelaterie e caffè, chioschi di hot dog e salsicce affumicate gemelli a quelli di Forbes Avenue.

    Da quando compii quattordici anni, ogni sera io e i ragazzi iniziammo a fare la spola tra la Hot Mass e la Room 16, due discoteche distanti tra loro pochi isolati e sempre strapieni.

    Per un periodo, forse senza che me ne rendessi conto, ebbi una relazione con Barbara, alias Barbie, la quarantenne proprietaria della Room 16. M’insegnò tante cose, davvero, finchè un giorno, due anni dopo, disse di essere troppo vecchia per me.

    La verità è che io ero cresciuto e lei aveva messo gli occhi su qualcuno di più giovane, ma non me ne importò.

    Restammo in buoni rapporti, buoni amici, e poi le ragazze non mi mancavano.

    Nel gruppo eravamo in molti, e molti andavano e venivano; qualcuno trovava finalmente un lavoro a posto, qualcun altro quello che credeva l’amore della sua vita, qualcun altro ancora, semplicemente, spariva.

    L’anno in cui compii diciotto anni, la comitiva si era già dimezzata, lasciando intatti, oltre a me, quattro o cinque di noi. C’era Cole che i suoi genitori non li aveva mai conosciuti. Suo padre era di buona famiglia, una delle più rispettabili di Pittsburgh, sua madre la cameriera un po’ facile di una tavola calda di periferia. Era rimasta incinta in quell’unica notte, a sedici anni, completamente incapace di prendersi cura di un neonato.

    Era andata via subito dopo la nascita di Cole e non era più tornata, così lui era cresciuto con suo nonno, Harold Barrington, americano purosangue ed ex colonnello della marina militare. Un brav’uomo, forse, quando aveva avuto qualche anno in meno, ma che dopo la morte di sua moglie aveva affogato i suoi problemi nell’alcool ed era diventato violento. Sommerso dai debiti aveva venduto la casa di famiglia e comprato un angusto appartamento a Lincoln. Per questo Cole era venuto su... beh, quello che era.

    Grande e grosso e sempre incazzato, un concentrato di muscoli parecchio irritabile. Spaventava i ragazzi e ammaliava le ragazze, con quei lineamenti marcati e i denti bianchissimi che quasi luccicavano, le rare volte in cui sorrideva. Ogni cosa nel suo aspetto, dalla pelle color cioccolato agli occhi neri, lanciava il medesimo messaggio: "pericolo". Oltre che pericoloso, poi, Cole era completamente fuori di testa, non si tirava mai indietro quando c'era da rompere qualche naso e mi aveva tirato fuori dai guai in parecchie situazioni.

    Simon non era altrettanto pericoloso, anche se passava la maggior parte del suo tempo ad allenarsi come se dovesse partecipare alle olimpiadi. Aveva praticato la boxe per anni, finchè un destro, un po' troppo irruento, non lo aveva mandato in ospedale con un parziale distacco della retina. Non era riuscito a recuperare completamente la vista e addio boxe, perciò passava la maggior parte del suo tempo prendendo a pugni il sacco appeso nel suo scantinato, o le persone, ma quello era un evento raro. Simon era fissato con le macchine da corsa, ed era l'unico di noi a non essersi fatto ritirare la patente perciò la maggior parte delle volte ci faceva praticamente da chaperon. Suo cognato gli aveva regalato una vecchia BMW, un rottame che lui aveva messo a punto e di cui andava fiero come se guidasse una Ferrari. Viveva nelle case popolari del mio stesso quartiere, con sei sorelle in cinquanta metri quadri. Il suo fisico possente si notava ancora di più quando cercava di sdraiarsi sul minuscolo divano del suo soggiorno e, non riuscendoci, finiva per lasciare che gambe e piedi penzolassero oltre il bracciolo consunto. Tutte le sue sorelle, nessuna esclusa, avevano i suoi stessi capelli rossicci e le lentiggini sul naso. Nessuna di loro era davvero carina, Camille era l'unica ad aver trovato un fidanzato, Simon ripeteva continuamente che sarebbe morto prima di poter vedere i suoi nipoti. Sua madre batteva in strada, da qualche parte lontana da Pittsburgh e gli spediva soldi ogni mese.

    Jess era quello che diceva più stronzate: non importava quale discorso si stesse facendo, lui raccontava un sacco di balle. Gliele perdonavamo tutte, comunque, e non poteva essere diversamente; con quell'aria da bravo ragazzo e i capelli biondi sarebbe stato difficile per chiunque di noi incazzarsi sul serio con lui. Era l'unico a non fare uso di stupefacenti, una canna ogni tanto se per caso andava in discoteca, ma per il resto era un tipo molto tranquillo, aveva sempre un momento per fermarsi ad ascoltare i problemi e, se ci riusciva, trovare una soluzione. Gestiva un piccolo pub con annesso un appartamentino, era convinto di fare il botto e poter finalmente raggiungere la sua fidanzata storica nel Midwest ma in realtà quel posto non gli rendeva niente e lui lo sapeva bene. La verità era che avere qualcosa da fare lo teneva occupato e gli impediva di diventare come noi.

    E poi, ultimo ma non meno importante, c’era Daniel. Il peggiore tra tutti noi, il mio migliore amico in assoluto da quando, entrambi sedicenni, avevamo svaligiato un minimarket indiano sulla Boulevard.

    Eravamo entrati insieme, col passamontagna calato sul viso, ma era lui ad avere il ferro, una vecchia calibro 38 rubata dal cassetto di suo padre mentre lui, dopo averlo pestato per bene, si era accasciato sul divano completamente ubriaco. Aveva puntato la pistola dritta contro la fronte del commesso, senza un tremito nella mano.

    «Ok Apu», aveva detto. «Adesso apri la cassa senza fare scherzi, o ti faccio saltare quella testa di cazzo che ti ritrovi.»

    L’aveva chiamato Apu, capite? Come il personaggio dei Simpsons, proprio come avrebbe fatto un ragazzino, perché in fondo lo era... lo eravamo entrambi. Da quel momento eravamo diventati inseparabili, culo e camicia.

    ***

    Fu in quel periodo che conobbi Judy, la vidi all’uscita della scuola un pomeriggio di Marzo. Aveva i capelli biondi, una spruzzata di lentiggini sul naso all’insù e grandi occhi scuri, che rendevano ancora più evidente la sua espressione sempre sognante. Non avevo mai conosciuto nessuno con più sogni nel cassetto.

    Dopo un anno, appena finito il liceo, lei iniziò la scuola di medicina alla University of Pittsburgh e nonostante fosse praticamente a casa iniziai a vederla pochissimo. Ancora meno la vidi quando iniziò il tirocinio al Pittsburgh Medical Center, ma a quel punto la nostra storia era già finita da un pezzo.

    Judy viveva a est del centro, più a est della zona universitaria, in uno dei quartieri residenziali, quelli dall’elegante aria da cittadina di provincia, a Squirrel Hill. Niente di più lontano dal mio appartamento a Homewood, con le case mobili e i cumuli di immondizia a ogni angolo.

    Squirrel Hill era come un altro mondo, lontano, diverso. Estraneo.

    Non so perché rimasi con lei, in realtà. Forse non volevo deludere mia madre e le aspettative che aveva su di me.

    Mia sorella Natalie si era laureata col massimo dei voti all’accademia di belle arti, proseguendo il tirocinio in California per un paio d'anni. Era tornata a casa perchè mia madre non poteva più permettersi di mantenerla ed ora era lei a pagare i conti di casa; Mike era il figlio che tutti vorrebbero avere: il classico bravo ragazzo americano, con i capelli biondi di mia madre e il fisico da quarterback, eccelleva in qualunque cosa decidesse di fare. E poi c’ero io, a cui tutto era permesso nonostante non facessi altro che portare a casa guai.

    Nessuno di noi apparteneva a quell’America che i miei nonni avevano sognato e conquistato. Il mio nonno paterno, Tony, era stato uno di quei cubani comunisti che erano riusciti ad ottenere lo status di rifugiati, e questo solo perché quando la polizia aveva avvistato la zattera su cui viaggiava insieme ai suoi fratelli, lui si era tuffato in acqua e aveva percorso a nuoto i duecento metri che lo separavano dal suolo americano.

    Non erano riusciti a fermarlo prima che uscisse dall’acqua, e così era diventato un cittadino americano a tutti gli effetti.

    Da lui avevo preso il carisma, la carnagione abbronzata e quegli occhi verdi che stonavano tanto con le mie origini. Gli somigliavo molto: avevo il suo stesso viso spigoloso, la sua altezza. Non lo avevo mai conosciuto, ma mi sarebbe piaciuto poterlo fare; avevo come l'impressione che non fossimo simili solo nei tratti somatici, ma anche nel carattere.

    La famiglia di Judy, invece, era una delle più facoltose di Pittsburgh, e oltretutto lei era figlia unica. Fu un bene, in un certo senso, perché non c’era nessuno che potesse mettermi i bastoni tra le ruote quando sfogavo su di lei i miei malumori, proprio come aveva fatto mio padre prima di me. Picchiare le donne era l’unico esempio che avevo avuto, e anche se in cuor mio sapevo di fare schifo non riuscivo proprio a controllarmi.

    ***

    Come in ogni altra città d’America, anche a Pittsburgh c‘era la mafia, o almeno c’era stata fino al 2006.

    La malavita italiana si era formata negli anni dieci, divisa tra la mafia siciliana di Gregorio Conti e la camorra napoletana dei fratelli Volpe. Le due fazioni si erano poi unite vent’anni dopo, grazie a Jhon Bazzano, boss della famiglia La Rocca, La Famiglia di Pittsburgh, che iniziò a controllare racket, riciclaggio, prostituzione, narcotici, gioco d’azzardo, contrabbando... in quegli anni tutto ciò che aveva a che fare con i traffici illegali era sotto il loro controllo. Alleati con i Gambino e i Genovese, La Famiglia aveva anche il controllo dei quartieri italiani di Larimer, Homewood, Hill District, Downtown. Si contendevano il territorio con le varie gang di strada e vinsero sempre, finchè non iniziarono a perdere potere e affiliati, lasciando attiva solo una manciata di membri, concentrati esclusivamente sul gioco d’azzardo.

    Né io né gli altri c’eravamo mai interessati a quel genere di cose, niente affiliazioni né giuramenti col sangue, soprattutto non eravamo i tipi che facevano il lavoro sporco per gli altri. Eravamo in contatto con un vecchio amico del quartiere però, Steve, che si era affiliato qualche anno prima a una di quelle gang ed era salito in fretta nella gerarchia criminale. Era lui che forniva a me e Cole l’erba e la coca, e sempre lui ci propose un affare molto conveniente per entrambi, in altre parole ritirare il carico degli stupefacenti direttamente dal suo contatto a Detroit.

    I controlli doganali erano aumentati negli ultimi mesi e loro avevano già perso troppi carichi. Quindi, per arrivare al punto, noi avremmo avuto la nostra parte in contanti o roba, lui due corrieri svegli e poco preoccupati delle possibili conseguenze.

    Accettammo subito.

    In quel periodo in particolare i soldi scarseggiavano e Daniel aveva appena messo incinta Jakie, la sua attuale fidanzata, con l’unico risultato di arrivare dritto dritto a uno sfarzoso matrimonio riparatore che ovviamente non poteva permettersi. Non lo vedevamo quasi più, ed erano finiti anche i colpi insieme ai minimarket, con cui ci toglievamo parecchi problemi.

    I primi tre viaggi, a bordo di un treno della Pennsylvanian, furono un successo.

    Partivamo con l’ultimo treno, quello delle undici, e arrivavamo a Detroit alle dieci di mattina. Lì, dopo quasi dieci ore di viaggio, il contatto di Steve veniva a prenderci per portarci al club, dove ci consegnava i borsoni sportivi in cui era impilata la roba, già impacchettata e pronta da smerciare.

    All’improvviso ci ritrovammo con le tasche piene di soldi, il rispetto della gang, l’ammirazione delle ragazze che incontravamo nei club di Detroit... ma non ci bastava, ne volevamo sempre di più.

    Comprammo un auto, una Mini Cooper rossa, nuova di zecca e superaccessoriata, e iniziammo a vestirci bene. Non stile Gangster, per intenderci, ma firmati dalla testa ai piedi: Adidas, Ralph Lauren, Nike e Levi’s per me, mentre Cole passava in rassegna le boutique più raffinate di Armani e Dolce&Gabbana. Tutta roba che solo pochi mesi prima non avremmo potuto nemmeno guardare.

    Cole si comprò una Honda blu notte 1000, io regalai a mia madre una collana con diamante di Cartier per il suo quarantesimo compleanno.

    Iniziai a riempire Judy di bei vestiti e borse firmate, di cene fuori in ristoranti di lusso. Andammo persino in vacanza, una settimana a Charleston, dove lei s’innamorò letteralmente delle case in stile vittoriano sulla costa e di Litchfield Beach. Disse che le sarebbe piaciuto un sacco vivere lì, svegliarsi ogni mattina col rumore delle onde e dei gabbiani.

    A essere sinceri, in quel momento avrei tranquillamente potuto comprare una di quelle case che le piacevano tanto e andarci a vivere insieme, ma l’idea non mi sfiorò minimamente... e fu allora che capii di non essere più innamorato di lei.

    In realtà lo dimostravo continuamente, tutte le notti in cui al club mi scopavo qualche ragazza di cui poi non ricordavo nemmeno il nome, tutte le volte che non riuscivo a controllare i miei sbalzi d’umore e iniziavano le urla, poco prima delle botte.

    Per un paio d’anni tutto andò per il verso giusto: i viaggi, i carichi, i soldi da spendere... il sogno di poter avere un futuro migliore di quello a cui eravamo destinati. Avevamo affittato addirittura un appartamento, una topaia senza finestre nella periferia est, in cui tagliavamo e impacchettavamo di nuovo la coca, proprio come nei film. Cole parlava persino di aprire un locale tutto nostro.

    Tutto fantastico, davvero, finchè non iniziammo a sniffare la coca che avremmo dovuto vendere, a fumare l’eroina che ci faceva guadagnare migliaia di dollari.

    Quel periodo lo ricordo come un incubo senza fine, una lenta discesa nell’oblio, ma la cosa peggiore, in mezzo a tutto quello schifo, fu che finii col trascinarci dentro anche Judy.

    Da studentessa modello si trasformò in una tossicodipendente senza più speranze ne sogni nel cassetto. E se per me fu diverso, perché in fondo me l’ero andata a cercare, per lei significò l’infrangersi di tutti i suoi sogni.

    Dopo un po’ iniziò ad accompagnarci durante i trasporti, per avere la sua parte. Avrei dovuto sentirmi uno schifo e invece quella situazione mi stava bene, perché potevo tranquillamente continuare a guadagnare la mia parte senza rinunciare al consumo, era lei a pagare i miei vizi, insieme ai suoi.

    E alla fine, in un torrido pomeriggio di luglio, la nostra ascesa si arrestò, nel vero senso della parola.

    ***

    Era il terzo carico del mese e anche se il compenso non era più quello di prima lo facemmo lo stesso, perché quella era la nostra unica fonte di guadagno.

    «Cazzo, che caldo!», sbottai all’improvviso spalancando il finestrino.

    Cole si era appena acceso una canna e l’abitacolo si stava già riempiendo del fumo denso e dolciastro dell’erba. La strada davanti a noi era un immensa distesa di asfalto rovente.

    Mancavano pochi chilometri all’uscita per la I-279, l’interstatale che passava proprio in mezzo a Pittsburgh; non vedevo l’ora di togliermi di dosso quei vestiti puzzolenti e farmi una doccia.

    Avremmo dovuto passare dal club per la consegna a Steve, e poi nel nostro appartamento, ma né io né Cole avevamo intenzione di farlo.

    Avevamo riposto la pipetta che usavamo per il crack da meno di mezz’ora e in macchina c’era un gran silenzio; Cole fumava, lo sguardo fisso sulla strada, visibilmente rilassato, mentre Judy era mezzo sdraiata sul sedile posteriore, la fronte poggiata contro il finestrino chiuso. Aveva i capelli appiccicati alle tempie e intorno al viso, ma sembrava non le importasse. Ai suoi piedi, sui tappetini sudici, cicche di sigarette e residui di polvere bianca si mischiavano a uno spesso strato di tabacco e rametti d’erba ormai spogli.

    Judy quello non lo vedeva, perché in realtà non stava guardando proprio niente, aveva gli occhi rovesciati dietro le palpebre dischiuse, una striscia di bianco senza pupilla appena visibile.

    In quel periodo pesava forse trenta chili e il vestito leggero che indossava, a fiori blu, le stava largo dappertutto. Sotto portava un paio di stivali da cowboy che avevano visto giorni migliori, ma che in quel momento valevano molto più di quanto non sembrasse. Mi chiedevo spesso se nei momenti come quello, in cui lei sprofondava in un mondo inaccessibile e tutto suo, ripensasse alla ragazza che era stata, a quando era frivola e il suo unico problema era cosa indossare alle cene aziendali di suo padre. Non pensavo a quanti dei suoi sogni si fossero infranti a causa mia, nè che avrei dovuto lasciarla libera da me e da quel pantano che era la mia vita. La mia unica preoccupazione, in quel momento, era che Judy non smettesse di elargire contanti per soddisfare i miei capricci.

    La testa di Cole si abbassò di scatto e la Mini sbandò bruscamente, provocando un concerto di clacson dietro di noi.

    «Cristo!», sbottò riprendendo il volante, e poi scoppiò in una fragorosa risata. «Sono così stanco che dormirei per due giorni di fila.»

    «Già, però cerca di restare sveglio per un’altra mezz’ora. La prossima uscita è la nostra.»

    Lui aprì il finestrino e gettò via la canna fumata per metà, nello stesso momento io mi sporsi dal mio lato per leggere i chilometri mancanti e la volante comparve nello specchietto retrovisore.

    «Cazzo», mormorai.

    Ci guardammo in faccia e sapevo che entrambi, in quel momento, stavamo pensando alle valigie nel bagagliaio, stipate di droga, e alle bustine di cellophane che avevo infilato negli stivali di Judy.

    Eravamo fottuti.

    Cole accelerò, la volante fece lo stesso e ci fece segno di accostare, ma lui non si fermò.

    «Che cazzo credi di fare?», quasi urlai. «Accosta.»

    Cole mollò un cazzotto sullo sterzo.

    «Cristo Alex, questi ci fanno il culo!»

    «Cole, accosta.»

    A quel punto Judy si risvegliò dal suo torpore e fece capolino in mezzo ai nostri sedili.

    «Se ci fermano adesso», disse con un filo di voce. «Ci arresteranno.»

    «Brava, bella intuizione!»

    Mi voltai e lei fissò gli occhi nei miei. Erano vigili, svegli, e lei aveva un leggero sorriso sulle labbra.

    «Ti amo», disse quando Cole finalmente si fermò e la volante si accostò a sirene spiegate.

    «Non preoccuparti, andrà tutto bene.»

    ***

    Di quello che successe dopo quel giorno non parlo volentieri, e non solo perché dimostrai di essere il più grande pezzo di merda del pianeta quando permisi a Judy di addossarsi tutta la colpa, ma perché quei giorni passati in carcere, a dormire con un occhio solo, furono i peggiori della mia vita.

    In quella cella sudicia mi disintossicai per la prima volta.

    Come ho appena detto, Judy si prese la colpa per tutte le accuse che il procuratore distrettuale mosse contro di noi. Disse che la roba era sua, che la spacciava all’università e noi eravamo solo andati a prenderla a Detroit.

    Sapevano tutti che erano cazzate, ma il giudice prese per buona la sua versione e ci accusò solo di favoreggiamento, fummo fuori in tre mesi.

    Judy era incensurata, di buona famiglia, con una media altissima negli studi, e dichiarando la sua tossicodipendenza si beccò solo qualche mese in comunità e poi un lavoro nei servizi sociali.

    I suoi dovettero sborsare trentamila dollari, per farla riammettere all’università.

    Per un po’ le nostre strade si divisero, lei doveva rimettersi in carreggiata ed io non riuscivo più nemmeno a guardarla negli occhi. Se era stata dura per me com’era stata per lei, in mezzo alle squilibrate del penitenziario femminile?

    Non volevo pensarci, non potevo.

    Io e Cole tornammo a frequentare i vecchi amici del quartiere e pian piano le nostre vite tornarono quelle di prima... fino alla sera in cui incontrai di nuovo quella ragazzina, e le cose presero una piega del tutto inaspettata.

    I giorni precedenti a quell’incontro non furono particolarmente significativi, ricordo che desideravo soltanto poter dormire continuamente. Passavo il mio tempo ad annoiarmi e, per assurdo, ogni giorno mi sembrava sempre più monotono e noioso del precedente. Niente riusciva più ad attrarmi o incuriosirmi, fino a quel sabato sera.

    Era la metà di dicembre, e la neve aveva già iniziato a posarsi sulle strade e sui marciapiedi. Ero alla Room 16 da poco più di un’ora, stavo aspettando Cole e non avevo ancora incontrato nessuno con cui parlare, così ero sprofondato in una delle poltroncine a bordo pista bevendo un cocktail dietro l’altro. In realtà preferivo il Whisky, ma mi adattavo alle situazioni.

    Stavo giusto per ordinare qualcos’altro, magari un po’ più forte di quello che avevo già bevuto, quando il mio sguardo annoiato si fermò su di lei.

    La ragazzina era in piedi di fronte a me, dall’altro lato della pista da ballo, un’espressione di profonda insofferenza sul bel visetto.

    Erano passati degli anni da quel pomeriggio sull’Allegheny River, erano successe tante cose e avevo incontrato talmente tante persone, eppure nel momento in cui il mio sguardo si fermò su di lei ci misi un secondo a ricordare con precisione la prima volta che i miei occhi avevano incrociato i suoi.

    Quel pomeriggio, il caldo, lei che al sole mi era sembrata bella da impazzire, con le lunghe ciglia impiastricciate di mascara e un sorriso che era un broncio… e come dopo quel giorno mi ero improvvisamente accorto che i suoi occhi verdi erano vivi e mobilissimi, che quando sorrideva ai lati delle guance si formavano due fossette irresistibili, che aveva le mani piccole e la vita sottile.

    Non avevo più pensato a lei, quando l’avevo incontrata era solo una bambina, ora però le cose erano leggermente cambiate. Le mie labbra pronunciarono il suo nome senza emettere suoni. Karen. Si chiamava Karen, e non era più la bambina che ricordavo: era pallida, niente a che vedere con l’abbronzatura di quell’estate, con le occhiaie di chi la notte gioca a carte con l’insonnia. Come me.

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