Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Equilibri precari
Equilibri precari
Equilibri precari
Ebook155 pages2 hours

Equilibri precari

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Piccoli testamenti di gente in fuga. Diciassette tasselli in cui l’autrice racconta la vita.
Una madre pronta a uccidere pur d’accudire il figlio, una figlia incapace di guardare davvero sua madre, due uomini sospesi insieme nel vuoto, una ragazza che ha attraversato due vite…
Scrivere è facoltà di memoria per non lasciare indietro nulla di sé e del proprio mondo, sempre sospeso tra equilibri faticosamente costruiti e tuttavia precari.
LanguageItaliano
Release dateApr 2, 2020
ISBN9788835807278
Equilibri precari

Related to Equilibri precari

Related ebooks

General Fiction For You

View More

Related articles

Reviews for Equilibri precari

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Equilibri precari - Angela Flori

    amore

    Equilibri precari

    «Occasione irrepetibile! L’azienda del benessere 6Okay è lieta di offrirle un’offerta promozionale, un’occasione irripetibile. Le interessa?», dico con voce tintinnante, un po’ rovente.

    E se non le interessa faccio in modo che le interessi!

    Ho quattro minuti di tempo per intrufolarmi nella psicologia della potenziale cliente, punto dritto alla ciccia, alla devastazione dell’età, alla gradevolezza estetica: una gonfiatina qua, una sgonfiatina là. Facile no?

    La voce diventa dolce, la conversazione competente, professionale, dettagliata, bugiarda.

    Sono quasi tre anni che ripeto la stessa tiritera di occasioni irripetibili, attizzando la curiosità di utenti telefonici sconosciuti, selezionati a caso.

    A marzo, di solito, la ditta mi contatta e io, con l’incendio della sigaretta costantemente tra le labbra e tomi di abbonati Telecom fra le mani, parto all’attacco.

    Ogni incertezza di vita di disoccupataincercadilavoro si appiana e, per circa tre mesi, fino alla pausa estiva, trovo il mio senso nella realtà universale del tutto.

    Niente extrasistoli, nessun cardiopalma. Bonaccia.

    Poi i miei donatori di lavoro mi licenziano.

    Guadagno poco, percentualmente al numero di clienti che riesco a procurare. Quando si recano in sede, col viso felice al pensiero dell’imminente ricambio somatico, della riduzione dell’adipe, del ringiovanimento epidermico, dello spianamento delle rughe, i vertici aziendali mi assegnano punti e alzano il guadagno.

    Così, di fronte all’indignazione generale, sui milioni di euro spesi dagli italiani per comprare uova di cioccolato, colombe farcite, agnelli pasquali, io mi aggrappo a un rivolo di gioia segreta! Un sorriso mi frana tra le labbra, al pensiero di tante bellezze sciupate e linee esplose.

    Non che mi piaccia sapere di tante donne con la vita devastata!

    Il punto vita, intendo.

    Ma più loro si rimpinzano, si stracolmano, si abbuffano e tracimano, più sono certa di collezionare ancora il mio lavoretto primaverile.

    «Buongiorno, l’azienda del benessere 6Okay…».

    Certi clienti riattaccano gelidamente, altri commentano che non ci sia niente di più perverso del tempo che agisce sul corpo, e interrompono lo stesso.

    Una volta una tizia, dall’età indefinita e inconfessata, ascoltò compunta, poi chiese la procedura per trovare impiego al call center.

    Riattaccai io, mi mancava solo di subire un sabotaggio!

    Un’altra volta mi imbattei in un’affascinante voce maschile interessata a saperne di più. Non perdetti occasione e, con fraseggi piccanti, nicchiai al peso della forma fisica sul nostro benessere generale. E chi immaginava che quello, ingordo, sguinzagliasse i suoi anarchici tabù oltre il cavo telefonico, palesandomi un poliprospettico malebolge. Riattaccai. Ma da allora folletti orgiastici scompongono gli spazi onirici dei miei sonni e tenzonano eroticamente nella caverna più buia della mia psiche.

    «Buongiorno, l’azienda del benessere 6Okay…».

    Arriverà la sera: home sweet home. Depositerò i miei strumenti di lavoro e il silenzio mi ritroverà naufraga sul divano, tra corsare interruzioni dell’amica Michela che, al calar del sole, squilla per proporre uscite improvvise e arringa a ogni mio diniego. Sarà che sono già in pigiama e ciabatte, pronta per il letto, e il pensiero di uscire, quasi iniziassi una giornata mentre ho solo desiderio che la notte la cancelli sul mondo, mi pare un’insostenibile, illogica fatica. L’amica Michela, invece, sembra capace di reggere in aria il pianeta.

    «Sei Okay?», mi chiede ridendo.

    Ogni sera la stessa storia: cinema, pizza McDonald’s, qualche confidenza, un aperitivo, discoteca, due passi: vuole convincermi a uscire e reclama, con sofismi e sillogismi, che non posso chiudermi in me stessa. Esibisce energie, suggerisce dettagli per una sana disciplina, per scavalcare la giurisdizione di single/zitella e poi, con rincorsa eccezionale, spalanca l’infallibile universale convinzione: «Troppo comodo il lavoro telefonico! Sei sempre in casa, senza ansie, senza stress, senza orari, zero metro affollate, zero fetori umani (anzi bestiali). Per forza ti impigrisci…».

    Per forza m’impigrisco? Incasso e mi consegno a lei inerme: «Okay, uscirò domani», prometto ogni volta, invariabilmente ferita a morte. «Questa sera ho già sotto gli occhi un libro».

    È una storia d’amore felice, in una città colorata dove ciascuno fa quel che vuole. Mi piacerebbe essere la seconda edizione, maneggiare la vita della protagonista, rotolarmi col suo bel maschione tra ipertrofiche sregolatezze dionisiache. A sentirli, i romanzieri dicono tutti che la vita è il vero romanzo: insostituibile, prezioso, palpitante, dalle inesauribili possibilità. Io però non sono sicura di afferrarne il senso. Secondo me, quando li inchiodi con interviste, gli scrittori sentono il dovere di rinfrancarti sul fatto che verità e farsa a volte s’assomigliano e partoriscono concetti metaesistenziali e risarcitori, difficilmente credibili. Se qualcuno leggesse la mia vita sbadiglierebbe al primo rigo, stramazzerebbe di noia.

    Guardo l’orologio: le quindici e quaranta. Il tempo passa serrato, senza smagliature sulle note affabulazioni. A pranzo scordo di mangiare e, se cucino, scordo le pentole sul fuoco.

    Suonano alla porta. Apro e incombono due figuri appostati sul pianerottolo, accanto alle macerie scheletrite del ficus benjamin che, con botanica caparbietà, lotta per la sopravvivenza. Un uomo e una donna chiedono di entrare. Dal loro sorriso calmo, visibilmente fraudolento, presagisco il pericolo, le inondazioni di testimonianze di Verità metafisico-teologica, l’attentato evangelizzante che mi vomiteranno addosso. Il metabolismo non può reggere, lo spirito non so: è disperso e quel che resta è irredimibile. I testimoni di Geova non li ho mai potuti soffrire.

    «Sto lavorando», dico diplomatica, e imposto un contegno, il migliore che si possa tentare in ciabatte, pigiama e mollettoni.

    «Non ho tempo per riflettere su fede, morte e quella roba lì».

    Ma la donnina, ispirata, restaurando il materno sorriso che solo per un impercettibile secondo aveva vacillato: «Cara giovane amica, lei pensa mai al senso dell’esistenza? A quale scopo serve questa nostra vita, che il tempo brevemente ci porta via?».

    E prima che m’indottrini su ciò che devo sapere, riesco a focalizzare soltanto una cosa: adesso chiudo la porta e chiamo Michela. Ho voglia di un doppio cheeseburger!

    L’odore di fragole rosse

    ¹

    Mi capita di ripensare a Lorenzo. Soprattutto di notte e allora mi sveglio. Mi capita infinite volte. Chiudo gli occhi, mi sforzo. Non di dormire, e neppure di capire. Mi sforzo di ripulirmi i pensieri e di non trarre conclusioni.

    Sono cresciuta assistendo a quanto succedeva, con la premonizione che sarebbero venuti il tempo e la maturità per riannodare le cose.

    Solo questo: nessuna speranza di risarcimento.

    Mio padre lo ricordo impenetrabile, rientrava in casa, si cambiava, usciva, senza accorgersi di me.

    Ma non è stato sempre così.

    Forse aveva aspettato troppo una carezza che non gli feci mai, perché la tenacia con cui mi aveva domato durante l’infanzia sparì all’improvviso appena ebbi l’età per coltivarmi pensieri. Allora ci contrastammo, lasciammo che reciprocamente ci ferisse l’urto dei nostri giudizi. Fu una guerra feroce che entrambi perdemmo.

    Pensavo di averne avuto in eredità un irrobustimento, ma lo confondevo con la siccità di un cuore che vive clandestino, in penitenza d’affetti.

    Ricordo la sua voce irrevocabile rincorrermi in ogni mancanza, colpevolizzare gli spigoli del mio carattere, lasciarmi impantanata tra dubbi e incertezze. Qualche volta, però, in passato, era stata una voce calda, una voce che entrava nel buio della camera a portarmi favole. Nell’insonnia di oggi riesercito spesso la memoria fin là.

    Poi c’era mia madre.

    S’era immolata sull’altare del bene supremo: la carriera di papà. E del resto la società trovava allora plausibile che l’affermazione dei meriti maschili passasse attraverso la negazione di quelli femminili, nel perfetto ingranaggio che si chiama matrimonio. Perciò lei lasciò l’università e fece le valigie per seguirlo, non essendo in diritto di sentirsi defraudata dai vantaggi che, per proprietà transitiva, le derivavano dalle promozioni del marito. Mi racconta spesso di queste sue scelte, e sono certa che di situazioni simili le donne ne vivessero tante. Ma fosse dipeso da lei avrebbe fatto cose diverse. Mia madre non è il tipo che sta a guardare, è una che si rimbocca le maniche e si tuffa. Forse solo quando nacqui, la sua felicità di mamma compensò perfettamente la sua incompiutezza di donna.

    Un’altra certezza adesso m’accompagna: ricordare non significa comprendere. Quando un fatto accade, non sto a farmi domande. Vivo alla cieca e rimando a dopo il bisogno di capire.

    Eppure, la memoria è fluida, filtra come le pare, deforma, ingigantisce, cancella.

    Lorenzo aveva tredici anni quando decise di sparire.

    A dispetto di qualunque abbellimento narrativo, non visse un vertiginoso momento di consapevolezza, né progressivi svelamenti, o certezze ineludibili.

    Fu piuttosto un’acquisizione. L’attimo esatto in cui si disse che sarebbe morto senza rinunce, anzi con il sollievo delle possibilità che in fretta si fanno e si disfano.

    Ricordo che c’era pioggia e Lorenzo uscì ad annusarla sul balcone. Era solo e aveva tutto il tempo di fumare, senza l’ingombro di sguardo in cui la mamma inaspriva il rimprovero e la desolazione di non saper correggere suo figlio.

    «Il fumo fa male», diceva. «Almeno prometti che questa è l’ultima».

    «L’ultima di oggi», diceva Lorenzo, prendendo le misure su un tratto ragionevole di volontà.

    Accovacciato sulla soglia, accese la sigaretta. Di fronte c’erano brulle colline in fase letargica: si preparavano all’inverno e assecondavano la pioggia, che si infilava nella terra.

    Doveva fare attenzione che l’acqua non bagnasse il tabacco.

    Un filo di gocce s’allungava dalla falda del tetto sulla ringhiera, scivolando di sotto.

    Per un po’ si sentì vulnerabile, davanti al freddo meticcio che nasceva dall’umidità e dal peso della notte.

    Era la persona più vulnerabile che conoscessi.

    Come ci sarebbe riuscito? Era un gesto enorme.

    Nessuna bara, nessun funerale, nessuna tomba, né cerimonie.

    Avrebbe dovuto dare spiegazioni e, naturalmente, non ne era capace.

    A volerla considerare in un’ottica rigorosamente matematica, avrebbe avuto più tempo per affezionarsi a Olimpia di quello speso a rimpiangere se stesso.

    Ma sua madre? Avrebbe reagito male. Forse avrebbe pianto. Lei era il ventre che l’aveva partorito. Era roccia, e dalla terra prendeva la solidità e l’attitudine a farsi casa. Eppure Lorenzo, forse solo lui, aveva la capacità di renderla friabile.

    Se n’era accorto anni prima, quando vivevano in Germania.

    Quella volta giocava da solo, era una principessa. Il giorno s’era consumato velocemente, corto come tutti quelli che accompagnano il Natale.

    Lorenzo scavalcava il divano per entrare nel castello e lo riattraversava dal bracciolo al soffice dei cuscini, sul tappeto ch’era prato. Sentiva l’orchestra e le voci di gente che volteggiava costeggiando la tavola da pranzo. Lorenzo ballava con loro.

    «È ora di uscire!».

    Chi lo chiamava, la mamma? Oltre il divano, la principessa-Lorenzo s’apprestava a montare sul cavallo. Gli scalpiccii degli zoccoli si facevano frementi.

    «Lorenzo, hai messo le scarpe?».

    Il cavallo era pronto a scherzare. Offrì la criniera, chinando il muso perché lo carezzasse.

    Quando gli occhi,

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1