Socc’mel… che viaggio!
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Anteprima del libro
Socc’mel… che viaggio! - a cura di Cristina Orlandi
Socc’mel… che viaggio!
A cura di Cristina Orlandi
Prima Edizione Ebook 2020 © Edizioni del Loggione, Modena-Bologna
ISBN: 978-88-9347-118-3
Foto copertina: Claudio Tosi
Edizioni del Loggione
Via Piave,60 - 41121 Modena
http://www.loggione.it e-mail: loggione@loggione.it
SÓCC’MEL…
CHE VIAGGIO!
Racconti
Indice
BOLOGNA PER ME
UNA SACHER RIPIENA DI TORTELLINI
CAUSALE
SOGNO DI UNA TAGLIATELLA DI MEZZA ESTATE
L’ULTIMO GIORNO D’INVERNO
LA CAUSALE
BOLOGNA-VENEZIA ANDATA E RITORNO
PERCHÉ GLI SCARAFAGGI NON HANNO LE ALI? OVVERO SI PUÒ SPENDERE IL PROPRIO TEMPO SENZA AVERE UN CONTO CORRENTE
FORMIDABILE QUEL VIAGGIO
MARZO
A MODO MIO
SOCC’MEL CHE VIAGGIO
OLTRE
BOLOGNA TRA LE NUVOLE
LA MICHELONA A BOLOGNA
BOH-LOGNA
ALLA RICERCA DI UN FANTASMA
L’IMMAGINARIO CORRE DAPPERTUTTO
SOCC’MEL CHE VIAZ MUSIZESTA
LA BOLOGNESITÀ
ESPERAR
SOCC’MEL CHE VIAGGIO
ANCHE PIÙ IN LÀ
GOCCE DI PIOGGIA
IL GIRO DEL MONDO IN SEI PIANI
METTI UN GIORNO DI PRIMAVERA A BOLOGNA
IL CIELO È SEMPRE PIÙ BLU
QUATTROCCHI PER COLPA SUA
L’ESTATE CHE NON FU
STER STREK
ASCENSIONI
LA RIMPATRIATA
LA SALITA A SAN LUCA
IL COINQUILINO DI LUCA
UN TORTELLINO NEL DESERTO DEL NEVADA
FRAGILE È LA NOTTE
BOOMERANG NEL DESERTO
NESSUNO
ESPLORATRICE DELLA MIA CITTÀ
ALMENO FOSSE STATO VERDE SPERANZA
LA RESA
DAL BORGO AGLI STATES
IL POTERE DEGLI ANGELI
IL SECONDO INCONTRO DELLE RETTE PARALLELE
ASINI E ASINELLI
VIA PAOLO FABBRI 43
UN FELSINEO IN VIAGGIO
IL VIAGGIO PIÙ LUNGO
SENZA META
BOLOGNA IN METÀ VISO
VIAGGIO DI NOZZE
BOLOGNA È BOLOGNA
BOLOGNA NEL CUORE
BOLOGNA PER SEMPRE
GLI AUTORI
Catalogo
BOLOGNA PER ME
Andrea Albertazzi
Non potrò mai dimenticare la Bologna della mia gioventù. Non tanto e non solo per i ricordi in sé, ma anche e soprattutto perché era qualcosa di molto diverso dalla Bologna di oggi. Io appartengo a una di quelle generazioni che ha conosciuto gli ultimi personaggi della città, quelli veri, spesso strampalati, come si dice da noi. Oggi non ce ne sono più, per me, e se ci sono, hanno solo pallide somiglianze con quell’innumerevole raccolta di cartole che popolava Bologna. Certo le icone, nate o vissute qui, e oggi in buona parte scomparse, sono: Lucio Dalla, Hengel Gualdi, Gianni Morandi, Francesco Guccini, Dino Sarti, Freak Antoni, Andrea Pazienza, Jimmy Villotti, veri monumenti nazionali.
In giro, ed esattamente tutte le domeniche pomeriggio, in Piazza Maggiore, ha resistito per anni, fino a poco tempo fa, Beppe Maniglia, che credo abbia suonato, in gioventù, con i mitici Judas, negli anni Sessanta; con i suoi amplificatori, la chitarra graffiante, le borse dell’acqua calda, fatte esplodere con la forza dell’aria, che usciva dai suoi pettorali. Le regole del buon vivere
che in questi anni hanno soffocato la città e soprattutto montagne di multe esorbitanti, per disturbo della quiete pubblica, hanno piegato anche lui. Saluti Beppe!
A proposito di Jimmy Vilotti, ricordato prima, mi sovviene un episodio, non proprio fra i più memorabili della sua vita, quasi leggendaria. Era la fine degli anni Settanta, il grande Jimmy Vilotti era, forse, in un momento no e lo trovai casualmente in una discoteca sulla strada per Medicina, di cui non ricordo il nome. All’epoca nascevano come funghi questi locali fuori Bologna, dove si andava a intortare perché c’erano le campagnole più facili da conquistare.
Jimmy, che stava a quel locale come un esquimese sta al deserto del Sahara, salì sul palco cominciando con alcuni suoi raffinati pezzi alla chitarra, che gli ottusi frequentatori del locale fischiarono sonoramente. Villotti, allora, ebbe una reazione:
«Volete qualcosa di diverso? Volete ballare?» esclamò. «Bene, vi do quello che volete!» e avvinghiato alle corde del suo strumento eseguì alcuni pezzi rock, che andavano per la maggiore. I fischi, almeno quelli, scemarono. Grande Jimmy!
Però io vorrei ricordare alcuni personaggi, celebri solo a Bologna, ma che tutti conoscevano e di cui si parlava come fossero degli amici o dei parenti, anche se spesso non si era mai scambiata una parola con loro, e a questo proposito mi viene in mente Profilo
. Sì, lo chiamavamo così, il re dei fighetti, che frequentava il Club 37 e poi la Capannina e lo ricordo, spesso, al Lord Bar in fondo a via Indipendenza. Sempre di profilo, non ti guardava mai, elegantissimo, serio, silenzioso, con in mano un whisky.
Di lui, noi comuni mortali, non sapevamo quasi nulla. Era un gran donnaiolo? Un uomo molto ricco? Mah? Così si mormorava. Era Profilo, e lo si doveva osservare con rispetto e ammirazione.
Un altro celebre playboy fu Raul Casali, bellissimo, con gli occhi azzurri. Abitava in centro e forse era ricco, ma girava sempre con la stessa giacca di pelle scura, sempre quella. Era la sua divisa. Pieno di fidanzate, perché lui le donne le amava tutte, ed erano tutte fidanzate, anche contemporaneamente.
Raul era un nostalgico del fascismo. Se capitavi a casa sua, ti sorbivi i discorsi del Duce, che lui amava ascoltare in religioso silenzio, con i dischi della Decca messi sul giradischi. "Italiani, uomini e donne d’Italia, dell’impero d’Africa e del Regno d’Albania…" Tutti ad ascoltare e ad applaudire, tanto per non scontentarlo.
Quando s’ammalava, più di una di queste lo accudivano al capezzale! Si vociferava, e la voce, sicuramente, era stata messa in giro da lui, che fosse stato, nientemeno che con Brigitte Bardot, ma questo era tutto da dimostrare!!!
Un’altra cartola era Mandrillo, che credo sia ancora vivo, diminutivo del suo cognome, Mandrioli, ma il nome era associato anche alla sua natura di sciupafemmine.
A questo punto, devo fare una digressione. A Bologna, è passato il ’68, come altrove. Si faceva politica; si era impegnati nelle lotte civili e sociali e lo si sa bene, ma, al di là di ciò, restava un must
, come si dice oggi, che i bravi maschietti avevano sempre nelle loro teste, quando camminavano per il centro, quando erano a chiacchierare nei bar, al cinema e un po’ ovunque: la donna.
Bene, Mandrillo era nella musica, suonava la chitarra e per un periodo fu il dj del Ciak, alla Barca. Cavolo! Che tempi quelli del Ciak! Ci andavano le meglio ragazze di Bologna e Mandrillo, faccia da mascalzone, con un’aria sorniona e quasi blasé, fra una canzone e l’altra sparava le sue cazzate che facevano divertire le donne, e poi… ci pensava lui, dopo, Mandrillo!
Wilson! Mi è tornato in mente anche lui. Tarchiato, muscoloso, taurino, col petto villoso, giacca di pelle, e con un po’ di balbuzie. Il suo nome circolò per un po’ di anni. Poi non ho più saputo nulla di lui. Udite, udite! Wilson era gay, ma non un gay effemminato. Si comportava come un macho. Caricava le sue vittime sulla sua grossa moto e via! Gli piaceva avvicinare i ragazzini, mostrando la sua fisicità. Era generoso, offriva sigarette e bevute, ma dopo non si scherzava con Wilson!
Per un breve periodo, in estate frequentò il bar in Via Romagnoli, dove andavano tanti ragazzi e anch’io. Una sera, in vena di confidenze, raccontò balbettando:
«Qua… ndo pa… sso da Za… Zanarini, fanno fi… nta di non co… conoscermi, ma me... me ne so… no fatti più di u… uno di quegli stron... stronzetti!»
Passiamo ai matti: Tamarindo. Tamaro confidenzialmente, non so se fosse proprio matto, certo, non aveva l’aria di un sobrio professionista. Giallognolo, sui 40/50, un po’ ingobbito, sigaretta, spesso, in bocca, una brutta pelle e gli occhi quasi febbricitanti.
Si spostava da una zona all’altra della città con la sua fidanzata, di cui non ricordo il nome, piccola e con i capelli neri alla maschietta, come si diceva allora.
Il suo momento d’oro avvenne quando fu ospitato al Costanzo Show. Da lì partì il momento di massima fama che durò un po’ e poi finì. Spesso citava Costanzo, definendolo quasi il padrone del mondo. Tamaro, un mito tutto bolognese!
Mentre sono qui disteso a meditare, mi sovvengono le immagini dei tempi trascorsi inutilmente e pigramente al Bar, in quegli anni giovanili.
C’è stato un io
che stava chiuso fra sé e sé. Un io
che leggeva e studiava o andava a teatro. Un io
che, svogliatamente, lavorava. Un io
che, quando poteva, viaggiava. C’è stato anche un io
che stava al bar, come al solito un pò in disparte a osservare l’arrogante, il nullafacente, il fighetto, il giocatore incallito, l’ubriacone e il senza-famiglia. Tutte figure poco edificanti.
Senz’altro quel tempo non è stato il migliore, ma comunque un frammento di vita pieno di altre figurine anche simpatiche e didattiche. Altri personaggi minori, ma altrettanto curiosi.
Il signor Rocchi, ad esempio. Aveva poco più di sessant’anni ma era quasi cieco e acciaccato. Per anni aveva venduto abbigliamento in Piazzola, in quel mercato di Bologna dove all’epoca si sentiva ancora parlare il dialetto bolognese e dove, adesso, fai fatica a sentire l’italiano!
Apparteneva a una famiglia di gatti rossi, come si dice. Anche il figlio, che ho conosciuto, e il nipote, tutti matti per le donne!
La moglie lo accompagnava al bar e lo aiutava a sedersi davanti a un grappino. Era triste, illanguidito e aspettava la fine prematura. Rimaneva seduto come assorto, ma appena si parlava di femmine pareva risvegliarsi dal torpore. Si guardava intorno e allungava l’orecchio, tanto amava ancora l’argomento. Come dice Peter Sellers: la speranza non muore mai nella mente di un autentico sporcaccione.
Noi ragazzi ce ne eravamo accorti e ci divertivamo a raccontare, a voce alta, mirabolanti balle sulle donne, per vederlo estasiare. Un giorno ci confidò con rassegnata malinconia che la cosa che più lo rattristava era l’impossibilità ormai di farsi una bella scorpacciata di sesso. «Ah - esclamava in puro bolognese. - S’ai avess ‘na figheina fràsca d’alchèr, a mourirev piò countàint! (se avessi una fighina fresca da leccare, morirei più contento!). Povero signor Rocchi... le uniche cose che poteva fare, ormai, erano: leccare gelati e morire scontento. Amen.
Poi, lo Zio, come dimenticare, lo Zio! Non so il suo nome. Era stato ricco. Si era mangiato milioni, dell’epoca, ai cavalli; scommesse e cose così. La moglie gli aveva fatto bloccare il conto corrente per evitare la rovina totale. Aveva inventato un linguaggio per prendere in giro, bonariamente, le persone. Un linguaggio che anticipava la mitica supercazzola di Amici Miei!!
Si trattava del Piritolato, o qualcosa del genere. Un linguaggio col quale, alla fine di frasi normali, ci si infilava una parola inventata, o fuori luogo.
Passava qualcuno fuori dal bar e lo Zio gli rivolgeva una domanda: «Scusi lei per caso dintilato?» Quello non capiva. Tirava dritto. Se rispondeva: «Scusi, non ho capito. Cos’ha detto?» Lo Zio, accennava un gesto, come dire Niente, niente
.
Tutti poi ridevano come matti e imitavano il linguaggio dello Zio!
Una volta lo Zio beccò male, come si dice, e ci restò di m… Un signore passò con un cane e lui lo apostrofò: «Scusi signore quel cane è scappellato?»
«Sì, nella punta!» rispose impettito il signore, e tirò dritto.
Che città che era Bologna. Piena di fermenti culturali e civili, ma anche con questa ricchezza di umanità, che sapeva sorridere per piccole cose, scherzi banali e gogliarderie!
Sembra niente, ma guardando l’oggi, i suoi incubi, le sue schizofrenie, la sua bieca follia, che bello sarebbe tornare indietro!
UNA SACHER RIPIENA DI TORTELLINI
Alberto Andreoli Barbi
Il 4 novembre 1918 aprii, come ogni mattina, la finestra del corridoio dell’appartamento dove abitavamo in via Marsala, che si affacciava su uno stretto pozzo luce. Si sentivano le campane della Chiesa di San Martino, dove mi sarei sposata qualche anno più tardi, e l’aria fresca di un autunno già inoltrato. La dirimpettaia, la signora Maini, mi accolse con un sorriso: «Signorina Ada, oggi dovete gioire: la guerra è finita. Voi che orgogliosamente avete donato un fratello alla Patria, dovete essere la prima a festeggiare.»
«Ma vada a farsi friggere lei e la patria.»
Vi assicuro che quella finestra non venne mai più riaperta da quel giorno, finché non fu venduta la casa dei miei genitori. L’aria viziata faceva meno male del contatto con chi non poteva comprendere il nostro dolore. Renato era il primogenito, quello che doveva portare avanti la sartoria di famiglia. Toccava a mio figlio, a distanza di tanti anni, forzare quella finestra.
«Mamma, nei prossimi giorni dovrò andare a Vienna per lavoro.»
Non ero più la ragazza spavalda che difendeva i propri sentimenti. Ormai ottantenne, solo stando sotto la luce della cucina riuscivo a leggere Il Resto del Carlino che compravo per i vivi e i morti. Come in una strana conta, a cercare chi se ne sarebbe andato della città che conoscevo. Avevo ascoltato, senza proferire verbo, quasi alzando il giornale come se una barriera di carta potesse impedire alle sue parole di raggiungermi.
«Si tratta di uno di quegli articoli redazionali dove scrivi di un’attività commerciale o di un prodotto. In questo caso vogliono lanciare l’immagine di un hotel di lusso di Vienna.»
«Adesso ti mandano a fare le marchette a casa di Checco Beppe. Bel lavoro che ti sei trovato!»
«Mamma è passato così tanto tempo che forse anche tu dovresti…»
«Dimenticare che tuo zio è stato ucciso dagli austriaci che non aveva nemmeno vent’anni? Dimenticare che tua nonna per il dolore si è ammalata ed è morta? Dimenticare che tuo nonno non si è mai dato pace?»
«L’Austria non è più un impero, c’è stata un’altra guerra mondiale e oggi, negli anni Ottanta, Vienna è l’ultimo avamposto dell’Occidente…»
«Gli Austriaci per me restano dei nemici. Su questo non si discute.»
Ogni nuovo anno lo cominciavo con una serie di ingiurie contro la Rai, colpevole di mandare in onda il concerto di capodanno da Vienna: un affronto a noi parenti dei caduti in guerra dover battere le mani al tempo della Marcia di Radetzky. Tanto che, come tradizione con i suoi predecessori, l’anno scorso infilati gli occhiali, sotto la luce del lampadario della cucina, avevo inviato gli auguri al neo direttore Willy De Luca, intimandogli di fermare questo torto storico.
«Guarda che a Vienna non vado per divertirmi», mentiva sapendo che sarebbe stato un viaggio di lavoro nel lusso. Ero contento che potesse conoscere il mondo come suo padre, che era mancato da tanti anni ma sarebbe stato contento che il suo ragazzo si fosse fatto strada senza raccomandazioni.
«Sei un mascalzone che non vale un fico secco!»
«Ma mamma, dimmi cosa c’è di così sbagliato ad andare a Vienna.»
«Hai mai visto una Sacher ripiena di tortellini?»
«Cosa dici?»
Nemmeno io sapevo cosa stessi dicendo. È che alla mia età tutti pensano che si diventi saggi, mentre io credo che semplicemente si possa finalmente essere liberi di esprimersi: «Dico che ci sono situazioni difficilmente conciliabili. Non pretendo che tu sappia cosa sia la guerra: eri troppo piccolo per ricordare. Dico solo che se ho questa avversione per l’Austria-Ungheria è per la tribolazione cui hanno sempre sottoposto noi italiani.»
«Adesso ci sono i russi che se vogliono…»
«Oh senti cinno, prima erano gli austriaci, poi gli inglesi, quindi i tedeschi e ora i russi. Da che ho memoria abbiamo sempre dovuto aver qualcuno da odiare di diverso. Io mi sono fermata ai primi. Ti va bene?»
Mi dispiaceva litigare con Franco per questo motivo, ma presi la decisione di non parlargli più. Giusto per risparmiare un po’ di energie per il tanto desiderato nipote che sarebbe nato a breve.
Wien lebt
, Vienna vive. Il manifesto riempie i sotterranei della metropolitana, avvolge i grossi pali della luce nelle strade del centro. Sembra strano che una città, anzi una capitale, avverta il turista di essere viva. Ma credo di capire. Per molti, non solo per mia madre, Vienna si è fermata nel tempo, è la capitale del grande Impero Asburgico che non è più. Prigioniera del passato, Vienna torna a vivere con prepotenza.
Di fronte allo Stadtpark, al parco cittadino, si affaccia la finestra della mia camera all’Hotel Inter-Continental. Una camera confortevole, silenziosa, con aria condizionata. I mobili sono sobri e caldi. Basta aprire le ante del trumeau per trovare un televisore a colori. E per sognare: cinque canali di musica filodiffusa. II cuore di Vienna è a due passi. Dalla finestra si vede la guglia del Duomo. Rinvigorito da un gagliardo vento di tramontana, in dieci minuti arrivo nella Kärtnerstrasse che vuol dire Opera, Sacher (ovviamente senza tortellini), Santo Stefano, Graben. Basta salire su una carrozza per godere della visione del Palazzo Imperiale e dei suoi giardini, delle chiese antiche, dei trionfi del barocco, delle vie piene di boutiques e pasticcerie. Rientrato all’hotel tento di chiamare mia madre, ma la ragazza della reception mi riferisce, non senza imbarazzo, che ogni volta che le rispondono dall’Italia cade la comunicazione.
All’Inter-Continental devo intervistare il Direttore. II Signor John Edmaier mi riceve con estrema cortesia: un tipo di mezza età, solido, con una garbata vena di umorismo.
Lo provoco: «Lei ha un cognome austriaco e un nome inglese. Si dovrebbe chiamare Johann.» Mi conferma di essere austriaco, ma è vissuto in Canada, a Nassau (Bahamas) e nelle Bermude. Così Johann è diventato John. Mi piace immaginare che un uomo moderno, che dedica la sua vita a una multinazionale alberghiera, possa aver cambiato nome, come faceva chi passava