E adesso trovati un lavoro!
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Ma è davvero questo che li porterà alla felicità?
Ha senso combattere così tanto per un contratto a tempo indeterminato? Perché alla fine, quando meno te lo aspetti, e soprattutto quando credi di avercela fatta, realizzi che tutto è cambiato e, inconsapevolmente, sei proprio tu la causa di quel cambiamento. Non c’è nemmeno il tempo di festeggiare perché inizia una nuova battaglia.
Paola Montanari racconta, con una verve ironica e dissacrante a cui è difficile resistere, la sua esperienza di giovane laureata alla ricerca di un lavoro, preferibilmente compatibile con il suo piano di studi. Sarebbe però semplicistico etichettare E adesso trovati un lavoro! come un gustoso pamphlet di (dis)avventure capitate a una ragazza che come tante affronta il mondo del lavoro sperando in qualcosa di sempre più bello, vivendo momenti di grande allegria alternati a momenti di profonda tristezza. È anche la testimonianza forte di una giovane donna che non si arrende, né di fronte al precario mercato del lavoro né soprattutto di fronte a una malattia invalidante quale può risultare la miastenia grave.
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E adesso trovati un lavoro! - Paola Montanari
Macbeth
E adesso trovati un lavoro!
La ricerca di lavoro è un evento traumatizzante, soprattutto quando pensi di essere una brava persona con delle buone potenzialità. I primi colloqui sono incontri duri, spietati, dove spesso si va a sbattere contro personaggioni arrivati che non dimostrano pietà verso chi sta cercando di spiccare il volo. Io mi sono scontrata diverse volte, forse troppe, con il problema del lavoro sia nei panni della protagonista/aspirante candidato ideale, sia come soggetto valutatore/responsabile di selezione. L’idea del libro nasce quando di fronte alle mie prime dimissioni, durante uno sfogo tra amici, mi viene consigliato di leggere Risorsa umana sarà lei! di Sophie Talneau, se non altro per capire che al mondo non ero l’unica persona incapace di trovare un’occupazione idonea. A un certo punto nel libro l’autrice dichiara apertamente di averlo scritto per cercare una via di uscita alla disoccupazione, ringraziando inoltre chi lo avesse comprato. Nonostante io non avessi sborsato un euro per il libro perché prestato appunto da un amico, ho pensato che presentarsi al mondo con questo strumento al fine di guadagnarsi da vivere fosse una buona idea e così ho iniziato a scrivere la mia odissea. Strada facendo mi sono resa conto che, parola dopo parola, non stavo buttando fuori un tentativo di guadagno facile dall’argomento di moda, bensì il racconto della mia vita attraverso cui condividere ciò che stavo vivendo. Questa storia è pura autobiografia, niente di più e niente di meno, dove si narrano le vicende di una ragazza che come tante affronta il mondo del lavoro sperando in qualcosa di sempre più bello, vivendo momenti di grande allegria alternati a momenti di profonda tristezza.
Mi presento
Salve a tutti, sono Paola Montanari, ventiquattrenne di origine emiliano-mantovana trapiantata in quel del Trentino all’età di otto anni.
Un metro e ottanta di donna, capelli lunghi biondi o castani a seconda delle stagioni, occhi verdi splendenti come smeraldi – è tutto vero – un seno che fa provincia e uno stacco di coscia che lascia il segno.
La mia educazione scolastica inizia con un diploma come Perito Aziendale Corrispondente in Lingue Estere, continua con una laurea triennale in Scienze della Comunicazione, indirizzo Comunicazione Politica e Istituzionale, e si conclude con un diploma di formazione secondaria IFTS di Tecnico per la Valorizzazione del Territorio e del Turismo integrato e sostenibile. A dire il vero questo corso l’ho frequentato e concluso tra il secondo e terzo anno di università ma la logica di esposizione li vede meglio uno conseguente all’altro. Formazione strana, decisamente lontani gli ambiti approfonditi ma a parer mio questo mix non si discostava molto da quelle che potevano essere le richieste del mercato.
Iniziamo ora questo racconto.
Le scuole superiori
Finite le scuole medie con una votazione di Distinto, ho optato per avventurarmi in un istituto che nessuno dei miei compagni aveva scelto: si prospettava una nuova vita.
Bella classe, ventisei alunni, diciannove femmine e sette maschi. Parola d’ordine: casino! Un vero e proprio delirio di colori, ormoni, stili e professori. Purtroppo per noi ben dieci elementi ci hanno lasciato alla prima possibilità di segatura di gambe e dopo tre anni di sofferenza ci siamo ritrovate in quindici… ragazze. Unite nel bene e nel male, pronte a scannarci da un momento all’altro, odiate/amate da tutti i docenti. Una nota di merito va data al mio adorato preside, personaggio discutibile, che, approfittando di un mio leggero malessere, mi ha chiusa nel suo ufficio con la scusa che sul suo divano mi potevo sdraiare, per poi beccare mia madre e farle una ramanzina per il mio comportamento, a detta sua discutibile. Incontro scampato comunque, grazie alla collaborazione di bidelli e professori che mi conoscevano bene in quanto una dei quattro rappresentanti d’istituto eletti. Troppo famose e focose erano state le lotte per ottenere una cavolo di assemblea d’istituto ma soprattutto troppe erano state le ore da noi rappresentanti spese per un’organizzazione impeccabile che in conclusione ha sempre ricevuto dei sonori no. Fu così che una volta finimmo pure sul giornale, credo per la scusa di una videocassetta non prima visionata dalla direzione, mancanza talmente oltraggiosa da mandare letteralmente a puttane un mese di pomeriggi in cui ci eravamo scervellati per formulare una proposta vincente. Davanti alla minaccia di un: Voi non arrivate in quinta
, io che già non ero una cima e soprattutto che mi trascinavo un secco quattro in matematica dalla prima classe, ho rassegnato le dimissioni con tanto di firma di mia madre.
L’anno della quarta superiore è stato caratterizzato anche dalla partecipazione al progetto IG Student al quale il nostro istituto aveva aderito insieme ad altri dieci istituti trentini. Si trattava di creare un’azienda in ambiente protetto, leggi e procedure agevolate, che facesse fruttare economicamente un’idea. Si costitutiva una società, con tanto di vendita azioni e raccolta di un capitale sociale pari a un milione di lire, un Amministratore delegato, direttori e vice direttori di funzione. In questo percorso la classe era seguita da un tutor esterno, per noi il mitico Tomio, imprenditore del Roveretano che ci ha sempre visto lungo; arduo il compito di tenere a bada quattordici ragazzine scatenate, a lui il merito di averci sapientemente guidato e supportato nella nostra avventura. Il primo passo in assoluto da fare era quello di trovare un’idea vincente: qualcosa di economico, utile, producibile, e soprattutto nuovo. Alla faccia! Il brain storming iniziale ci aveva portato all’ideazione di un ombrello con anti-goccia incorporato, avevamo addirittura redatto un disegno progetto e contattato un vero produttore che sembrava seriamente interessato. Troppi i costi di produzione iniziale e troppo lunghi i tempi, considerato che noi avevamo otto mesi a disposizione... fatto sta che l’idea è andata per aria e il produttore ce l’ha rubata o almeno questo è il pensiero che ho avuto quando dopo qualche mese ho iniziato a notare che era uscita proprio quella tipologia di oggetto, mah...
In una delle seguenti riunioni e io e Valentina sforniamo un’idea a prova di genio: organizziamo dei pullman per le discoteche! Uniamo l’utile al dilettevole, il beneficio sociale al nostro puro divertimento... Studia che ti studia, la società Futura Ig approva l’idea, io vengo nominata Direttore di Produzione e Valentina mia vice – da qui l’interminabile saga dei nostri soprannomi Boss e Vice.
Mi sentivo gasatissima... ero una delle poche che aveva già frequentato diverse discoteche, conoscevo parecchie persone che sarebbero salite sul pullman quindi guadagno sicuro, rimanevano i dettagli economici e pubblicitari. Decidiamo di investire sulla radio, un jingle bellissimo pubblicizzava Futura Ig e le sue uscite; chiamiamo anche la tv locale che immediatamente viene a intervistarci a scuola, con la rabbia del vice preside che partecipa allo stesso progetto con una sua classe. Arriva la sera della prima uscita e convochiamo anche i giornali locali: mega articolo con tanto di foto. Le migliori, neanche i più famosi PR potevano batterci! Destinazione: Florida di Ghedi (Bs). Il pullman era pieno per metà ma con i soldi ci andavamo in pari tranquillamente, anzi, eravamo in positivo! Io e la mia vice abbiamo anche beccato due entrate omaggio e parecchie consumazioni gratis, cosa potevamo volere di più?
Altre due uscite ci aspettavano: io meditavo anche su un pullman con destinazione internazionale ma le menate burocratiche, soprattutto per i ragazzi minorenni, diventavano pesanti per cui ci siamo fermate lì. In mezzo c’è stata anche una fiera dove tutti i partecipanti dovevano preparare uno stand espositivo sul progetto. Con uno sforzo collettivo mettiamo in piedi una mini discoteca con sfondo in alluminio, faretti colorati, due mini cubi per distribuire i nostri volantini, stereo fornito della musica più trendy, cartello rosso con sotto la scritta stop alle stragi del sabato sera e magliette uguali, con la stampa piccola davanti e grande dietro del nostro logo, incollate con il ferro da stiro... Eravamo una squadra efficientissima! La posizione dello stand ci ha dato una grossa mano, esattamente all’entrata dell’edificio, ci permetteva di intercettare tutti i passanti. Io nel mio piccolo avevo cercato di svegliare tutte le anime hardcore warriors e house facendo girare le cassette del Number One di Brescia. Un risultato fenomenale, per l’invidia di tutti gli altri standisti. Qualche bella idea circolava tra i progetti degli altri ma erano troppo sofisticate e poco dirette.
Arriva il giorno delle premiazioni, l’adrenalina era alle stelle soprattutto per via della sfida con la classe del vice preside... Andiamo tutti a Trento per presentare all’intera platea, in cinque minuti, la società. Con i nostri pochi strumenti eravamo riuscite a mettere in piedi un mini video e una piccola presentazione in power point ma la chiave di tutto stava negli sketch finali in cui, dopo una seria introduzione con noi tirate in tutta formalità, partono dei balletti e delle gag di classe che fanno ridere tutto il pubblico. Finite le presentazioni premiano il vincitore, che sarebbe poi andato a Roma per la competizione nazionale; dal mio poco entusiasmo avrete ben capito che non eravamo noi gli eletti ma un liceo artistico di Trento che aveva elaborato un progetto legato ai disegni nel deserto – non mi ricordo il nome, sono quei mega ragni, scorpioni che si vedono dall’alto...
Vabbè, bella idea e bella presentazione, bravi. Noi veniamo premiati per la migliore trovata commerciale, Valentina G., Amministratore delegato, sale sul palco per ritirare il premio. La sfida più grande rimaneva ancora aperta: il premio città di Rovereto. Dio solo sa quanto volevo quel premio... nel momento dell’annuncio del vincitore mi ero raggomitolata sulla sedia con tutte le dita di mani e piedi incrociati. Era stato deciso che se avessimo vinto sarei stata io a ritirare il premio.
Il vincitore per la città di Rovereto è... Futura Ig!
Porca miseria, mi vengono ancora i brividi, avevamo vinto noi! Dalla nostra fila si leva un boato di gioia, abbraccio le mie compagne e salgo a ritirare il premio, con una felicità che manco fosse stato un Nobel per la pace, che emozione! Questa è stata proprio una gran bella esperienza, sia come scuola di vita che come esperienza di gruppo, ottimo progetto.
Finalmente arriva la quinta classe che scorre abbastanza veloce e tra un due in matematica e un cinque in economia aziendale mi sono aggiudicata un fantastico 66/100 di valutazione finale. Da ricordare la mia performance all’esame orale al quale mi sono presentata con tanto di curva tifosi: Vice, Fede e Sara; poche le speranze di alzare il voto, mi sembra di aver retto per i primi dieci minuti, poi è stato un gioco al massacro dove io ho mancato tutte le risposte. Pochi i commenti da fare, non mi meritavo niente di più, anche se posso dirlo: in quella scuola si ricorderanno per sempre di me!
L’università
Okay, sono diplomata. Cosa si fa ora? Mmmh… lasciatemi pensare e vedere come si comportano le mie compagne. Strano a dire, le ragazze con votazione tra i 90 e i 100/100 hanno optato per non studiare più; quelle che invece avevano preso tra 80 e 90/100 erano incerte mentre le restanti, con votazione sotto gli 80/100 valutavano l’università. Nella mia visione le cose avrebbero dovuto funzionare al contrario. Prendo tempo e inizio a informarmi sulle facoltà. Cerca cerca, scopro che l’unica che non prevede esami di matematica né di economia aziendale è Scienze della Comunicazione, le cui sedi più famose al Nord sono Bologna, Parma, Padova, Verona e Reggio Emilia – Milano e Urbino le avevo scartate a priori, la prima per la tassa di iscrizione da mutuo e la seconda per la lontananza. Verona e Padova le ho scartate così, perché avevo troppe alternative; Bologna non era male ma se qualcuno di voi ha provato a fare il test di ammissione ha capito che entrare nei cinquecento posti disponibili diventa un’impresa ardua; Reggio Emilia. Io non sapevo che a Reggio Emilia esistesse l’università, né tanto meno Scienze della Comunicazione. Beh, una valida opzione, l’ultima sopravvissuta alla mia cernita, piccolina, a qualche chilometro dalla casa di mio padre, una buona base di amici conosciuti durante le vacanze lì trascorse – i miei genitori sono divorziati – e tutto il nuovo paesaggio della bassa Emiliana.
Mi presento al test di ammissione, cinquecentocinquanta persone per duecento posti… posso farcela. Tutti vestiti bene e super geni… posso farcela. Tutti super attrezzati con i famosi alfa test… posso farcela. Cento domande e circa un’ora e mezza di tempo. Consegno per seconda, mollo il malloppo, apro la porta e mi viene scattata una foto. Ho vinto qualche cosa? Il giorno seguente sul quotidiano locale campeggia il mio faccione affiancato dall’illuminante commento: Io quelle immagini non le ho proprio capite
. Bell’esordio emiliano, complimentoni Paul!
Passano dieci giorni e viene pubblicata la graduatoria: 239 Paola Montanari. Okay, non ce l’ho fatta. Sotto in lettere minuscole però scrivono di presentarsi comunque all’assegnazione dei posti nel caso in cui alcuni studenti rifiutassero il posto. Delusa e quasi rassegnata a una carriera lavorativa troppo prossima, mi presento in facoltà. Entrando leggo un cartello: 35 posti disponibili. Eh no, eh! Inizio a pregare che sia venuto il cagotto da stress ad almeno altri quattro studenti ed evidentemente le mie preghiere vengono ascoltate: sono stata ammessa alla facoltà di Scienze della Comunicazione. Sono una matricola!
Mi trasferisco dal papà e dalla nonna e passo le prime due settimane di permanenza reggiana a consegnare documenti nei vari uffici, cercando di utilizzare tutti i mezzi pubblici disponibili, vagando con la speranza di perdermi per poi ritrovarmi e fare i complimenti al mio senso dell’orientamento. (Google Maps non esisteva, ci tengo a specificarlo)
Ci siamo quasi, mancano meno di ventiquattro ore al primo giorno di università quando, alle ore venti circa, suonano il campanello: chi è? Un signore anziano mi comunica di aver investito mio zio. Aiuto! Davanti casa lo zio è sdraiato a terra. Un attimo per riprendermi, chiamo tutti a rapporto e arrivano i carabinieri che disegnano la sagoma dello sfortunato zio sull’asfalto per rilevare la dinamica dell’incidente, disegno che rimane lì anche quando gli infermieri caricano il ferito in ambulanza. Niente di grave, solo botte, un grande spavento e una fantastica opera d’arte davanti casa!
Suona la sveglia, alle sette e quarantacinque c’è la corriera, parto per il mio primo giorno. Apro la porta, rido vedendo la sagoma dello zio atterrato e con la bicicletta del nonno scappo verso la fermata del paese. Arrivo