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La traccia del demone
La traccia del demone
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La traccia del demone

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About this ebook

Cassie è diventata una prescelta, incarnazione della prudenza, prima tra le virtù cardinali, e a sua disposizione non c'è altro che l'eternità. Un'eternità senza il suo amore: Rio. Il tempo adesso somiglia più a una condanna che a una benedizione e il tocco dell'Arcangelo Mikael non è in grado di alleviare il peso della perdita. E un demone, a volte dolce, altre crudele, popola i suoi sogni. Nel frattempo l'efferata uccisione di alcuni figli di Asmodeus scuote l'Ordine dei Guardiani. Sulle tracce del diabolico assassino, Cassie scoprirà che nel mondo degli angeli e dei demoni esistono regole inviolabili. Disattenderle significa stravolgere l'equilibrio imposto da Dio, un equilibrio tanto feroce quanto ineluttabile. Nulla accade per caso e molto spesso la luce ha il sapore amaro e freddo dell'ombra.
LanguageItaliano
PublisherDialoghi
Release dateApr 1, 2020
ISBN9788892790025
La traccia del demone

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    La traccia del demone - Francesca Persico

    © Alter Ego s.r.l., Viterbo, 2020

    Marchio Editoriale: Dialoghi

    Collana: Sogni

    I edizione digitale: aprile 2020

    ISBN 9788892790025

    Progetto grafico: Stefano Frateiacci

    www.edizionidialoghi.it

    A Luigi,

    ai suoi passi stanchi,

    alla sua tenacia,

    al suo enorme cuore.

    Anche il sogno non è che un’ombra.

    (W. Shakespeare, Amleto)

    Prologo

    Non c’era luogo al mondo in cui lei non avvertisse dolore, un dolore infinito, fatto di calde lacrime salate, di tristezza e vigliaccheria. Era fuggita senza dire niente a nessuno, scomparsa tra le pieghe del vento, e aveva portato con sé solo una manciata di cose, tutte stipate in una piccola valigia rosa, rubata dall’armadio di sua sorella. Non l’aveva neanche aperta. Se ne stava da giorni rannicchiata sul letto, con le sue ossa sporgenti, l’esiguo strato di pelle che la ricopriva e una maglietta stinta che le arrivava alle cosce, a piangere il fratello perduto. Dicevano di lei che non sapesse amare, che era in contraddizione con la sua natura, che era fatta solo per odiare e allora perché… Perché, quando lo aveva visto cadere, la lama angelica conficcata tra le scapole, le ali improvvisamente flosce come carta bagnata, le era sembrato di morire? Perché aveva provato l’impulso di strangolare la ragazzina riversa al suolo, colpevole di averlo trascinato nell’oblio dell’inferno con il suo stupido e infantile amore tanto sbandierato ai quattro venti? Perché aveva sentito il bisogno di scappare il più lontano possibile dalla sua casa, dalla sua famiglia, per non dover assistere impotente al silenzio di una stanza vuota, di un letto mai più sfatto, di passi prepotenti improvvisamente assenti?

    Lei lo amava, lo aveva amato tantissimo. Lui era stato il bellissimo sorriso a cui aggrapparsi nei giorni brutti e le braccia solide a cui affidarsi in quelli buoni. Lui era stato la ragione, l’unica che l’aveva spinta a tener testa al mostro che le gravitava nell’anima e che le bisbigliava di mordere, graffiare, uccidere. Non era quel genere di amore corrotto dai sensi, era qualcosa di più, era il luogo sicuro in cui fare ritorno, la certezza che l’aveva tenuta legata alla vita. Fino a che ci sarebbe stato lui, ci sarebbe stata anche lei. Ma lui, adesso, non c’era più. Non lo avrebbe trovato la mattina, in cucina, intento a fare colazione dopo una lunga corsa liberatoria. Non le avrebbe raccontato di quanto si sentiva stanco, a volte, di girare in cerchio intorno a un destino segnato. Non le avrebbe fatto una carezza frettolosa prima di andare a scuola. Aveva creduto che lui fosse eterno, che la morte non lo avrebbe mai raggiunto, che per lui la fine sarebbe stata dopo. Dopo di lei, dopo Pig, dopo Mò, dopo Lussie, dopo Chris e anche dopo quella stronza egoista di Ava. Lui c’era sempre stato. Lui avrebbe continuato a esserci. E, invece, li aveva lasciati tutti attoniti, a guardare il suo corpo sparire nel nulla.

    C’erano solo due opzioni tra cui scegliere, due carte gettate con cattiveria sul tavolo, due strade da percorrere e l’una escludeva l’altra. Poteva tornare indietro, trovare la ragazzina e strapparle il cuore dal petto per mitigare la sua sete di vendetta oppure restare proprio lì, in una casa vuota, lontana da tutto e tutti, fino a che la rassegnazione avrebbe messo a tacere le voci insistenti nella sua testa. Lui cosa avrebbe fatto? Certamente la cosa giusta. Si alzò dal letto. Prese la valigia e la svuotò sul pavimento, scalciò gli indumenti sciatti alla ricerca di un paio di pantaloni e fu in quel frangente di calma apparente, di lacrime asciutte dietro le ciglia che, tra le stoffe, impigliato al bottone di una camicetta, le guizzò davanti agli occhi un oggetto estraneo, nero come la pece, setoso come una ciocca di capelli corvini. Cadde in ginocchio sul pavimento, sollevando la catenella. Agganciata alla sua estremità c’era una piuma. Serbava ancora l’odore di vento che lui si portava addosso dopo le lunghe notti di caccia. L’aveva rubata, una sera, dalla stanza di suo fratello, in un picco incontrollato di invidia, perché l’aveva desiderata fin dal primo istante in cui l’aveva scorta al collo della ragazzina. Si era ingelosita per quel gesto tenero, che lui non le aveva mai riservato. La fissò a lungo, la agitò per aria, la schiaffeggiò persino, ma… niente. La piuma rimase solida, frusciante e le parve che ridesse di lei, e di tutti quelli come lei. La parte malata che aveva nell’anima, si stiracchiò, sghignazzando, tirò su la faccia da vecchia fattucchiera e le mostrò il suo sorriso perverso. Non è vero, pensò, non può essere vero.

    E invece sì, rispose la creatura dentro di lei. Vi ha usati, presi in giro, per ottenere ciò che tu non avrai mai. Tu sei guasta, cattiva. Non sarai mai degna dell’amore degli angeli.

    Strinse con forza la piuma tra le dita. Adesso sapeva cosa doveva fare. Adesso sapeva dove andare.

    I

    Assenza. Non avrei mai creduto di doverci fare i conti. Assenza significa voltarsi convinti di incontrare occhi, labbra, mani, braccia, che erano proprio lì, un attimo prima, e scoprire che non ci sono più. Assenza è l’eco dei ricordi che ti rincorrono di notte e pare quasi vogliano prenderti in giro con le loro giocose risate. Assenza è la dolorosa e sorprendente scoperta di essere soli. È nostalgia, una mano ostinata che preme all’altezza del petto e ti spezza il fiato. Ogni ora. Ogni minuto. Ogni secondo. Avevo una vita normale, fatta di cose normali: la scuola, gli amici, una mamma petulante e fissata con i cibi biologici, un papà paziente (molto paziente) che odiava i cibi biologici e una zia capace di disintegrarmi i timpani cantando le canzoni dei Maroon 5 sotto la doccia. Avevo libri in cui nascondermi, scarpe nuove per Natale, qualche soldo sul fondo di una borsa e decine di sogni da realizzare. Poi ho incontrato un ragazzo. Zanne, artigli, ali ricoperte di lucide piume nere e una faccia che così non l’avevo mai vista nemmeno al cinema. La vita, tutto d’un tratto, aveva smesso di essere normale e in un punto imprecisato della storia tutto era scivolato via. Neanche il tempo di allungare le mani per poter tenere assieme i pezzi. Neanche il tempo di dire addio.

    Di Venezia, quel giorno, ricordo le pietre sconnesse del selciato e la patina fumosa che spegneva i colori vividi dei palazzi, delle botteghe, dei canali. Colpa degli occhiali da sole dietro cui avevo nascosto lo sguardo, ostinatamente rivolto ai talloni di Aniel, incarnazione della temperanza, che mi precedeva di qualche passo. Alle mie spalle, di tanto in tanto, Adriel, prescelto della fortezza, mi appoggiava la mano sulla schiena per indicarmi la direzione da seguire.

    «Sei mai stata a Venezia?» domandò Adelaide, la sorella di Martino, nel vano tentativo di instaurare una briciola di conversazione.

    «Tecnicamente sì» risposi. Mia madre aveva sempre sostenuto che io fossi stata concepita durante il viaggio di nozze, ovvero a Venezia, anche se qualche malalingua in famiglia era dell’opinione che in realtà la mia mamma fosse già incinta prima del matrimonio.

    «Che significa tecnicamente?» volle sapere Aniel.

    Trassi un sospiro. «Niente. Non ci sono mai stata» tagliai corto. Non avevo voglia di parlare dei miei genitori. Io non li avevo più dei genitori. Ero una prescelta, adesso, e questo faceva di me una creatura dimenticata dal mondo intero, compresi mia madre e mio padre che non si ricordavano più di me. Scacciai la fitta al petto, stringendo i denti. Ero consapevole di avere addosso un pessimo odore, che si acuiva se mi crogiolavo nella sofferenza. Sapeva di sale e pungeva la pelle. L’odore delle lacrime. Nemmeno lo sapevo che esisteva un odore del genere. D’altronde non ero l’unica a puzzare. Le emozioni umane erano intense, ristagnavano nell’aria e davano vita a combinazioni nauseabonde. «Manca molto?» chiesi, afflitta alla vista di una intera carovana di turisti dagli occhi a mandorla venirci incontro, avvolta da una nube di aure variopinte. Mi tappai bocca e naso con la mano, tentando di respingere l’ennesimo capogiro.

    «Siamo quasi arrivati» mormorò Adriel, superandomi, neanche volesse farmi da scudo umano. Una graziosa cinesina gli agitò una macchinetta fotografica sotto al naso, chiedendogli, a gesti, di scattare una foto a lei e ai suoi amici.

    Adelaide mi tirò per il braccio e mi allontanò dalla ressa. «Piano piano ti abituerai». Mi picchiettò il dorso della mano. Ci fermammo poco più avanti, con Aniel, in attesa che Adriel uscisse dai panni di improvvisato fotografo.

    «Facciamo anche cose come queste? Aiutare vecchine ad attraversare la strada, scattare fotografie ai turisti, salvare bambini da un tir in corsa?».

    Aniel mi scrutò per un istante. «Sì, sì e no».

    Avevo chiesto tanto per chiedere, non mi aspettavo rispondesse e poi che significava quel no pronunciato alla fine.

    «Noi esistiamo per combattere le ombre e nessuno ci vieta di porre in essere un atto di cortesia» mi spiegò il prescelto della temperanza, «ma non disponiamo della vita e della morte, quindi no, non salviamo né bambini, né adulti da eventuali incidenti, a meno che non vi sia un coinvolgimento demoniaco».

    Adelaide, spazientita, cacciò le mani nei fianchi. Con la gonna larga del vestito e la crocchia di capelli avvolta sul capo, somigliava a una panciuta zuccheriera in quella posa. «Adriel, sbrigati, fra poco caleranno le ombre e vorrei essere a casa per allora».

    Casa… Io non avevo più una casa. Mi avevano raccontato che la dimora era un luogo bellissimo, immerso nella quiete, e che il puzzo del mondo non riusciva a oltrepassare le sue possenti mura, però non era casa mia e faticavo a credere che lo sarebbe diventata. Adriel scattò ancora un paio di fotografie e, salutata la cinesina, ci raggiunse a passo svelto. Silenziosamente, affrontammo l’ultimo pezzo del nostro percorso nella medesima formazione iniziale. Aniel davanti, Adriel dietro e Adelaide accanto a me, come se fosse studiata a tavolino per proteggermi. Onde evitare che mi sentissi male a causa dei cattivi odori e del rimescolio vertiginoso delle aure, Aniel scelse, per quanto possibile, i vicoletti più spogli e meno popolati. La giornata era nettamente primaverile, ma non faceva ancora così caldo da soffrirne. Campo Sant’Angelo si aprì davanti ai nostri passi in una piazza quasi deserta, ombreggiata dagli antichi palazzi che le facevano da contorno. «Siamo arrivati» annunciò sottovoce Adriel, alle mie spalle.

    Davvero? Girai la testa di qua e di là, chiedendomi in quale edificio saremmo entrati di lì a poco. Uno in particolare mi piaceva molto. Aveva lunghe finestre in stile barocco e le pareti erano state tinte di un vivace color porpora. Un tantino pomposo nel complesso, ma senz’altro la giusta residenza per delle creature onorate dal tocco di un angelo. Proseguimmo fino alla vera di pozzo situata al centro della piazza, poi Aniel allungò un braccio a indicare un punto indistinto in lontananza. «Cassie, concentrati e guarda in quella direzione».

    «Dove esattamente?».

    «Cerca di guardare oltre le cose» mi esortò Adelaide.

    Mi misi a fissare il nulla e accadde tutto molto lentamente. Lo scheletro di un grosso edificio si disegnò nell’aria e, piano piano, si rivestì di pietra. Tre grandi finestre a mezzaluna apparvero in alto e un campanile a cuspide fece capolino alle sue spalle. «Che diamine…» farfugliai.

    «Okay, direi che la vede» constatò Adriel, tradendo una punta di sollievo.

    «È… è una chiesa?» balbettai. Non ero assolutamente sicura che esistesse davvero. Dava più l’impressione di un’allucinazione. Un vedo e non vedo che ricordava l’immagine traslucida di un ologramma.

    Aniel mi spinse in avanti. «La Chiesa di San Michele Arcangelo. È stata abbattuta nel 1837».

    «Abbattuta?». Forse non avevo afferrato bene.

    «Solo i portatori di luce continuano a vederla e possono varcarne la soglia» mi spiegò Adelaide.

    «Viviamo in una chiesa che non esiste?». Era la cosa più bizzarra che avessi mai sentito. Per un istante mi sentii come Alice che insegue il Bianconiglio nel Paese delle Meraviglie.

    «Non esattamente» intervenne Aniel, «la chiesa conteneva il varco sacro che permette l’accesso alla nostra casa, la dimora angelica, ed è per tale ragione che per noi continua a esistere. Ci consente di fare ritorno nell’unico posto in cui i demoni non possono entrare. Non è l’unica dimora angelica. Ne esistono molte altre nel mondo e lo scoprirai studiando la geografia dei luoghi sacri».

    Odiavo la geografia quasi quanto la matematica e speravo di non sentirne più parlare, ma a quanto pareva anche i prescelti erano costretti a farsi una cultura generale.

    Aniel e Adelaide si fermarono davanti al largo portone ligneo che costituiva l’ingresso della chiesa. Adriel continuava a starsene alle mie spalle e io ero completamente sotto shock. Da un lato c’era quest’enorme edificio che pareva spuntato fuori dal cappello di un mago, dall’altro un paio di ignari passanti passeggiavano proprio nel punto in cui si ergeva la chiesa e io li vedevo, nonostante la presenza delle mura. Era come se mi fossi appena affacciata a una finestra che mi permetteva di osservare differenti dimensioni parallele incastrate l’una nell’altra. Affascinata e incredula, lasciai scivolare giù dalla spalla lo zaino e sollevai una mano per toccare la parete di pietra. Volevo assicurarmi di essere sveglia e che quello non fosse solo il frutto di un sogno. Magari ero ancora seduta nella Porsche e mi ero addormentata, mentre Adriel era alla guida. Nell’istante in cui le mie dita sfiorarono la consistenza dura e fredda della pietra, si verificò, però, un evento inaspettato. Non solo la chiesa, così com’era apparsa, svanì, ma al contempo fui scagliata all’indietro da una forza invisibile, una lingua calda e scattante, che mi respinse con una violenza tremenda. Persi il contatto con la pavimentazione stradale e, se non ci fosse stato Adriel a fare da cuscinetto, mi sarei procurata un enorme ematoma sul sedere. Finimmo entrambi lunghi in terra, davanti alle facce stravolte di Adelaide e Aniel.

    «Cosa è successo?». Il prescelto della temperanza si precipitò ad aiutarmi a rimettermi in piedi. «State bene?». Insomma. Mi mancava l’aria e annaspai, agitando le mani. Aniel mi diede un paio di colpi tra le scapole. «Cassie, respira».

    Ci stavo provando.

    Adriel si rialzò, spazzolando, con le mani, la polvere dai pantaloni. «Che cos’ha?».

    L’ossigeno trovò il modo di bucare la coltre che mi aveva invaso i polmoni e tossii, piegandomi in due. Che orribile sensazione. Per un attimo avevo avuto l’impressione che qualcuno mi avesse chiuso la trachea tra due dita e continuavo ad avvertire un forte senso di bruciore al petto.

    «Non è la reazione che mi aspettavo» disse Adelaide.

    Mi beccai un altro paio di schiaffoni dietro la schiena. «Va meglio?» domandò Aniel.

    Annuii con un cenno del capo, intanto che la respirazione tornava a farsi regolare. «Ho solo toccato la chiesa e…» rimasi zitta per un attimo, «… ho avvertito un gran calore».

    Aniel e Adriel si lanciarono un’occhiata perplessa. «Un gran calore?» chiese il primo.

    «Sì, non respiravo più».

    «Riprovaci» disse la guardiana.

    Il mio istinto si ribellò. Avevo l’impressione di aver appena accarezzato la fiamma accesa di una candela, avvertendo il pericolo del fuoco. Per quanto assurdo potesse sembrare, ero consapevole che, se avessi toccato nuovamente la chiesa, le conseguenze non sarebbero state piacevoli. Inoltre, era sopraggiunto un problema tutt’altro che trascurabile. «Non riesco più a vederla». Al posto dell’edificio che avevo scorto qualche istante prima, c’era solo un enorme spazio vuoto tra terra e cielo.

    Aniel mi prese per le spalle e cercò i miei occhi. «Cassie, sei sicura? Prova a concentrarti».

    Mi concentrai, mi sforzai, mi premetti le meningi con l’unico effetto di procurarmi l’inizio di un brutto mal di testa. «Niente» mormorai mortificata, tentando di mascherare la delusione. Mi sentivo rifiutata e non capivo il perché.

    Adelaide scuoteva il capo e, benché non volesse darlo a vedere, pareva preoccupata. Si allontanò di qualche passo con Aniel e li vidi discutere animatamente.

    «Non doveva andare così, giusto?».

    Adriel, per evitare di sostenere il mio sguardo, si mise a giocherellare con l’elsa della sciabola sul fianco. «No, ma vedrai che troveranno una soluzione».

    Mi infilai le mani in tasca. «Tu non partecipi alla conversazione? Non serve che resti a tenermi d’occhio. Non vado da nessuna parte».

    Lui sorrise e si chinò a recuperare il mio zaino, caricandoselo in spalla. «Non temo che tu fugga. È solo che la mia opinione non ha tutta quest’importanza. In fondo, sono l’ultimo arrivato. Cioè, ero l’ultimo arrivato prima che arrivassi tu, ma ciò non toglie che sono comunque un giovane prescelto e loro» indicò la guardiana e Aniel, «ne sanno molto più di me». Alzò lo sguardo. «Sicura che non riesci più a vederla?».

    Perché mai avrei dovuto mentire?

    «Ho sentito un forte calore. Mi ha chiuso i polmoni» considerai. «È normale?».

    Gli occhi di Adriel saettarono dal punto indefinito che stava fissando al mio viso. «Le dimore angeliche sono rette dal fuoco sacro».

    «Fuoco sacro?».

    «È una fonte di energia inesauribile che può trasformarsi in fuoco vivo e brucia solo se viene a contatto con le ombre. Protegge le nostre case, rendendole inaccessibili alle forze infernali».

    «Ma io non appartengo alle forze infernali. Perché questo fuoco si è scatenato contro di me?».

    Adriel mi rivolse un’occhiata scettica. «Non saresti qui a parlare, se si fosse scatenato, fidati».

    Se lo diceva lui, però non mi era sembrato neppure un messaggio di benvenuto. Osservai la sua aura immacolata. Da quando l’Arcangelo mi aveva investito del Sigillo di Salomone, non avevo mai scorto al suo interno il minimo mutamento e non sapevo se quella strana forma di purezza mi suscitasse più ammirazione o fastidio. «È strano che io possa vedere la tua aura, ma non la mia».

    «Non è strano. Se ci pensi, è logico. L’Arcangelo quando distribuisce le sue doti, lo fa con lungimiranza. Permetterti di vedere la tua aura, significa darti la possibilità di mascherare i tuoi istinti più profondi. Già il fatto di sapere che altri possano controllarci con facilità ci induce istintivamente a reprimere le nostre emozioni, pensa a cosa accadrebbe se potessimo esercitare da soli quel controllo».

    «Non ci vedo una grande differenza» replicai. «Chi può davvero controllare emozioni e desideri? È impossibile».

    «Dici così perché hai diciassette anni. Un prescelto può vivere molto più di quanto è concesso a un essere umano e la longevità significa esperienza, autocontrollo, astuzia. Serbare l’aspetto di ragazzini non significa esserlo. Non vedere la propria aura è una precauzione per garantirne la spontaneità agli occhi di chi è tenuto a osservarci».

    Avevo giusto un altro milione di domande da fargli, ma il ritorno di Aniel e Adelaide mi costrinse a rinviarle a un altro momento.

    «Sei proprio sicura di non vederla più?» mi chiese la guardiana.

    «No, mi dispiace».

    «Quindi? Che si fa? Proviamo a portarla dentro noi?» disse Adriel.

    «Non credo sia una buona idea forzare gli eventi. Forse Cassie ha solo tempi differenti rispetto ad altri novizi» considerò Aniel.

    Essere definita una novizia mi faceva sentire come una giovanissima timorata di Dio che aveva deciso di prendere i voti.

    «E cosa proponi? Di lasciarla qua fuori?» insistette Adriel.

    «Certo che no». Aniel guardò il cielo che aveva virato in un blu indaco, presagio dell’oscurità che di lì a poco avrebbe avvolto il mondo. I riccioli morbidi e biondi si allungarono sulle sue spalle. «Adelaide, tu rientra. Sei stata via a lungo e Mike, sebbene non lo ammetterebbe mai, avrà sentito la tua mancanza. Inoltre, Beatrice non ama essere distratta dalle sue faccende. Voi due, invece, seguitemi. Ci serve uno scafo».

    Mike, Beatrice… Persone che non conoscevo, ma che facevano parte della vita di Aniel, Adelaide, Adriel… Socchiusi le palpebre, ingoiando le lacrime. Io non avevo più persone. Io non avevo più niente.

    ***

    D’accordo, la sacra dimora angelica mi aveva dato un bel calcio nel sedere, rifiutando di spalancare le sue porte per me, e necessitavamo di un riparo per la notte. Tuttavia la soluzione adottata da Aniel mi parve fin troppo estrema. Avrei volentieri optato per una comoda camera d’albergo, piuttosto che alloggiare anche solo dieci minuti nell’inquietante casetta nascosta da una fila di lugubri alberi, situata in uno spazio solitario, ai limiti di un isolotto che si affacciava sulla laguna torbida e tetra. Anche Adriel si mostrò dubbioso. «Sul serio? Torcello? Con tanti guardiani che ci avrebbero ospitato senza problemi, si può sapere per quale ragione hai scelto di venire qui?».

    Aniel non diede troppa importanza alle rimostranze di Adriel. «Qualsiasi guardiano a conoscenza della difficoltà di Cassie avvertirebbe subito l’Ordine e vorrei evitare inutili allarmismi prima di aver scoperto qual è il problema. E ora apprezzerei se tu dessi un’occhiata in giro. Intanto, io accompagno Cassie dentro».

    Adriel brontolò qualcosa tra i denti e sicuramente non era niente di nobile o edificante.

    «Secondo me non è molto contento» considerai, mentre Aniel si adoperava a staccare un mattoncino dalla parete frontale della casa. Nell’intercapedine era nascosta la chiave per entrare. La infilò nella toppa arrugginita e gli occorse qualche istante per far scattare la serratura.

    «Fatto» annunciò, con il sorriso sulle labbra. «Non metto piede qua dentro da un’eternità». Spalancò la porta, scostandosi per far entrare prima me. Ad accoglierci trovammo il desolante e freddo silenzio che caratterizza le case disabitate. Il puzzo di chiuso e umidità era asfissiante e pregai potesse coprire il cattivo odore delle mie pessime emozioni. Il piccolo ingresso faceva da anticamera a due stanze laterali: la cucina in muratura, in cui troneggiava, al centro, un grande tavolo rettangolare sepolto da uno strato abbondante di polvere, e il salotto, dove i mobili erano stati tutti coperti da lenzuola.

    Aniel si mise ad armeggiare con il contatore dell’energia elettrica. «Speriamo che il generatore funzioni». E luce fu. Dopo un paio di tentativi il ronzio delle lampadine scaldò l’ambiente con una tiepida illuminazione giallognola.

    «Dovremo stare qui molto?» domandai, lo sguardo rivolto alla credenza che recava macchie di muffa negli angoli delle porte.

    «Fino a che non riuscirai a entrare nella dimora». Aniel si abbassò e girò la chiave dell’acqua sotto il lavandino, dopodiché aprì il rubinetto.

    «Mmm, ma che bel posticino!» esclamò ironico Adriel, raggiungendoci.

    Aniel si asciugò le mani, strofinandole sui jeans. «Che ne dite di pizza per cena? Avete preferenze?».

    «Va bene tutto» rispose Adriel dalla soglia della cucina, «ma niente funghi. A Cassie non piacciono».

    «D’accordo, niente funghi» ripeté il prescelto della temperanza e, un istante dopo, lo vidi illuminarsi come una lampadina caricata di eccessiva intensità. La luce pulsava e tutti i movimenti del suo corpo lasciavano nell’aria un’impronta luminosa. Alla fine sparì in un tripudio di lucciole che si inseguivano.

    Adriel rise della mia faccia stravolta. «Chiudi la bocca, Cassie, o entreranno le mosche. È solo trasmutato».

    «Trasmutato?».

    Adriel annuì, mentre si avvicinava per chiudere il rubinetto che Aniel aveva lasciato aperto. «Trasmutare significa che possiamo assumere la consistenza angelica della luce, e quindi possiamo muoverci da un luogo all’altro senza doverci preoccupare della distanza. Pensavo l’avessi capito. Sarà già in fila in una pizzeria».

    «A Venezia?».

    Adriel si appoggiò al bancone della cucina e incrociò le braccia. «Potrebbe aver scelto una qualunque pizzeria in qualunque parte del mondo».

    «Quindi è una roba tipo il teletrasporto?».

    «Più o meno, ma senza navicelle spaziali e raggio traente».

    Restai zitta a pensare a quanto fosse strabiliante possedere una dote simile. «E sarò in grado anch’io di trasmutare?» chiesi, scandendo bene la parola.

    «Sì, Cassie. Sei una prescelta e i prescelti si muovono così, altrimenti come faremmo a inseguire i demoni?».

    Gli ultimi drammatici avvenimenti della mia vita avevano annebbiato la mia già scarsa attenzione ai particolari e non avevo ancora avuto il tempo e la lucidità di riflettere su tutte le implicazioni derivanti dall’essere diventata una longa manus dell’Arcangelo Mikael. Dovevo ammettere che l’idea di poter raggiungere ogni angolo del pianeta in un battito di ciglia non mi dispiaceva affatto. Fissai Adriel negli occhi color topazio. «Come fai a sapere che non mi piacciono i funghi?». Non ricordavo di averglielo detto.

    Il prescelto della fortezza si strinse nelle spalle. «Non sei stata tu a dirlo, qualche giorno fa, a tavola? Forse ti ho confusa con Lussie o con Pig».

    I ricordi delle ultime settimane erano offuscati dal dolore, come se su ogni cosa che mi aveva circondato fosse stata riversata una patina di vernice scura, e non sempre riuscivo a mettere a fuoco parole, persone, avvenimenti. Tutto ciò che ricordavo era la stanza vuota di Rio e il battito del mio cuore ogni volta che l’immaginazione mi aveva tratto in inganno, confondendo il suo passo con quello di qualcun altro. «Forse sono stata io. In effetti i funghi non rientrano tra le pietanze che preferisco. Da bambina mi facevano schifo, poi ho imparato a mangiarli, ma se mancano non mi lamento».

    Adriel si stiracchiò le braccia e subito dopo si ficcò le mani in tasca. «Andiamo a fare un giro di perlustrazione».

    Lo seguii, dopo aver recuperato la torcia dal mio zaino all’ingresso.

    «Che devi fare con quella?».

    La accesi e spensi due volte. «Metti caso che la luce di sopra non si accenda, magari c’è un guasto all’impianto. Che possiamo saperne».

    Adriel ridacchiò. «Sei la ragazza più coraggiosa del mondo, vero, Cassie? Ti basterà la mia aura per orientarti. Dicono sia molto luminosa».

    Alzai gli occhi al cielo e feci una smorfia alla sua nuca. La torcia la portai lo stesso. Essere previdenti era segno di prudenza, che guarda caso era la mia virtù. «I guardiani possono vedere le aure?».

    «Solo alcuni».

    La scalinata di legno, un po’ malconcia, scricchiolò rumorosamente sotto il nostro peso e c’era così tanta polvere da lasciare le impronte su ogni scalino. «Direi di aprire tutte le porte e vedere cosa troviamo». Adriel si accostò alla prima alla sua destra. Era verniciata di rosa e mi fece pensare a Pig. Il prescelto la aprì, accendendo immediatamente la luce. Il letto a baldacchino era privo di tende e il materasso spoglio. Il resto della mobilia era coperto da ampie lenzuola ingrigite dal tempo. Adriel ne tirò via uno a caso, rivelando uno scaffale che toccava il soffitto. Dovetti reprimere un urletto. Dalle mensole, file interminabili di bambole di porcellana ci osservavano con il loro sguardo fisso e inespressivo. Avvolte da abitini più o meno sontuosi, con cappelli, acconciature elaborate, cuffiette, bionde, brune, rosse. Erano tenute fin troppo bene per essere state abbandonate a loro stesse. Scacciai un brivido dalla schiena, scrollando le spalle. Avevo visto abbastanza film dell’orrore che avevano per protagoniste bambole assassine e non avrei dormito in quella stanza nemmeno se mi avessero legata al letto e costretto con la forza. «Senti, Cassie, posso confidarti una cosa? Non mi piacciono molto le bambole. Le trovo inquietanti».

    Lo fissai sollevata. Dunque, non ero l’unica ad avere una fervida immaginazione. «Cerchiamo un’altra stanza?».

    Adriel richiuse la porta senza ulteriori indugi. «Mi chiedo quale altra sorpresa ci aspetti».

    «Questa casa somiglia a quelle stregate dei luna park, hai presente? Non mi sono mai piaciuti i luna park».

    Lui ridacchiò, ma appariva teso quanto me. «Giuro che se trovo un pagliaccio da qualche parte mi metto urlare!».

    «IT?».

    Adriel sorrise. «Mia sorella si divertiva a farmi trovare la sua collezione di pagliacci sul letto solo per prendermi in giro».

    «Hai una sorella?».

    Adriel afferrò la maniglia della seconda porta e annuì. «Sei pronta?».

    Gli posai la mano sulla spalla. «Al mio tre. Uno… due…». Tre lo dicemmo insieme, prima di ingoiare il fiato e spalancare la porta. Un’altra camera da letto, altre lenzuola e un tappeto di folta pelliccia impolverata. I mobili, scoperti uno alla volta, erano di legno bianco, in rigoroso stile veneziano. La stanza di una donna, non c’erano dubbi. Non sembrava male, un po’ rétro, ma almeno niente bambole e niente pagliacci. «Direi che è meglio della prima» considerò Adriel.

    «Potrebbe esserci un ragno gigante sotto al letto» ipotizzai. «Tipo Shelob».

    Adriel mi guardò con la coda dell’occhio e decise di assecondarmi. Si diresse al letto, inginocchiandosi sul tappeto. «Niente ragni giganti, ma c’è un cadavere».

    «Come?».

    «C’è tanta di quella polvere qui sotto, che potrebbe tranquillamente essere ciò che resta di un corpo morto e lasciato a decomporsi». Adriel si rialzò e prese a schiaffeggiarsi i palmi. «Serviranno delle lenzuola. Prova a vedere se nell’armadio c’è qualcosa».

    Aprii le larghe ante, rivelando al loro interno una montagna di abiti femminili. «Wow!». Dalle grucce pendevano gonne al ginocchio, giacche, spolverini. Sul fondo, racchiusi in cappelliere, scovai un paio di cappelli che mi fecero pensare alle immagini delle attrici degli anni Cinquanta. «Niente lenzuola, ma c’è un’intera linea di vestiti risalenti al secolo scorso. Guarda! Questo è in stile Charleston!» esclamai, afferrando l’orlo di un vestito ricoperto di frange.

    «Perché non hai visto questi!» ribatté Adriel. Si era messo a frugare il contenuto della libreria che faceva da ponte alla scrivania, sulla quale notai la presenza di un vecchio giradischi di legno e una radio con le manopole. «È una gran bella collezione in vinile. Frank Sinatra, Louis Armstrong, Ella Fitzgerald. Uh, c’è anche il Boogie Woogie. Hai presente? Lo swing?». Mosse le ginocchia per ricordarmi uno stile di ballo che io non avevo mai ballato e che conoscevo a malapena. Ero una figlia del ventunesimo secolo, in fondo, e anche lui. Adriel era un prescelto da una manciata di anni, quindi non è ci fossero tutte queste differenze tra noi.

    «Sembri ferrato».

    «Mi piace la musica. Mi è sempre piaciuta. Volevo mettere su una band e diventare famoso» confessò.

    Ma dai. Chi l’avrebbe mai detto. «Che genere di band?». Passai le dita sul ripiano di marmo del comò e i miei polpastrelli ne uscirono neri di polvere.

    «Che domande. Una rock band!». Il prescelto ridacchiò. «Ero uno sfigato prima che l’Arcangelo mi scegliesse. E i componenti delle rock band piacevano alle ragazze».

    Mi sfuggì una risata, mentre osservavo il mio riflesso opaco nello specchio. «Quindi ti interessava la musica solo per far colpo sulle ragazze?».

    «No» obiettò Adriel, ridendo. «Però era un buon incentivo».

    «Non vedo la tua aura» dissi.

    Il prescelto si avvicinò alle mie spalle. «L’aura non si riflette».

    Socchiusi le palpebre. «Ci pensi mai alla tua vita di prima?». Senza volerlo la mia voce si velò di malinconia.

    Il petto del prescelto si gonfiò in un profondo sospiro. «Ogni giorno. Dicono che sia normale all’inizio, poi, con l’andare del tempo, ci si sente meglio». Tornò a ispezionare i vecchi dischi, ma anche il suo umore era cambiato. Gli avevo trasmesso la mia tristezza.

    Mi sedetti sul ciglio del letto, le mani intrecciate in grembo, lo sguardo al pavimento. «Mi sento così stupida e ingrata».

    Adriel posò l’ultimo disco della fila. «Ingrata?».

    L’amarezza di un sorriso fasullo mi sporcò i lineamenti del volto. «Ho desiderato così tanto l’eternità solo per essere giusta, adatta a stare con Rio, e adesso…». Strinsi le palpebre per contenere le lacrime. «Adesso non so che darei per tornare indietro. Non avrei mai dovuto avvicinarmi a lui. È solo colpa mia se è morto».

    Mi aspettavo un Te lo avevo detto pronunciato con un aspro tono di rimprovero. Invece Adriel si accovacciò sui talloni, davanti

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