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Socc’mel… che viaggio!
Socc’mel… che viaggio!
Socc’mel… che viaggio!
Ebook364 pages5 hours

Socc’mel… che viaggio!

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About this ebook

Tutti noi abbiamo viaggiato, o sognato di farlo. Il viaggio altro non è che qualcosa da ricordare per sempre. Il viaggio è movimento, è un insieme di immagini, profumi, sensazioni ispirate da un luogo diverso da quello a cui siamo abituati. Un bolognese, viaggiando, è felice se ovunque arriva trova un po’ di casa. Difficilmente sarà accontentato se dovesse sperare di mangiare tortellini o altre specialità, ma non si sa mai: potrebbe incappare in scorci che gli ricordano Bologna. Una città con le strade disposte a raggiera, o una casa con i mattoni rossi, per esempio. E se mai vedesse un po’ di antiche torri, o un portico? Il viaggio ideale sta nel giusto mix tra il conforto dell’idea di casa, per cacciare la nostalgia, e la scoperta di cose nuove, per soddisfare il bisogno di scoprire, di vedere. I racconti di questa antologia parlano di viaggi, ma non viaggi qualsiasi: sono percorsi di bolognesi verso il resto del mondo, o esperienze di persone che dal resto del mondo approdano a Bologna, e di Bologna non si scorderanno più. Partendo da Bologna, o arrivando a Bologna, qual è la cosa che tutti noi esclamiamo, parlando di un viaggio che non dimenticheremo più? “Socc’mel… che viaggio!”
LanguageItaliano
Release dateFeb 10, 2020
ISBN9788893471183
Socc’mel… che viaggio!

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    Socc’mel… che viaggio! - a cura di Cristina Orlandi

    Socc’mel… che viaggio!

    A cura di Cristina Orlandi

    Prima Edizione Ebook 2020 © Edizioni del Loggione, Modena-Bologna

    ISBN: 978-88-9347-118-3

    Foto copertina:  Claudio Tosi

    Edizioni del Loggione

    Via Piave,60  - 41121 Modena

    http://www.loggione.it  e-mail: loggione@loggione.it

    SÓCC’MEL…

    CHE VIAGGIO!

    Racconti

    Indice

    BOLOGNA PER ME

    UNA SACHER RIPIENA DI TORTELLINI

    CAUSALE

    SOGNO DI UNA TAGLIATELLA DI MEZZA ESTATE

    L’ULTIMO GIORNO D’INVERNO

    LA CAUSALE

    BOLOGNA-VENEZIA ANDATA E RITORNO

    PERCHÉ GLI SCARAFAGGI NON HANNO LE ALI? OVVERO SI PUÒ SPENDERE IL PROPRIO TEMPO SENZA AVERE UN CONTO CORRENTE

    FORMIDABILE QUEL VIAGGIO

    MARZO

    A MODO MIO

    SOCC’MEL CHE VIAGGIO

    OLTRE

    BOLOGNA TRA LE NUVOLE

    LA MICHELONA A BOLOGNA

    BOH-LOGNA

    ALLA RICERCA DI UN FANTASMA

    L’IMMAGINARIO CORRE DAPPERTUTTO

    SOCC’MEL CHE VIAZ MUSIZESTA

    LA BOLOGNESITÀ

    ESPERAR

    SOCC’MEL CHE VIAGGIO

    ANCHE PIÙ IN LÀ

    GOCCE DI PIOGGIA

    IL GIRO DEL MONDO IN SEI PIANI

    METTI UN GIORNO DI PRIMAVERA A BOLOGNA

    IL CIELO È SEMPRE PIÙ BLU

    QUATTROCCHI PER COLPA SUA

    L’ESTATE CHE NON FU

    STER STREK

    ASCENSIONI

    LA RIMPATRIATA

    LA SALITA A SAN LUCA

    IL COINQUILINO DI LUCA

    UN TORTELLINO NEL DESERTO DEL NEVADA

    FRAGILE È LA NOTTE

    BOOMERANG NEL DESERTO

    NESSUNO

    ESPLORATRICE DELLA MIA CITTÀ

    ALMENO FOSSE STATO VERDE SPERANZA

    LA RESA

    DAL BORGO AGLI STATES

    IL POTERE DEGLI ANGELI

    IL SECONDO INCONTRO DELLE RETTE PARALLELE

    ASINI E ASINELLI

    VIA PAOLO FABBRI 43

    UN FELSINEO IN VIAGGIO

    IL VIAGGIO PIÙ LUNGO

    SENZA META

    BOLOGNA IN METÀ VISO

    VIAGGIO DI NOZZE

    BOLOGNA È BOLOGNA

    BOLOGNA NEL CUORE

    BOLOGNA PER SEMPRE

    GLI AUTORI

    Catalogo

    BOLOGNA PER ME

    Andrea Albertazzi

    Non potrò mai dimenticare la Bologna della mia gioventù. Non tanto e non solo per i ricordi in sé, ma anche e soprattutto perché era qualcosa di molto diverso dalla Bologna di oggi. Io appartengo a una di quelle generazioni che ha conosciuto gli ultimi personaggi della città, quelli veri, spesso strampalati, come si dice da noi. Oggi non ce ne sono più, per me, e se ci sono, hanno solo pallide somiglianze con quell’innumerevole raccolta di cartole che popolava Bologna. Certo le icone, nate o vissute qui, e oggi in buona parte scomparse, sono: Lucio Dalla, Hengel Gualdi, Gianni Morandi, Francesco Guccini, Dino Sarti, Freak Antoni, Andrea Pazienza, Jimmy Villotti, veri monumenti nazionali.

    In giro, ed esattamente tutte le domeniche pomeriggio, in Piazza Maggiore, ha resistito per anni, fino a poco tempo fa, Beppe Maniglia, che credo abbia suonato, in gioventù, con i mitici Judas, negli anni Sessanta; con i suoi amplificatori, la chitarra graffiante, le borse dell’acqua calda, fatte esplodere con la forza dell’aria, che usciva dai suoi pettorali. Le regole del buon vivere che in questi anni hanno soffocato la città e soprattutto montagne di multe esorbitanti, per disturbo della quiete pubblica, hanno piegato anche lui. Saluti Beppe!

    A proposito di Jimmy Vilotti, ricordato prima, mi sovviene un episodio, non proprio fra i più memorabili della sua vita, quasi leggendaria. Era la fine degli anni Settanta, il grande Jimmy Vilotti era, forse, in un momento no e lo trovai casualmente in una discoteca sulla strada per Medicina, di cui non ricordo il nome. All’epoca nascevano come funghi questi locali fuori Bologna, dove si andava a intortare perché c’erano le campagnole più facili da conquistare.

    Jimmy, che stava a quel locale come un esquimese sta al deserto del Sahara, salì sul palco cominciando con alcuni suoi raffinati pezzi alla chitarra, che gli ottusi frequentatori del locale fischiarono sonoramente. Villotti, allora, ebbe una reazione:

    «Volete qualcosa di diverso? Volete ballare?» esclamò. «Bene, vi do quello che volete!» e avvinghiato alle corde del suo strumento eseguì alcuni pezzi rock, che andavano per la maggiore. I fischi, almeno quelli, scemarono. Grande Jimmy!

    Però io vorrei ricordare alcuni personaggi, celebri solo a Bologna, ma che tutti conoscevano e di cui si parlava come fossero degli amici o dei parenti, anche se spesso non si era mai scambiata una parola con loro, e a questo proposito mi viene in mente Profilo. Sì, lo chiamavamo così, il re dei fighetti, che frequentava il Club 37 e poi la Capannina e lo ricordo, spesso, al Lord Bar in fondo a via Indipendenza. Sempre di profilo, non ti guardava mai, elegantissimo, serio, silenzioso, con in mano un whisky.

    Di lui, noi comuni mortali, non sapevamo quasi nulla. Era un gran donnaiolo? Un uomo molto ricco? Mah? Così si mormorava. Era Profilo, e lo si doveva osservare con rispetto e ammirazione.

    Un altro celebre playboy fu Raul Casali, bellissimo, con gli occhi azzurri. Abitava in centro e forse era ricco, ma girava sempre con la stessa giacca di pelle scura, sempre quella. Era la sua divisa. Pieno di fidanzate, perché lui le donne le amava tutte, ed erano tutte fidanzate, anche contemporaneamente.

    Raul era un nostalgico del fascismo. Se capitavi a casa sua, ti sorbivi i discorsi del Duce, che lui amava ascoltare in religioso silenzio, con i dischi della Decca messi sul giradischi. "Italiani, uomini e donne d’Italia, dell’impero d’Africa e del Regno d’Albania…" Tutti ad ascoltare e ad applaudire, tanto per non scontentarlo.

    Quando s’ammalava, più di una di queste lo accudivano al capezzale! Si vociferava, e la voce, sicuramente, era stata messa in giro da lui, che fosse stato, nientemeno che con Brigitte Bardot, ma questo era tutto da dimostrare!!!

    Un’altra cartola era Mandrillo, che credo sia ancora vivo, diminutivo del suo cognome, Mandrioli, ma il nome era associato anche alla sua natura di sciupafemmine.

    A questo punto, devo fare una digressione. A Bologna, è passato il ’68, come altrove. Si faceva politica; si era impegnati nelle lotte civili e sociali e lo si sa bene, ma, al di là di ciò, restava un must, come si dice oggi, che i bravi maschietti avevano sempre nelle loro teste, quando camminavano per il centro, quando erano a chiacchierare nei bar, al cinema e un po’ ovunque: la donna.

    Bene, Mandrillo era nella musica, suonava la chitarra e per un periodo fu il dj del Ciak, alla Barca. Cavolo! Che tempi quelli del Ciak! Ci andavano le meglio ragazze di Bologna e Mandrillo, faccia da mascalzone, con un’aria sorniona e quasi blasé, fra una canzone e l’altra sparava le sue cazzate che facevano divertire le donne, e poi… ci pensava lui, dopo, Mandrillo!

    Wilson! Mi è tornato in mente anche lui. Tarchiato, muscoloso, taurino, col petto villoso, giacca di pelle, e con un po’ di balbuzie. Il suo nome circolò per un po’ di anni. Poi non ho più saputo nulla di lui. Udite, udite! Wilson era gay, ma non un gay effemminato. Si comportava come un macho. Caricava le sue vittime sulla sua grossa moto e via! Gli piaceva avvicinare i ragazzini, mostrando la sua fisicità. Era generoso, offriva sigarette e bevute, ma dopo non si scherzava con Wilson!

    Per un breve periodo, in estate frequentò il bar in Via Romagnoli, dove andavano tanti ragazzi e anch’io. Una sera, in vena di confidenze, raccontò balbettando:

    «Qua… ndo pa… sso da Za… Zanarini, fanno fi… nta di non co… conoscermi, ma me... me ne so… no fatti più di u… uno di quegli stron... stronzetti!»

    Passiamo ai matti: Tamarindo. Tamaro confidenzialmente, non so se fosse proprio matto, certo, non aveva l’aria di un sobrio professionista. Giallognolo, sui 40/50, un po’ ingobbito, sigaretta, spesso, in bocca, una brutta pelle e gli occhi quasi febbricitanti.

    Si spostava da una zona all’altra della città con la sua fidanzata, di cui non ricordo il nome, piccola e con i capelli neri alla maschietta, come si diceva allora.

    Il suo momento d’oro avvenne quando fu ospitato al Costanzo Show. Da lì partì il momento di massima fama che durò un po’ e poi finì. Spesso citava Costanzo, definendolo quasi il padrone del mondo. Tamaro, un mito tutto bolognese!

    Mentre sono qui disteso a meditare, mi sovvengono le immagini dei tempi trascorsi inutilmente e pigramente al Bar, in quegli anni giovanili.

    C’è stato un io che stava chiuso fra sé e sé. Un io che leggeva e studiava o andava a teatro. Un io che, svogliatamente, lavorava. Un io che, quando poteva, viaggiava. C’è stato anche un io che stava al bar, come al solito un pò in disparte a osservare l’arrogante, il nullafacente, il fighetto, il giocatore incallito, l’ubriacone e il senza-famiglia. Tutte figure poco edificanti.

    Senz’altro quel tempo non è stato il migliore, ma comunque un frammento di vita pieno di altre figurine anche simpatiche e didattiche. Altri personaggi minori, ma altrettanto curiosi.

    Il signor Rocchi, ad esempio. Aveva poco più di sessant’anni ma era quasi cieco e acciaccato. Per anni aveva venduto abbigliamento in Piazzola, in quel mercato di Bologna dove all’epoca si sentiva ancora parlare il dialetto bolognese e dove, adesso, fai fatica a sentire l’italiano!

    Apparteneva a una famiglia di gatti rossi, come si dice. Anche il figlio, che ho conosciuto, e il nipote, tutti matti per le donne!

    La moglie lo accompagnava al bar e lo aiutava a sedersi davanti a un grappino. Era triste, illanguidito e aspettava la fine prematura. Rimaneva seduto come assorto, ma appena si parlava di femmine pareva risvegliarsi dal torpore. Si guardava intorno e allungava l’orecchio, tanto amava ancora l’argomento. Come dice Peter Sellers: la speranza non muore mai nella mente di un autentico sporcaccione.

    Noi ragazzi ce ne eravamo accorti e ci divertivamo a raccontare, a voce alta, mirabolanti balle sulle donne, per vederlo estasiare. Un giorno ci confidò con rassegnata malinconia che la cosa che più lo rattristava era l’impossibilità ormai di farsi una bella scorpacciata di sesso. «Ah - esclamava in puro bolognese. - S’ai avess ‘na figheina fràsca d’alchèr, a mourirev piò countàint! (se avessi una fighina fresca da leccare, morirei più contento!). Povero signor Rocchi... le uniche cose che poteva fare, ormai, erano: leccare gelati e morire scontento. Amen.

    Poi, lo Zio, come dimenticare, lo Zio! Non so il suo nome. Era stato ricco. Si era mangiato milioni, dell’epoca, ai cavalli; scommesse e cose così. La moglie gli aveva fatto bloccare il conto corrente per evitare la rovina totale. Aveva inventato un linguaggio per prendere in giro, bonariamente, le persone. Un linguaggio che anticipava la mitica supercazzola di Amici Miei!!

    Si trattava del Piritolato, o qualcosa del genere. Un linguaggio col quale, alla fine di frasi normali, ci si infilava una parola inventata, o fuori luogo.

    Passava qualcuno fuori dal bar e lo Zio gli rivolgeva una domanda: «Scusi lei per caso dintilato?» Quello non capiva. Tirava dritto. Se rispondeva: «Scusi, non ho capito. Cos’ha detto?» Lo Zio, accennava un gesto, come dire Niente, niente.

    Tutti poi ridevano come matti e imitavano il linguaggio dello Zio!

    Una volta lo Zio beccò male, come si dice, e ci restò di m… Un signore passò con un cane e lui lo apostrofò: «Scusi signore quel cane è scappellato?»

    «Sì, nella punta!» rispose impettito il signore, e tirò dritto.

    Che città che era Bologna. Piena di fermenti culturali e civili, ma anche con questa ricchezza di umanità, che sapeva sorridere per piccole cose, scherzi banali e gogliarderie!

    Sembra niente, ma guardando l’oggi, i suoi incubi, le sue schizofrenie, la sua bieca follia, che bello sarebbe tornare indietro!

    UNA SACHER RIPIENA DI TORTELLINI

    Alberto Andreoli Barbi

    Il 4 novembre 1918 aprii, come ogni mattina, la finestra del corridoio dell’appartamento dove abitavamo in via Marsala, che si affacciava su uno stretto pozzo luce. Si sentivano le campane della Chiesa di San Martino, dove mi sarei sposata qualche anno più tardi, e l’aria fresca di un autunno già inoltrato. La dirimpettaia, la signora Maini, mi accolse con un sorriso: «Signorina Ada, oggi dovete gioire: la guerra è finita. Voi che orgogliosamente avete donato un fratello alla Patria, dovete essere la prima a festeggiare.»

    «Ma vada a farsi friggere lei e la patria.»

    Vi assicuro che quella finestra non venne mai più riaperta da quel giorno, finché non fu venduta la casa dei miei genitori. L’aria viziata faceva meno male del contatto con chi non poteva comprendere il nostro dolore. Renato era il primogenito, quello che doveva portare avanti la sartoria di famiglia. Toccava a mio figlio, a distanza di tanti anni, forzare quella finestra.

    «Mamma, nei prossimi giorni dovrò andare a Vienna per lavoro.»

    Non ero più la ragazza spavalda che difendeva i propri sentimenti. Ormai ottantenne, solo stando sotto la luce della cucina riuscivo a leggere Il Resto del Carlino che compravo per i vivi e i morti. Come in una strana conta, a cercare chi se ne sarebbe andato della città che conoscevo. Avevo ascoltato, senza proferire verbo, quasi alzando il giornale come se una barriera di carta potesse impedire alle sue parole di raggiungermi.

    «Si tratta di uno di quegli articoli redazionali dove scrivi di un’attività commerciale o di un prodotto. In questo caso vogliono lanciare l’immagine di un hotel di lusso di Vienna.»

    «Adesso ti mandano a fare le marchette a casa di Checco Beppe. Bel lavoro che ti sei trovato!»

    «Mamma è passato così tanto tempo che forse anche tu dovresti…»

    «Dimenticare che tuo zio è stato ucciso dagli austriaci che non aveva nemmeno vent’anni? Dimenticare che tua nonna per il dolore si è ammalata ed è morta? Dimenticare che tuo nonno non si è mai dato pace?»

    «L’Austria non è più un impero, c’è stata un’altra guerra mondiale e oggi, negli anni Ottanta, Vienna è l’ultimo avamposto dell’Occidente…»

    «Gli Austriaci per me restano dei nemici. Su questo non si discute.»

    Ogni nuovo anno lo cominciavo con una serie di ingiurie contro la Rai, colpevole di mandare in onda il concerto di capodanno da Vienna: un affronto a noi parenti dei caduti in guerra dover battere le mani al tempo della Marcia di Radetzky. Tanto che, come tradizione con i suoi predecessori, l’anno scorso infilati gli occhiali, sotto la luce del lampadario della cucina, avevo inviato gli auguri al neo direttore Willy De Luca, intimandogli di fermare questo torto storico.

    «Guarda che a Vienna non vado per divertirmi», mentiva sapendo che sarebbe stato un viaggio di lavoro nel lusso. Ero contento che potesse conoscere il mondo come suo padre, che era mancato da tanti anni ma sarebbe stato contento che il suo ragazzo si fosse fatto strada senza raccomandazioni.

    «Sei un mascalzone che non vale un fico secco!»

    «Ma mamma, dimmi cosa c’è di così sbagliato ad andare a Vienna.»

    «Hai mai visto una Sacher ripiena di tortellini?»

    «Cosa dici?»

    Nemmeno io sapevo cosa stessi dicendo. È che alla mia età tutti pensano che si diventi saggi, mentre io credo che semplicemente si possa finalmente essere liberi di esprimersi: «Dico che ci sono situazioni difficilmente conciliabili. Non pretendo che tu sappia cosa sia la guerra: eri troppo piccolo per ricordare. Dico solo che se ho questa avversione per l’Austria-Ungheria è per la tribolazione cui hanno sempre sottoposto noi italiani.»

    «Adesso ci sono i russi che se vogliono…»

    «Oh senti cinno, prima erano gli austriaci, poi gli inglesi, quindi i tedeschi e ora i russi. Da che ho memoria abbiamo sempre dovuto aver qualcuno da odiare di diverso. Io mi sono fermata ai primi. Ti va bene?»

    Mi dispiaceva litigare con Franco per questo motivo, ma presi la decisione di non parlargli più. Giusto per risparmiare un po’ di energie per il tanto desiderato nipote che sarebbe nato a breve.

    Wien lebt, Vienna vive. Il manifesto riempie i sotterranei della metropolitana, avvolge i grossi pali della luce nelle strade del centro. Sembra strano che una città, anzi una capitale, avverta il turista di essere viva. Ma credo di capire. Per molti, non solo per mia madre, Vienna si è fermata nel tempo, è la capitale del grande Impero Asburgico che non è più. Prigioniera del passato, Vienna torna a vivere con prepotenza.

    Di fronte allo Stadtpark, al parco cittadino, si affaccia la finestra della mia camera all’Hotel Inter-Continental. Una camera confortevole, silenziosa, con aria condizionata. I mobili sono sobri e caldi. Basta aprire le ante del trumeau per trovare un televisore a colori. E per sognare: cinque canali di musica filodiffusa. II cuore di Vienna è a due passi. Dalla finestra si vede la guglia del Duomo. Rinvigorito da un gagliardo vento di tramontana, in dieci minuti arrivo nella Kärtnerstrasse che vuol dire Opera, Sacher (ovviamente senza tortellini), Santo Stefano, Graben. Basta salire su una carrozza per godere della visione del Palazzo Imperiale e dei suoi giardini, delle chiese antiche, dei trionfi del barocco, delle vie piene di boutiques e pasticcerie. Rientrato all’hotel tento di chiamare mia madre, ma la ragazza della reception mi riferisce, non senza imbarazzo, che ogni volta che le rispondono dall’Italia cade la comunicazione.

    All’Inter-Continental devo intervistare il Direttore. II Signor John Edmaier mi riceve con estrema cortesia: un tipo di mezza età, solido, con una garbata vena di umorismo.

    Lo provoco: «Lei ha un cognome austriaco e un nome inglese. Si dovrebbe chiamare Johann.» Mi conferma di essere austriaco, ma è vissuto in Canada, a Nassau (Bahamas) e nelle Bermude. Così Johann è diventato John. Mi piace immaginare che un uomo moderno, che dedica la sua vita a una multinazionale alberghiera, possa aver cambiato nome, come faceva chi passava dalla vita mondana a quella monastica.

    Dalle Bahamas torna a Vienna nel 1964, chiamato come assistente per il General Manager per il neonato Inter-Continental Wien. È il numero tre, ma nel giro di pochi mesi diventa il numero due. La società lo chiama nel 1971 a Düsseldorf, responsabile di tutti gli alberghi della compagnia in Germania (Francoforte, Düsseldorf, Hannover, Amburgo, Colonia, Monaco e Wiesbaden).

    Nel 1976 è di nuovo a Vienna, questa volta numero uno, responsabile degli Inter-Continental dell’Est: Budapest, Praga, Bratislava, Helsinki, Varsavia.

    Inizia a snocciolarmi tutti i dati utili per il mio articolo. Mi riferisce che i clienti dell‘Inter-Continental Wien si distribuiscono tra tedeschi, al primo posto, seguiti al secondo dagli americani, al terzo dai giapponesi mentre al quarto noi italiani. Il 60% è costituito da uomini d’affari; il 12% da turisti, il 10% da conferences di compagnie, l’8% da congressisti e il 10% da incentives.

    Ecco, alla nostra testata interessano gli incentives. «Anche a me interessano» risponde con un largo sorriso il Signor Edmaier, e mi spiega: molte persone vorrebbero fare un turismo di alto livello, ma i loro redditi non glielo permettono. Le compagnie offrono ai dipendenti, sotto forma di fringe benefits, il piacere di un viaggio che essi non potrebbero fare da soli. «Noi crediamo», dice Herr Edmaier, «che gli incentives debbano aumentare. Questo è il motivo della mia presenza nel suo albergo.» Aggiunge che a suo avviso nel Nord Italia c’è una vasta regione che va da Milano a Trieste, dove Vienna rappresenta quello che per gli austriaci richiama Venezia.

    Sì, lo riconosco: è Il complesso dell’imperatore per citare il libro famoso di Carolus L. Cergoly, che nel 1979 aveva rilanciato con incredibile successo il mito dell’Austria Felix.

    «Vi aiutiamo a sognare» dice Herr Edmaier e mi racconta di queste feste favolose all’Inter-Continental, dove si possono incontrare ussari dragoni di Francesco Giuseppe. L’albergo può accogliere tremila persone e tutto il pacchetto è fornito dallo stesso hotel. Apre un cassetto e mi mostra le tentazioni dell’incentivo. In corsivo d’oro su carta verde antico leggo: "Diner Gastronomique der Confrérie de la Chaîne des Rotisseurs der Österreichischen Weinbruderschaft und des Hotel Inter-Continental Wien. Anche io comincio a sognare quel fantastico menù, dalla terrina di selvaggina alle variazioni di mousse au chocolat": socc’mel che spettacolo!

    Ecco un pacchetto incentivo dal titolo chiaro: "Il fascino di Vienna. Giro della città, i boschi viennesi del Nord, il Festival del vino al Klosterneuburg e la festa da ballo in stile Johann Strauss".

    «La festa da ballo Johann Strauss si svolge in un ambiente molto elegante e viene organizzata secondo il modello delle feste da ballo alla corte degli Asburgo. Ai piedi della scalinata gli ospiti vengono ricevuti dal maestro delle cerimonie, ragazze in costumi Biedermeier distribuiscono fiori e un quartetto d’archi porge un benvenuto musicale. Servitori in livrea accompagnano gli ospiti in sala e la serata incomincia con un cocktail al suono di musica viennese. La cena viene servita da camerieri in uniformi storiche. Il menù prevede specialità culinarie della nostra casa e ogni portata viene solennemente annunciata e spiegata dal maestro delle cerimonie. Il sottofondo musicale durante la cena predilige musiche di Bach, Haydn, Mozart e Strauss. Dopo la cena, come avrà occasione di vedere stasera, la nostra orchestra suonerà valzer viennesi.»

    Non posso trattenere un oh di meraviglia. Il Signor Edmaier enuncia la sua ‘filosofia dell’ospitalità: «C’è gente che vuole conoscere il Tibet, l’Africa, l’India, la Cina. Ma l’esperienza più desiderabile è quella che sa conciliare una buona cucina con un’atmosfera accogliente, in un contesto politico che non sia totalmente estraneo. Vuol dire sentirsi a proprio agio. È più facile che un incentive dia buoni risultati, quando il viaggio si svolge in paesi vicini, di comune civiltà. È il caso dell’Italia e dell’Austria. Vienna ha le fortificazioni di Roma al tempo dell’impero. II primo acquedotto dell’antica Vindobona fu costruito dai Romani i quali, fortunatamente, non dimenticarono di portare sulle colline viennesi anche i loro vitigni.»

    Dopo il colloquio, pranzo con lui in uno dei quattro ristoranti presenti nella struttura dell’Inter-Continental. Gli altri tre li avrei provati nei giorni seguenti. Ma di quel pranzo ricorderò sempre le lasagne: così buone non le avevo mai mangiate. Il Signor Edmaier era riuscito a farmi sognare.

    Pare che al rientro di papà a Bologna, mia nonna abbia continuato a non parlargli. Anche perché aveva scritto di quelle lasagne così buone. La polemica dalla padella della prima guerra mondiale era scivolata nella teglia del primo locale. Si sfogava con mia zia: «Mi ha fatto fare davanti a tutti la figura di quella che non le sa cucinare.»

    «Con mia nuora che è della bassa Italia, Franco oramai pensa che nelle lasagne ci vadano le melanzane. E senza nemmeno il ragù, giusto il pomodoro!» si giustificava con le amiche al telefono.

    Finché, come casuale riconciliazione, non arrivai io, nato la mattina di un 4 novembre a regalare a mia nonna un motivo per gioire in quella data funesta e per dimenticarsi degli austriaci, con le loro baionette e i loro manicaretti. Sempre temibili.

    CAUSALE

    Antonio Antonelli

    Le lettere importanti erano dirette a Milano, lì c’era il nerbo, lo zoccolo duro dell’economia nazionale, per dirla col giornale degli industriali: banche, imprese, studi professionali di prestigio.

    Perciò, l’agognata sistemazione – ricorrente fonte di battibecchi in famiglia – faceva obbligatoriamente riferimento a Milano, e le domande d’impiego, corredate di curriculum, più o meno imbellettato, recavano sempre il CAP 20100, declinato in tutte le varianti stradali.

    In media, occorreva una mesata per una risposta: si lacerava con trepidazione la busta, sperando ardentemente che contenesse l’invito al colloquio (preliminare all’assunzione) con un nostro incaricato, il giorno… ore… presso la sede sociale.

    Questo, per uno sbocco professionale di sostanza.

    Altrimenti, bisognava accontentarsi di Roma, città di negozietti e dittarelle, dove la massima aspirazione è mettere incinta la figlia del proprietario ed entrare in società con lui, come paventava (o forse sperava) il mio amico Giannotti.

    A Milano finii anch’io, per il fatidico colloquio, ma senza spedire lettere.

    A procurarmi un abboccamento col prof. P., titolare di un quotatissimo studio commercialista in via della Spiga, zona Monte Napoleone, aveva provveduto mio padre, armeggiando, come meglio non avrebbe potuto, dalla sua postazione previlegiata di usciere al gabinetto del ministro. Si trattava del mio bene, del quale da tempo immemorabile si era autonominato amministratore unico.

    L’inclinazione di mio padre a intrufolarsi nelle faccende più disparate mi era nota, ma l’avevo sempre ritenuta circoscritta a Roma. Ora, ne scoprivo una sorprendente versione export, che la veicolava sino a Milano.

    Avevo 20 anni o giù di lì, e in testa poche idee, e confuse. Andavo maluccio a economia e commercio – avevo già accumulato un considerevole ritardo – perché dovevo cercare lavoro col mio diploma di ragioniere, e non cercavo lavoro perché (sulla carta) dovevo sostenere esami. E quindi la precarietà della mia situazione legittimava l’intraprendenza di mio padre, peraltro, già di suo, pronta a scattare e passare all’azione appena le si offrisse il minimo pretesto, e tanti saluti a invadenza e altre ciarle del genere, contavano zero.

    Dati i presupposti, non nutrivo molte speranze di agguantare un impiego purchessia, difficile anche per pretendenti ben più aureolati.

    Figuriamoci poi in uno studio di Milano, ove sicuramente giocava una pregiudiziale a favore dei targati Bocconi, se non altro perché vi insegnava il prof. P. medesimo, che i praticanti – era da supporsi - li reclutava tra i suoi allievi. Probabilmente P. aveva concesso il colloquio per compiacere qualche politico, bazzicatore di corridoi ministeriali, che doveva aver caldeggiato la pratica pur di scrollarsi dalle palle mio padre.

    Un pro-forma, quindi, nel quale, P. mi avrebbe spicciativamente segato.

    E invece, nell’interrogazione, tambureggiante, alla quale egli stesso mi sottopose, conseguii una piena sufficienza.

    Su partita doppia, società commerciali, banche, e via salmodiando, mostrai di sapere il fatto mio: snocciolai risposte nette, senza esitazioni. Me la cavai bene anche sul caso pratico: venti minuti per affrontare l’ingarbugliata faccenda della signora Egle, rimasta vedova e unica erede di un negozio di tessuti, oberato di debiti, ed escogitare una soluzione che le consentisse di raddrizzare la baracca e proseguire onorevolmente l’attività.

    Caddi fragorosamente alla fine. Richiesto di esprimere il mio parere sull’evasione fiscale, partii in quarta, rallegrandomi di una domanda che telefonava la risposta: l’evasione rappresentava la giusta reazione del contribuente al torchio fiscale dello stato, il carburante dell’economia reale, il salvagente della piccola e media impresa... era il pistolotto, ispirato da mio padre, ingurgitato a memoria… parlando con un commercialista, la ribellione del cittadino, trattato dall’erario come un suddito, da spremere sino all’ultimo centesimo, costituiva uno snodo cruciale, in grado di determinare l’esito del colloquio.

    Infatti, il capitolo fiscale fu determinante, ma in senso simmetricamente uguale e contrario agli sciagurati disegni paterni.

    «Sbaglia» P. mi gelò, troncando la mia sviolinata all’evasione «noi della trasparenza e dell’onestà fiscale abbiamo fatto un punto d’onore, aderiamo anche a un protocollo internazionale, e le assicuro che al contrario di quanto lei sostiene la correttezza paga, si tratta solo di scegliersi le controparti giuste», e si alzò per congedarmi, senza neppure tendermi la mano.

    Era trascorsa una quarantina

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