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Delitti di Dio
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Delitti di Dio

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Una suora accoltellata dentro un monastero, la morte misteriosa di un vescovo, un uomo di Chiesa che celebra un rito di affiliazione, un giovane prete disposto a tutto pur di dimostrare le sue teorie complottiste, una confessione che si consuma tra le pareti oscure di un luogo abbandonato. È questo il binomio, il tema indissolubile che lega i racconti della raccolta: la Chiesa e i delitti. La religione e la depravazione. Dio e il Male. Il peccato e il perdono. "Delitti di Dio" raccoglie alcuni tra gli autori giallo-thriller più talentuosi e blasonati del panorama editoriale italiano. Autori Mondadori, autori Newton Compton, autori TEA, premi "Tedeschi" e premi "Gran Giallo"... tutti riuniti sotto un'unica bandiera, quella dell'editore Alter Ego. Ogni autore, con la propria cifra stilistica e la propria idea forte, ha declinato in modo diverso questo binomio, interpretando in maniera originale, a volte persino antitetica, il tema che lega la Chiesa e i delitti, la religione e la depravazione, il peccato e il perdono. Dio e il Male. Dodici racconti, dodici finestre spalancate sul mondo della Chiesa e del crimine, dodici specchi attraverso i quali guardare il lato buio di tutti noi.
LanguageItaliano
Release dateMar 19, 2020
ISBN9788893331739
Delitti di Dio

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    Book preview

    Delitti di Dio - Antologia Autori vari

    Marra

    Prefazione

    Diego Di Dio

    Il 2019 è stato un anno importante per la mia carriera.

    Da parecchio tempo, ormai, mi destreggio tra i ruoli di scrittore, redattore, editor, agente letterario, docente di scrittura e di editoria, consulente. Dopo aver curato una dozzina di libri per la casa editrice Alter Ego, è arrivata la proposta di Danilo, l’editore: «Vorresti diventare direttore della collana Spettri? Tanto ormai è come se la dirigessi già tu. Che ne dici di ufficializzare la cosa?».

    La collana Spettri si occupa di gialli, thriller e noir, insomma il mio amore primigenio. Ovviamente ho accettato, ma ho posto una condizione.

    «Voglio festeggiare in grande» ho detto.

    «E cioè?» ha chiesto lui. «In che modo?».

    «Nel modo migliore» ho risposto. «Con un libro strepitoso».

    Quella che avevo in mente era solo un’idea. Un’antologia di racconti che riuscisse a raccogliere alcuni dei migliori autori italiani giallo-thriller. L’ho proposto alla casa editrice, la quale ha accettato di buon grado, dandomi praticamente carta bianca.

    Devo dire che ho la fortuna di avere, nella mia cerchia di amici, alcuni tra gli scrittori più blasonati ed esperti del panorama editoriale italiano; c’era solo da convincerli a partecipare a questa raccolta. Mi serviva, lo ammetto, un tema forte, che potesse stimolare le penne e la fantasia.

    La cosa strana è che non credo alle coincidenze; eppure una coincidenza c’è stata. Nel giorno in cui è stato proposto il tema del libro, ne è stato deciso anche il titolo. È successo tutto in fretta: parlando con Luca – socio e grafico della casa editrice – è venuto fuori che un possibile tema avrebbe potuto essere la Chiesa. O, meglio, il binomio delitto e Chiesa. Argomento forte, controverso, persino pericoloso, suscettibile di stimolare – magari troppo – la vena creativa degli autori più coraggiosi. Nel frattempo, stavo scambiando qualche WhatsApp con Diego Lama, uno degli autori di questa raccolta nonché giallista di enorme spessore. In tempo reale, gli ho inoltrato la proposta che avevamo elaborato e lui, con il solito cipiglio, ha ironizzato: «Chiamala Delitti di Dio» (evidente battuta sul mio cognome).

    Be’, Diego, ti ho preso in parola.

    Eccola qui, tra le vostre mani, l’antologia che chiama a raccolta alcune delle penne più talentuose che io abbia mai conosciuto.

    Non ho mai amato le prefazioni – ne avrò scritte e lette un paio, in tutta la mia vita – e di certo non cambierò opinione adesso. Quindi, se salterete queste pagine iniziali a piè pari, non mi offenderò; se tuttavia doveste trovare il tempo di leggerle, vorrei usare questo spazio nel modo migliore, parlandovi di Delitti di Dio.

    È una raccolta eterogenea, multiforme, variegata. Non si parla solo di gialli o di delitti, di crimini o di indagini. La componente investigativa c’è – ci deve essere – ma non è questo il punto.

    C’è tanto altro, in questo libro.

    Perché il tema della Chiesa è già, di per sé, foriero di riflessioni e implicazioni d’ogni sorta. Se poi si abbina questo tema a quello del crimine, ecco che può saltare fuori qualsiasi cosa. Questo volevo, questo ho chiesto agli autori: raccontare un giallo per parlare di altro. E così è stato.

    In Delitti di Dio si parla di fede, si parla di tradizioni, si parla di sogni, si parla di esseri umani. Si parla del confine, spesso sottile e invisibile, che separa il bene dal male. E si parla di colori, anche. Siamo convinti che le cose, come le persone, siano bianche o nere, ma non è così. Esistono tantissime zone grigie, sfumate, dentro le quali scivolano le nostre giornate e i nostri pensieri. E in quegli anfratti sbiaditi, in quegli angoli mutevoli e pericolosi, si collocano le storie che state per leggere.

    Quando ho chiesto agli autori di scrivere un racconto sul binomio delitto-Chiesa, ho dato massima libertà d’inventiva: volevo che ognuno, secondo la propria sensibilità e il proprio talento, declinasse in maniera differente questo argomento.

    Il risultato è la raccolta che avete tra le mani. Vi consiglio di leggere questi racconti nell’ordine in cui sono disposti: non è una sequenza casuale, ma calcolata.

    L’antologia comincerà con il bellissimo racconto L’ora di andare di Oriana Ramunno, che ci porterà nell’antica Roma con un giallo storico calibrato e commovente; sarà poi il turno di Tutti i santi giorni di Manuela Costantini: l’autrice, sfruttando una storia d’investigazione, si interrogherà sul senso di Dio e della fede; a quel punto la pluripremiata Scilla Bonfiglioli, con il suggestivo Gli occhi di Matilde, ci farà entrare tra le mura di un convento maledetto, arroccato nel paesino lugubre e misterioso di Malacana; Se Dio non guarda, dell’infaticabile Andrea Franco, ci mostrerà gli orrori che si consumano dentro un vecchio oratorio; Marzia Musneci, con Benedetto il sangue, ci racconterà la storia di un vecchio prete, in una Edimburgo desolata e nostalgica, allagata dalla pioggia; Elia Banelli ci farà viaggiare in Calabria e, con il suo Il battesimo, ci parlerà di mafia e di fede, un binomio davvero ricco di contraddizioni; Diego Lama, con Sgozza-preti, ci consentirà di sbirciare dentro un confessionale, mettendoci a parte di segreti che, forse, faremmo meglio a ignorare. Ci sarà anche spazio per storie diverse dal giallo classico o dal thriller: Daniele Botti, con il suo Just do it, darà libero sfogo alla sua vena comica e surreale, con uno dei suoi personaggi assurdi, demenziali, immorali; Andrea Carlo Cappi, con il suo fanta-thriller Fuga di autore ignoto, ci parlerà del Liber Taenebrarum, un inquietante registro dei misteri del mondo e della religione. Questa antologia segna anche il gradito ritorno alla scrittura di una vecchia conoscenza del Giallo Mondadori: Simone Tordi, dopo quasi dieci anni di silenzio, è tornato a scrivere, e lo ha fatto con il racconto Sono qui per me, solo per me, nel quale ci parlerà di complotti, teorie cospirazioniste e vecchie credenze religiose. Preparatevi, quindi, al gran finale: il giallista Michele Catozzi, con il suo Deus ex machina, ci racconterà di satanismo e di internet, di dottrine tecnopagane e di anfratti nascosti; sarà poi il turno di Valerio Marra e del suo emozionante Redemptio; Valerio, davvero in forma in quest’occasione, ci parlerà di morti misteriose, di prostitute e di neonati, dell’essere padre e madre, ma anche, e soprattutto, di fede.

    L’ho già detto: sono racconti diversi, molto distanti l’uno dall’altro.

    A volte si pensa che un buon libro debba rivelare qualche verità occulta sul senso delle cose o della vita. Altre volte, al contrario, si ritiene che un buon libro sia solo mero intrattenimento. Be’, io credo che entrambe queste affermazioni siano corrette e sbagliate al contempo. Una buona storia, nei limiti del possibile, dovrebbe fare entrambe le cose: intrattenere, divertire, ma anche far pensare. Lasciare qualche traccia, imprimersi nella coscienza di chi legge. Almeno è così che la vedo io: è così che ho sempre concepito la scrittura.

    Ed è con questa speranza che voglio lasciarvi alla lettura di questa raccolta. Ricordandovi, però, una cosa importante: Delitti di Dio non sarà un esperimento fine a se stesso, ma rappresenterà il primo volume antologico di una lunga serie – o almeno così mi auguro.

    Perché le belle storie non sono mai abbastanza.

    Perché a volte abbiamo bisogno di leggere un racconto per fermarci a pensare, a riflettere, a ragionare. Per fermarci e basta.

    Perché a volte non c’è una risposta a tutto, ma la cosa importante è porsi la domanda.

    Perché il bene e il male sono solo concetti, così come la letteratura, ma questi concetti vanno riempiti di significato e di senso, e forse leggere è la via maestra per farlo.

    Perché, come dicono in uno dei miei film preferiti, il mondo tornerà a leggere. E cominciare da qui, da questo libro, potrebbe essere un buon inizio.

    Diego Di Dio è nato nel 1985.

    Scrittore, editor, agente letterario e docente, è laureato in Giurisprudenza e ha frequentato, a Roma, la scuola Oblique per redattori editoriali. Nel 2015 ha fondato l’agenzia letteraria Saper Scrivere (saperscrivere.com). Amante del giallo e del thriller, è anche direttore della collana Spettri, per la casa editrice Alter Ego. Ha pubblicato, con Il Giallo Mondadori, i racconti I dodici apostoli, Il canto dei gabbiani (menzione d’onore al Gran Giallo Città di Cattolica) e L’uomo dei cani. Ha vinto, per due volte, il premio Writers Magazine Italia, con i racconti C’è ancora tempo e Il trampolino. Ha vinto, inoltre, il Nero Premio con il noir Il coltellaio e il Premio Mario Casacci (Orme Gialle) con il racconto La signora. Ha pubblicato, con la Delos Digital, i racconti thriller Scala reale, La bambina della pioggia e Il supereroe.

    I suoi corsi di scrittura e di editoria sono seguiti da centinaia di studenti in tutta Italia.

    Fore morra (Fanucci, 2017) è stato il suo primo romanzo.

    L’ora di andare

    (Oriana Ramunno)

    Prologo

    Penelope spalancò gli occhi nel buio del cubicolo.

    Mosse le dita dei piedi, intorpidite dal freddo. Le era sembrato di sentire qualcosa di gelido e umido aggrapparsi alle caviglie, un attimo prima. Ora non c’era più.

    Si guardò attorno.

    Nella stanza c’erano solo lei, il suo respiro affannato e lo sfrigolare lento di un braciere ormai moribondo.

    Scese dal letto e poggiò le piante dei piedi sul mosaico del pavimento. Era gelido. Le tessere rosse e gialle perdevano colore, di notte, e sembravano tutte della stessa tonalità smorta.

    Udì un rumore, fuori dal cubicolo, e sussultò.

    Si accostò alla tenda dell’ingresso e il cuore le balzò in gola, infradiciandole la tunica di sudore. I lemuri, quella notte, venivano a fare visita ai vivi. Così le aveva rivelato Livia. Sua madre si era arrabbiata e le aveva detto di non dare ascolto ai racconti di quella serva ma Penelope, una volta a letto, non aveva smesso di pensare a quegli spettri di ossa e tendini malmessi, tutti traballanti, che si sarebbero aggirati per casa riempiendo il silenzio della notte col terribile ticchettio delle loro mascelle.

    Scostò appena i lembi della tenda. Aveva paura, ma desiderava anche vedere com’era fatto un lemure.

    Lo vide in fondo all’atrio: un’ombra scura stagliata contro gli affreschi delle pareti. Ciondolava, così come le aveva detto Livia, e ogni tanto si accasciava a terra, incapace di reggersi sulle gambe malferme, ormai consumate. Lo spettro batteva i denti così forte da mettere i brividi. Quindi riprese la sua lenta marcia, e arrivò fino alla vasca al centro dell’atrio. Penelope, per non urlare di paura, dovette premersi le mani sulla bocca e ingoiare le grida.

    Il lemure tossì. Produsse un rantolo molle e umido, e finalmente raggiunse il raggio di luna che tagliava l’oscurità.

    Un refolo gelido sgusciò dal compluvium e avvolse le gambe di Penelope. Di nuovo, quella sensazione di dita fredde e umide.

    Si fece avanti per vedere meglio, e spalancò gli occhi nella sorpresa quando riconobbe il volto dello spettro.

    «Padre!» urlò.

    Corse verso di lui. Lo vide accasciarsi sul bordo della vasca e vomitare un fiotto di sangue scuro che si sciolse nell’acqua. Il petto di suo padre sibilò, spargendo nell’aria un odore acre e ferroso.

    Penelope non fece in tempo a cingerlo con un abbraccio, che lui si accucciò a terra e scivolò lentamente nella vasca. L’acqua lo divorò per metà, ribollendo famelica. Suo padre se ne rimase così, con la testa e il busto sott’acqua e le gambe fuori, lambito dalla luce lunare che lo faceva sembrare davvero un lemure.

    1.

    Il cielo vomitava acqua, ma se c’era una cosa che Corvo amava erano proprio i temporali. Con l’acquazzone che scuoteva gli alberi e impantanava le strade, la gente se ne andava a testa china, bardata nelle mantelle, e lui non era costretto a salutare. Il rumore assordante della pioggia copriva ogni altro suono, e lui aveva anche una buona scusa per far finta di non sentire. Come adesso.

    «Va tutto bene?» gli urlò Bruto, alla guida della carruca che saltellava sulla pavimentazione sconnessa, annaspando nelle pozzanghere che sembravano paludi.

    «Eh?» ribatté Corvo. Allargò un sorriso, e benedisse quel furbo di Giove per tutta la pioggia che stava mandando giù assieme ai fulmini.

    Le raffiche di vento spruzzavano acqua anche sotto la copertura della carruca, rendendola inutile. La mantella e la tunica si erano inzuppate e, adesso, pesavano il doppio sulle sue spalle fragili. L’umidità gli era entrata fin dentro le vecchie ossa e di sicuro gli stava sgattaiolando pure nei testicoli. Presto gli sarebbe venuto da pisciare, e nel farlo avrebbe dovuto mordersi l’interno delle guance, perché la malattia che lo stava rosicchiando non era una passeggiata.

    Ma non gli importava.

    Rispondere con un’alzata di spalle a chi gli faceva domande stupide era impagabile. Se il sole avesse spaccato le pietre della via Appia, avrebbe dovuto rispondere a Bruto che era di pessimo umore perché Nerone lo mandava a Pompei. Avrebbe dovuto raccontargli che un tale Anco Voltinio Metello si era preso una sbronza di Falerno ed era scivolato dritto nell’impluvium, morendo annegato. Ma se è stato un incidente, che ci vai a fare a Pompei? avrebbe preteso di sapere Bruto. E Corvo avrebbe dovuto spiegargli che la figlia di Metello, tale Penelope, aveva visto il padre aggirarsi per l’atrio e vomitare sangue prima di cadere nella vasca. Poi, in ultimo, avrebbe aggiunto una battuta che sarebbe suonata pressappoco così: Sono vecchio e malato e, che quel farabutto di Giove mi fulmini in questo istante, questa è l’ultima volta che Nerone mi manda a risolvere guai.

    Invece, per fortuna, pioveva, e i tuoni erano così forti che sembrava venisse giù il cielo.

    «E che ci vai a fare a Pompei?» urlò Bruto.

    «Eh?» gracchiò lui con soddisfazione.

    Il cocchiere sospirò, fradicio dalla testa alle calighe, e spronò i muli. Corvo, invece, infilò d’istinto le dita nella bisaccia, e sfiorò la lunula di Lucilla. La tirò fuori, tenendola al riparo dalla pioggia, e percorse con i polpastrelli la lamina d’oro a forma di luna crescente. Sorrise, malinconico. Presto lui e Lucilla si sarebbero rivisti.

    Lo aveva capito da quando si era ammalato.

    ***

    Il Vesuvio apparve che doveva essere già l’ora sesta. Corvo lo intuì anche se il sole era nascosto dalla coltre di nubi. Oltre il muro d’acqua che aveva reso la zona un acquitrino, il vulcano svettava scuro e spaventoso.

    Bruto guidò la carruca costeggiando il monte e puntò verso le porte della città. Imboccarono il cardo ancora vuoto per colpa della pioggia e superarono le domus che si affacciavano silenziose sulla strada. Una donna all’angolo di una viuzza li salutò agitando la mano. Mostrò fiera le mammelle floride, abbassando la tunica fino alla vita, e Corvo si accorse che sul muro, sopra la sua testa, svettava una mattonella con un rilievo che lasciava poco spazio all’immaginazione: un fallo eretto che indicava la via del lupanare. Se solo avesse avuto vent’anni di meno, si disse.

    Proseguirono. Costeggiarono un paio di templi in ricostruzione a causa del terremoto e passarono davanti alle terme, che riversarono in strada un odore tiepido di vapori e olio di mandorle.

    «Ci siamo» fece Bruto.

    Aveva quasi smesso di piovere e un grosso squarcio tra le nuvole stava liberando il cielo. Dell’acquazzone, a breve, non sarebbero rimasti che l’odore legnoso e le lumache risalite dal terreno. Corvo fu scosso da una fitta di dolore all’inguine e si guardò attorno alla ricerca delle latrine, ma non le vide. Decise di resistere.

    «Qual è la casa?» domandò.

    Bruto indicò una domus appariscente.

    Quando Nerone lo aveva invitato a raggiungere Pompei, Corvo aveva capito subito che il morto doveva essere un pezzo grosso. Ora ne aveva la certezza: solo un ricco politico o un facoltoso mercante poteva permettersi una simile abitazione.

    L’ingresso era sostenuto da imponenti pilastri di tufo e il pavimento di tessere colorate li salutava con un ave di porfido rosso. Corvo sfilò la mantella, scese dalla carruca e si fermò davanti a una porzione di muro che sembrava affrescata da poco, a giudicare da una chiazza più brillante sul colore dello sfondo. Si domandò cosa fosse accaduto alla parete, dal momento che le pennellate erano limitate solo a quella parte dell’ingresso.

    Entrò nel vestibolo, illuminato dalle lucerne e abbellito da un quadrato di lettere scolpite, incastonato nella parete. Abbassò lo sguardo al pavimento e fissò con fastidio la pozza d’acqua che gli stava gocciolando dalla tunica, quindi lo rialzò per leggere il gioco di parole intarsiato nel tufo. Era un palindromo raffinato, giudicò, e nel leggere da sinistra a destra, e dall’alto in basso e viceversa, le parole che uscivano fuori erano sempre le stesse: sator, arepo, tenet, opera e rotas.

    Corvo proseguì nell’atrio, trascinandosi nella toga zuppa.

    Due uomini parlottavano sotto il lucernario, davanti alla vasca d’acqua, e Corvo dovette tossire per annunciare la sua presenza. Uno dei due si voltò, e in lui riconobbe subito i lineamenti delicati di Marco Claudio Camillo. Non dimenticava mai un allievo.

    «Maestro!» esultò Camillo. Allargò le braccia, facendo ondeggiare la toga candida che gli fasciava la spalla. «Nerone ha mandato te!».

    «Purtroppo» gracchiò Corvo, scrutando Camillo dalla testa ai piedi. Era cresciuto. Non era più il bambino con i capelli scarmigliati e gli occhi furibondi a cui aveva insegnato a stare al mondo. «Come mai sei qui?».

    «Sono uno dei quadrumviri della città» fece lui, impettito. Afferrò l’altro uomo per il gomito e lo presentò. «Lui è Emilio Fulvio Nobiliore. Siamo entrambi addetti alla sicurezza di Pompei».

    Corvo si avvicinò alla vasca. «Com’è morto questo Metello?».

    «I servi l’hanno trovato annegato nell’impluvium» rispose Nobiliore.

    «A me è giunta voce che la figlia lo abbia visto vomitare sangue». Corvo si sporse a scrutare la vasca, ma ormai erano passati giorni e i domestici dovevano aver ripulito tutto.

    «Non era sangue» lo contraddisse Nobiliore. «I domestici hanno parlato di una colorazione bluastra dell’acqua, probabilmente a causa delle piogge. Ma Penelope è una bambina, ha solo sette anni e una fervida immaginazione».

    Sette anni.

    Corvo sentì la bocca prosciugarsi e gli sembrò di deglutire sabbia. «Voglio parlare con lei» disse.

    «Era la notte dei Lemuria» protestò Camillo. «La bambina si sarà fatta condizionare…».

    Corvo assottigliò gli occhi. I testicoli gli bruciarono per colpa dal morbo e sentì la pazienza venire meno. «La mia non era una richiesta, ma un ordine. O devo ancora prenderti a scudisciate come quando eri un moccioso? Nerone mi ha chiesto di fare luce su questa storia, e io lo farò».

    Nobiliore spalancò gli occhi, visibilmente frastornato. Camillo, forse per il profondo affetto che li legava, preferì abbassarli al pavimento e annuire come faceva da scolaro.

    «Penelope è nel peristilio» gli disse.

    2.

    Penelope era seduta su una panchina di pietra, in mezzo alle piante aromatiche inumidite dalla pioggia. Spezzettava una focaccia e la lanciava ai fagiani. Ogni tanto alzava lo sguardo alla fontana che zampillava al centro del peristilio e alle colonne che correvano tutto attorno.

    Corvo si avvicinò titubante. Infilò d’istinto la mano nella bisaccia, e accarezzò la lunula di Lucilla.

    «Posso disturbarti?» domandò, meravigliandosi di cogliere nella propria voce una dolcezza che non sentiva da molto tempo.

    Penelope si voltò e Corvo sentì le ossa gemere, troppo stanche e vecchie per sopportare quello scherzo degli dei. Penelope aveva sette anni, come Lucilla, e come sua figlia aveva lunghi capelli neri raccolti sulla nuca e occhi scuri e profondi come la notte. Sulla veste turchese stringeva una bambola di avorio pettinata come una matrona. Accanto a lei, sulla panchina, c’era uno scrigno aperto che conteneva un pettinino d’avorio, i gioiellini per la bambola e un piccolo specchietto.

    «Chi sei?» fece la bambina.

    «Mi chiamo Corvo Giulio Cesare Germanico» si presentò. «Sono lo zio dell’imperatore e sono qui per capire cos’è successo a tuo padre».

    Penelope spalancò gli occhi.

    Corvo si fece vicino e i fagiani si dispersero. «Era un uomo molto in vista, vero?» le domandò.

    «Era un commerciante di olio» rispose la bimba.

    «Ho bisogno di sapere da te alcune cose» proseguì Corvo, sedendosi accanto a lei. «Ricordi com’era tuo padre l’ultima volta che lo hai visto?».

    Penelope rabbrividì e torturò la lunula che portava al collo. «Sembrava uno spettro».

    Corvo si odiò, ma non gli bastò quel paragone, per quanto evocativo. Doveva far ricordare a Penelope quella triste notte nei dettagli più utili, a costo di farla soffrire. «Come respirava? Te lo ricordi?» la incalzò.

    «Sembrava che stesse soffocando. La sua gola fischiava…».

    «E come si muoveva?».

    «Tremava tutto e… e inciampava».

    «I suoi occhi, come ti sono sembrati?».

    Penelope strinse la pupa al petto, quasi sul punto di piangere. «Così scuri…».

    Corvo meditò. Metello, in punto di morte, doveva avere le pupille dilatate. «Hai detto ai servi che, prima di finire nella vasca, tuo padre ha vomitato sangue. Ma nell’impluvium non ci sono più resti…».

    «Gli è uscito sangue dalla bocca» si agitò Penelope, scuotendo la bambola. «Non mi crede nessuno, ma io l’ho visto. Era un sangue terribile e scuro».

    «Molto scuro?» indagò Corvo. «Quasi blu?».

    Penelope annuì. Lui le passò una mano sulla testolina, per darle un po’ di coraggio. Aveva gli occhi spauriti di Lucilla quando la mamma era morta.

    «Andrà tutto bene» la rassicurò. «Dov’è tua madre?».

    «Nel suo cubicolo. Non esce da quando papà è morto. Piange tutto il tempo».

    «Sai dirmi chi è accorso per primo, quando hai chiamato aiuto?».

    «Ichtys. Il liberto di papà. È stato lui a tirarlo fuori dalla vasca».

    Corvo si accosciò per guardarla negli occhi, consapevole del fatto che rialzarsi sarebbe stata una fatica enorme. «Mi raccomando, sii forte» la incoraggiò.

    «Ora papà è lassù» sussurrò lei, alzando lo sguardo al cielo che si stava aprendo come un lenzuolo azzurro e terso, steso ad asciugare dopo la tempesta.

    Corvo si rialzò in un cigolio di ossa e imprecò. La tunica bagnata gli stava facendo perdere quel poco di agilità che gli era rimasta e si rese conto che, se non fosse corso ai ripari, si sarebbe orinato addosso. Tuttavia, non sarebbe uscito da quella casa senza una certezza in mano.

    Si allontanò. Superò il colonnato, lasciandosi alle spalle Penelope china sulla propria bambola, e tornò nell’atrio.

    I due quadrumviri erano ancora lì, stavolta accompagnati da un uomo e da una donna. Lui aveva una tunica umile, corta al ginocchio, fermata in vita da una cintura. Doveva essere Ichtys, lo schiavo affrancato di cui aveva parlato Penelope. Guardava l’impluvium con uno sguardo dimesso, le dita intrecciate. A occhio poteva avere trent’anni e l’aspetto spiegava il suo nome, di origine greca: riccioli scuri e folti, occhi neri, pelle abbronzata, basso di statura.

    La donna che gli stava di fianco, invece, vestiva abiti nobili, indossava monili d’oro che luccicavano sotto i riflessi del lucernario e mostrava occhi arrossati e gonfi: non poteva essere che Marzia Cecilia, la moglie del defunto.

    «Perdonate» fece Corvo, aprendosi un varco nel capannello di gente, «ma avrei bisogno di fare un paio di domande».

    Ichtys e Marzia Cecilia lo guardarono smarriti. Corvo si rese conto che non era più abituato a usare gentilezza con le persone e cercò di pescare nella memoria i giorni che erano seguiti alla morte di Giulia, prima, e della piccola Lucilla dopo.

    «Sono addolorato per la vostra perdita» recuperò. Scrutò con attenzione Ichtys. «Sei stato tu ad accorrere per primo alla richiesta di aiuto di Penelope, dico bene? Cos’hai fatto, quando hai visto il cadavere?».

    Il liberto si riempì di un profondo respiro e Marzia Cecilia gli appoggiò una mano sulla spalla, come per incoraggiarlo a parlare. «L’ho tirato fuori dalla vasca» rispose lui. «Non c’era più molto da fare».

    «Hai notato qualcosa di strano? Aveva delle macchie rosse sul corpo?».

    «No».

    «Immagino avesse in bocca della schiuma rosata».

    Il liberto scosse la testa. Nobiliore e Camillo stavano seguendo il loro dialogo con curiosità, e Corvo capì che presto avrebbero preteso spiegazioni. Marzia Cecilia, invece, li guardava come sul punto di ricominciare a piangere.

    «Quella sera, Metello aveva cenato o bevuto?» proseguì Corvo.

    «Il padrone aveva digiunato» rispose il liberto. «Lo faceva spesso. E non beveva. Non era un grande amante del vino».

    «Dunque, cos’ha fatto prima di morire?».

    «Ha terminato dei lavori nel tablino» intervenne la moglie di Metello, asciugandosi gli occhi. «Si è recato a pregare i Lari di famiglia ed è andato a letto».

    «Bene». Corvo allargò le braccia. «Tuo marito è stato avvelenato».

    ***

    Marzia Cecilia sbiancò e si portò le mani al petto. «Cosa?».

    I raggi di sole che filtravano dal lucernario acuirono le occhiaie scure sul suo viso. Corvo la vide sfiorare la spilla che chiudeva la tunica, un pesce d’argento che pareva guizzare dalle onde candide del tessuto.

    «Avvelenato?» intervenne Camillo, altrettanto sorpreso. «Come fai a dirlo?».

    «Anni a insegnare e ci fosse un alunno che abbia appreso qualcosa» borbottò Corvo. La propria voce gli rimbombò nelle orecchie come una pignatta di fagioli che ribolliva. «Se Metello fosse morto annegato nella vasca, il suo cadavere avrebbe presentato macchie molto evidenti, di un colore rosso che non sarebbe passato inosservato, e nei preparativi per la sepoltura qualcuno avrebbe notato la schiuma rosata che sarebbe dovuta fuoriuscirgli dalla bocca. Quindi, Metello è morto prima di cadere nell’impluvium».

    «Non potrebbe essere stato un malore?» fece l’altro quadrumviro.

    «Penelope ha detto di averlo sentito respirare a fatica» spiegò Corvo. «Tremava e le sue pupille erano molto dilatate. Ha vomitato un sangue bluastro: ebbene, molti tra i più potenti veleni modificano il colore del sangue. Metello è stato avvelenato. La domanda è: da chi? E perché?».

    Tra i presenti calò un profondo silenzio. Corvo avrebbe riso a squarciagola per quel primo risultato, ma gli occhi arrossati della vedova lo fecero desistere. E, in verità, lo trattenne anche il forte bisogno di orinare.

    «Posso dare uno sguardo alla casa?» domandò.

    Marzia Cecilia annuì. «Certo» mormorò, la voce rotta da un singhiozzo.

    Corvo s’incamminò verso un’ala dell’atrio. Costeggiò la parete affrescata con ippopotami e coccodrilli che creavano l’illusione di una finestra su terre esotiche e lontane, e raggiunse il tablino. Si affacciò. Dentro era tutto in ordine. Sulla scrivania di Metello erano impilate tavolette e documenti. Un braciere spento sostava vicino a un tavolino, su cui faceva bella mostra la miniatura di un tempio.

    Uscì dal tablino e fece il giro opposto dell’atrio. Entrò nel larario e si avvicinò all’edicola che custodiva le statuine di legno intagliato. La lucerna votiva era spenta e non c’erano incensi né offerte.

    Corvo si chinò verso la nicchia.

    Metello aveva digiunato, la sera in cui era morto, e non amava bere vino. Aveva pregato i Lari. Conosceva un solo veleno capace di agire indisturbato e in maniera così letale non per ingestione, ma per contatto dermico. L’aconito napello.

    Tirò fuori dalla sacca un fazzoletto e lo avvolse con cura attorno alle statuette, facendo attenzione a non toccarle, quindi le ripose nella bisaccia.

    Adesso aveva l’arma del delitto.

    3.

    Le latrine apparvero sul fondo della strada come un miraggio.

    Corvo si

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