Lo Specchio
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Anteprima del libro
Lo Specchio - Valentina Querini
Presentazione
È da anni che ormai viviamo così. Chiusi qua dentro, tra queste quattro spoglie mura. Un piccolo buco per finestra, piccola feritoia dalla quale lasciare entrare una fioca luce per rischiarare il buio d’intorno in cui siamo costretti a sopravvivere. Già, perché la nostra non è più vita: è mera esistenza. Non abbiamo più modo di uscire da questo sporco e lurido posto in cui siamo stati confinati. Non abbiamo più modo di esprimere noi stessi, le nostre idee, i nostri sogni, le nostre illusioni, convinzioni. No. Per noi non c è più spazio nel mondo di fuori e così ogni tanto alzandoci dal nostro cantuccio in cui siamo a forza spinti e rilegati, leviamo a turno la nostra flebile voce, intrecciando le nostre umili e miserabili esistenze e sperando di essere ascoltati ancora una volta.
Siamo in quattro qui: io, Giacomo, un tempo grande artista e poeta; poi c’è Lucrezia, donna ferma e determinata nelle sue convinzioni; Maria fragile creatura di Dio, sconvolta dalla malignità del mondo in cui si è trovata a vivere e per ultimo Eugenio, uomo pragmatico ed ambizioso legato alla mondanità ed alla materialità del mondo.
A dire il vero non so come ci siamo ritrovati qui, tutti insieme. Si, a volte ci siamo incontrati, abbiamo scambiato qualche parola o considerazione, ma come si fa con un conoscente, niente di più. Eppure ora ci troviamo qui a condividere questa lenta agonia in cui ci stiamo spegnendo a poco a poco, come si spegne la fiamma di un cerino in una stanza senza più ossigeno. Così diversi e così uguali nella nostra colpevolezza, condividiamo oggi, mesi, anni nella cupa lordura di questa camera, un vano stretto e lungo per l’esattezza, povero nello stile e nel mobilio: una scrivania sotto alla finestra, di rimpetto alla porta; un tavolo al centro della stanza. Sulle pareti laterali bianche e vuote – com’anche quelle altre due - appoggiati al muro dei letti. Una piccola porticina sulla destra che conduce al bagno. Sulla sinistra un armadio.
La miseria d’intorno è lo specchio delle nostre anime, costrette in una convivenza forzata. Le nostre vite, infatti, fino a qualche anno fa, erano esistenze parallele.
Io, scrivevo di teatro e poesia ed ero anche un’artista piuttosto famoso. Partito dal mio piccolo paesino di montagna che mi stava piuttosto stretto perché soffocava tra le sue chiacchiere arroganti e maligne quello che ero il mio spazio creativo, arrivai a Roma, grande città in cui per un attimo mi sentii smarrito.
Quanta gente! Quanta bellezza e ricchezza in quei vicoli nascosti dietro ai grandi capolavori del passato! Bastava girare dietro al maestoso Colosseo o dietro ai superbi Fori Imperiali che d’un tratto ti perdevi con gli occhi e sentivi un tonfo al cuore quando davanti a te viuzze e vicoli ti mostravano l’anima di questa eterna Città.
E così con taccuino e penna mi dirigevo verso il Vittoriano per poi salire al Campidoglio e perdermi nella zona vicina a Campo de’ fiori in cui ero affascinato ed ammaliato dal formicolio e dal brusio notturno in cui locandieri ed albergatori si abbandonavano tra schiamazzi e richiami per accaparrarsi i clienti.
Forse ne rimanevo estasiato, incantato perché in quel piccolo angolo di mondo mi sembrava di vedere il grande paradigma della vita: l’arrabbattarsi continuo degli uomini per conquistate la felicità, l’autonomia, la sicurezza per reggere alla pressione ed ai turbamenti cui ci sottopone la realtà. Come formiche, api operaie qui piccoli uomini si arrangiavano alla meglio per invogliare i passanti a fermarsi da loro, nella fragile luce della luna. Passavo le mie calde serate romane così, nella folla ma lontano da essa, con lo spirito di chi osserva ma non si cala nella confusione d’intorno. Osservavo l’andirivieni della gente; ascoltavo le voci mescolarsi nell’aria; assaporavo gli odori che salivano dalle taverne immaginando di gustare quelle prelibatezze che facevano rimanere di stucco gli assaggiatori. Toccavo con mano quella brulicante realtà e mi perdevo nelle descrizioni, nell’immaginazione più profonda raccontando le storie di chi mi passava davanti, incrociando la sua vita per un piccolo istante di una sera d’estate con la mia.
Quegli ignari passanti, venuti chissà da dove, diventavano per me spunto di riflessione, oggetti da studiare, storie da raccontare nelle cronache prolisse di un tempo. È come se le loro esistenze toccassero in punta di piedi le creste agitate del mio animo in fermento e gli dessero all’improvviso una scossa, una spinta per uscire fuori dal torpore ed iniziare a guardare il mondo con occhi nuovi, scrivendo senza riserva alcuna delle emozioni, dei sentimenti, delle cose viste e provate, in una catartica elaborazione di frammenti di vita altrui.
La pagina bianca a quel tempo era la mia miglior confidente ed amica. Scrivevo tutto quello che mi accadeva, turbava, sollevava; scrivevo di me, delle mie convinzioni, delle mie emozioni, fissazioni, manie. Ma questo accadeva un tempo…poi...
Poi, d’un tratto, tutta la mia creatività, tutta la mia emotività, si è spenta come una candela accesa quando soffia il vento.
Si è spenta, annullata, azzerata come se non fossi davvero più capace di emozionarmi. E forse in effetti per un po’ di tempo è stato così. È come se la mia mente nel suo cinismo e nella sua fredda razionalità avesse spento il mio caldo cuore. È come se le parole, i discorsi, entrassero nella mia testa, si imprimessero nel mio cervello senza generare turbamento o emozione alcuna. Per un periodo ho vissuto in sospeso, in bilico tra il vivere e l’esistere, in piedi per forza, sostenuto forse dai soli fili invisibili del Fato. Il problema di questa condizione è stato che sebbene protetto da ogni possibile afflizione o dolore dell’animo, non ero più capace di essere me stesso e paradossalmente pur desiderando di essere diverso da me, vivendo questa forma di alienazione ho capito quanto grave sia la condizione di essere in sé ma di vedersi esistere; intendo dire che sapere di esserci ma non con il cuore è una sensazione piuttosto sgradevole.
Ovvio che dopo la sofferenza, dopo il dolore, questo stato di fatto sembra il migliore se non perché appunto ti dispone al non-ascolto, al non-sentimento. Ma quando ti riprendi da questo torpore è come se cercassi la forza di riprendere le briglia di un cavallo imbizzarrito che corre verso l’infinito galoppando nell’immensa prateria. È una mossa azzardata. Va ponderata bene. Non si può rischiare di cadere da un cavallo in corsa. Poi, d’un tratto fai un balzo; un rapido salto e sei in groppa. Ora puoi cavalcarlo ma non hai ancora il pieno controllo del tutto. Afferri le briglia per non cadere, le impugni, le tieni strette, le tiri per fermare quella folle corsa senza mèta. Il cavallo rallenta. Ti senti già al sicuro; ciò nonostante non molli la presa. Ti tieni saldo al suo corpo. Non allenti la stretta sicura. Tiri ancora le briglia cercando di ristabilire una situazione in cui l’animale, con i muscoli tesi dalla pazza cavalcata, si plachi e tu riesca a rimanere in sella senza essere disarcionato ancora e senza rischiare una rovinosa caduta. Una volta ripreso il controllo la tensione cala e tu puoi tornare a respirare ed a sentire senza paura alcuna il tuo cuore battere.
È la vita che torna a fluire, a camminare dritta sul suo binario, senza uscire dal suo scorrere, senza sbalzi improvvisi, immutabile nel suo muto procedere designato dall’invisibile Destino.
E così ho ripreso pian piano confidenza con me stesso, con la vita, con quel foglio bianco in cui catarticamente riuscivo a fissare gli stati d’animo più profondi, le emozioni più intense che provavo. E come si ha un po’ d’imbarazzo nel rivedere un amico caro dopo molto tempo, così è stato per me ritrovarmi di nuovo a scrivere della mia anima. E dopo l’impatto impacciato dell’inizio si prova gioia, quasi un sollievo nell’iniziare una conversazione con quello che seppur lontano non puoi definire un estraneo, così davanti al fluido andamento della penna sul foglio ho provato un misto tra liberazione e contentezza perché mano a mano che le parole procedono, i pensieri fluiscono ed il cuore rinasce nella sua espressione più profonda, in un’esplosione di emozioni per troppo tempo rimaste prigioniere.
Come un carcerato che evade dopo essere stato rinchiuso per un lungo periodo così le mie ansie, paure, gioie, sono uscite d’impeto mettendomi nella necessaria condizione di guardare ancora in me stesso e di gettare fuori la parte più profonda del mio io.
Ed allora eccomi, pronto a raccontarmi ancora, pronto se pur solo con la forza del pensiero a fuggire da questa angusta stanza levandomi al di là di quella stretta feritoia per guardare ancora il cielo e il mare al di fuori di questo posto limitato, pronto ancora una volta a guardare in viso la realtà, a scrutare nella mia anima, a rovistare tra le cianfrusaglie del mio cuore per vedere se, tra tutto quell’accumulo di cose ce ne siano ancora di utilizzabili.
È come voler fare un esplorazione nello spazio: sai quello che troverai oltre l’atmosfera ma non sai cosa può accadere una volta che ti ci trovi. Sali verso il cielo, oltre le nuvole, oltre la gravità; guardi al Terra, tua madre e tuo porto sicuro, e la vedi come piccolo fragile puntino immerso nel blu profondo d’intorno. Fluttui: la gravità non ti tiene più saldamente incollato. Ti muovi a saltelli, a scatti, in una specie di danza improvvisata che non terminerà fino a quando non tornerai a terra. E anche il viaggio di ritorno non sarà facile: sai dove devi arrivare per essere salvo ma non sai come sarà la discesa. E quando il portellone si apre e tutti ti portano in trionfo per la buona riuscita della missione, in cuor tuo avrai mille emozioni, un’esplosione improvvisa di stati d’animo che quasi perderai di nuovo il controllo come quando fluttuavi nello spazio siderale.
Questo è riprendersi sé stessi, questo è saper viaggiare nell’anima con lo scopo di esplorare le profondità dell’inconscio dando sfogo alle pulsioni e passioni che vivi.
È questo quello che intendo tornare a fare, pur se rilegato lontano, pur se perso in questo oblio e remoto angolo di mondo in cui ora mi trovo; anche se non sarà facile, anche se metterò ancora a nudo il mio cuore nella sua complessa fragilità, questo è quello che farò: non posso fare altrimenti. La vita mi chiama a vivere.
Eugenio
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E cosa vuol dire indossare una maschera?
ti starai chiedendo ora nella tua mente curiosa e come si sceglie la maschera da indossare? Quella allegra, quella triste, perplessa, arrabbiata…con quale criterio si deve scegliere di fingere? Quale abilità serve per nascondersi agli altri?
. Sicuramente la tua mente avara poeta si starà ponendo questi quesiti. Risponderò io a tutti, ascoltami attentamente e capirai allora senza giudicare perché io sono un uomo che vive come vive e pensa come pensa e parla come parla e