Napoli: la città del Sole e di Partenope
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Book preview
Napoli - Nicola Scafetta
Indice
Sinossi
Prefazione
Introduzione
1 Sopra i tetti di Napoli
2 L’urbanistica della Città Nuova
3 Il ruolo dell’astronomia e della cosmologia
4 I templi di Cuma e gli anfiteatri di Pozzuoli
5 La cosmologia pitagorica e il numero 10
6 La città greca di Neapolis
7 Gli assi viari di Neapolis
8 La rêverie neoclassica di Palmieri
9 L’orientamento solare di Neapolis
10 Il decagono e la geometria aurea di Neapolis
11 Neapolis: un gioiello cosmologico pitagorico
12 Le costellazioni nella vita della città
13 Partenope: la Vergine e la sirena
14 La Dea alata e il Toro
15 Partenope, la Pizia e la Sibilla
16 Considerazioni conclusive
Epilogo: Da Apollo a Gesù Cristo ... e san Gennaro
Appendice
Bibliografia
Ringraziamenti
L’autore
La Società dei Naturalisti in Napoli
Note
NICOLA SCAFETTA
– NAPOLI –
La Città del Sole e di Partenope
Il ruolo dell’astronomia, della mitologia e di Pitagora nella pianificazione urbana di Neapolis
ImmaginePatrocinio Editoriale della Società dei Naturalisti in Napoli
ISBN: 978-88-31658-19-5
1a Ed. Febbraio 2020; 2a Ed. Novembre 2021
Copyright 2020, 2021: Tutti i diritti riservati all’Autore.
Nessuna parte di questo libro può essere diffusa, riprodotta, tradotta o fotocopiata senza il preventivo assenso dell’Autore. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.
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In copertina: Napoli, Città del Sole & Stampa di Partenope (1826).
Sinossi
Il presente saggio svela il segreto più intimo della città di Napoli attraverso un'indagine archeoastronomica sulle motivazioni religiose e filosofiche che furono alla base dell'urbanistica del suo antico nucleo greco, Neapolis, fondato tra il VI e il V secolo a.C. dai Cumani e da altri coloni greci. La città appare progettata in modo da richiamare nella geometria delle sue strade e nel suo peculiare orientamento geografico-astronomico durante i solstizi e gli equinozi il culto di Apollo (il dio Sole dei Greci) e di Partenope (la sirena-oracolo del luogo). La sua planimetria sembra derivare anche dalla cosmologia pitagorica basata sulla sezione aurea e le proporzioni armoniche del numero dieci. Tutto questo fece di Neapolis un perfetto microcosmo o, meglio, una città-tempio con al centro il sole divino. I decumani e i cardini del centro storico, la cultura partenopea, le chiese e il Duomo di Napoli conservano a tutt’oggi nelle loro geometrie, simboli, canti, dolci, mosaici e reliquie la memoria di tutta la tradizione solare di Neapolis.
Nicola Scafetta, docente presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II, è esperto in Fisica dei Sistemi Complessi e nelle interazioni Sole-Terra.
Prefazione di Federico Rausa, professore di Archeologia Classica presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II.
Patrocinio editoriale della Società dei Naturalisti in Napoli.
a Sophia e Nicole
Ricostruzione verosimile in 3D di Neapolis greca.
Prefazione
A distanza di sessant’anni dalla pubblicazione del celebre saggio The Two Cultures and the Scientific Revolution (1959), con il quale Charles Percy Snow (1905-1980) denunciava la frattura tra discipline umanistiche e scientifiche, si può affermare senza dubbio che i più recenti indirizzi della ricerca antichistica si orientino verso una sempre più viva e feconda dialettica con i saperi propri delle scienze naturali, fisiche, biologiche, matematiche. Sebbene con non poche difficoltà e resistenze, l’archeologia in particolare mostra ormai da tempo una innegabile tendenza al dialogo interdisciplinare con altri ambiti del sapere. Almeno da quando Mortimer Wheeler (1890-1976), al principio del XX secolo, adottò nello scavo archeologico i principi della stratigrafia geologica, divenuti nel tempo uno dei capisaldi metodologici della disciplina, il confronto con le cosiddette hard sciences
si è progressivamente consolidato.
Nuovi ambiti di ricerca come la geoarcheologia, l’archeometria, la paleopatologia e l’archeogenetica o metodologie di studio come la fisica applicata all’archeologia e gli ormai celebri esami al radiocarbonio o ancora i processi di computer grafica in 3D permettono oggi di ricavare dati, informazioni e risultati su siti, contesti, monumenti e manufatti del passato impensabili agli albori della disciplina archeologica, intervenendo a integrare i metodi tradizionali della ricerca in campo archeologico. La consapevolezza che la storia del mondo antico possa essere più compiutamente ricostruita attraverso la comprensione delle modalità d'interazione tra l’uomo del passato e il suo ambiente circostante sostanzia oggi nuove prospettive di studio che propongono, a ritroso, problemi di drammatica attualità. Un fresco esempio è il recente saggio di Kyle Harper (The Fate of Rome. Climate, Disease and the End of an Empire, 2017) dove, per la prima volta, l’ambiente compare come soggetto storico nel quadro della ricostruzione delle cause che determinarono la fine dell’Impero Romano.
Tra le scienze che hanno avviato un precoce dialogo con l’archeologia, sebbene non sempre scevro da contrasti e incomprensioni reciproche ma tuttavia ancora oggi vivo e persistente, l’astronomia ha avuto un ruolo di primo piano. Dall’inizio degli anni ’70 del Novecento si parla, infatti, di archeoastronomia, formula sintetica dei due ambiti di ricerca utilizzata per definire lo studio del rapporto tra il cielo e i suoi fenomeni e l’uomo antico, e volto, quindi, a indagare la mentalità di quest’ultimo in relazione a molteplici aspetti del suo operare, dalla scelta degli insediamenti, alla costruzione degli edifici sacri, alle pratiche religiose e cultuali. Questo indirizzo di ricerca, connotato, nei contenuti, in senso latamente culturale piuttosto che marcatamente scientifico e in senso multidisciplinare, sul piano del metodo, ha rivelato di potere validamente affiancare l’archeologia nella lettura complementare e integrata dei dati, per proporre e determinare anche cronologie di monumenti e manufatti dedotte dai calcoli astronomici con essi associabili.
Una ormai nutrita serie di contributi scientifici, che dal tardo Ottocento fino a oggi fa capo ai nomi di Lockyer, Thom, Hawkins, Ruggles, Aveni, rivela come campo d’indagine originario e privilegiato dell’archeoastronomia le culture megalitiche pre- e protostoriche dell’Europa insulare (spicca, fra tutti, il sito celeberrimo di Stonehenge) e centrale, dalle quali gli interessi si sono poi estesi all’Egitto faraonico, alla Mesopotamia, all’estremo oriente fino alle civiltà nord-, meso- e sudamericane.
Il mondo classico, tuttavia, non è rimasto estraneo a questo filone della ricerca. Il connubio tra archeologia e astrologia nell’interpretazione di un monumento antico si può fare risalire già al principio del XVIII secolo per merito di Francesco Bianchini (1662-1729), convinto assertore, al contrario del contemporaneo Isaac Newton, della necessità di ricorrere anche alle fonti archeologiche per ricavare dati sulla cronologia delle età più antiche della storia dell’uomo. Si deve, infatti, a questa straordinaria figura di scienziato, nel contempo astronomo e archeologo, la prima corretta interpretazione dell’Atlante Farnese del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, del quale egli indagò attentamente il complesso sistema di segni astrali raffigurati sul globo celeste che la mitologica figura sostiene sulle spalle. Grazie al riconoscimento della precessione equinoziale, nota nell’antichità attraverso l’Almagesto tolemaico, Bianchini, stabilendo una coincidenza cronologica della statua con la composizione del trattato astronomico di Tolomeo, poté datarla con precisione al II secolo d.C., cronologia confermata anche sul piano dell’analisi stilistica e formale.
Nella seconda metà dell’Ottocento, monumenti e contesti topografici del mondo greco e romano furono oggetto di studi basati sull’applicazione di calcoli astronomici. La serie prese avvio col lavoro di Heinrich Nissen – da alcuni considerato l’iniziatore dell’archeoastronomia – che nel 1869 pubblicava la sua opera sull’orientamento di templi e siti urbani romani e italici (Das Templum. Antiquarische Untersuchungen), seguita da quelle dedicate ai templi ateniesi del francese Émile-Louis Burnouf (La légende athénienne. Étude de mythologie comparée, 1872) e dell’inglese Francis Cranmer Penrose, collaboratore di Lockyer, del quale applicò il metodo immediatamente dopo la pubblicazione degli studi su Stonehenge e i templi egizi (A Preliminary Statement of an Investigation of the Dates of some of the Greek Temples as Derived from their Orientation, 1892). All’inizio del XX secolo, Nissen ritornò sull’argomento con un nuovo saggio di sintesi (Orientation. Studien zur Geschichte der Religion, 1907-1910) nel quale rivedeva alcune sue precedenti tesi.
L’accoglienza di questa nuova prospettiva di studio presso l’archeologia accademica non fu inizialmente favorevole: molte delle teorie dei primi studiosi di archeoastronomia furono, spesso con troppa supponenza e disinvoltura, stigmatizzate come frutti delle pseudo-scienze e non adeguatamente tenute in conto dagli archeologi. Complice di ciò fu anche, in alcuni casi, l’applicazione di calcoli astronomici non sempre adeguatamente verificati che condussero, specialmente per le cronologie dei templi greci, a risultati enormemente distanti da quelli archeologici e inconciliabili con essi. Tuttavia, come scrisse nel 1939 il celebre archeologo e storico dell’architettura antica, William Bell Dinsmoor (1886-1973), "l’errore non sta nella teoria in sé, ma nella deduzione dei risultati da dati incompleti e che, quindi,
sia le informazioni, quantunque frammentarie, derivanti dalle fonti letterarie antiche sia i rilevamenti delle attuali orientazioni considerati nel loro insieme, forniscono una prova sufficiente dell’esistenza del principio generale".
Oggi dopo circa un secolo di studi e ricerche, l’archeoastronomia ha confermato, e consolidato, le sue premesse epistemologiche nel metodo interdisciplinare e nelle finalità della ricerca, finalizzate alla definizione dell’orientamento dei monumenti architettonici, al riconoscimento dei criteri della pianificazione urbana e del territorio e all’esegesi ed ermeneutica dei testi di astronomia antica. In questi ultimi anni, monumenti, contesti e testi del mondo greco e romano, come il Pantheon, lo schema urbanistico di Alessandria, l’organizzazione centuriale romana delle città italiche e i richiami astrali del culto di Artemide Orthìa a Sparta, contenuti nei versi del Partenio del poeta spartano Alcmane (metà del VII secolo a.C.), sono stati interpretati secondo una prospettiva archeoastronomica in grado di fornire nuove chiavi di lettura.
Grazie alle ricerche e ai calcoli astronomici di Nicola Scafetta, al numero dei siti che possono vantare un’analisi archeoastronomica del proprio impianto urbanistico è possibile ora aggiungere quello dell’antica Neapolis, una città greca che, pur nella sua secolare continuità di vita, ha conservato ancora oggi, chiara e leggibile, l’impronta del regolare schema geometrico, tracciato al momento della sua fondazione. E se questo aspetto è ancora oggi capace di stupire e affascinare per la sua rarità, ancora più suggestiva ci appare la matrice astronomica della pianificazione della città, una città del Sole
disegnata non sulla scorta di riferimenti geo-topografici bensì in base alle osservazioni dei percorsi solari durante i solstizi. Una città ideale, dunque, una città-santuario dedicata ad Apollo – personificazione divina dell’astro celeste per gli antichi Greci – ma anche una città pitagorica che, come osserva Scafetta, rivela l’adozione, nel suo tessuto urbano, di un sistema proporzionale derivante dall’angolo aureo di 36° e dal numero dieci, elementi mistici della geometria pitagorica. A fronte della concomitanza di tali aspetti, è verosimile pensare, come riteneva oltre cinquant’anni fa Per Gustav Hamberg (1913-1978) e come, molto probabilmente, intuì già alla fine del Quattrocento Fra’ Giocondo da Verona (1433-1515), che Vitruvio si ispirasse all’impianto urbanistico di Neapolis per teorizzare la sua città ideale costruita sull’armonia delle proporzioni geometriche e riflesso essa stessa del cosmo.
A secoli di distanza dalla sua fondazione e dopo profonde trasformazioni non solo urbanistiche ma anche politiche e sociali che hanno segnato la storia della città, non tutto è andato perduto dell’antica città ideale, solare e pitagorica. Attraverso le pagine del libro di Nicola Scafetta anche un lettore non specialista, infatti, potrà ancora individuarne le tracce nei vicoli del centro storico e nelle parole delle canzoni della tradizione popolare che salutano il sole.
Napoli, 2020
Federico Rausa
Professore di Archeologia Classica
Università degli Studi di Napoli Federico II
... fra tutti questi luoghi sommamente si distinguono quelli dove spira un tal quale soffio divino...
— Platone, Leggi (libro V, 747)
Introduzione
Jesce sole! è una filastrocca che si dice risalga ai tempi dell’imperatore Federico II, intorno al 1200; ’O Sole mio è una famosissima canzone napoletana del 1898 di Giovanni Capurro, Eduardo Di Capua e Alfredo Mazzucchi; Chist’ è ’o paese d’ ’o Sole, canta un altro noto brano musicale napoletano del 1925 di Vincenzo D’Annibale e Libero Bovio. Il nome di persona più tipico di Napoli è Ciro, che nell’antica lingua persiana significa proprio il Sole. Nei pressi della basilica di Santa Maria Maggiore della Pietrasanta, c’è una salita che porta all’antica acropoli di Neapolis chiamata Via del Sole – Vicus Radii Solis – come testimoniano anche alcune carte medievali. Nella zona del Duomo sorgeva un grande tempio dedicato ad Apollo, il dio Sole. La base quadrata del centro cittadino richiama un ordine cosmico. In piazza San Domenico Maggiore, alla base dell’obelisco che fu eretto in onore del Santo come ex voto per aver liberato la città dalla peste, si notano i raggi del sole che si intersecano con il monumento votivo. Si può continuare così all’infinito perché la città di Napoli, la sua storia e la sua cultura richiamano continuamente l’astro. A cosa è dovuto questo misterioso legame tra Napoli e il sole?
Il presente studio si propone di svelare questo segreto attraverso un'indagine scientifica sulle motivazioni religiose e cosmologiche che furono alla base dell'urbanistica dell'antico nucleo della città, quel centro storico che venne chiamato dai Greci Neapolis, ovvero la Città Nuova. La figura a pagina xiv ne mostra una ricostruzione verosimile di Marco Mellace (CC BY-SA 4.0).
La tesi che verrà dimostrata è che nell’antichità questa città rappresentava un certo archetipo mitico. Era dunque un modello capace di riprodurre, nella forma geometrica e nell'orientamento geografico-astronomico, la concezione del mondo propria dei coloni greci, nonché il modo in cui questi si rapportavano con il cosmo e il divino.
Tradizionalmente si ritiene che Neapolis fu fondata intorno al 470 a.C. dai Cumani e da altri coloni della Magna Grecia presenti in Italia, soprattutto Siracusani e Ateniesi, presumibilmente per celebrare la vittoria definitiva sugli Etruschi nell'importante battaglia navale di Cuma del 474 a.C. L’evento bellico pose fine all’espansione etrusca nell’Italia ellenica e comportò la completa egemonia greca nella regione e sulle coste della Campania. Alcune evidenze archeologiche, però, suggeriscono che l'edificazione di Neapolis possa essere iniziata tra la fine del VI e l'inizio del