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Vita di Tenebra
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Vita di Tenebra

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About this ebook

In un medioevo figlio di una guerra atomica un giovane archivista di nome Saalvan, trova per caso un libro maledetto, un grimorio leggendario e considerato blasfemo, il Kundingkingar, conosciuto come lo Specchio degli Inganni, assieme a un taccuino e agli appunti di un soldato che secoli prima, ha combattuto una guerra non convenzionale contro un’orda di morti viventi, terminata solo con l’utilizzo di armi nucleari.

Seguendo le tracce del soldato, troverà un luogo, dove si tenevano esperimenti sull’infezione, e scoprirà un morbo che trasforma gli uomini in zombi, questo segnerà la sua discesa nella follia, convinto di potere fondare un nuovo ordine in un mondo abitato da soli morti viventi.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateMar 16, 2020
ISBN9788831663526
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    Vita di Tenebra - Marcello Magnoni

    Introduzione

    Era esistito un mondo prima di quello che conosciamo oggi, un mondo con una storia, dei miti e delle leggende.

    Poi il tempo era trascorso, e quel mondo era finito diventando storia egli stesso, con nuovi miti e leggende, da raccontare nel nuovo mondo che, nelle sue diversità, sarebbe stato identico a tuti i mondi che lo avevano preceduto.

    Prologo

    Il cavaliere osservava il campo di battaglia, niente che non avesse già visto.

    Era una liturgia, che si ripeteva uguale a se stessa nelle ore seguenti la fine del combattimento.

    Morti, feriti agonizzanti, armi scheggiate, armature a pezzi, picche spezzate e una morchia sanguinolenta che ricopriva ogni cosa.

    L’armatura che lo rivestiva completamente portava i segni inequivocabili della lotta, era ammaccata e scalfita in vari punti.

    Con un gesto fluido, quasi distratto, frutto di anni di pratica, rinfoderò la sciabola che aveva appena recuperato, l'aveva persa durante le prime fasi dello scontro, la lama ricurva avrebbe avuto bisogno di una buona affilatura, e anche l’ascia bipenne appesa al pomolo della sella richiedeva cure, la pistola nella fondina di cuoio a tracolla era scarica, e batteva contro il pettorale a ogni movimento di Aldair, il suo cavallo.

    Il grande scudo gli pendeva dalla spalla sinistra, legno scheggiato, rivetti mancanti, niente che non si potesse riparare, sia all’armatura sia allo scudo avrebbero pensato più tardi gli armaioli.

    Il sole stava tramontando, tra pochi istanti sarebbe scomparso dietro la linea dei monti, a Ovest, segno evidente che l’equinozio d’autunno era vicino.

    Era il momento delle ombre lunghe, e si ritrovò a pensare a quando era giovane, un periodo ormai lontano, ricordò suo nonno che gli diceva di come al tramonto, osservando la propria ombra, anche un piccoletto si sarebbe sentito un gigante, si sarebbe illuso per pochi minuti di essere un gigante, ma poi l’oscurità lo avrebbe riportato bruscamente alla realtà, perché il buio ci spaventa sempre.

    Iniziava a fare freddo, e il calore che abbandonava il terreno si addensava, creando una specie di nebbiolina che rimaneva vicino al suolo, un fenomeno che lo aveva sempre affascinato.

    Il soldato si tolse l’elmo, gustandosi il momento di frescura, sotto il cuoio e il metallo era fradicio di sudore, era stata una battaglia cruenta, disordinata e confusa, diversa dalle molte altre che aveva combattuto in tanti anni, sputò una boccata di qualcosa di acidulo, cercando di togliersi dalla bocca il sapore di metallo e sangue.

    C’erano altri uomini in armatura che vagavano a piedi per il campo di battaglia ma, loro, avevano uno scopo, finire i feriti, e accertarsi che i morti rimanessero tali. I martelli da guerra e le mazze ferrate si alzavano e abbassavano con una certa cadenza, quasi ritmica, seguendo uno schema preciso, si seguivano i lamenti e ci si accertava che nessuno gemesse più, ma ormai era quasi buio, bisognava rientrare, fare il contrappello, riorganizzarsi e aspettare il mattino seguente.

    Aldair il suo cavallo da battaglia, era irrequieto, il soldato cercò di tranquillizzarlo carezzandolo sotto la copertura lamellare che gli proteggeva collo e testa, alle sue spalle udì il galoppo di diversi cavalli, si trovò circondato da alcuni uomini della sua guardia personale, il maggiore Elias, il suo secondo in comando, lo aveva affiancato, «Generale, bisogna rientrare, è ora di chiudere il portone», la voce tradiva un certo nervosismo, e non era da lui.

    Il Generale rimase ancora un attimo a scrutare nell’oscurità che avanzava.

    «Andiamo Elias, torniamo, ma assicurati che tutti rientrino».

    1

    Il Generale Steffen Arandir si fermò qualche metro prima del portone, doveva accertarsi che nessuno fosse rimasto indietro, voleva i suoi uomini al sicuro dietro le imponenti mura di Forte Rogow, solida pietra che portava i segni delle intemperie e dagli assedi, nessuna feritoia, impossibili da scalare, protette dall’alto da colubrine caricate a mitraglia e fucilieri, la prima linea di difesa.

    Forte Rogow era in realtà una spessa cortina muraria aggrappata alle pareti montuose del gruppo dell’Essenoch, che in quel punto formavano una valle, Valle Kanka.

    La valle aveva una curiosa conformazione a goccia, tanto che i montanari più vecchi sostenevano che Kanka significasse esattamente Goccia, in una lingua che oramai quasi nessuno parlava più.

    La valle era raggiungibile solo da Nord, attraverso una strada alquanto tortuosa che immetteva in una stretta gola, lunga pochi chilometri, una volta giunti nella valle ci si trovava difronte alle mura di Forte Rogow, che sembravano generare direttamente dalle pareti di roccia, che in quel punto cominciavano a restringersi.

    Oltrepassato il portone del forte, non c’era molto da vedere, un pianoro pareggiato da anni di calpestio di cavalli, uomini e carri, appoggiate alla montagna sul lato destro si trovavano gli acquartieramenti della truppa, le stalle, sulla sinistra un secondo doppio cancello, una grande porta di legno in solida quercia rinforzata da lastre di ferro, protetta a sua volta da una robusta inferriata basculante.

    Varcata questa porta, ci s’introduceva in una seconda gola, attraverso la quale si giungeva direttamente su un ponte, Ponte Kaisog, interamente costruito in legno così da poter essere eventualmente distrutto a cannonate o bruciato, estrema risorsa allo scopo di isolare quello che si trovava al di là del ponte.

    Il ponte sovrastava un fiume dalle acque scure e gelide, un grande corso d’acqua di montagna, profondo e impetuoso, impossibile da guadare soprattutto da truppe pesantemente corazzate, in quel punto il fiume si allargava, creando una specie di grosso lago al centro del quale si alzava un’isola di pietra dove era stato edificato un secondo forte, Forte Schvarblut, un forte a pianta quadrata con quattro torri agli angoli anch’esse quadrate, e su ogni torre un cannone per ogni lato esterno, sulle mura truppe armate di fucili e falconetti.

    Forte Schvarblut era la dimora sicura del sovrano e della famiglia reale in caso di guerra, una costruzione massiccia, che sembrava quasi essere stata scavata direttamente dalla pietra sulla quale poggiava, un luogo inaccessibile, protetto da truppe addestrate e ben armate, in grado di resistere anche per anni ad un eventuale assedio.

    Il Generale rientrò e sentì il portone di forte Rogow muoversi alle sue spalle, percepì quasi fisicamente i meccanismi alimentati dal vapore, che ruotando avrebbero chiuso il pesante portone, sigillando l’ingresso.

    Scese da cavallo, salutò Aldair e lo affidò a uno stalliere, poi, seguito dai suoi ufficiali in attesa delle disposizioni per la notte, si diresse verso il suo alloggio personale, un piccolo privilegio che gli derivava dal grado.

    «Generale, un messaggio dal Principe», la staffetta gli consegnò una busta con il sigillo imperiale, uno scudo e al centro una T, un disegno semplice, ieratico, tipico del Principe Shaward.

    Fece saltare la ceralacca e si trovò a fissare una grafia ordinata, era la richiesta di un incontro, "quanto prima, compatibilmente con le incombenze del Generale", Steffen si concesse un sorriso, diede istruzioni per la notte congedando gli ufficiali, poi entrò nel suo alloggio.

    La camera era quasi claustrale, pareti bianche che sembravano essere state intonacate a badilate di gesso, una grande stufa al centro, uno specchio ossidato sui bordi appeso sopra un bacile di rame, un letto, il baule con gli effetti personali, il supporto per l’armatura, le armi allineate nella rastrelliera e poco altro.

    Marcus il suo attendente gli si avvicinò, lo liberò dall’elmo, dallo scudo e dalle armi, poi si diede da fare con l’armatura.

    «Ho già chiamato gli armaioli, puliranno e sistemeranno la sua armatura velocemente, sospetto che nei prossimi giorni ne avrà ancora bisogno, e a giudicare da com’è ridotta oggi si deve essere divertito un mondo la fuori».

    Marcus era un ventenne di origini incerte, aveva servito sotto il suo comando, fino a che una palla di moschetto durante la battaglia di Dalnumh non gli aveva rovinato un ginocchio, rendendolo zoppo, quindi inabile al servizio. Steffen però lo aveva preso come suo attendente.

    Marcus era insolente, spudorato e privo di qualsiasi senso della gerarchia, ma terribilmente efficiente e dotato di un’intelligenza acuta, che faceva di lui una compagnia interessante e infine era anche un tiratore eccezionale.

    «Le ho preparato il necessario per lavarsi, mi perdoni Generale, ma sembra che un drago le abbia cagato addosso, non voglio nemmeno pensare a come può essere ridotto il povero Aldair».

    «Marcus, un giorno di questi, ti faccio impiccare».

    «Sì, Generale».

    «Ma non oggi, domani forse, adesso devo andare dal Principe».

    «E sarebbe bene presentarsi senza puzzare come una bagascia che si è fatta ripassare da un intero reggimento di cavalleria pesante, cavalli compresi, ovviamente».

    «Ovviamente».

    Steffen si liberò di tutti gli indumenti, li gettò in un angolo, dove formarono un mucchio di stracci maleodoranti che più tardi sarebbe stato forse lavato, oppure bruciato, si avvicinò al bacile pieno di acqua calda, prese un grosso pezzo di sapone, lo strofinò su un panno umido e finalmente riuscì a togliersi di dosso le ultime ore di lordura.

    Finito di lavarsi si strofinò accuratamente con un telo ruvido, si guardò allo specchio, stava innegabilmente invecchiando, i capelli neri si stavano ingrigendo, piccole rughe iniziavano a comparire attorno agli occhi, e il fisico non era più scolpito come una volta, un accenno di pancia era comparso a coprire i muscoli dell'addome, pazienza, fintanto fosse riuscito a indossare un'armatura e montare in sella ad Aldair tutto sarebbe andato bene.

    S’infilò una camicia bianca, pantaloni e giubba neri, calzò gli stivali che Marcus aveva religiosamente pulito, si allacciò il cinturone, sistemò il fodero del grande coltello dalla lama concava dietro la schiena, e indossò un pesante pastrano color antracite, e si preparò per uscire.

    «Generale…».

    Steffen si fermò con una mano sulla maniglia della porta.

    «Oggi la fuori… insomma sono vere le voci che girano o sono le solite esagerazioni da caserma?».

    «E cosa si dice in caserma?».

    «Che gli uomini che avete affrontato… non erano, come dire… normali… ma che sembravano già morti, morti tornati in vita!».

    Steffen, in effetti, non sapeva esattamente chi o cosa avessero affrontato, sapeva solo che quello che c’era là fuori, come diceva Marcus, non era normale, ma al momento ogni spiegazione sarebbe stata solo una speculazione inutile.

    «Ancora non lo so Marcus, non ne sono sicuro, ma durante l’assalto della nostra cavalleria gli uomini del capitano Sthol ne hanno catturato uno, sto andando a vederlo, poi andrò a riferire al Principe».

    Marcus non disse altro, si sedette e cominciò a pulire la sciabola e l’ascia, poi le avrebbe accuratamente affilate, dopo avrebbe pulito e caricato la pistola, le armi del Generale erano una sua responsabilità e per nessun motivo al mondo le avrebbe lasciate nelle mani di un armaiolo qualsiasi non avrebbe mai permesso che mettessero le mani sulle armi.

    «Marcus».

    «Generale?»,

    «Per scrupolo, tieni le pistole cariche, tutte».

    Poi uscì nella sera, dirigendosi alla prigione.

    2

    La prigione era stata ricavata all’interno di una grotta naturale, i costruttori avevano saggiamente sfruttato quello che la montagna offriva, la grotta era a forma di fiasco, un cunicolo ampio forse un paio di metri e lungo poco di più, immetteva in una camera piuttosto grande, le celle vere e proprie erano semplici buchi, profondi qualche metro, scavati direttamente nella roccia chiusi da inferriate. Steffen entrò e rimase immobile per dare il tempo ai suoi occhi di abituarsi all’oscurità del locale.

    Muffa e macchie di umidità decoravano le pareti di roccia, e ovunque aleggiava un lezzo come se qualcosa di malsano fosse rimasto a macerare in una pozza di acqua stagnante.

    Solo una cella era fiocamente illuminata da un paio di lanterne, e davanti a essa era riunito un piccolo capannello di soldati, che copriva a Steffen la visuale, riusciva solo a udire dei versi inarticolati, le sagome confabulavano fitto fra loro e, le armature brunite, sembravano assorbire la poca luce delle lanterne.

    Steffen individuò immediatamente il capitano Sthol dalla cresta gialla che ornava il suo elmo.

    «Capitano Sthol».

    Le sagome s’irrigidirono sull’attenti, provocando un rumore metallico che a Steffen faceva sempre pensare a un barile di rottami che rotola giù per una scala.

    – Uomini di latta –.

    «Generale» Sthol salutò, poi si tolse l’elmo, ma non diede licenza ai suoi uomini di fare lo stesso. Sthol era l’archetipo dell’ufficiale di cavalleria, rigoroso, intransigente prima con se stesso e poi con tutti gli altri, esigeva disciplina, sempre e comunque, sarebbe stato capace di punire i suoi uomini anche da morti se si fossero fatti ammazzare durante una carica di sfondamento con stivali e speroni sporchi, quindi presentarsi al Generale senza elmo, era semplicemente inammissibile.

    «Allora capitano, mi dicono che abbiamo un prigioniero».

    «Come le hanno riferito Generale, ne abbiamo preso uno vivo, o all'incirca, insomma non siamo sicuri di cosa sia», disse indicando la cella.

    L’essere sembrava un uomo, ma il colore grigiastro della pelle, gli occhi velati di bianco, l’apparente incapacità di muoversi in modo coordinato e le ferite dalle quali colava un denso liquido dal colorito marrone che si poteva ipotizzare fosse sangue, suscitavano diversi dubbi sulla reale natura di quella creatura.

    L’essere si lanciò verso l’inferriata emettendo versi che sembravano ruggiti, e cercò di afferrare Steffen, che saggiamente si era tenuto a debita distanza.

    «Attento Generale, questo coso morde, il bastardo ha sgranocchiato i miei guanti fino a farsi saltare tutti i denti».

    «Lei è ferito Sthol?».

    «No Generale, neanche un graffio, a dire il vero nessuno dei miei uomini è ferito».

    «Mi dica come lo avete preso».

    Sthol sospirò si passò la mano guantata sul volto sporco e sudato.

    «Mentre stavamo ripiegando, dopo aver coperto la ritirata degli uomini di guardia all’ingresso della gola, il caporale Braha ne ha arpionato uno alla spalla con la penna del suo martello, e l’ha trascinato fin qui, questo coso avrebbe dovuto essere morto, siamo rimasti stupiti quando abbiamo visto che invece continuava a muoversi».

    Sthol posò lo sguardo sullo squarcio provocato dall’arma del caporale, un buco frastagliato appena sotto la clavicola sinistra, una ferita gravissima che invece sembrava non avere avuto nessun effetto sull’essere che si agitava nell’ombra della cella.

    «Quando siamo rientrati dentro le mura, lo abbiamo preso in tre, due gli tenevano le braccia ed io stesso gli ho avvolto due giri di fune di cuoio attorno al collo, poi lo abbiamo sbattuto qui dentro».

    Steffen era affascinato da quello che vedeva, come se fosse davanti a un drago o una manticora, un qualcosa che non sarebbe dovuto esistere, un mostro, ed era effettivamente quello che stava guardando: un maledetto mostro.

    «Mi dia una sua valutazione Sthol, e senza stronzate capitano, voglio un parere sincero».

    Sthol rimase perplesso, poche volte avevano sentito il Generale usare un linguaggio sboccato, ed era stato in situazioni preoccupanti, quindi anche la circostanza attuale poteva essere peggiore di quello che pensava.

    «Secondo la mia opinione questo qui» disse indicando il mostro «sembrerebbe essere morto da qualche tempo, ma per qualche motivo che ignoro, forse magia, negromanzia più probabilmente, è ancora vitale», sentendo parlare di negromanzia gli uomini in armatura si agitarono, provocando un nuovo sferragliare.

    «Sì Luca» Steffen era passato a dargli del tu, «Sono d’accordo con te», in fondo si conoscevano da quasi una decina d’anni, e in certe occasioni ci si poteva permettere un certo grado di confidenza.

    Sthol sembrava perso nei suoi pensieri, con un’espressione corrucciata sul volto, i suoi uomini erano ombre metalliche appena fuori della portata delle lanterne.

    «Generale, se posso, ho come avuto l’impressione che quelle cose la fuori avessero uno scopo che non fosse solo dare l’assalto alle nostre difese, ma come se…».

    «Come se qualcuno stesse valutando le nostre forze sulla pelle dei suoi soldati».

    «Esattamente Generale».

    «Anch’io ho avuto la stessa brutta sensazione».

    «Che cosa sta succedendo Generale?»

    «Ancora non lo so».

    In quel momento nel locale comparvero tre figure che sembravano monaci, tutte indossavano un saio nero, con il cappuccio alzato, al posto del volto una pozza di oscurità, il più alto si staccò dal gruppo, il lungo abito corvino dava l’idea che l’uomo non camminasse, ma fluttuasse senza sfiorare il pavimento.

    Arrivato al cospetto di Steffen, abbassò il cappuccio rivelando una testa completamente calva e sotto un volto glabro, niente sopracciglia, neppure un accenno di barba, un volto senza età, e Steffen si trovò al cospetto del venerabile Domadach, capo dell’ordine di Tùrvahla, studioso di negromanzia, consigliere del monarca per le questioni esoteriche, potente mago, astrologo, indovino, ma soprattutto eminenza grigia, manipolatore, politico senza scrupoli e faccendiere.

    «Generale», una leggera inclinazione del capo, un gesto di rispetto da parte del potente capo dell’ordine, Steffen salutò allo stesso modo, provava sempre un vago senso di disagio alla presenza degli appartenenti a Tùrvahla, quelle persone operavano su vari piani della politica, della religione e della vita, che lui non comprendeva pienamente, anche se percepiva il pericolo insito in quello che facevano, ma non aveva problemi a mantenere rapporti cordiali con loro.

    «Siamo venuti a prendere in custodia l’esemplare catturato dal valoroso capitano Sthol, se non dispiace al Generale ovviamente», il tono basso e accondiscendente non era quello di una richiesta.

    «È tutto vostro venerabile Domadach, anzi sono veramente curioso di sapere quali saranno le vostre valutazioni su questa… questa cosa».

    «Valutazioni, Generale Arandir?»

    «Sì, valutazioni, in particolare su due questioni».

    Steffen si prese un momento per riflettere.

    «Alcuni dei miei uomini sostengono che questo essere forse era già morto, lo dicono a proposito dell’aspetto, i soldati sanno riconoscere un cadavere quando ne vedono uno, eppure questo sembra essere misteriosamente vivace, quindi intanto vorrei capire se hanno ragione, e quindi, come ammazzarli di nuovo e definitivamente».

    Domadach stirò le sottili labbra in un ghigno che probabilmente avrebbe dovuto essere un sorriso «Naturalmente Generale, naturalmente, devo confessare che apprezzo molto in voi questo lato pragmaticamente militare, ma purtroppo l’ora è tarda e sono ansioso di iniziare le mie indagini, riferirò a voi e al Principe appena possibile».

    Il negromante si avvicinò alla cella, scatenando un nuovo attacco d’ira del suo inquilino.

    «Attenzione maestro Domadach il bastardo morde», Sthol si era fatto avanti.

    «Morde? Interessante, beh temo che dovremo imbavagliarlo in qualche modo, forse un morso da cavallo potrebbe funzionare…».

    Steffen fece un passo avanti affiancando il venerabile Domadach.

    «Se mi permette venerabile, penso di potervi aiutare».

    Steffen si girò verso il caporale Braha che s’irrigidì sull’attenti «Caporale due cose, la prima da oggi sei sergente, in virtù dell’impresa di aver catturato questo essere».

    «Sono onorato, Generale».

    «La seconda cosa, posso avere in prestito i tuoi guanti?»

    Braha era perplesso «I miei guanti, Generale?»

    «Sì, se la cosa non ti crea qualche imbarazzo».

    Braha si tolse i guanti, d'altronde se il Generale che ti ha appena promosso sul campo vuole i tuoi guanti glieli dai e fine.

    «Grazie» Steffen indossò i guanti corrazzati, cuoio robusto coperto da lamine di acciaio, si diresse verso la cella, il suo abitante sporgeva le braccia all’esterno dell’inferriata, e aveva la testa che sfregava contro il ferro che formava l’incrocio di un tratto verticale e uno orizzontale della grata.

    «Capitano, per cortesia, potrebbe lei e un suo uomo bloccare le braccia del nostro ospite, grazie».

    Sthol e un altro soldato immobilizzarono le braccia, mentre Steffen infilava le mani fra le sbarre, con la sinistra bloccò la testa del mostro contro il segmento orizzontale dell’inferriata, prendendolo per la nuca, mentre gli infilava la destra in bocca.

    «Generale!» panico nella voce di Sthol, alle sue spalle rumore di lame che escono dai foderi, poi un rumore umido seguito da uno schiocco, Steffen ritirò le braccia, nella destra esibiva la mandibola che aveva appena staccato, «Ecco maestro Domadach adesso non morde più» sul palmo della mano guantata reggeva la mandibola «volete conservarla o la buttiamo?»

    Domadach sorrise di nuovo «No, la conserviamo grazie, Generale».

    A un gesto di Domadach un'altra nera figura si era fatta aventi per ritirare la mandibola staccata, che fu prontamente infilata in un sacchetto di cotone cerato.

    Steffen si sfilò i guanti e li restituì al Sergente Braha, «Grazie sergente, ottimi guanti».

    «Generale, mi perdoni, ma che cazzo, un’altra impresa come questa e mi verrà un accidente secco, poi dovrà essere lei a spiegare a mia moglie come sono crepato e perché!»

    Sthol squadrava Steffen come un padre guarderebbe un figlio che si è appena mangiato un topo morto trovato per strada.

    «Non preoccuparti Luca» Steffen sorrideva «Non affronterei tua moglie infuriata nemmeno se fossi armato, quindi non arrabbiarti, vedrò di avere più criterio, ora se volete scusarmi, il Principe mi attende».

    Sthol s’irrigidì «Sergente Braha lei e suoi uomini di scorta al Generale».

    Braha e cinque dei suoi armati si mossero all’unisono andandosi a schierare alle spalle di Steffen.

    «Una scorta? Sul serio Luca una scorta per andare a Forte Schvarblut? Grazie, ma non sarà necessario».

    Sthol non disse nulla, gli uomini alle spalle di Steffen rimasero immobili in attesa di ordini.

    Steffen sorrise nuovamente.

    «Capitano Sthol, il giorno che mi servirà una scorta, per attraversare un ponte pesantemente presidiato dai miei stessi uomini, vorrà dire che sono troppo vecchio perché faccia il soldato, mandi i suoi uomini a riposare».

    «Generale» i soldati sugli attenti e una leggera genuflessione dei negromanti accompagnarono Steffen verso l’uscita delle celle.

    «Ah Luca, dimenticavo…».

    «Generale?»

    «Da oggi sei promosso maggiore, provvedi tu a eventuali passaggi di grado nella compagnia, a tua discrezione».

    «È un onore Generale» Sthol sorrise rigido sull’attenti, gli piaceva il Generale, era uno con gli attributi di ferro, erano anni che combattevano assieme e in battaglia il Generale Arandir era sempre nell’epicentro dello scontro, e di un fatto Sthol era sicuro; lui e i suoi uomini sarebbero sempre stati al suo fianco, ovunque fosse e qualsiasi ordine avesse impartito.

    Steffen uscì nel freddo della sera inoltrata, si strinse nel pesante pastrano, e s’incamminò pregustando la passeggiata che lo avrebbe portato fino a forte Schvarblut.

    Strappare la mandibola a quella cosa era stato stupido e avventato? Sicuramente, ma doveva dare un segnale ai suoi uomini io non ho paura di questa cosa putrida.

    Senza mandibola, poi, Domadach e suoi adepti non rischiavano di essere feriti, quindi nella sua spavalderia aveva forse compiuto una buona azione.

    Si avviò cercando di fare ordine nei suoi pensieri, di dare una cronologia agli avvenimenti di quel giorno, altro non fosse perché di lì a poco avrebbe dovuto riferirli al Principe.

    La giornata era cominciata come tutte le altre, tranne che per il tenente Scheving.

    3

    L’ingresso alla gola che conduceva a Valle Kanka era sempre presidiato a rotazione da una compagnia di fucilieri, quella mattina erano al comando del tenente Scheving, giovane ma abbastanza esperto e incattivito da poter gestire un presidio come quello.

    L’ingresso era stato fortificato mediante una barriera composta da due muri di legno che correvano paralleli a circa mezzo metro uno dall’altro, lo spazio fra i due muri era stato riempito di terra, sassi e materiali di scavo, sopra erano piazzati dei sacchi pieni di terra, che fungevano da appoggio per i fucili oltre che da protezione aggiuntiva.

    Una porta era stata ricavata nel mezzo del muro, grande a sufficienza per il passaggio dei carri delle salmerie e del convoglio imperiale.

    La strada che conduceva a questo ingresso, meno di un chilometro prima, curvava verso destra sparendo in un fitto bosco, ai soldati di guardia questo non piaceva, è vero che avrebbe ostacolato o quantomeno rallentato un’ipotetica carica di cavalleria, ma era altrettanto vero che limitava la visuale dei difensori, e per questo motivo gli ufficiali di guardia avevano preso l’abitudine di inviare una squadra di quattro uomini come vedette oltre la curva.

    Quella mattina gli uomini erano rientrati di gran carriera, riferendo che un folto gruppo di uomini armati si stava avvicinando, e che avevano qualcosa di strano, non si muovevano in formazione ma in modo disordinato, lanciavano versi animaleschi e nessuno indossava la benché minima protezione, niente elmi, scudi, né corazze, niente, brandivano solo lame e picche, e non issavano nessun vessillo.

    Scheving ipotizzò che si trattasse di una qualche tribù di barbari calati dalle regioni dell’Est, attratti dalla notizia della presenza del Principe a forte Schvarblut, che voleva significare oro e gioielli, ma presupponeva anche la scorta della Guardia Imperiale, e di altri diversi reggimenti dell’esercito, e nessuna tribù di predoni poteva concepire di assalire forte Rogow e sperare di sopravvivere, e poi i suoi uomini erano stranamente agitati per aver visto solo una tribù di predoni.

    Scheving ringhiò una serie di ordini, fece schierare gli uomini su due file, la prima spara, indietreggia e ricarica, mentre la seconda si sposta in avanti, spara e ripete l’operazione.

    Fece caricare a mitraglia le sue due colubrine poste ai lati della porta, leggermente angolate verso il centro della strada in modo che le traiettorie si sovrapponessero.

    Si assicurò che i suoi uomini fossero pronti, abbassò la visiera dell’elmo e attese.

    Qualche minuto dopo si udirono i versi descritti dalle vedette, e poi gli intrusi irruppero dalla curva, Scheving per un attimo si chiese se dovesse obbligarli di rendere conto della loro presenza in quel luogo, ma bastò un’occhiata per capire che, in effetti, quegli individui avevano qualcosa di sbagliato e il suo istinto gli disse che era meglio fare fuoco.

    «Colubrine fuoco!»

    Il rombo delle armi coprì per un istante le urla, i colpi arrivarono a bersaglio e Scheving rimase basito, i colpi a mitraglia, di solito devastanti, avevano avuto un impatto insufficiente sulle file degli attaccanti, e questo lo videro anche i suoi uomini. Un’onda d’inquietudine attraversò lo schieramento.

    «Caporale Nikolay!»

    Un piccoletto si materializzò al fianco di Scheving, «Comandi».

    «Prendi un cavallo e corri a forte Rogow, riferisci quello che sta succedendo e dai l’allarme».

    Nikolay sparì e un attimo dopo galoppava furiosamente verso forte Rogow neanche fosse inseguito da una torma di strozzini.

    Scheving a quel punto ordinò di aprire il fuoco.

    La macchina dei fucilieri si mise in moto, perfettamente sincronizzata, spara, indietreggia, ricarica, e così via, una coreografia esiziale, perfezionata in anni di guerre, ma quella mattina sembrava essere inefficace.

    «Cazzo, cazzo questi non muoiono…».

    «Sono demoni, sono immortali…».

    «Silenzio, ai ranghi, fuoco a volontà!» Scheving impose nuovamente l’ordine, ma qualcosa di vero in quello che i suoi uomini bofonchiavano c’era, il numero dei caduti era basso, ma ancora peggio, aveva visto lui stesso un assalitore colpito in pieno petto da una palla da 15, barcollare, e poi riprendere ad avanzare.

    «Tenente, questi non crepano, è solo uno spreco di munizioni», il sergente Marek era comparso al fianco di Scheving.

    Ormai quegli esseri erano vicini, e benché Scheving non avesse troppa paura di morire, aveva però la responsabilità dei suoi uomini.

    «Ripieghiamo verso forte Rogow, in formazione! Adesso!»

    Gli esseri erano ormai a poche decine di metri, tra poco avrebbero raggiunto la fortificazione.

    «Sergente Marek, piazza un barile di polvere e uno di olio per le torce a due metri dalla porta».

    Il Sergente non aveva bisogno di sentire altro, lo avrebbero fatto saltare con un colpo ben piazzato, se quei cosi non crepavano con una palla in petto che almeno bruciassero vivi.

    Gli uomini si diressero verso la gola, mantenendo una formazione compatta, quattro linee di tiro, stesso metodo spara e indietreggia.

    «Avanti passo di corsa, sergente Marek qui con me».

    Scheving e il sergente lasciarono passare gli uomini, il drappello si fermò a qualche decina di metri all’interno della gola, una linea in ginocchio, una seconda in piedi dietro e a qualche metro di distanza un altro gruppo nella medesima formazione.

    Gli esseri arrivarono a contatto con il muro ma contro ogni logica nessuno cercò di abbattere la porta, invece si accalcavano contro di essa e le mura, iniziarono ad arrampicarsi uno sull’altro fino ad arrivare a superarle, come maledetti scarafaggi sui muri di una latrina.

    «Tenente, ma che cazzo sono quei fottuti così?»

    «Ed io che cazzo ne so Marek!»

    Marek sogghignò, nonostante quello che stava accadendo, sentire il tenente usare una parolaccia lo divertì.

    Intanto gli esseri erano entrati nello spiazzo dietro le mura, cadevano e si rialzavano e si dirigevano verso Scheving e Marek.

    «Sergente quando ti fa comodo…» Scheving indicava il barilotto di polvere.

    Marek livellò la sua pistola a canne sovrapposte e sparò, il barilotto esplose e con lui l’olio, inondando di fuoco liquido tutti gli esseri in un raggio di qualche metro.

    I più vicini all’esplosione furono fatti a pezzi, altri caddero bruciando come carta secca e non si rialzarono, quelli più distanti, avvolti dalle fiamme, si rimisero in piedi e ripresero ad avanzare.

    Marek mollò una bestemmia che in un altro luogo e in un altro momento gli sarebbe valsa la tortura da parte del braccio secolare del Clero.

    «Via Marek! Via!» Scheving e Marek raggiunsero gli uomini a metà della gola.

    «Mirate alle gambe, azzoppateli, rallentiamoli!»

    E così fecero.

    A forte Rogow avevano distintamente sentito gli spari e l’esplosione, amplificati dalla particolare conformazione della gola, il caporale Nikolay era a rapporto dal Generale Arandir in persona, avrebbe preferito riferire a un qualsiasi ufficiale di picchetto, lasciandogli il compito di comunicare le brutte notizie.

    E invece non era neppure arrivato a forte Rogow che era iniziata la sparatoria, e il Generale era già in cortile a latrare ordini.

    Nikolay fece rapporto, cercando di essere il più chiaro possibile, Steffen ascoltava e non diceva niente, lo lasciò finire, gli diede una pacca su una spalla e lo congedò.

    Poi ricominciò a sgranare ordini, «Andiamo a prendere Scheving, Eilas fianco destro, Sthol fianco sinistro, io al centro».

    Nikolay rimaneva sempre affascinato dagli uomini del reggimento Honorem, cavalleria di sfondamento, guardia personale del Generale Arandir, il nome gli piaceva, «È latino Nikolay, una lingua antica, al Generale piace la storia» gli aveva detto un giorno Marcus, l'attendente del Generale, con l’aria strafottente di quello che sa delle cose che tu non sai «Honorem, vuole dire Onore».

    Il reggimento era pronto, il Generale si distingueva dai suoi uomini solo per la lunga cresta rossa che gli ornava l’elmo, in battaglia sarebbe stato visibile da ogni parte del campo, un segnale, un richiamo.

    «Eccoli, Generale, gli uomini di Scheving stanno arrivando, li vedo!» la vedetta dagli spalti si sgolava «Sparano senza sosta».

    «Potete sparare senza ammazzare nessuno degli uomini di Scheving?» chiese Steffen.

    «Sì Generale, ma solo con i falconetti».

    «Qualsiasi cosa esca da quella gola, che non siano uomini del tenente, fatela a pezzi» mentre diceva questo, Steffen saliva velocemente le scalinate per vedere di persona dall'alto delle mura cosa stesse accadendo.

    Raggiunse l’artigliere che fungeva da vedetta nel momento in cui Scheving e i suoi uomini erano arrivati in campo aperto, i fucilieri della compagnia continuavano a mantenere una formazione, si fermavano e sparavano, poi il tenente ordinò la ritirata.

    A quel punto Steffen li vide, eruppero dalla gola in modo disordinato, stranamente non correvano, ma avanzavano comunque velocemente, Steffen chiese il cannocchiale dell’artigliere, e quello che vide… beh non capiva nemmeno lui cosa stesse guardando,

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